Giustizia: nuova grana per la Cancellieri, i pm di Roma indagano sugli appalti del piano-carceri di Lirio Abbate L’Espresso, 17 gennaio 2014 Per due volte Annamaria Cancellieri ha offerto a Enrico Letta le proprie dimissioni da ministro della Giustizia. E in entrambi i casi lui le ha rinnovato piena fiducia, rassicurandola: "Non ci sono problemi, devi stare tranquilla". Affrontando lo scorso novembre il Parlamento che si doveva esprimere sulla fiducia in seguito al caso Giulia Ligresti, in cui ha sostenuto di aver "agito in piena correttezza", è stata applaudita da quasi tutti i banchi della maggioranza e anche dal premier. La Cancellieri ha ripetuto che si occupa di tutte le segnalazioni che riceve quotidianamente dal momento che "ogni vita che si spegne è una sconfitta per lo Stato. Io ne sento tutto il peso". Nel caso di Giulia Ligresti ha sottolineato, "se non fossi intervenuta sarei venuta meno a miei doveri di ufficio". Tutti le riconoscono l’eccezionale sensibilità istituzionale e la straordinaria esperienza di servitore dello Stato. Il mondo del carcere e i suoi problemi di sovraffollamento la stanno coinvolgendo talmente tanto che la scorsa settimana, a conclusione di un duro incontro in via Arenula con i vertici del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, guidato da Giovanni Tamburino, aveva pensato di sostituirli per dare nuovo impulso e trovare soluzioni per svuotare le celle. Sta tentato di tutto, anche con un decreto sulla "liberazione anticipata speciale", stroncato però in Commissione antimafia dal procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, ex direttore generale al Dap. "Con il meccanismo previsto dal decreto lo sconto cresce con il crescere della pena" e "non essendovi sbarramento, vi è la possibilità di far uscire i soggetti più pericolosi sul piano criminale". Si cerca, secondo Ardita "di svuotare il mare con un guscio, ma con l’effetto che si consentirà ai detenuti che hanno pene più gravi di uscire prima". A dicembre 2012 era stato chiesto e ottenuto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano un decreto per la nomina del Commissario straordinario del governo per le infrastrutture carcerarie a cui affidare la guida del nuovo piano carceri che doveva risorgere dalle ceneri di quello varato dall’ex Guardasigilli Alfano. Il piano dispone di 468 milioni di euro e sulla gestione potrebbe abbattersi un’indagine dei pm della capitale che stanno valutando ipotesi di corruzione e falso a cui sarebbero legati alcuni lavori per la realizzazione di istituti di pena. A piazzale Clodio le bocche sono cucite. Irregolarità nelle procedure di appalto? Se dovessero essere riscontrate potrebbero essere una buccia di banana per il ministro Cancellieri. Come nel piano carceri di Alfano anche in questo nuovo lavorano professionisti che sembrano scaturire da un intreccio familiare: responsabile della struttura amministrativa-finanziaria, ieri come oggi, è stata assunta la commercialista fiorentina Fiordalisa Bozzetti, moglie dell’architetto Mauro Draghi, coordinatore della struttura tecnica, come lo era stato con Alfano, con un passato ai servizi segreti e al Dap. Come diceva Tomasi di Lampedusa: "Cambiare tutto per non cambiare nulla". Giustizia: quota 48mila detenuti, anche senza amnistia? dopo decreto-carceri c’è cauto ottimismo di Luca Liverani Avvenire, 17 gennaio 2014 Già 5 mila detenuti in meno grazie alle misure prese da Severino e Cancellieri. Un segnale che spinge Seac, Ispettore generale e Antigone a un "cauto ottimismo" sul rispetto della scadenza di maggio imposta dalla Corte europea. Seconda puntata della nostra indagine sull’emergenza sovraffollamento nelle carceri. "Bene le misure deflattive del decreto Cancellieri, ora però la politica punti sulle pene alternative: abbattono la recidiva e fanno risparmiare lo Stato", dicono Seac, Ispettorato dei cappellani e associazione Antigone. Le nostre interviste ai rappresentanti di Sinistra Ecologia e libertà e Fratelli d’Italia. Un cauto ottimismo. I richiami dei più alti livelli della magistratura, i messaggi del Presidente, i gesti e le parole del Papa hanno creato un clima politico e culturale più disponibile a ridare dignità alla vita delle persone detenute e a creare occasioni di reinserimento. Già l’impegno dei ministri Severino ieri e Cancellieri oggi stanno producendo un’inversione di tendenza. La politica non può perdere questo treno, chiedono all’unisono cappellani, volontari e associazioni. Anche solo per rispettare il termine del 28 maggio, imposto dalla Corte europea dei diritti per riportare dignità nelle galere. Per don Virgilio Balducchi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri, qualcosa si muove: "Le persone detenute stanno cercando di usufruire delle normative disponibili. Molti stanno uscendo per l’anticipo di fine pena. Temo un ingolfamento per la magistratura di sorveglianza e le direzioni dei penitenziari". Ma c’è anche "un rallentamento dell’uso della custodia cautelare". Ora dunque "se i contenuti del decreto Cancellieri saranno tutti applicati, assisteremo a un cambiamento importante. Non per "non far scontare la pena" a chi ha sbagliato - sottolineare il sacerdote - ma per fargliela scontare sul territorio, con dignità e responsabilità". Lo ha chiesto lo stesso Napolitano, ricorda don Balducchi: "Uscire sì, ma con un accompagnamento". L’Italia ce la farà entro maggio? "Se a gennaio uscirà un buon numero di persone, poi la tendenza si moltiplicherà. E allora sarà possibile". "La scadenza di maggio autorizza a credere che qualcosa stavolta cambierà", dice con cautela Luisa Prodi, presidente del Seac. "Ai tempi del ministro Paola Severino i detenuti erano 67 mila, oggi sono 5 mila di meno", dice la responsabile del coordinamento dei gruppi di volontariato penitenziario. "Noi volontari vediamo che in carcere non si impara nulla. Nella migliore delle ipotesi è una stiva dove stipare persone". L’alternativa? "Il Seac con la Papa Giovanni XXIII e il Centro nazionale di volontariato di Lucca ha realizzato luoghi di accoglienza per detenuti in affido, controllati, con regole, dove si lavora e si costruiscono prospettive". E lo Stato risparmierebbe: "Così la recidiva crolla: nel 2007 secondo il Dap i detenuti che tornavano a delinquere tra quelli che scontavano la pena fuori erano il 19%, il 68% tra chi restava sempre in cella. Ma sa quanto c’era nel bilancio 2013 del Dap per l’esecuzione penale esterna? Lo 0,17%. Solo 471 mila euro". Esigenze di risparmio? "La diminuzione di un punto percentuale della recidiva crea un risparmio annuale di 51 milioni. Non sarebbe un investimento? Lo diciamo da anni: col 5% del bilancio faremmo miracoli". A sottolineare la favorevole congiuntura nel dibattito politico è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone: "Il linguaggio intollerante, la cultura della pena come vendetta fortunatamente sono in crisi". Il merito? "I richiami di Corte europea, Consulta, tribunali di sorveglianza hanno aperto una fase di riconsiderazione su leggi - immigrazione, droga, Cirielli sui recidivi - che hanno prodotto carcerazione di massa". Per Antigone allora "sono giorni cruciali in Parlamento dove ormai tutti, tranne la Lega, sono disponibili al dibattito". Ad esempio sulla custodia cautelare, "doppia in Italia rispetto a molti paesi europei". Le misure del pacchetto Cancellieri "partono da proposte che facciamo da anni noi, la Caritas, le Camere penali". A lungo ignorati, "per la debolezza della politica, condizionata dagli umori dell’opinione pubblica". Se qualcosa sta cambiando "è merito delle autorità morali: il messaggio formale di Napolitano, certo. E il lavacro quaresimale dei piedi di Francesco alla ragazza islamica a Casal del marmo. La politica ne ha dovuto tenere conto". Farina (Sel) "L’assunto galera uguale sicurezza non regge più" Se siamo giunti a questo stato di cose, con le carceri che scoppiano, non è avvenuto per caso. C’è stata tutta una cultura politica negli ultimi anni che ha fatto propria l’equazione più carcere uguale più sicurezza. Ma alla resa dei conti, la realtà è molto diversa". È quanto sostiene Daniele Farina (Sel), membro della commissione Giustizia della Camera. Si dirà: ecco la solita sinistra buonista... Non c’è nulla di buonismo nel mio ragionamento. Ma un sano egoismo nazionale. L’aumento delle pene o l’istituzione di reati nei campi dell’immigrazione e delle tossicodipendenze ha creato un mix esplosivo, che ha riempito le carceri fino a scoppiare e non ha prodotto nessun vantaggio per la sicurezza dei cittadini. E dunque cosa proponete voi di Sel? Alla Camera stiamo lavorando su vari fronti. C’è intanto quello della riforma della custodia cautelare, che oggi grava in modo insostenibile sui penitenziari. Poi c’è da riformare il testo unico suirimmigrazione e quello sulle tossicodipendenze, anche in vista della imminente pronuncia della Consulta sulla costituzionalità della Fini-Giovanardi. Sui detenuti tossicodipendenti cosa si può fare? Credo che i tempi siano maturi per operare la distinzione tra le droghe. Non si può considerare, da un punto di vista penale, la cannabis al pari delle altre sostanze. Ma vorrei anche far presente che la Camera approvato molti provvedimenti, ma che questi sono da mesi inspiegabilmente fermi al Senato. Cirielli (Fdi) "Troppi detenuti? Falso, cambiamo la custodia cautelare" Non è vero che in Italia ci sono troppi detenuti. È vero invece che i posti in carcere sono pochi". Edmondo Cirielli, esponente di Fratelli d’Italia, s’inalbera a sentir parlare di indulto o amnistia. E spiega: "Non possiamo scaricare le difficoltà dello Stato italiano sulle vittime e sulle loro famiglie. 0 rischiamo che la gente finirà per farsi vendetta da sola". Si dirà: ecco la destra forcaiola... Macché. Sono il primo a dire che le carceri italiane sono una vergogna. E che il detenuto deve scontare la pena il una condizione di dignità. Ma è anche una vergogna un tasso di recidive che tocca l’80 per cento e un tasso di impunità che oscilla dal 50 al 90 per cento. Quest’ultima cifra per i cosiddetti reati minori, che poi sono furti e rapine. Qualcosa si dovrà pur fare per l’emergenza... La chiave di volta del problema sono gli stranieri, un terzo della popolazione carceraria. A noi un detenuto costa 300-400 euro al giorno. Dobbiamo offrire una parte di questi soldi ai Paesi di provenienza, in modo che questi detenuti possano scontare la pena in patria. E cos’altro? Dobbiamo lavorare sulle misure cautelari. Oggi finisce al carcere preventivo chi si trova potenzialmente nella condizione di inquinare le prove, di fuga o di reiterazione del reato. Dovremmo prevedere le misure cautelari solo per chi è in flagranza di reato o chi tenta di mettere davvero in atto quelle condizioni. E sui tossicodipendenti? Vanno separati dagli altri detenuti. Servono strutture di cura e detenzione separate. Giustizia: al Senato l’esame dei ddl sulle pene alternative slitta a martedì Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2014 È giallo sull’occupazione da parte dei leghisti degli uffici di Grasso. L’esame del ddl sulle pene alternative in Senato slitta a martedì. È quanto ha deciso la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama. La notizia è stata annunciata dopo la conferenza dei capigruppo dal presidente di turno dell’aula Maurizio Gasparri. La Lega, che ha attuato l’ostruzionismo per protestare contro l’abolizione del reato di clandestinità contenuto nel provvedimento, aveva chiesto più tempo per discutere. Il giallo dell’occupazione degli uffici della presidenza Il via libera al provvedimento assume i contorni del giallo. Sull’occupazione degli uffici del presidente del Senato, Pietro Grasso, che sarebbe avvenuta in mattinata da parte di quattro senatori leghisti - iniziativa contro la ripresa dell’esame del disegno di legge da parte dell’Aula - ci sono infatti due versioni. In una nota la vice presidente vicaria del Senato Valeria Fedeli spiega che "i senatori questori, alla luce delle notizie delle agenzie di stampa, hanno verificato personalmente che non è in corso alcuna occupazione degli uffici del presidente Grasso da parte dei senatori della Lega, i quali stanno intervenendo in Aula sul disegno di legge in discussione". Alle 13 sul profilo twitter e Facebook di Grasso viene postata una foto: la stanza è ordinata e deserta. La Lega replica al tweet del presidente del Senato, con le foto che mostrano alcuni senatori del Carroccio occupare, questa mattina, gli uffici del presidente di Palazzo Madama. Nella foto, il capogruppo Massimo Bitonci, uno dei questori del Senato Antonio de Poli e i due vice presidenti della Lega, Raffaele Volpi e Sergio Divina. Secondo l’ufficio stampa della Lega, all’iniziativa avrebbe partecipato anche Jonny Crosio. Nel mirino degli esponenti del Carroccio, la cancellazione del reato di immigrazione clandestina prevista dal provvedimento. "Avevamo chiesto una Capigruppo - spiega Volpi - e non è stata convocata. Come se niente fosse sono tornati in Aula". I senatori del Carroccio, che di fatto ieri in Aula hanno adottato la linea dell’ostruzionismo, sarebbero saliti al secondo piano di palazzo Madama, dove si trovano gli uffici della presidenza. "Io dormo qua, devono portarmi via le forse dell’ordine", sottolinea il capogruppo leghista Bitonci. Approvato l’estate scorsa in prima lettura dalla Camera, il ddl relativo alla "Delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili" vede come prima firmataria la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti (Pd). Ad essere contestato in particolare è l’inserimento dell’abrogazione dei reati di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, disciplinati dall’articolo 10bis del TU immigrazione (Dlgs 25 luglio 1998, n. 28). Iter rallentato da mancato accordo Pd-Ncd Quello di questa mattina è solo l’ultimo episodio che ha rallentato l’iter del provvedimento, su cui l’Assemblea dovrebbe votare martedì prossimo. Ieri, l’afonia del relatore Felice Casson (Pd), senza voce per colpa di un raffreddore, ha imposto uno slittamento ad oggi, anche se il vero motivo, secondo voci ricorrenti, e lo stallo dell’accordo tra il Pd e il Nuovo centrodestra proprio sulla norma contro la quale la Lega protesta. I senatori del Ncd hanno fatto sapere, infatti, di non voler votare il provvedimento così com’è uscito dalla commissione Giustizia e cioè con la norma che elimina tout court il reato di clandestinità. Una "cancellazione" che è stata introdotta nel testo con un emendamento del M5S approvato anche dal Pd lo scorso ottobre. A rallentare i lavori anche il ricordato ostruzionismo della Lega . Ieri, dopo esser intervenuti in Aula ognuno per 20 minuti bollando il testo come "pericoloso", "vantaggioso per i delinquenti" e "indulto mascherato", i senatori del Carroccio hanno sventolato la Padania per difenderla dagli attacchi diretti alla rubrica dedicata agli appuntamenti del ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge. In questo clima di polemiche e contrapposizione, il presidente del Senato Pietro Grasso, in un post su Fb nel quale ricorda l’anniversario di Martin Luther King, ha invece posto una domanda destinata a far discutere: "Per quanto potremo ancora accettare, anche nel nostro Paese, l’esistenza del razzismo?". Buemi (Psi): garantire giustizia a tutti "La Lega sta facendo ostruzionismo, legittimo, ma basato su una interpretazione della norma distorta", ha dichiarato il senatore Enrico Buemi, capogruppo del Psi in commissione Giustizia, intervenendo questa mattina in Aula sulla legge Delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. "La legge in discussione - ha continuato il senatore socialista - non è né buonista né permissiva, ma piuttosto cerca di affrontare il problema grave delle carceri italiane e soprattutto di recuperare l’obiettivo costituzionale della finalità rieducativa della pena". "Bisogna garantire giustizia a tutti - ha concluso Buemi - ai cittadini onesti ma anche a chi ha sbagliato. In un sistema democratico, in cui vige lo stato di diritto, tutti sono chiamati a rispettare le leggi anche quando applicano le pene". Di Pietro (Idv): svuota carceri è resa dello Stato "Mettere fuori le persone è un atto di resa dello Stato, di offesa alla giustizia e di umiliazione delle vittime. La ragione stessa per cui è stato fatto questo provvedimento è in sé criminale, anzi criminogena". È un "no" secco al decreto svuota carceri quello di Antonio Di Pietro, fondatore e presidente onorario dell’Italia dei Valori, intervistato da IntelligoNews, quotidiano on line diretto da Fabio Torriero. "L’idea che - prosegue Di Pietro -, siccome non c’è posto creo un meccanismo per cui ci debbano stare meno del previsto, è allo stesso tempo stupida e assurda. Pensiamo agli ospedali: non è che, siccome ci sono meno posti negli ospedali, metti in mezzo alla strada persone che devono essere curate. Devi intervenire sulle strutture". "Non c’azzecca niente - conclude Di Pietro - la sanzione della Corte europea dei diritti dell’Uomo rispetto ai provvedimenti svuota carceri che vogliono fare attualmente. La Corte dice che bisogna avere delle strutture carcerarie adeguate per fare in modo che chi sta in carcere sia trattato da uomo e non da animale, quindi noi dobbiamo intervenire per fare in modo che quella della carcerazione sia una struttura di rieducazione, ma non mettendo fuori i detenuti. Anzi, a mio avviso, adottando questi provvedimenti incorreremo ancora di più nella sanzione della Corte europea". Giustizia: intervista a Rodolfo Sabelli (Anm), svuota carceri? Ecco un’altra soluzione tampone" di Beatrice Borromeo Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2014 Mentre ieri la Lega è riuscita a far slittare i lavori sul decreto Svuota-carceri a martedì prossimo, arriva anche il parere dell’Associazione Nazionale Magistrati. Secondo il presidente Rodolfo Sabelli, il testo presenta alcuni punti positivi: "Per esempio l’ipotesi di espulsione di quei detenuti che non appartengono all’Unione Europea". Ma il decreto ha anche molti aspetti critici, come quello organizzativo: "Ci saranno molte più richieste di liberazione anticipata e il carico di lavoro sarà ingente. C’è carenza di organico e sarà molto difficile far fronte alla novità". E poi non dimentichiamo che anche i mafiosi beneficeranno di sconti di pena. Infatti, l’unico motivo per cui giustifico questo intervento è che conosco la straordinaria gravità della situazione carceraria. L’Europa ci obbliga a provvedere entro maggio: qualcosa bisogna pur fare. La liberazione anticipata speciale passerà da 45 a 75 giorni: su un totale di sei anni, la pena si ridurrà a tre anni e mezzo. Non la preoccupa la perdita dell’effetto deterrente in un Paese dove la criminalità organizzata è così radicata? Certo, il problema c’è. Purtroppo viviamo in una situazione che non avrebbe mai dovuto determinarsi e anche le altre soluzioni, come l’indulto, si prestano a critiche. Però in Italia ci sono carceri vuote e non utilizzate. Perché non usarle prima di liberare criminali? Io non conosco la situazione delle risorse, suppongo ci sia carenza di personale penitenziario. Diciamo che è una cosa da fare, ma non è né la prima né l’unica. Ma con lo svuota carceri - dice il procuratore di Messina, Sebastiano Ardita - lo Stato rinuncia alla giustizia penale. Questa è una misura eccezionale presa solo perché siamo davanti a una vera emergenza. E le soluzioni tampone, si sa, finiscono per occultare i veri problemi. La accetto solo perché è in via straordinaria. Giustizia: Civati (Pd); Renzi contro l’amnistia per troppa attenzione a sondaggi Dire, 17 gennaio 2014 "Renzi fu durissimo all’inizio della sua campagna alle primarie, dichiarandosi ferocemente in disaccordo con Napolitano proprio sul tema dell’indulto e dell’amnistia. Io sono in disaccordo con Napolitano su altre questioni, ma non su questa. Renzi scelse questo tema per distinguersi, e lo fece con un equivoco, perché parlò di legalità. Io penso che la legalità vada difesa innanzitutto dallo Stato, che lo Stato debba evitare di essere illegale nelle proprie carceri. E dunque sono di parere contrario rispetto a Renzi". Lo ha detto Pippo Civati, intervistato da Radio Radicale, rispondendo alla lettera di Marco Pannella, che chiede al Pd un confronto sui temi della giustizia e sulla proposta di amnistia e indulto, alla luce della scadenza di maggio dettata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. "Nel Pd purtroppo - ha proseguito Civati - c’è un atteggiamento opportunistico, c’è poco dibattito, una attenzione al valore sondaggistico dell’argomento amnistia. Io sono assolutamente favorevole ad un dibattito con Pannella e i radicali su questo. Noi dobbiamo assolutamente dare una risposta all’Europa. Di spread brutti ce ne sono molti, nel nostro Paese, e questo dei diritti mi sembra centrale". Scalfarotto (Pd): non ho pregiudizi sull’amnistia, ma cautela "Penso che un confronto si possa sempre immaginare, discutere con i radicali su questi temi sicuramente è positivo. Ma correggerei la lettura della linea del segretario, perché penso che non ci sia una contrarietà di principio rispetto ad istituti come l’amnistia che sono previsti dalla Costituzione". Lo ha detto il deputato del Pd, Ivan Scalfarotto, intervistato da Radio Radicale su una lettera - inviata dai radicali Marco Pannella e Maurizio Turco - ai vertici del Partito Democratico e a tutti i parlamentari, innanzitutto del Pd, per chiedere un confronto sui temi della giustizia e della proposta di amnistia come strumento, per il nostro Paese, per rispondere alla condanna e all’ultimatum della Corte Europea dei diritti dell’uomo sulle carceri. "Quello che viene dal Pd discusso è il metodo", ha aggiunto Scalfarotto, ovvero "il fatto che la nostra legislazione sia sempre improntata a criteri punitivi, e che questo provochi distorsioni che noi curiamo con l’amnistia. è come se noi curassimo i sintomi e non le cause". L’esponente Pd continua: "Noi diciamo che se procediamo con amnistie e indulti senza curare le cause, ci ritroveremo davanti a questo problema tra qualche anno. Intervenire invece sulle leggi che producono questi sintomi ci consentirebbe di non ritrovarci di fronte al problema". Su quelle leggi (droga e immigrazione, innanzitutto, ndr) c’erano dei referendum che il Pd non ha sostenuto, però, continua Scalfarotto, "I referendum radicali li ho firmati, il Pd sta cambiando la sua linea. Riconosco la responsabilità storica del Pd sul quel fallimento, un po’ meno riconosco la responsabilità politica". Quanto al fatto che la sentenza della Cedu lascia all’Italia pochi mesi, Scalfarotto commenta: "So che c’è una urgenza, tanto che il Presidente Napolitano ha inviato un messaggio alle Camere - il primo e unico in otto anni. E so che c’è una decisione urgente da prendere. Non credo che il Pd sia pregiudizialmente contrario alla amnistia. Quello che vogliamo evitare è procedere per amnistia e indulto senza affrontare le cause". Giustizia: Magistrato sorveglianza dispone ricovero in ospedale Di Vincenzo Sarno Tm News, 17 gennaio 2014 Il Magistrato di sorveglianza di Napoli, Rosa Labonia, ha rigettato la richiesta di differimento pena ma ha disposto il ricovero in ospedale per Vincenzo Di Sarno, il Detenuto 35enne rinchiuso nel carcere napoletano di Poggioreale affetto da una grave forma di tumore al midollo osseo. La decisione del magistrato è arrivata oggi in risposta alla richiesta dei difensori che avevano proposto istanza di sospensione provvisoria dell’esecuzione della pena e di applicazione dei domiciliari. Nel provvedimento si ricorda che Di Sarno è detenuto a Poggioreale per scontare una pena a 16 anni di reclusione, inflitta in secondo grado per omicidio, omicidio avvenuto nel 2009, vittima un extracomunitario, accoltellato alla gola. E dalle relazioni sanitarie, agli atti della direzione del carcere, emerge che il 35enne "è affetto da esiti di intervento chirurgico per ependimoma rachide cervico dorsale intramidollare nel 2002, terza ipostemia, deficit di forza ai quattro arti, ipomiotrofia prevalente agli arti superiori", inoltre "presenta condizioni di magrezza", ma "si presenta lucido e vigile". Il magistrato sottolinea che il detenuto "sta rifiutando terapia medica infusiva e nutrizione con brick, nonostante le continue sollecitazioni mediche". Sono stati inoltre richiesti e fissati esami diagnostici per il detenuto che è "costantemente monitorato in ambiente intramurario". Quindi "rilevato che il soggetto non appare in immediato pericolo di vita (per altro la lamentata patologia risale ad epoca ben anteriore alla commissione del grave delitto); rifiuta la terapia propostagli; che non ci sono i presupposti per l’adozione di un provvedimento di urgenza da parte del magistrato di sorveglianza; ritenuto tuttavia opportuno effettuare un monitoraggio completo sulle effettive condizioni di salute del condannato, possibile solo in ambiente ospedaliero", il magistrato "rigetta le istanze" dei difensori di sospensione dell’esecuzione della pena, ma "dispone il ricovero del condannato presso un ospedale del territorio nazionale, da individuarsi repentinamente a cura dell’amministrazione penitenziaria, sia sulla base della specializzazione oncologica della struttura, sia della rapida disponibilità al ricovero". Giustizia: l’inferno dimenticato di Poggioreale e la vicenda di Vincenzo Di Sarno di Antonio Mattone Il Mattino, 17 gennaio 2014 La drammaticità della condizione delle carceri ha suscitato nel Paese dibattiti e autorevoli prese di posizione, come quelle del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di papa Francesco. La vicenda di Vincenzo Di Sarno, affetto da tumore e rinchiuso nel carcere di Poggioreale, che ha sollecitato il capo dello Stato a concedergli l’eutanasia, ha provocato l’immediato intervento di Napolitano che ha chiesto di "attivare anche, dinanzi alla magistratura di sorveglianza, la richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena carceraria a causa delle condizioni di salute". E anche la morte di Federico Perna, mesi fa a Poggioreale, su cui è tuttora aperta una inchiesta da parte della magistratura, lascia presumere che niente sarà più come prima. "Dobbiamo aiutarci, stiamo cambiando tutti", spiega un ispettore dell’istituto intitolato a Giuseppe Salvia, davanti a tensioni e preoccupazioni che investono gli operatori penitenziari. Sono 61.869 i detenuti censiti nei nostri penitenziari. E davanti a noi c’è lo spettro della scadenza del maggio prossimo imposta dalla Corte europea e che condannerebbe l’Italia a pagare una salata multa pecuniaria e un grande tributo politico nel caso in cui non si riduca il sovraffollamento. Sappiamo che parlare di salute nelle carceri è un fatto alquanto complesso. Il detenuto Di Sarno è solo la punta dell’iceberg. C’è tanta gente gravemente malata: dializzati, persone con patologie tumorali avanzate, trapiantati, malati di Aids. In questo contesto bisogna fare i conti anche con le esigenze di sicurezza della nostra società, anche se talvolta fatti eclatanti e certamente gravi come quelli avvenuti recentemente, dove detenuti in permesso premio hanno commesso odiosi reati, sembrano condizionare in modo irrimediabile l’opinione pubblica. Anche qui la realtà è più complessa e bisogna distinguere le responsabilità personali e non fare di tutta l’erba un fascio. La concessione di misure alternative resta una delle soluzioni più praticabili e che statisticamente produce meno recidiva. Magistratura, medici e operatori penitenziari devono cooperare e parlare un linguaggio comune. Non è più tempo per fare a scaricabarile. In questo quadro articolato spiccano alcune evidenti criticità. Se i medici di assistenza primaria cambiano di frequente (come avviene per esempio nelle carceri napoletane) è difficile praticare la presa in carico e la continuità terapeutica dei detenuti, con l’effetto che cambiando continuamente riferimento sanitario ci si sente insicuri e si richiedono più spesso le visite mediche. D’altra parte i medici, non conoscendo la realtà penitenziaria, e i loro pazienti sono orientati a praticare la cosiddetta "medicina difensiva", per cui, per evitare qualsiasi responsabilità, richiedono ulteriori accertamenti e visite specialistiche, tanto spesso esterne al carcere. L’effetto è quello di un aggravio di costi per tutta la collettività e di una mancanza di un rapporto fiduciario e di conoscenza tra detenuto e medico. In aggiunta a tutto questo, l’ambiente carcerario fa emergere o fa nascere disturbi di natura psichiatrica. Lo vediamo dai tanti ingressi in Opg di persone che provengo- no dai penitenziari. La galera invece di rieducare, produce malattia mentale. In molti istituti il numero di educatori e di psichiatri è del tutto insufficiente e andrebbe significativamente incrementato. Infine, succede che la magistratura di sorveglianza non riesce ad espletare tutte le richieste che provengono dai carcerati. La mole di lavoro è aumentata anche per le norme previste dall’ultima legge "svuota carceri", mentre gli organici sono sempre gli stessi. Stiamo iniziando a cambiare, dicono gli operatori penitenziari. Forse più per necessità che per convinzione. Allo stesso modo la politica e l’opinione pubblica dovrebbero farsi interrogare dalle parole di papa Francesco scritte nel messaggio della giornata mondiale per la pace: "Viene anche da pensare alle condizioni inumane di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano e viene violato nella sua dignità di uomo, soffocato anche in ogni volontà ed espressione di riscatto". Speriamo che questo appello venga ascoltato e che non debba passare altro tempo e altra sofferenza. Giustizia: caso Di Sarno; malato di cancro dietro le sbarre, Vincenzo ora è in ospedale di Gianni Santamaria Avvenire, 17 gennaio 2014 Non si regge in piedi, racconta la mamma. "È allo stremo, mi creda". In poco più di ventiquattr’ore, Maria Cacace, è passata dalla speranza allo sconforto e di nuovo alla speranza. Suo figlio, Vincenzo Di Sarno, 38anni, detenuto nel carcere di Poggioreale, è affetto da un tumore al midollo spinale. Tempo fa la donna ha chiesto la grazia al capo dello Stato. Mercoledì Giorgio Napolitano è intervenuto, chiedendo un iter veloce e proprio ieri è arrivata la decisione del magistrato di sorveglianza: rigettata la richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena e disposto il trasferimento in ospedale. "Per i magistrati non rischia la vita? Non so come non fanno a capirlo", dice mamma Maria con un filo di voce. Eppure per il magistrato di sorveglianza Rosa Labonia, "non vi sono i presupposti per l’adozione di un provvedimento d’urgenza" dal momento che il soggetto non appare in immediato pericolo di vita e, peraltro, "rifiuta la terapia propostagli". Guai a dirlo alla madre. "Pesava 115 chilogrammi ed ora ne pesa 53 e non si regge in piedi -spiega - come fanno a dire che non rischia la vita? Sì, rifiuta la terapia, il cibo, perché non ce la fa più, mio figlio non ha più la forza di vivere". Il magistrato ha, tuttavia, disposto il ricovero di Di Sarno in un ospedale. E "sulla base della specializzazione oncologica della struttura, e della rapida disponibilità al ricovero" il detenuto è stato già trasferito all’ospedale Cardarelli di Napoli. Qui oggi lo andrà a trovare il sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta, che aveva già annunciato la visita al carcere di Poggioreale. "È solo un inizio, un inizio importante perché per me quello che conta davvero è che mio figlio venga curato", aggiunge Maria Cacace. Lo stesso magistrato sottolinea che è "opportuno effettuare un monitoraggio completo sulle effettive condizioni di salute del condannato" e ciò è possibile "solo in ambiente ospedaliero". L’altro ieri il presidente della Repubblica aveva espresso l’auspicio "che sia l’esame della richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena, sia la procedura per la grazia siano condotte in tempi commisurati alla gravità delle condizioni di salute di Vincenzo Di Sarno". Il detenuto aveva incontrato Napolitano nel corso della visita del Capo dello Stato a Poggioreale, lo scorso settembre. L’uomo è nel carcere napoletano dal 2009, perché durante una rissa uccise una persona: 16 anni la pena. "Si sta spegnendo giorno dopo giorno - ripete la madre - l’ultima volta che l’ho visto quasi strisciava, non ce la faceva a stare in piedi. Non so cosa altro si sta aspettando. Non posso che rivolgermi nuovamente al nostro presidente Napolitano. Lui solo può aiutarci". Di tutt’altro parere sulla gravità delle condizioni del 38enne il quasi omonimo, Vincenzo Sarno, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Uil-pa. "Questa vicenda deve essere da monito, perché alcune cause prima di essere sposate devono essere valutate fino in fondo". La politica intanto si interroga. Paola Binetti (Per l’Italia) scrive al detenuto, gli promette una visita e lo incoraggia a non lasciarsi andare. "Il tuo rifiuto delle terapie non aiuta te stesso, né chi, come te, soffre di gravi malattie in carcere. È il momento di lottare, sollecitando le istituzioni ad abbandonare atteggiamenti inutilmente "coercitivi". "Quanti sono i casi Di Sarno in Italia?". Se lo chiede Edoardo Patriarca (Pd), per il quale "la riforma della sanità penitenziaria ha bisogno di una verifica". Inoltre, ricorda Donato Salzano, segretario dei Radicali di Salerno, l’uomo "è condannato a una doppia tortura: non è possibile che dal 2009 non sia ancora passato in giudicato". Salzano, come Marco Pannella è in sciopero della fame, insieme a Carmela Rosciano, figlia di Angelo, un 60enne con gravi problemi di salute, detenuto nello stesso padiglione di Di Sarno. Giustizia: il giudice dice "no" a Napolitano... un errore graziare il detenuto malato di Davide Giacalone Libero, 17 gennaio 2014 Negata la scarcerazione all’omicida che ha chiesto di uscire per avere l’eutanasia: sarà ricoverato in ospedale. Intervenire in casi eclatanti non risolve il dramma delle carceri. È giusto che il presidente della Repubblica conceda la grazia a un detenuto, perché bisognoso di cure? Tema doloroso e difficile, dilemma innanzi al quale si spera sempre di non trovarsi. Ragione in più per essere netti: no, non è giusto. Un detenuto, in gravi condizioni di salute, s’è rivolto a Giorgio Napolitano, chiedendo di poter accedere all’eutanasia, di potere morire. Richiesta ovviamente non esaudibile. Né che sia praticata in carcere, né che possa suicidarsi (con assistenza) una volta libero. Il tema di questo articolo non è l’eutanasia, ma è escluso che un provvedimento del Quirinale possa disporre quel che è illecito. Quel detenuto (non ne farò il nome, noto a chiunque voglia saperlo, perché qui interessa la giustizia, non quel caso particolare), però aveva già incontrato Napolitano, quando s’era recato in visita al carcere napoletano. Già gli aveva chiesto aiuto. Inoltre era stata inoltrata domanda di grazia, sempre basata sulla salute. Ragion per cui, una volta divenuta nota la supplica di suicidio, il Quirinale ha ufficialmente dichiarato che: a. ha sollecitato il ministero della giustizia, affinché l’istruttoria sia celere (segno che intende concederla); b. che la direzione del carcere è stata sensibilizzata affinché, nel frattempo, sia assicurata la massima assistenza sanitaria. Trovo che sia un cumulo di errori. Il reato per cui il detenuto si trova in carcere è omicidio. Fosse anche di altra natura, una volta terminato il processo, la certezza del diritto impone la certezza della pena. Se la salute di un detenuto diventa incompatibile con la pena questa deve essere sospesa. E, naturalmente, finché la detenzione continua l’assistenza sanitaria deve essere assicurata. Si tratta di cittadini la cui vita è nelle mani dello Stato. Per essere punita, certo, ma non per essere tolta, minacciata, messa a rischio o anche solo umiliata. E questo deve valere per tutti, sempre. Quindi quel detenuto, ove siano reali le condizioni che descrive, dovrebbe trovarsi fuori, o in un centro medico, senza che la presidenza della Repubblica debba minimamente intervenire. Se, invece, le cose non funzionano come dovrebbero, e pare proprio che non funzionino, allora non si tratta di sensibilizzare le autorità competenti su un singolo caso, ma di licenziarle e sostituirle con chi assolva meno approssimativamente ai propri doveri. Se solo dopo il comunicato quirinalizio, come è accaduto, viene disposto il trasferimento in ospedale, ciò non è da prendersi come un caso di bontà coronata da successo, ma d’incoscienza e insensibilità solo per fortuna non accompagnata dal decesso. E se il giudice ha ritenuto, come è accaduto, di non disporre la scarcerazione è segno che o sbaglia, e deve esserne responsabile, o ritiene che il ricovero sia sufficiente, il che toglie ulteriormente opportunità all’avere accelerato il procedimento di grazia. Intervenire assicurando la grazia, dopo una lettera in cui si chiede il suicidio è un tragico errore, tenuto anche conto che l’autolesionismo è già fin troppo presente nella vita carceraria. Premiare l’annuncio di un gesto estremo è l’esatto contrario di quel che serve per tutelare la salute e la dignità dei detenuti. Di tutti i detenuti. La situazione delle carceri italiane è d’intollerabile illegalità. Se anche non avessimo occhi per accorgercene da soli (ma quante volte lo abbiamo scritto e denunciato!?), c’è l’infamante collezione delle sentenze di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per ricordarsene. Sta di fatto, però, che in sede politica restano circondate dal silenzio le tenaci battaglie dei radicali italiani, e in sede istituzionale è caduto nel vuoto il messaggio alla Camere inviato dal Colle. La ragione di tale fuga politica, di tanta viltà, è una: i partiti si rendono conto che non è presentabile il susseguirsi delle clemenze verso i criminali, nel mentre non si riesce ad assicurare giustizia ai cittadini, né hanno forza e coraggio per operare la riforma della giustizia, come tutti sanno si dovrebbe fare, ma come una congrega di codardi non riesce a fare perché bloccata da veti corporativi e propri timori personali. E guardate che il problema non è affatto solo il sovraffollamento, rispetto al quale basterebbe osservare che un numero impressionante di detenuti non sta scontando una pena, perché non ha sul capo una condanna. L’abuso di carcerazione preventiva è devastante per la civiltà, per il diritto e per il carcere. Pensare di porre rimedio alla vergogna delle galere senza porre rimedio alla vergogna della malagiustizia è illusorio. Pensare di salvarsi la coscienza intervenendo per i casi che i mass media si preoccupano di descrivere come pietosi è non solo ipocrita, ma anche pericoloso. Quel detenuto ha diritto al rispetto della legge, e tutti i detenuti hanno diritto a essere considerati con pari attenzione. Se non si ha il coraggio di provvedere si abbia almeno il pudore di tacere. Giustizia: Cancellieri; caso Di Sarno è drammatico, ma problema dei detenuti malati è ampio Agi, 17 gennaio 2014 Quello di Vincenzo Di Sarno è solo "un caso eccezionale, perché è una situazione drammatica", ma "i detenuti in cattive condizioni di salute in Italia sono molti". A parlare è il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, che ha commentato così la vicenda di Vincenzo Di Sarno, il detenuto di Poggioreale gravemente malato e per il quale si è mosso anche il presidente della Repubblica. A detta del ministro si tratta in generale di una "situazione complessa". "Purtroppo ci sono molti casi - ha ammesso il Guardasigilli - nonostante le nostre strutture siano in grado di affrontare il problema o con delle infermerie sul posto o addirittura con ospedali interni o col trasferimento in ospedali all’esterno. Tra la popolazione carceraria - ha poi sottolineato - c’è una larga percentuale in condizioni di salute delicate, soprattutto legate alla tossicodipendenza, che è un fenomeno caratterizza un alta percentuale di detenuti". Giustizia: Laura Coccia; dopo caso Di Sarno interrogazione parlamentare sui detenuti ammalati www.fanpage.it, 17 gennaio 2014 Atleta paralimpica e deputato particolarmente attento alle questioni della disabilità ed alle persone con handicap psico-motori, Laura Coccia è stata una delle prime voci a levarsi in difesa di Vincenzo Di Sarno - il detenuto malato terminale di cancro per cui oggi è stata rigettata la richiesta di scarcerazione. L’atleta paralimpica e deputata del Partito Democratico, Laura Coccia, si è occupata subito dopo la morte di Federico Perna della situazione in cui versano i detenuti ammalati in carcere. In particolare, l’Onorevole ha preso a cuore la situazione di Vincenzo Di Sano, stravolto da un tumore cervico-midollare rinchiuso a Poggioreale per un omicidio commesso durante una rissa. Coccia ha portato il caso in Parlamento ed oggi, a proposito della scelta del giudice di sorveglianza che ha rigettato il differimento della pena chiesto dal presidente della Repubblica, dichiara: "Semplicemente non so che dire. Sono senza parole". Onorevole, lei è stata una delle prime voci ad esprimersi sull’appello disperato di Vincenzo Di Sarno, il detenuto malato terminale di cancro rinchiuso in condizioni insopportabili nel carcere di Poggioreale. Cosa pensa del fatto che una persona quasi del tutto non-autosufficiente sia costretta a rimanere ancora in costrizione? Ho scambiato un paio di parole con Vincenzo Di Sarno durante la mia visita a Poggioreale, avvenuta a novembre all’indomani della morte di Federico Perna. Quel breve saluto mi è bastato per comprendere la gravità della situazione e presentare un’interrogazione parlamentare sottoponendo alla Ministra Cancellieri diversi casi, partendo da quelli di Poggioreale. Credo che quando da un tribunale viene emessa una sentenza, questa vada assolutamente rispettata. Però. Però la pena deve essere umana: compiere reati causa la perdita della libertà, non della dignità. Altrimenti che valore educativo può avere il periodo di detenzione? Da deputata disabile capisco cosa vuol dire dover chiedere un aiuto per svolgere quelle che per altri sono "normali attività" e penso che dobbiamo rendere la detenzione di queste persone umana. Il presidente Napolitano ha raccolto l’appello della madre di Vincenzo Di Sarno, auspicando tempi brevi per la richiesta di grazia. È una decisione molto importante, segno di umanità e sensibilità, caratteri determinanti della Presidenza Napolitano, soprattutto sulla condizione dei detenuti. Ci sono tanti altri detenuti ammalati in condizioni insopportabili all’interno del carcere di Poggioreale, non dimentichiamo il caso di Angelo Rosciano -ammalato di diabete a cui è stata amputata una gamba. Cosa si deve fare per queste persone? Ho avuto modo di rimanere un po’ più a lungo con lui e i suoi compagni (tutti con problemi importanti). Credo che occorra studiare condizioni detentive, strutture e accorgimenti atti a costituire le condizioni più idonee per queste persone. Il decreto carceri prevede l’istituzione del garante nazionale dei detenuti, che è un primo importante passo. Dobbiamo continuare. Quali sono le proposte del Pd per porre rimedio alla questione degli ammalati e dei non-autosufficienti in carcere? La legislazione vigente già prevede dei provvedimenti. Sto predisponendo un’interrogazione per sapere quali sono le azioni che sta approntando la Ministra a questo riguardo. Qual è la sua posizione rispetto ai provvedimenti di amnistia e indulto invocati anche dal Presidente Napolitano? Sono provvedimenti che richiedono i 2/3 dei voti. Seppure il Pd e Sel votassero compatti, non si raggiungerebbe questa maggioranza. L’indulto, inoltre, è un provvedimento preso già nel luglio 2006 e che ha svuotato solo temporaneamente gli istituti penitenziari. Credo che sia fondamentale intervenire in modo strutturale. Il percorso è già iniziato con il decreto carceri, bisogna continuare sulla linea tracciata, abolendo la Bossi-Fini e rivedendo la Fini-Giovanardi, per ridurre il numero delle persone che entrano in carcere. A questo proposito l’Associazione Antigone ha fatto inserire nell’agenda del Parlamento la proposta delle 3 Leggi, di cui sono prima firmataria. Spero vengano approvate in tempi brevi. È cominciato l’iter parlamentare del cosiddetto "svuota carceri", ma molti parlamentari - tra cui 5 stelle e leghisti - sono insorti contro un provvedimento che a loro parere rimetterebbe in libertà anche condannati per mafia. Qual è la posizione del Pd su questo provvedimento? In questi giorni sono stati rispolverati molti luoghi comuni. Il provvedimento ha un ottimo impianto di base. Mi auguro che non vi siano motivazioni, per così dire, tese a imbonire la pancia degli elettori: le libertà personali nel rispetto delle leggi, anche per i detenuti, non devono essere oggetto di campagna elettorale. Giustizia: la Garante, Adriana Tocco; sconcertata, mi aspettavo la scarcerazione o i domiciliari La Repubblica, 17 gennaio 2014 "Sono sconcertata. Non capisco qual è la motivazione profonda di quest’ordinanza". Adriana Tocco, garante regionale dei detenuti, ripete più volte il termine sconcertata commentando la decisione del Tribunale di sorveglianza di rigettare la richiesta di scarcerazione o differenziazione della pena per il detenuto Vincenzo Di Sarno, del quale si è interessato anche il presidente Giorgio Napolitano. Non condivide questa decisione? "Di Sarno non è in grado di sopportare la pena, per questo non capisco il senso della decisione. Perché un ragazzotto di un metro e 81 che oggi pesa appena 51 chili non può avere un differimento, magari agli arresti domiciliari? È ridotto pelle e ossa e ha le mani livide perché non circola il sangue. Poi non capisco perché il magistrato di sorveglianza rinvii sempre ogni decisione al Dap che ora dovrà cercare una struttura adatta a ospitarlo". La decisione arriva dopo l’intervento del presidente, ma non va verso la direzione auspicata da Napolitano. "Sicuramente è strano che si arrivi a un’ordinanza del genere di fronte alla richiesta del presidente di concedere la sospensione della pena. È sconcertante anche perché il Capo dello Stato ha incontrato personalmente il detenuto durante una sua visita a Poggioreale. Quella del Tribunale di sorveglianza è una decisione incomprensibile". Nell’ordinanza si legge che il detenuto ha compiuto il delitto quando era già malato. "È vero e questo è un’attenuante rispetto al suo gesto, che resta sicuramente gravissimo. Anche il Tribunale che l’ha giudicato ha dovuto tenere conto che sussistevano delle attenuanti e che il suo era un reato di impeto. Il tumore che l’ha colpito premeva già sul cervello, c’è la probabilità che nel compiere l’omicidio di impeto Di Sarno fosse già abbastanza provato. Questo è quanto ha sempre sostenuto la famiglia. Parliamo di persone perbene che lavorano, non di delinquenti". Nell’ordinanza il magistrato scrive anche che il detenuto non è in fin di vita e rifiuta le cure mediche. Come è possibile? "Questo fatto mi sembra irrilevante e inconsistente, anche perché il ragazzo minaccia il suicidio. Comunque non mi risulta che rifiuti le cure". La madre, però, prende come buon punto di partenza la decisione di trasferirlo in un ospedale. Lei cosa ne pensa? "Servirà del tempo, perché si deve cercare la struttura adatta, ma come al solito toccherà al Dap trovare una soluzione". Lei cosa si aspettava? "La scarcerazione o i domiciliari". Giustizia: Cassazione; vietato indossare abiti di lusso, "altera i rapporti tra i detenuti" Redattore Sociale, 17 gennaio 2014 Sentenza della Cassazione: le persone recluse devono vestire con abiti "puliti e convenienti" e senza un "consistente valore economico". L’esperto: "Norme per garantire par condicio e impedire condizionamenti". Favero: ma quasi nessuno può permetterseli. Vestiti "puliti e convenienti" e senza un "consistente valore economico", in ogni caso niente lusso. Sono queste le regole per il guardaroba dei detenuti nelle carceri italiane. A metterlo bene in chiaro è la Corte di Cassazione, che recentemente ha annullato senza rinvio un’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, che aveva accolto il reclamo di due detenuti in regime di 41bis. Il divieto riguarda non solo i vestiti, ma anche gli accessori e qualsiasi altro oggetto di cui possono disporre le persone recluse, anche se di particolare valore morale o affettivo. E questo vale per tutti, anche per i detenuti sottoposti a regimi speciali. "Le ragioni di questo divieto sono molteplici - spiega Francesco Picozzi, esperto di diritto penitenziario e autore di un articolo in merito sulla rivista L’Eco dell’Istituto superiore di studi penitenziari. Innanzitutto, come ha messo in evidenza la Corte di Cassazione, consentire l’utilizzo di capi di lusso altererebbe la ‘par condicio’ fra le persone detenute". Per Picozzi non è una questione di moralismo, "si tratta piuttosto di impedire che, anche all’interno del carcere, si ripropongano forme di ostentazione della ricchezza e del potere tipiche del mondo criminale". L’obiettivo è, inoltre, di evitare che detenuti più ricchi possano condizionare quelli più poveri, "magari con lo scopo di ottenere il loro aiuto in attività non consentite, come il supporto in un’evasione". Per dirla tutta, le restrizioni sul vestiario sarebbero, sulla carta, molto più severe. La legge, infatti, prevede che i condannati a pena detentiva superiore a un anno indossino un vestito a tinta unita fornito dall’amministrazione penitenziaria. In stile americano, in sostanza. "In realtà - precisa Picozzi, in base a una consolidata prassi, tale norma non viene applicata. Alcuni esperti lo considerano un bene, poiché il fatto di poter scegliere come vestirsi viene ritenuto utile a evitare un’eccessiva spersonalizzazione dell’individuo". Sulla questione è intervenuto direttamente anche il Dipartimento amministrazione penitenziaria, che nel 2011 ha emesso una circolare invitando tutte le direzioni a evitare "la formazione di interi guardaroba" di lusso da parte dei ristretti. Né la circolare né la legge indicano chiaramente, però, un numero massimo di capi consentiti. Ma i margini sono stretti: "Certo, si potrebbe discutere su cosa debba intendersi per capo di "consistente valore economico" - sottolinea l’esperto, su dove si ponga il confine fra oggetto normale e bene "di lusso". Ma questa sembra una questione da risolvere, caso per caso, con il buon senso dei direttori penitenziari". Il tema del lusso negato non appassiona Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, molto critica sull’argomento: "Francamente vedo tanta di quella miseria in carcere che non so davvero a chi possa interessare la negazione di abiti griffati - commenta. Certo non è un problema centrale rispetto alle tante questioni ancora aperte. Si rischia, anzi, di dare un’idea distorta dei detenuti, la stragrande maggioranza dei quali non può certo permettersi un abito di lusso". Giustizia: carceri e figli senza sbarre, portabilità dei diritti sociali per una cultura del cambiamento di Alberto Sagna www.momentosera.com, 17 gennaio 2014 "Piccole creature che accedono in un carcere per vedere la propria madre, per stare con lei, e, senza saperlo, talvolta, per rimanerci anche per sei lunghi anni...". Occhi spalancati, sguardi impauriti, passi incerti. Sono quelli dei "bambini forzati" che entrano in un palazzo grosso, quanto mai visto prima, grigio scuro, con le finestre incorniciate da sbarre di ferro. Piccole creature che accedono in un carcere per vedere la propria madre, per stare con lei, e, senza saperlo, talvolta, per rimanerci anche per 6 lunghi ed interminabili anni. E può accadere che un minore, prima di accedere in questi luoghi, venga perquisito, proprio come gli adulti, anche se, ci si augura, da personale specializzato, in un’area apposita, uno spazio "giallo". Ma all’ingresso o in qualche angolo vedrà, comunque, agenti penitenziari, in divisa, con le loro rivoltelle inserite nelle custodie e le luci di una stanza, che per quanto illuminata, assomiglieranno davvero molto poco al sole. Magari entrano solo per un colloquio, peccato, però, che, talvolta, ciò avviene anche nelle prime ore della giornata, quando avrebbero la scuola, e dovrebbero stare lì. Non è un caso che nell’Irlanda del Nord l’organizzazione di visite "a misura di bambino" ha trovato una sua specifica dimensione anche grazie all’istituzione di un Family Supporter Officer (Responsabile dell’assistenza alla famiglia) esclusivamente dedicato al miglioramento dell’esperienza di visita del minore con il genitore detenuto. Nel primo "libro bianco" redatto sulla "situazione carceri e figli di detenuti in Italia" si è presentata nel 2011 la ricerca condotta dall’Associazione Bambinisenzasbarre, finanziata dall’Unione Europea, diretta dall’Istituto Danese per i Diritti Umani (DIHR), in collaborazione con la rete Eurchips, l’Università Statale Bicocca di Milano, e con il Ministero della Giustizia, Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e il PRAP della Lombardia. Il dato impressionante emerso è che, ogni anno, 100 mila bambini in Italia e circa 900 mila in Europa diventano orfani di fatto, quando i genitori varcano la soglia del carcere. Se non viene mantenuto il legame con i genitori, quei figli, a loro volta, rischiano anch’essi di trovare la galera da adulti o adolescenti, per rabbia, povertà, assenza di strumenti di sostegno, portandosi dietro, per tutta la vita, un bagaglio di sofferenza ed un’esistenza monocromatica, senza troppe speranze. Questa è la vera punizione dell’innocente. Le sfide di valore partono sempre da una concezione di cultura, come meccanismo propulsore. La "portabilità dei diritti sociali" anche all’interno delle mura carcerarie rappresenta, allora, quel tassello di giusto equilibrio tra pena detentiva, sofferenza e ruolo genitoriale. Mai più barriere, mai più freni inibitori, mai più veli opachi che feriscano la sfera umana del minore e, di riflesso, del carcerato. È il momento di voltare pagina, restituendo una vita dignitosa alle relazioni familiari, perché i figli sono davvero le prime vittime di una custodia cautelare in carcere, o di una pena detentiva divenuta irrevocabile: strappati al loro normale crescere, per essere catapultati in un mondo con poche certezze e quasi nessun diritto verso i genitori. E così, reciprocamente, creando uno stallo, una paralisi a quell’imprescindibile rapporto naturale tra genitori e bambini, fatto anche di scambio relazionale fisico. Non ci può essere diritto se una società non è in grado di accogliere o creare un tessuto che garantisca in maniera flessibile il trasferimento del principio della genitorialità condivisa, coevo ad ogni relazione familiare, in ogni luogo, seppur con gli adattamenti del caso. Occorre una solida mobilitazione cognitiva che abbatta il preconcetto di base: prigione non può essere più sinonimo di automatica perdita della potestà genitoriale, né di totale svilimento dei rapporti di filiazione. Si sconta la pena per il reato commesso, ma si mantiene la dignità di genitore, restando il minore sempre figlio. Un muro non può e non deve separare il fatto genetico dell’avvenuta procreazione dalla persona e lo Stato democratico deve garantire un equilibrato livello d’interazione tra genitori e prole. Le grandi riforme sociali passano attraverso l’esaltazione dei diritti umani, a partire dalla scuola per finire nelle carceri: lo Stato, proprio nei luoghi più a rischio, deve continuare a mantenere vivo ed anzi a rafforzare "il patto di alleanza sociale" stretto con il cittadino per la protezione dei più deboli. Non azzerare la vita di un figlio perché una madre è entrata in carcere dovrebbe essere il primo obbiettivo, di cultura progressista democratica, verso una relazione familiare garantita ad ogni livello. Ma calarsi nel contesto carcerario vuol dire anche trovare spazi idonei dove far crescere un bambino. Sono quasi due anni che è stata promulgata legge 62/2011, ma l’idea che un minore non debba mai più mettere piede in un luogo duro e cupo, come è quello del carcere, è rimasta, ancora, troppo sulla carta. Il nuovo punto di partenza è che, necessariamente, debbano essere costruite strutture idonee, dove avvengano incontri per non danneggiare l’armonico ed equilibrato sviluppo del minore. Un progetto rimasto ancora in itinere, peraltro di applicazione concreta anche grazie all’impegno delle associazioni di volontariato. Braccia forti che contano molti esperti, nati dal mondo del volontariato ma che dedicano, seriamente, intere giornate ai minori in carcere. Un lavoro silente nella "città degli invisibili." Nel carcere romano di Rebibbia l’Associazione A Roma, insieme-Leda Colombini svolge da sempre una concreta attività volta a rendere la vita dei bambini mena afflittiva possibile e quanto più vicina a quella che spetterebbe loro di diritto. Com’è esattamente illustrato nel programma - manifesto dell’Associazione, sin dal 1991 i volontari di "A Roma, Insieme-Leda Colombini" trascorrono l’intera giornata del sabato fuori dal carcere con i bambini e le bambine della sezione Nido di Rebibbia (c.d. sabati di libertà). La missione è quella di aprire lo stretto confine del loro sguardo, cercando di offrire il maggior numero possibile di stimoli con scenari diversificati, fuori dal carcere, facendo in modo che le giornate trascorrano, secondo la stagione, presso amici e sostenitori, ospiti in campagna o al mare, nei parchi cittadini, al Bioparco o dovunque si possano creare momenti di gioco, per la crescita e scoperta di un mondo avulso dal grigiore carcerario. L’Associazione organizza feste, intrattenimenti, giochi e musica, per far vivere ai minori il mondo esterno, attraverso momenti di normalità nelle occasioni importanti dell’anno (compleanni, Natale, Befana, ecc…). L’Associazione, inoltre, consapevole dell’importanza di stimolare la crescita intellettiva ed emozionale di questi bambini, e di sostenere il rapporto madre-figlio, già da sei anni propone la realizzazione di due laboratori, uno di Arte-Terapia e l’altro di Musico-Terapia condotti da operatori professionisti. Un ulteriore sguardo è rivolto ai bambini più grandi, che possono visitare le madri in carcere la 2a e la 4a domenica e l’ultimo sabato di ogni mese per l’intera mattinata. Per favorire questi incontri "A Roma, Insieme-Leda Colombini", in collaborazione con altre Associazioni di Volontariato, organizza momenti di gioco, magia, manipolazioni, spettacoli, creando, così, un clima più favorevole al rapporto madre-bambino e aiutando, nel contempo, a trascorrere, al meglio, il tempo a disposizione. E l’attuale Presidente dell’Associazione "A Roma, Insieme-Leda Colombini", Gioia Cesarini Passarelli, ha spiegato che "nell’aprile del 2013 il nido del carcere romano è stato intitolato proprio a Leda Colombini, scomparsa nel 2011. Gli studenti del Liceo Artistico Statale "Enzo Rossi" hanno realizzato la targa in ceramica, su un progetto delle detenute. Sono le donne iscritte al corso d’indirizzo arti figurative per la pittura e per la scultura. C’è una forte volontà di cambiamento attraverso la scuola. Dentro la Casa Circondariale è stata creata una sezione staccata dell’Istituto scolastico diretto dalla Preside Prof. Maria Grazia Dardanelli. "Il mosaico, con elementi in argilla cotti e smaltati, riproduce attraverso una visione immaginifica la figura di Leda Colombini, rappresentata attraverso le sembianze di una fata che protegge i bambini dal lupo. Le alunne possono conseguire un titolo di studio eguale a quello che si può conseguire fuori dal Carcere. Anni fa il Liceo ha diplomato un’alunna per la maturità artistica con il massimo dei voti, unica nel suo genere, con una commissione d’esame interna ed esterna. Un vero fiore all’occhiello. La sezione staccata del Liceo, che ha come responsabile il Prof. Alessandro Reale, ha due classi prime ed una seconda, una terza, una quarta ed una quinta. Nel quinto ed ultimo anno, con esami di maturità, attualmente ci sono ben sette alunne, per un totale di 80-90 di detenute iscritte al corso. La scuola è, allora, quel ponte di raccordo tra mondo carcerario e l’esterno. Ma non solo: è anche un motore importante per il reinserimento e la risocializzazione dei reclusi, favorendo la creatività e assicurando, nel contempo, il diritto allo studio. Le strutture penitenziarie devono immancabilmente dotarsi dei servizi educativi per la prima infanzia, nonché, di validi progetti d’istruzione, formazione e accompagnamento al lavoro. Ruolo decisivo ha anche l’opera del mediatore linguistico culturale, per le detenute straniere con prole al seguito. Il problema è anche quello di diversificare un insegnamento negli Istituti penitenziari essendoci, non solo soggetti detenuti ma anche bambini che devono considerarsi a tutti gli effetti liberi, ma che, d’ora in poi, potrebbero crescere per 6 anni accanto ai loro genitori in strutture apposite o nei nidi attuali. La sfida sarà quella di comprendere quale ruolo potrà avere la scuola e l’insegnamento nella società civile per contribuire a livellare differenze e a far accettare diverse realtà. Torna così a risuonare l’appello "Fuori i bambini dalle carceri italiane!", firmato nel 2013 dalle Associazioni Terre des Hommes, A Roma, Insieme - Leda Colombini, Bambinisenzasbarre e Antigone. Le nuove norme della legge 62/2012 e del decreto attuativo - osservano nel loro appello - non incidono davvero sul destino di molti bambini, anzi rischiano di fare peggio. Perché se prima della riforma i bambini che potevano essere detenuti con le mamme avevano massimo 3 anni, con l’entrata in vigore della nuova legge, rischiano di restare detenuti sino ai 6 anni. Al 31 dicembre del 2012 - illustra un comunicato firmato dalle quattro associazioni - erano "solo" 40 i piccini presenti nei penitenziari italiani, al seguito delle loro mamme. "Tuttavia, benché i numeri del problema siano così esigui, sembra impossibile trovare soluzioni concretamente lontane dalla detenzione". E ciò - continua la nota - "nonostante lo stesso Comitato Onu per la Crc (Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia) abbia più volte evidenziato all’Italia la necessità di risolvere con urgenza questa delicata questione." Ed ecco che le quattro associazioni rilanciano lo stesso appello che precedette l’approvazione di una legge di riforma sulla disciplina delle madri detenute con bambini, avvenuta nella primavera del 2011. Nonostante gli auspici degli operatori e gli stessi propositi del Parlamento, il testo, frutto di compromessi che, a loro giudizio, ne hanno inficiato la reale portata, oggi non impedisce a decine di bambini di varcare la soglia di un carcere nel nostro Paese. "Sei i punti deboli della riforma che vengono sottolineati: 1. Permane il rischio concreto che il bambino venga detenuto con la mamma sia in via cautelare, sia in esecuzione pena, nonostante - per questa seconda ipotesi - siano state agevolate le condizioni per accedere ai domiciliari speciali. 2. Si innalza a 6 anni l’età dei bambini che possono essere soggetti con le loro mamme a misure cautelari anche in carcere. 3. Non viene garantito il diritto alla madre di poter assistere il figlio, in caso di malattia o ospedalizzazioni, per tutta la durata della stessa. 4. Permane l’automatica espulsione della donna extracomunitaria irregolare, che abbia scontato la pena con tutte le conseguenze che questo implica sul figlio. 5. Vengono finalmente introdotte dalla riforma le Case Famiglie Protette, realtà completamente sganciate dal mondo penitenziario, ma questo istituto non viene promosso (è escluso qualsivoglia onere a carico del ministero della Giustizia). 6. Si continua a puntare sulle I.C.A.M. (Istituti di Custodia Attenuata per Madri detenute), quali uniche, vere alternative alla detenzione per le madri con bambini, pur trattandosi di strutture sempre e comunque detentive, per quanto attenuate. Da qui nascono le richieste di Terre des Hommes, A Roma, Insieme - Leda Colombini, Bambinisenzasbarre e Associazione Antigone rivolte al Ministero della Giustizia e al Parlamento. Al primo si chiede che "venga riconsiderato il piano di costruzione di I.C.A.M. in diverse città italiane, nell’ottica di convertire risorse preziose in favore di quelle che, sì, dovrebbero essere la vera soluzione cui puntare: le Case Famiglia Protette." Chiediamo - scrivono le quattro associazioni - "che ciò sia reso possibile stornando parte dei fondi destinati alla costruzione delle I.C.A.M. in favore della effettiva attivazione delle Case Famiglia Protette, alla luce del principio di cui alla L. 62/2011 per cui le stesse sono previste "senza oneri aggiunti per lo Stato." A entrambi viene chiesto "per quanto di loro reciproca competenza, di tenere conto di questi concreti rilievi, intervenendo per mettere fine alla detenzione dei bambini." Un vero e proprio esercito di bambini, figli di genitori detenuti, ogni anno entra nelle 213 carceri italiane per dare continuità al legame affettivo con il proprio papà o la propria mamma detenuta. Una cifra imponente che non può essere demandata a provvedimenti che escludano o limitino il diritto di un bambino a vedere il proprio padre il giorno della recita scolastica, nel primo giorno di scuola, o, ancora, nel giorno del compleanno ovvero in caso di malattia. In particolare, la vera battaglia che si chiede al Parlamento Italiano è quella di rendere perfettamente applicata la Risoluzione 2007/2116 (INI) approvata a Strasburgo il 13 marzo 2008 che ribadisce all’articolo 24 l’importanza del rispetto dei diritti del Fanciullo indipendentemente dalla posizione giuridica del genitore: perché a tutti i bambini sia rispettato il diritto di essere bambini, anche laddove il genitore stia espiando una pena detentiva. "Non un mio crimine, ma una mia condanna" ("Not my Crime, Still my Sentence") è il forte slogan, utilizzato per presentare una petizione al Parlamento Europeo, voluta da Eurochips (European network for Children of Imprisoned Parents), e sensibilizzata dall’Associazione Bambinisenzasbarre, poi raccolta dall’Euro deputata Patrizia Toia che ne ha fatto oggetto di una vera e propria interrogazione al Consiglio d’Europa ed alla Commissione Europea chiedendo quali iniziative la Commissione intendesse portar avanti e se recepisse il proposito di adottare "norme minime di protezione dei detenuti che pongano l’accento sui diritti dei bambini, figli di detenuti." Come ha osservato la Presidente dell’Associazione A Roma, Insieme-Leda Colombini, Gioia Cesarini Passarelli: "sul tema abbiamo sollecitato il Senato ad un’audizione per evidenziare i profili di criticità che interessano la drammatica cifra concernente i figli dei detenuti che, ogni anno, accedono nelle strutture penitenziarie per incontrare il proprio genitore. Non ci fermeremo e continueremo a fare interpellanze ad ogni livello. Noi ci battiamo perché vi siano ambienti sani e strutture adeguate alla crescita dei bambini. È impensabile che un bambino libero debba mettere piede dentro un carcere e vivere lì accanto alla madre, in un luogo, che è sempre di detenzione, senza ricevere quei normali stimoli esterni, con il rischio di contrarre malattie." L’audizione, nell’11a seduta, si è tenuta il 23 luglio 2013, davanti alla Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei diritti Umani, presieduta dal Presidente Luigi Manconi e sono intervenuti, ai sensi dell’art. 48 del Regolamento, sia l’Associazione A Roma, Insieme - Leda Colombini che Bambinisenzasbarre, quest’ultima presieduta da Lia Sacerdote. Non c’è dubbio che è giunto il momento di rompere quel velo d’indifferenza nato da un atavico preconcetto del mondo esterno. Il riconoscimento e la visibilità di questi bambini rappresentano il primo motivo di progresso culturale che deve passare con un progetto di "portabilità territoriale dei diritti del fanciullo" partendo anche dalla scuola, perché sia loro riconosciuto che sono portatori di specifici bisogni, senza che subiscano ingiuste discriminazioni o pregiudizi nella crescita che, spesse volte, avviene in ambienti non idonei, quali sono, appunto, gli istituti penitenziari. L’estrema vulnerabilità dei minori in queste situazioni deve portare ad un nuovo assetto strutturale della società civile. I bambini nati da genitori poi detenuti in carcere non sono figli di un Dio minore. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria conosce bene la problematica, tanto che sin dal dicembre 2006 ha avviato la sperimentazione degli I.C.A.M. a Milano, quale frutto di un accordo raggiunto tra Ministero della Giustizia, Regione Lombardia, Provincia e Comune di Milano. L’istituto dipende dalla Casa Circondariale di S. Vittore. Si tratta di uno stabile di circa 420 quadri di proprietà della Provincia di Milano, con portineria, sala colloqui, sala polivalente/biblioteca attrezzata con tv e computer, lavanderia, giocoteca, camere da letto, cucina ed infermeria. Lo spazio per le attività ludiche è stato organizzato seguendo i suggerimenti del modello degli asili nidi del Comune di Milano. In una nota Agi del 24 ottobre 2013 si rende noto che, secondo i dati forniti dallo stesso Ministro della Giustizia, attualmente sarebbero 44 le donne recluse con bambini (i piccoli sono 45 in totale) d’età compresa tra zero ed i 3 anni. Ma dal primo gennaio 2014 sarà possibile la permanenza in carcere con il genitore per i bambini sino a 6 anni e, quindi, a tale scopo, si prevede la realizzazione di nuovo Istituti di Custodia Attenuata per le detenute madri. In Italia, continua la nota Agi, sono attivi, al momento, solo due I.C.A.M., uno a Milano con 8 mamme e 8 bambini e l’altro a Venezia, che ospita 5 mamme ed altrettanti minori. Il progetto del Guardasigilli Annamaria Cancellieri, prevede l’apertura di I.C.A.M. in Piemonte (in fase avanzata di attuazione, che ospiterà anche le donne detenute in Liguria), a Firenze, in Campania (attivo anche per Abruzzo e Molise), a Capodarco (per le detenute di Marche e Umbria), a Roma (in zona Casal del Marmo) e poi in Sardegna ed in Sicilia. Per quanto concerne la seconda tipologia, e cioè le Case Famiglia Protette, il Ministero della Giustizia, in data 26 luglio 2012, aveva finalmente emanato il decreto ove erano state individuate le caratteristiche tipologiche della Case Famiglia Protette, dimostrando sensibilità alla tematica. Una tra tutte le peculiarità è che dovranno essere collocate "in località dove sia possibile l’accesso ai servizi territoriali, socio-sanitari ed ospedalieri, e che possano fruire di una rete integrata a sostegno sia del minore sia dei genitori. Le strutture hanno caratteristiche tali da consentire agli ospiti una vita quotidiana ispirata a modelli comunitari, tenuto conto del prevalente interesse del minore." Pur essendo le Case Famiglia Protette la soluzione migliore per tutelare l’interesse superiore del minore a vivere i primi anni di vita dentro un habitat "a misura di fanciullo", e ciò anche in conformità alle direttive della Convenzione dei Diritti dell’Infanzia, invero, nessun fondo sembra essere stato destinato dall’Amministrazione. Il testo all’articolo 4 della legge 62/2011, infatti, così prevede: "Il Ministro della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come Case Famiglia Protette." Si era affacciata una velata speranza, tracciata dal dubbio semantico della legge 62/2001 del citato art. 4, laddove si parlava di "nuovi o maggiori oneri", potendosi intendere che almeno i vecchi fondi avrebbero potuto essere destinatati a tal fine. È, invece, prevalsa un’interpretazione ministeriale restrittiva della disposizione, senza che, poi, vi fosse alcun emendamento nella legge di stabilità. Per cui, ormai, dallo stesso citato testo del decreto ministeriale datato 26 luglio 2012 dell’allora Guardasigilli Paola Severino, risulta che "nessun onere finanziario graverà in capo all’Amministrazione Penitenziaria per la realizzazione e gestione delle strutture, essendo destinate dalla legge a soggetti non inseriti nel circuito penitenziario." Ma questo decreto ministeriale ha avuto una storia particolarmente tortuosa: con successivo D.M. dell’11 gennaio 2013 di revoca viene annullato, in quanto adottato in carenza del presupposto della intesa con la Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali, previsto dall’art. 4 legge 62/2011 e, poi, ne viene emanato un altro, ma solo in data 8 marzo 2013, in virtù dell’intesa poi raggiunta il 7 febbraio 2013. Nel nuovo D.M., però, scompare la precedente e sopra riportata dizione utilizzata "soggetti non inseriti nel circuito penitenziario" che lasciava, invero, assai perplessi. Viene inserito, infatti, che "il servizio sociale dell’amministrazione penitenziaria interviene nei confronti dei sottoposti alla misura della detenzione domiciliare secondo quanto disposto dall’art. 47 quinques, 3°, 4° e 5° comma dell’Ordinamento Penitenziario", restando ferma, dunque la facoltà per il Ministro della Giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture da utilizzare come Case Famiglia Protette. Il dato che emerge è, dunque, che le Case Famiglia Protette sembrerebbero essere rimaste escluse dalla copertura finanziaria, come purtroppo riferito dallo stesso Ministro della Giustizia a margine della seduta tenutasi in Senato, presso la Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del 24 ottobre 2013: "le risorse per la costruzione di Icam sono modeste e la realizzazione delle Case Famiglia Protette può contare esclusivamente su finanziamenti privati." (fonte: resoconto Sommario n. 20 del 24.10.2014). Ciò vale a dire che le Case Famiglia Protette, previste in caso di detenzione domiciliare come strutture equivalenti alla privata dimora per tutte le mamme che siano prive di un domicilio, al fine di realizzare e garantire il diritto ad un sano sviluppo dei bambini e la stabilità delle relazioni familiari, dovranno comunque funzionare in tutti quei casi ove non via sia un’esigenza cautelari di eccezionale rilevanza o per soggetti nei confronti dei quali, nel caso di concessione di misure alternative previste, non sussista grave e specifico pericolo di fuga o di commissione di ulteriori gravi reati, e risulti constatata l’impossibilità di esecuzione della misura presso l’abitazione privata o altro luogo di dimora. E, quindi, si augura nella maggior parte dei casi. Ma, allo stato, sembra non esservi traccia di strutture ultimate. In Danimarca, invece, esiste già la casa di riabilitazione Pensione Engelborg, quale parte integrante del programma di reinserimento dei Servizi di detenzione e libertà vigilata, ed appartiene al servizio penitenziario danese, con tanto di educatore sociale ed un assistente sociale. Dentro la casa famiglia possono alloggiare sino a cinque famiglie. "I pensieri sono perle false finché non si trasformano in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo", affermava Gandhi. Il rischio da scongiurare, dunque, è che le norme non siano percepite all’esterno solo come entità astratte, avulse da un ambiente che già invisibile lo è come quello della prigione, ma provochino un mutamento concreto del vivere sociale: l’entrata in vigore della legge 21 aprile 2011 n. 62, a cui poi si è aggiunto il decreto del Ministero della Giustizia del 8 marzo 2013, è ormai avvenuta (1 gennaio 2014), ed il tempo, dunque, stringe per evitare la continua e perpetua violazione dei diritti d’infanzia. Un Paese civile deve sapere accogliere questo appello: ove sussistano le condizioni di legge e la consapevolezza del ruolo genitoriale da parte dei detenuti, i bambini, nei primissimi anni di vita, devono poter crescere accanto alle madri, in un ambiente familiare che non assomigli ad un carcere, perché non vi siano ricordi traumatici di sbarre, riducendo al minimo, con il maggior sforzo possibile, l’insorgenza di problema legati allo sviluppo della sfera emotiva e relazionale. Nel ribaltare il rapporto di prevalenza dei diritti sociali, il sistema penitenziario non dovrebbe trattare i contatti aggiuntivi con i minori come meri "premi" assegnati ai genitori, ma come un diritto preminente del minore, ineludibile. E, all’inverso, come misura disciplinare una madre detenuta non dovrebbe essere privata del contatto con il figlio: il diritto è del bambino, e l’interesse è superiore. Un bimbo nato libero deve rimanere libero. Ma non fuori, da solo e senza madre, oppure con il solito rimedio di una sentenza di adozione che lo strappi all’affetto del genitore. Protezionismo sociale per i più vulnerabili, null’altro si chiede. Bambini dietro le sbarre mai. Giustizia: la lettera in codice del boss amico di Riina di Salvo Palazzolo La Repubblica, 17 gennaio 2014 L’uomo che in questi ultimi mesi ha trascorso l’ora d’aria con il boss Totò Riina, nel carcere milanese di Opera, nascondeva in cella una lettera misteriosa, scritta con l’alfabeto fenicio. Le prime parole che gli investigatori della Dia hanno decifrato sono inquietanti: "Attentato", "papello", "Bagarella". A scriverle è stato Alberto Lorusso, ufficialmente solo un capomafia pugliese della Sacra Corona Unita, che fra luglio e novembre è stato intercettato mentre raccoglieva gli ordini di morte del capo di Cosa nostra nei confronti del sostituto procuratore Nino Di Matteo. Quella lettera in codice era destinata a uscire dal carcere? O, peggio, era la copia di una lettera già fatta filtrare all’esterno? E a chi? Sono gli interrogativi che adesso si pongono i magistrati di Palermo e quelli di Caltanissetta, che indagano sulle parole di Riina. Il 16 novembre, il padrino di Corleone è stato parecchio esplicito con Lorusso: "Organizziamola questa cosa - ha sussurrato con tono deciso - facciamola grossa e non ne parliamo più, perché questo Di Matteo non se ne va". E ha aggiunto: "Dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari in Sicilia". A fine dicembre, i magistrati palermitani sono andati a interrogare Lorusso, nel carcere romano di Rebibbia, proprio per chiedergli delle conversazioni con Riina. E durante l’audizione, a sorpresa, hanno ordinato la perquisizione della sua cella. Così è saltato fuori il codice fenicio con quelle parole preoccupanti, che hanno fatto aumentare il livello di allerta attorno ai pm che indagano sulla trattativa mafia-Stato. "Bagarella" è il cognato di Riina, anche lui detenuto e imputato nel processo trattativa. Il "papello" è l’oggetto del misterioso dialogo fra mafia e Stato, la lista di richieste avanzate da Riina per fermare le stragi. Nei giorni scorsi, una perquisizione in carcere è stata fatta anche a Totò Riina. E lui ha protestato: "Glie faccio vedere io a Di Matteo. Questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso". Nuove minacce che hanno spinto il comitato per l’ordine e la sicurezza di Palermo a disporre misure straordinarie per il magistrato: da lunedì, ha anche a disposizione un elicottero per i suoi spostamenti. Ogni giorno, sono 42 i carabinieri che si occupano della protezione di Nino Di Matteo: 9 militari sempre attorno a lui, fra questi ci sono anche le teste di cuoio del Gis, altri 33 uomini controllano l’abitazione del magistrato e le strade del centro che percorre con le tre auto di scorta. L’indagine dei pm di Palermo è adesso tutta su Lorusso. Lui si è chiuso in un silenzio profondo: a dicembre, la sua audizione è stata sospesa e il boss è stato indagato per false dichiarazioni a pubblico ministero. Intanto, si continua a scavare nel suo passato: è già emerso che è un vero esperto di crittografia e più volte i magistrati che si sono occupati di lui gli hanno sequestrato lettere in codice. Adesso, comunque, il boss pugliese non trascorre più l’ora d’aria con Riina. E non sta neanche nel carcere di Milano, ma a Roma. Resta però l’uomo dei misteri. Mentre un’altra ipotesi, altrettanto inquietante, si fa strada al palazzo di giustizia di Palermo: quella lettera in codice potrebbe essere arrivata nella cella di Lorusso. Forse, inviata da qualcuno che gli voleva suggerire argomenti di discussione con Riina? Ma chi, e soprattutto perché? Dopo il ritrovamento del codice cifrato, il caso Riina assomiglia sempre di più a una spy story dai contorni ancora da definire. Ma una cosa è certa: dalle intercettazioni effettuate nel carcere di Opera è emerso che il boss pugliese Lorusso è informatissimo su quello che accade a Palermo. Lettere: Vincenzo non lasciarti andare… di Paola Binetti (Senatrice del Pd) Avvenire, 17 gennaio 2014 L’onorevole Paola Binetti ha scritto, tramite Avvenire, una lettera aperta a Vincenzo di Sarno. Un invito accorato a non lasciarsi andare, a dare importanza e senso alla propria vita, anche perché ci sono persone per cui è importante. Seguo la tua vicenda da alcuni giorni e mi piacerebbe venire a trovarti per parlare di te, della tua malattia, della tua condizione in carcere e della tua richiesta al Presidente Napolitano. Ma mi piacerebbe parlare con te anche della reazione "di gioia" con cui tua madre ha accolto le parole del Presidente della Repubblica. Probabilmente spera di riaverti presto vicino e di potersi prendere cura di te, come ogni madre spera di poter fare quando sa che il proprio figlio sta soffrendo. La tua storia ha colpito tante persone, ha commosso, ha suscitato davvero profonda solidarietà. Ti assicuro che in Parlamento moltissimi deputati hanno sperimentato un rinnovato senso di responsabilità per migliorare le condizioni delle nostre carceri, a cominciare dalla qualità dell’assistenza medica per i carcerati, che non sembra ancora pienamente all’altezza di una moderna medicina penitenziaria. Già a settembre tua madre aveva chiesto al Presidente Napolitano la grazia per te; ma non eri ancora sufficientemente grave e, solo a novembre, quando sei ulteriormente peggiorato ha potuto rinnovare la sua richiesta: un gesto di clemenza, per poter affrontare in condizioni più umane questo momento così particolare della tua vita. Eppure, ciò che ha colpito di più l’opinione pubblica è stata la tua richiesta di eutanasia. Questo è il punto su cui invece non mi trovo d’accordo con te e spero che tu ottenga la grazia e possa continuare a vivere a lungo per intraprendere una battaglia positiva per i diritti civili dei carcerati, a cominciare da quelli malati. È di queste ore la notizia che il magistrato ha rigettato le istanze dei difensori di sospensione dell’esecuzione della pena, ma ha disposto il ricovero presso un ospedale del territorio. È arrivato per te il momento di non lasciarti andare; il tuo rifiuto delle terapie non aiuta te stesso, né chi - come te - soffre di gravi malattie in carcere. È il momento di lottare sollecitando le istituzioni ad abbandonare atteggiamenti inutilmente "coercitivi": la malattia è diventata una sorta di pena alternativa, che compie perfettamente al debito che hai contratto con la società. Ci sono molti modi di riparare ai propri errori, modi diversi di soffrire e di riparare, involontariamente tu oggi lo stai facendo con la tua malattia, che merita però tutta l’attenzione possibile. Non so se ti hanno parlato delle cure palliative, sono cure che possono davvero allontanare i dolori di cui soffri e contribuire a migliorare la tua qualità di vita, in modo che tu non debba più desiderare di morire al punto da chiedere l’eutanasia. La vita merita sempre di essere vissuta, perché è sempre possibile darle un senso e scoprire quante persone desiderano averci vicino, prima su tutti tua madre. Sperando di incontrarti presto, mi impegno, con i miei colleghi in parlamento, a lottare per te e con te. Lettere: Di Sarno e l’ingerenza di Napolitano di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2014 In due decenni B. ha distrutto il rapporto tra i cittadini e la legalità. Una gran parte degli italiani è stata convinta che la giustizia viene amministrata in maniera capricciosa, sciatta, qualche volta illegale. Nessuno sa perché i giudici dovrebbero perseguitare poveri cittadini innocenti o comunque bisognevoli di comprensione e solidarietà; nessuno si interroga sui motivi che spingerebbero la magistratura italiana a perseguitare politici privi di ogni colpa; nessuno si chiede come mai un’intera istituzione pubblica sia abitualmente dedita a quella che B&C hanno (efficacemente) battezzato "mala-giustizia" senza peraltro ricavarne vantaggio alcuno. Semplicemente un preconcetto diffuso fa sì che, per ogni caso giudiziario che divenga notorio, immediatamente nasca una partito anti giudici che appoggia e sostiene qualsiasi imputato o condannato che lamenti supposte ingiustizie o iniquità. Particolarmente sensibili a questo proposito si dimostrano i politici. Alcuni ipocritamente contrabbandando per interventi umanitari interferenze favorevoli a parenti o amici, come avvenuto nel recente caso Cancellieri-Ligresti. Altri convinti, contro ogni evidenza giuridica e costituzionale, di essere investiti della missione di sanare le supposte iniquità commesse dai giudici, come avvenuto nel recente caso Napolitano-Di Sarno. Chi è costui? Un assassino: ha ammazzato un uomo nel corso di una lite ed è stato condannato a 16 anni di prigione che poi, per via delle munifiche leggi italiane, diventeranno in concreto circa 7. È dentro da 4 anni e dovrebbe uscire dunque tra 3. Purtroppo per lui si è ammalato: una grave forma tumorale per la quale è stato operato già due volte, senza successo come quasi sempre capita in queste patologie. Naturalmente sta male; la magistratura di sorveglianza lo sa bene, gli vengono somministrate le cure adeguate ed è stato disposto il suo ricovero in ospedale. Tutto come da legge che, almeno finora, non prevede che un detenuto malato sia automaticamente scarcerato: occorre che le sue condizioni di salute siamo incompatibili con la detenzione. E poiché Di Sarno, per la gravità della sua malattia, dovrebbe comunque essere ricoverato in ospedale, dove in effetti è stato altre volte ed è ora, non si vede in cosa dovrebbe consistere questa supposta incompatibilità. A meno da non ravvisarla nel fatto che la camera dove è ricoverato un assassino è piantonata dai carabinieri. Ma Napolitano pare non pensarla così. "Il Presidente si augura che sia l’esame della richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena sia la procedura per la grazia siano condotte in tempi commisurati alla gravità delle condizioni di salute" del Di Sarno. E così torniamo al partito anti giudici. Ma perché il presidente della Repubblica pensa che sia necessario sollecitare la magistratura di sorveglianza? Crede che i giudici italiani, senza i suoi alti moniti, non lavorino con sufficiente rapidità e professionalità? E, soprattutto: per quali motivi e con quale competenza ha ritenuto di indicare ai giudici la soluzione a cui pervenire con la segnalata urgenza, la sospensione dell’esecuzione della pena? Di Sarno, pare, è in condizioni di salute assai gravi. Deve necessariamente essere ricoverato in ospedale, dove appunto si trova; e se non fosse così il suo posto è in carcere, visto che è un assassino. E comunque la decisione, quale che sia, riguarda la magistratura; il presidente della Repubblica non ha nessuna competenza in proposito. Se poi la scarcerazione di un assassino lo appassiona tanto, gli conceda la grazia: dopo quella concessa alla spia Cia Joseph Romano, non se ne meraviglierà nessuno. Lucera (Fg): morte Alberico Di Noia; autopsia negata, ricorso e proteste familiari di Vincenzo Riontino www.statoquotidiano.it, 17 gennaio 2014 La notizia della morte di Alberico Di Noia, avvenuta ieri nel carcere di Lucera, riporta metaforicamente a Stefano Cucchi, ragazzo deceduto all’ospedale Sandro Pertini - nell’ambito della detenzione cautelare - il 22 ottobre 2009. Metaforicamente nel senso di ricerca di una verità ad oggi avvolta nel dubbio. Innanzitutto, la stampa sarebbe venuta a conoscenza del decesso dopo 24 ore dai fatti, limitandosi a parlare di un semplice suicidio. Il segretario generale del C.o.o.s.p. - Coordinamento Sindacale Penitenziario - Domenico Mastrulli ha escluso categoricamente - stamani a Stato - "un coinvolgimento, anche morale, delle guardie carcerarie relativamente alla morte del detenuto". Ma la famiglia, che fino a qualche giorno prima era andata a fargli visita, stenta ancora a crederci. Alberico, che era stato arrestato nel 2012, il 14 Febbraio prossimo sarebbe stato oggetto di una udienza che con molta probabilità gli avrebbe consentito di poter ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Tanto che la Fidas di Zapponeta avrebbe presentato una domanda in tal senso. Potrebbe bastare già questo per non comprendere e considerare inspiegabile un gesto del genere. Risulta difficile, dunque, credere ad un suicidio, dopo che l’uomo aveva scontato quasi due anni di carcere, e sapendo che tra un mese avrebbe potuto ottenere questo permesso e stare vicino ai propri cari. Da qui l’incredulità della famiglia e di tutti coloro che sono venuti a conoscenza del caso. In base alle testimonianze raccolte, infatti, Alberico avrebbe tenuto una buona condotta durante tutta la sua permanenza in carcere. Ma da cinque giorni era stato disposto per lui l’isolamento, a seguito di un alterco con la guardia carceraria, che gli avrebbe "impedito di regalare una caramella al figlio" che si era recato in carcere con la madre, come di consueto, per far visita a suo padre. Non solo; da fonti familiari, quando l’uomo, prima di essere trasferito a Lucera, si trovava nel penitenziario di Altamura, gli era stato certificato dal medico l’impossibilità di restare solo, a causa della configurazione di una forte tachicardia, di cui Alberico avrebbe cominciato a patire, in seguito alla recente ed improvvisa morte del padre, avvenuta mentre era già detenuto. Se questo fosse confermato, non si sarebbe dovuto nemmeno procedere all’isolamento. A questo si aggiunge anche che i familiari della vittima, i quali hanno nominato tre nuovi legali, non avrebbero ancora potuto vedere il corpo del proprio caro e neanche avrebbero avuto notizie sul luogo dove al momento è presente la salma del 38enne di Zapponeta. Ma a rendere la vicenda ancora più oscura sarebbe stata la decisione del giudice dott. A. Laronga (appresa da fonti vicino alla famiglia della vittima), per il quale il caso sarebbe chiuso, trattandosi di un suicidio. Secondo il magistrato, dunque, non occorrerebbe nemmeno l’autopsia. Ma i familiari non crederebbero assolutamente a questa versione e starebbero strenuamente spingendo per venire a capo della vera causa della morte del proprio caro. A questo punto, i legali della famiglia Di Noia non avrebbero altro mezzo che fare ricorso per questa decisione del giudice e cercare poi di ottenere la riesumazione della salma per la disposizione dell’autopsia. Sono davvero tanti gli interrogativi che attanagliano la famiglia e la piccola comunità di Zapponeta. Perché un uomo si sarebbe dovuto suicidare dopo aver trascorso due anni nel carcere, e dopo aver saputo che tra un mese avrebbe potuto ottenere i domiciliari? Perché la notizia è stata diffusa solamente dopo più di 24 ore? Perché ai familiari non è stato ancora concesso di vedere la salma del proprio caro? Perché gli organi competenti avrebbero deciso di chiudere il caso senza nemmeno disporre l’autopsia? Sono tante le domanda a cui vorremmo una risposta per rendere luce ad una vicenda poco chiara. La famiglia ha il diritto di sapere la verità. A loro va la vicinanza mia e di tutta la Redazione di Stato. Morte in carcere 38enne di Zapponeta, Mastrulli: escludo coinvolgimento agenti "Escludo categoricamente un coinvolgimento, anche morale, dei baschi azzurri relativamente alla morte del 38enne di Zapponeta, avvenuta nel carcere di Lucera". E’ quanto dice a Stato il segretario generale C.o.o.s.p. - Coordinamento Sindacale Penitenziario - Domenico Mastrulli. Come anticipato ieri, l’uomo era detenuto dal 2012 nel carcere di Lucera con l’accusa di tentata estorsione, resistenza, violenza, lesioni a P.U. e tentato omicidio; la vicenda è legata a contatti che il 38enne avrebbe avuto con una donna conosciuta in chat. Un lancio Ansa ha riferito stamani che l’uomo si sarebbe "impiccato in una cella" del carcere del centro federiciano. Il 38enne era da solo in cella da 5 giorni perché "aveva avuto un alterco con un agente penitenziario", come riferito in una nota dall’Osservatorio permanente sulle carceri. L’uomo - a quanto viene riferito - stava per essere trasferito in un altro istituto di pena. "Esprimo vivo rammarico per i fatti - dice Mastrulli a Stato - e grande amarezza per il terzo decesso avvenuto dal gennaio 2014 nelle prigioni italiane. La mia solidarietà ai familiari della vittima, quale appartenente ad un corpo di polizia, ma l’inciviltà della struttura penitenziaria di Lucera deve diventare presto priorità per il ministro Cancellieri". Intanto non sarebbe stata ancora disposta l’autopsia sul corpo dell’uomo; i familiari della vittima, che hanno nominato un nuovo legale, non avrebbero ancora potuto vedere il corpo del proprio caro e neanche avrebbero avuto notizie sul luogo dove al momento è presente la salma del 38enne di Zapponeta. I familiari del 38enne si sarebbero recati nel carcere di Lucera pochi giorni prima della tragedia. Siracusa: 10 indagati e nuova perizia, riaperto caso di Alfredo Liotta morto in carcere di Salvo Sidoti La Sicilia, 17 gennaio 2014 Riaperto il caso di Alfredo Liotta, il detenuto morto a 41 anni, nel luglio del 2012, nel carcere Cavadonna di Siracusa, dove stava scontando l’ergastolo. Ci sono 10 indagati e una nuova perizia per fare luce su una vicenda che ha visto sempre in prima linea la moglie di Liotta, Patrizia Savoca, la quale sostiene che il marito è stato lasciato morire in cella senza assistenza sanitaria. È stata l’associazione "Antigone" ad annunciare le novità sul caso Liotta, in occasione della presentazione, a Roma, del 10° rapporto sulle condizioni di detenzione "L’Europa ci guarda". A luglio, il difensore civico di Antigone, Simona Filippi, con un esposto supportato da una relazione medica, prodotta da uno specialista, e da una relazione sulle condizioni psichiche di Liotta, ha chiesto alla Procura di Siracusa di proseguire le indagini. E la Procura ha aperto un fascicolo, disponendo una nuova perizia, avviata in questi giorni. Nell’esposto si legge che "anche quando il detenuto era ormai in condizioni di salute gravissime (negli ultimi 3 mesi di vita perde circa 40 kg e si muove con la sedia a rotelle), il personale medico prosegue un atteggiamento di totale noncuranza. Il perito della Corte di Appello di Catania, avrebbe scritto che Liotta assumeva atteggiamenti artefatti, volti alla strumentalizzazione". Sempre nel suo rapporto, Antigone scrive che "con un avviso di garanzia, la Procura della repubblica di Siracusa ha cambiato atteggiamento su questa morte iscrivendo nel registro degli indagati 10 persone, dal direttore del carcere al personale medico competente e disponendo una nuova perizia". Tre i consulenti tecnici nominati: un medico legale, uno psichiatra e uno specialista in anestesia rianimazione. La moglie di Liotta, oltre ad avere vicino Antigone, ha accanto in quella che definisce "una battaglia per tutti i detenuti e per i diritti umani" gli avvocati Turi Liotta e Valeria Sicurella. "Adesso sono più serena - dice Patrizia Savoca - si vada sino in fondo per accertare eventuali responsabilità. Bastava una flebo per curare mio marito, invece in carcere è arrivata la sentenza di morte". Caltanissetta: suicidio in cella, la famiglia Di Blasi si oppone alla richiesta di archiviazione di Vincenzo Pane La Sicilia, 17 gennaio 2014 È ancora braccio di ferro tra la Procura nissena ed i familiari del nisseno Giuseppe Di Blasi, morto suicida in carcere il 27 dicembre del 2011. Da un lato l’ufficio requirente che ha chiesto nei giorni scorsi l’archiviazione del procedimento contro ignoti per valutare se ci fossero state eventuali negligenze da parte dell’amministrazione penitenziaria, e dall’altra la famiglia Di Blasi, che chiede alla giustizia di indagare per verificare ogni dettaglio della vicenda e quindi, tramite l’avvocato Massimiliano Bellini, si è opposta all’archiviazione. Pertanto a sciogliere la matassa dovrà essere il giudice per le indagini preliminari; ora si attende che venga fissata una udienza davanti ad uno dei magistrati dell’ufficio Gip/Gup (ancora da nominare) per la discussione dell’archiviazione e della relativa opposizione: il giudice dovrà archiviare o potrebbe disporre un supplemento di indagini o fissare un’udienza preliminare con l’imputazione coatta a carico di eventuali presunti responsabili che verranno indicati come tali. Giuseppe Di Blasi venne condannato in primo grado dal Tribunale a 17 anni per presunta violenza sessuale sulla figlia, all’apertura del processo d’appello la Corte nominò un collegio dei periti - come chiesto dall’avvocato difensore Massimiliano Bellini - per eseguire degli accertamenti ulteriori di natura psicologica sulla ragazza che aveva accusato il padre. Nel frattempo Di Blasi era detenuto nel carcere "Malaspina" di Caltanissetta ed il giorno prima di morire impiccato aveva già tentato di suicidarsi facendo a pezzi le lenti degli occhiali e ingerendo alcuni frammenti. Ed è anche su questa fase che la famiglia Di Blasi vuole vederci chiaro: soprattutto sul perché sia stata revocata la sorveglianza a vista a un detenuto che nemmeno un giorno prima aveva tentato il suicidio e che poi si è impiccato, riuscendo nel suo proposito. Secondo la parte offesa vi sarebbero gravi responsabilità da parte del personale medico, della direzione del carcere e degli agenti di Polizia penitenziaria in quanto, nonostante le condizioni di estremo disagio e di problemi di natura psichiatrica in cui avrebbe versato Di Blasi, non era stato disposto il trasferimento in una struttura clinica adeguata, che veniva chiesto da parecchio tempo dal legale, ma che venne sempre rigettata. Nel suo ricorso l’avv. Bellini precisa che: "Gli stessi consulenti medici della Procura hanno affermato che non si è chiarito in maniera esatta il perché Di Blasi non fosse stato trasferito in una struttura psichiatrica". A questo proposito l’avv. Bellini ha chiesto anche che vengano ascoltati il direttore del carcere, il comandante della Polizia penitenziaria di Caltanissetta e lo stesso direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il sostituto procuratore Elena Caruso, titolare del fascicolo, nella richiesta di archiviazione scrive: "Nessuna condotta censurabile a carico dei singoli operatori sanitari della struttura carceraria di Caltanissetta viene individuata con specifico riferimento alle misure adottate nelle ore immediatamente precedenti il suicidio e, segnatamente, la sospensione della sorveglianza a vista con la permanenza della grande sorveglianza di custodia e sanitaria. In tal caso vale la pena di ribadire le conclusioni dei periti sulla base di quanto affermato dagli operatori sanitari, che avevano osservato una sorta di pentimento del Di Blasi e quindi di conseguenza un possibile ritorno a condizioni di maggiore stabilità psichica del paziente". La Procura rileva anche che: "Il 23 dicembre 2011 l’Ufficio dei detenuti e del trattamento del provveditorato della Sicilia del Dap chiedeva chiarimenti circa la misura richiesta e in attesa, il 27 dicembre successivo, Di Blasi si suicida". Ora la parola passa al gip. Catanzaro: il detenuto Alessio Ricco; non voglio restare tutta la vita sulla sedia a rotelle Ristretti Orizzonti, 17 gennaio 2014 "Non voglio restare tutta la vita sulla sedia a rotelle." Comincia così l’appello di un detenuto cetrarese, gravemente ammalato, ristretto da circa 2 anni in regime di media sicurezza nella Casa Circondariale di Catanzaro Siano. Si tratta del ventinovenne Alessio Ricco, imputato nell’Operazione "Overloading" e condannato in Appello alla pena di 8 anni e 8 mesi per traffico di sostanze stupefacenti. All’uomo, da alcuni mesi, è stata diagnosticata una artrite reumatoide, una malattia autoimmune altamente invalidante che progredisce velocemente e distrugge le articolazioni causando lesioni che comportano deformità e blocchi articolari irreversibili. Le sue condizioni di salute, nelle ultime settimane, sono degenerate rapidamente fino ad arrivare a deambulare con l’ausilio delle stampelle. Tra qualche giorno gli dovrà essere fornita dall’Amministrazione Penitenziaria la sedia a rotelle a causa della deformazione dei piedi che non gli consente più di calzare nemmeno le scarpe. Il giovane detenuto, sposato e padre di una bambina, è già portatore di menomazioni all’apparato scheletrico ed in particolare modo ai piedi, alle mani ed ai gomiti. Secondo i più autorevoli esperti della Società Italiana di Reumatologia (Sir), per limitare i danni, è necessario rivolgere attenzione a questa patologia diagnosticandola il prima possibile ai fini di rallentarne il processo auto-distruttivo con cure efficaci, riabilitazione e interventi chirurgici correttivi altrimenti si rischia concretamente di compromettere la qualità della vita di chi ne soffre. Per questi motivi, nei giorni scorsi, si è attivata la moglie di Ricco, Francesca Scornaienchi, con una lunga lettera indirizzata al Direttore del Carcere Angela Paravati per informarla delle gravi condizioni di salute di suo marito e della mancata predisposizione di una adeguata terapia farmacologica, idonea ad arrestare l’evoluzione della malattia. Tale lettera è stata inoltrata con una nota di Emilio Quintieri, esponente del Partito Radicale, al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, alla Direzione Generale dei Detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed all’Ufficio di Sorveglianza di Catanzaro. "Alessio Ricco da tempo non riesce più a compiere autonomamente le più elementari funzioni della vita quotidiana. E’ con le stampelle e sta malissimo. La mattina lo devono persino alzare dal letto ed accompagnarlo al bagno. Non riesce più a mettersi nemmeno le scarpe perché gli si sono gonfiati e deformati i piedi." afferma il radicale Quintieri nella nota inviata al Guardasigilli. "La malattia ha già pesantemente colpito le sue articolazioni danneggiandone la funzionalità. Ma c’è di più : Alessio è costretto a vivere in una struttura fatiscente, molto umida e priva di riscaldamento, a farsi la doccia con l’acqua fredda, senza svolgere nessuna attività fisica, restando sdraiato per tutta la giornata sul letto in una cella di pochi metri quadrati in compagnia di topi e blatte. Gli somministrano solo del cortisone ed occasionalmente degli antinfiammatori. Questi medicinali servono solo ad attutire i dolori ma non sono sufficienti ai fini terapeutici. A mio modesto parere Signor Ministro non ci sono dubbi che il mantenimento del detenuto in queste condizioni comporti un peggioramento del suo stato di salute e costituisca quindi un trattamento inumano, crudele e degradante proibito dal diritto interno e sovranazionale." A tal proposito Quintieri ha evidenziato che, proprio in un analogo caso, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, qualche anno fa, condannò la Russia per violazione dell’Art. 3 della Convenzione Europea per non aver fornito ad un detenuto che soffriva di artrite reumatoide il trattamento medico adeguato lasciandolo in una cella fredda e umida. In altri casi, i Giudici Europei hanno condannato l’Italia per l’inadeguatezza delle cure apprestate ai detenuti che non deve essere quello "delle migliori cliniche civili" bensì quello della "compatibilità con la dignità umana". Sugli Stati membri, sentenzia la Cedu, incombe l’obbligo di assicurare cure mediche ai detenuti in cattive condizioni di salute, obbligo che si specifica a sua volta : nel dovere di verificare se la persona è in condizioni di salute tali da poter essere sottoposta a detenzione; nel dovere di fornire al detenuto l’assistenza medica necessitata e nel dovere di adattare le condizioni della detenzione allo stato di salute della persona. L’esponente radicale ha evidenziato al Ministero della Giustizia che il detenuto Ricco, tramite i suoi difensori di fiducia, qualche giorno fa, ha chiesto all’Autorità Giudiziaria competente (Corte di Appello di Catanzaro) la concessione degli arresti domiciliari ed in subordine il trasferimento in un Centro Clinico Penitenziario che sia attrezzato per affrontare la patologia di cui è affetto. La Cassazione, a più riprese, ha stabilito che "il diritto alla salute va tutelato anche al di sopra delle esigenze di sicurezza sicché, in presenza di gravi patologie, si impone la sottoposizione al regime degli arresti domiciliari o comunque il ricovero in idonee strutture." Emilio Quintieri, in conclusione alla sua nota alla Cancellieri scrive "Onorevole Ministro le chiedo di intervenire con la massima sollecitudine, per quanto di sua competenza, verificando se la malattia di cui è affetto il Ricco sia curabile nella Casa Circondariale di Catanzaro oppure, lo stesso, debba essere trasferito in altro idoneo Istituto Penitenziario o in altro luogo esterno di cura oppure sottoposto al regime degli arresti domiciliari." Ora si attende il responso della Corte di Appello di Catanzaro. Genova: allarme Tbc nel carcere di Marassi, pericolo di contagio per agenti e detenuti www.genova24.it, 17 gennaio 2014 Un uomo italiano, detenuto nel carcere Marassi di Genova, è stato isolato questa mattina. I seri sintomi sono da Tubercolosi Polmonare e quindi i medici hanno ritenuto isolarlo con urgenza. Al momento il detenuto risulta isolato e curato presso il reparto Sesta Sezione Primo Piano, perché si teme il contagio e soprattutto che la malattia possa diffondersi all’interno dell’istituto. Modena: Cie, Baruffi (Pd); interrogherò il ministro su proposta di Carcere-Città www.bologna2000.com, 17 gennaio 2014 L’idea di trasformare il Cie di Modena in una struttura di lavoro al servizio del Sant’Anna verrà approfondita con il Governo: il parlamentare modenese del Pd Davide Baruffi, che da tempo segue le vicende interne del Centro, ha deciso di interrogare il ministro competente per verificare la reale disponibilità a dare corso alla proposta avanza dal gruppo Carcere-città e avvallata dal sindaco Pighi. "Condivido la proposta avanzata dal gruppo Carcere-città, che nei giorni scorsi mi ha scritto per sostenere un progetto di trasformazione del Cie di Modena in struttura di lavoro al servizio del carcere e dei detenuti del Sant’Anna. A mio parere si tratta di una proposta seria, giustamente rilanciata dal sindaco Pighi e in linea con le indicazioni della garante dei detenuti Desi Bruno: per questa ragione non solo esprimo la mia condivisione, ma mi impegno ad approfondirla con i soggetti interessati, a verificarne la fattibilità col Governo e a sostenerne le ragioni in Parlamento. Annuncio fin d’ora che interrogherò il Ministro competente circa questa possibilità. Il Cie ha esaurito la sua funzione, dimostrandosi uno strumento tanto inefficace quanto ingiusto. Per di più inutilmente costoso. E’ necessario e urgente un cambiamento normativo importante in materia di immigrazione, ingresso ed espulsione, cui deve corrispondere una trasformazione degli strumenti e delle strutture dedicate. L’idea che il vecchio Cie, anche per la contiguità al carcere, possa rigenerarsi in un luogo di formazione, lavoro e riscatto sociale a me pare pienamente condivisibile. Nella giornata di ieri ho sottoscritto una proposta di legge - primo firmatario il collega Ernesto Preziosi - che modifica il nostro ordinamento carcerario per affermare in modo chiaro e inequivocabile come Lavoro e Formazione professionale debbono essere il fondamento del trattamento penitenziario. Non più dunque un’opportunità, subordinata alla reale possibilità delle strutture e dei servizi di implementare spazi e attività a questo scopo: per questa strada, soprattutto nell’attuale, drammatica, condizione di sovraffollamento carcerario e inadeguatezza di strutture e servizi, il lavoro e la formazione per i detenuti sono divenuti un elemento residuale, un lusso per pochissimi potremmo dire. Io credo invece che lavoro e formazione siano la strada prioritaria per il recupero sociale del detenuto e il suo reale e proficuo reinserimento nella vita sociale, in ossequio al dettato costituzionale. Per questa ragione anche la pena e la sua applicazione deve essere concretamente adeguata a questa prioritaria esigenza, favorendo il lavoro dentro e fuori i penitenziari. E le imprese che assumono detenuti ed ex detenuti, o che affidano a progetti che li coinvolgono commesse, debbono trovare un più adeguato riconoscimento ed incentivo sia sotto il profilo fiscale che quello contributivo. Se il nostro obiettivo è quello di creare sicurezza e coesione sociale, allora non ci possono essere esitazioni: pena e carcere debbono necessariamente contemplare al primo posto il reinserimento sociale attraverso il lavoro e la formazione necessaria per svolgerlo". Milano: domani sit-in Lega contro decreto-carceri, Salvini davanti San Vittore Ansa, 17 gennaio 2014 "Al motto di#criminalingalera e#bastaclandestini la Lega Nord sabato prossimo, 18 gennaio, alle ore 11 sarà davanti a quaranta carceri del Nord per protestare contro i folli provvedimenti del governo cosiddetti svuotacarceri e salvadelinquenti. Coinvolti nell’iniziativa i parlamentari e amministratori leghisti che distribuiranno materiale informativo e spiegheranno ai cittadini ‘gli effetti devastanti sulla sicurezza degli svuotacarceri e dell’abolizione del reato di clandestinità": così Nicola Molteni, capogruppo della Lega Nord in commissione giustizia della Camera. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini - fa sapere - sarà dalle ore 11 di fronte al carcere di san Vittore a Milano. "La battaglia durissima ed efficace fatta al Senato dalla Lega Nord contro lo svuotacarceri e l’abolizione del reato di clandestinità - prosegue - la portiamo, chiusi i palazzi romani, questo fine settimana, nelle piazze della Padania, al fianco dei cittadini onesti. La grande risposta che stiamo ottenendo e l’alto numero di adesioni ai nostri presidi è la migliore conferma che quella che abbiamo intrapresa è la strada giusta. Siamo orgogliosi di essere l’unica forza politica che lotta per la sicurezza dei cittadini nelle istituzioni e nelle piazze". Opera: protesta davanti al carcere per dire no allo svuota-carceri Al motto di criminali in galera e basta clandestini i militanti della Lega Nord, gli amministratori della provincia di Milano ed i cittadini, stanchi di subire le scelte scellerate di uno Stato incapace di governare il Paese, sabato prossimo 18 gennaio, dalle ore 10 saranno davanti al carcere di Opera ed altre decine di penitenziari del Nord per protestare contro i folli provvedimenti del governo cosiddetti svuota carceri e salva delinquenti. Coinvolti nell’iniziativa i parlamentari e amministratori leghisti che distribuiranno materiale informativo e spiegheranno ai cittadini gli effetti devastanti sulla sicurezza degli svuota carceri e dell’abolizione del reato di clandestinità. "Un Ministro per l’integrazione ed un Governo - dice il Sindaco di Opera Ettore Fusco - che hanno come unica priorità quella di liberare delinquenti e favorire l’immigrazione. Per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, nonostante a Opera la nostra Giunta abbia autorizzato l’edificazione di un nuovo padiglione all’interno dell’attuale perimetro che aumenterà la capienza di 400 detenuti, si è pensato di non fare andare più in cella i condannati per stalking, furto, prostituzione minorile e frode fiscale". Il Sindaco Fusco, in prima linea nella protesta dinanzi al Carcere della sua Città, rincara la dose quando si parla di abolizione del reato di clandestinità e politiche sull’immigrazione. "La Prefettura ci ha appena informato dei massicci sbarchi di cittadini stranieri che nel 2013 sono più che triplicati, rispetto al precedente anno, raggiungendo 43 mila arrivi - spiega allarmato il Sindaco di Opera - ed in particolare che sarà necessario reperire ulteriori strutture di accoglienza nell’attesa che siano predisposti nuovi progetti di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che consentiranno l’ampliamento della capacità ricettiva con una disponibilità di oltre 21 mila posti di accoglienza. Noi non ci stiamo - conclude Fusco - prima di tutto perché la casa l’aspettano anche milioni di italiani che hanno perso il lavoro e poi perché un’altra Pieve Emanuele, con quasi 500 clandestini in un residence, non vogliamo più averla dietro casa. A nessuno di questi è stato peraltro riconosciuto lo status di rifugiato politico e adesso, dopo essere costati ciascuno 56 euro al giorno per oltre un anno, sono tutti in giro per l’Italia a campare di espedienti, a spese nostre e della sicurezza delle città". Reggio Emilia: detenuto da testata ad un agente, doveva uscire per andare a lavorare Ansa, 17 gennaio 2014 Nuova aggressione in carcere ad un Poliziotto penitenziario da parte di un detenuto. "Questa mattina un detenuto di origine tunisina ristretto nel carcere di Reggio Emilia, ha aggredito un agente della Polizia Penitenziaria. L’agente si era recato nella stanza per invitare il detenuto a recarsi al lavoro, considerato che si tratta di un lavorante. L’uomo, infastidito perché stava dormendo, ha prima iniziato ad inveire contro l’agente e poi lo ha colpito con una testata al setto nasale ed un pugno all’orecchio, provocandogli una ferita al lobo e la probabile frattura del setto nasale: sono in corso gli accertamenti presso l’ospedale". Lo rendono noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe - il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria - e Francesco Campobasso, segretario regionale. "L’uomo - spiegano - è detenuto per spaccio e rapina e dovrebbe terminare la pena ad ottobre 2014, pena che, a questo punto, speriamo venga opportunamente prolungata da un’adeguata e severa condanna, oltre al procedimento disciplinare ed alla chiusura dall’attività lavorativa, un privilegio nelle attuali carceri italiane che sicuramente non merita, così come, insieme a tanti altri, non merita di stare nel regime aperto, a custodia attenuata, dove, bisogna evidenziare, a causa della carenza di personale, viene impiegato un solo agente. A Reggio Emilia sono presenti 230 detenuti, dei quali 127 definitivi, 57 imputati, 32 appellanti, 9 ricorrenti e 5 donne. Gli internati presenti nell’ospedale psichiatrico giudiziario sono 167". Salerno: "Sos Corte di giustizia europea", attivato lo sportello per i detenuti La Città di Salerno, 17 gennaio 2014 Uno sportello "Sos Corte di giustizia europea", per dare consulenza legale gratuita ai familiari dei detenuti che ritengono di aver subìto una ingiusta detenzione o trattamenti inumani e degradanti. È stato attivato presso il gruppo Socialista al Comune e sarà attivo ogni giovedì, dalle 10 alle 13. L’iniziativa è stata presentata dal segretario dei radicali salernitani Donato Salzano, dal consigliere regionale Dario Barbirotti, dalla segretaria e dal presidente del circolo "Fiore" di "Nessuno tocchi Caino", Fiorinda Mirabile e Loredana De Simone. "Padrone di casa", il consigliere comunale socialista Marco Petillo. Salzano ha pure comunicato l’inizio dello sciopero della fame, suo e di Carmela Rosciano, la figlia di Angelo, l’uomo di Sala Consilina in carcere a Poggioreale, sebbene privo di una gamba, quasi cieco e con un quadro clinico preoccupante. "Nonostante l’invito del presidente Napolitano - ha evidenziato Salzano - il Parlamento non ha mai messo all’ordine del giorno la richiesta di amnistia e indulto, a dispetto della condanna della Corte di Strasburgo che ci obbliga a rientrare nella legalità entro e non oltre il 28 maggio". Proprio a partire da questa data, nel caso in cui non fossero rispettate le prescrizioni della Corte europea, relative alla violazione degli articoli 3 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, potrebbero partire i ricorsi "per risarcire - ha precisato Salzano - tutti i detenuti". Dossier di attuali o ex carcerati, che si sentono violati nei diritti civili, ne sono già arrivati a decine, anche sulla mail francofiore.nessunotocchicaiono@yahoo.it. "Oltre che sportello legale - ha spiegato Mirabile - la nostra iniziativa mira ad essere anche uno sportello di accoglienza". Ad ospitare lo sportello sarà la sede dei socialisti a Palazzo di Città. "Siamo sempre stati aperti alla battaglie radicali - ha ricordato Petillo - e come delegato comunale allo sport sto preparando, assieme al Coni, un protocollo d’intesa con il carcere di Eboli, per fare lavorare, in palestre comunali, i detenuti in regime di libertà". Anche per consulenza legale, darà una mano l’avvocato Barbirotti: "È un onore dare un contributo nelle battaglie di civiltà e di rispetto dei diritti umani". Gaetano de Stefano Milano: il carcere di San Vittore, incivile e intoccabile di Luca Fazzo Il Giornale, 17 gennaio 2014 Ai tempi di Mani Pulite, quando i politici venivano arrestati finivano a San Vittore insieme ai detenuti comuni: così si rendevano conto di persona della qualità della vita nel carcere di piazza Filangieri. Adesso di politici in prigione ne finiscono assai pochi, e spesso ottengono destinazioni relativamente più confortevoli, come Opera e Bollate. Inevitabile così che la barbarie di San Vittore - perché di barbarie, oggettivamente, si tratta - non sia percepita dalla classe politica. Tante belle parole sulla rieducazione dei condannati, ma poi dell’unica misura concretamente efficace, la chiusura di San Vittore, non si parla più. Anzi, adesso dal massimo responsabile dell’Urbanistica cittadina, il vicesindaco Lucia De Cesaris, arriva l’annuncio a chiare lettere: "Il carcere di San Vittore deve essere al centro della città". Cioè esattamente dove si trova adesso, perché faccia da monito ai milanesi su cosa succede a comportarsi male: "è un luogo che dà a tutti noi il senso che questo Stato ha regole e sanzioni", dice la De Cesaris ieri nel corso di un convegno presso il consiglio di zona 1. È la linea, un po’ ideologica e non del tutto inedita, di San Vittore come luogo-simbolo la cui rimozione fisica dal centro cittadino equivarrebbe a una rimozione culturale. Il vicesindaco ammette che le condizioni di detenzione dentro la "casanza" di viale Filangieri non siano ideali, e per questo insiste sulla necessità di stanziamenti pubblici per la sua ristrutturazione, "dobbiamo fare in modo - dice - che lo Stato metta tra le priorità l’esigenza di fare un investimento forte per il carcere di San Vittore". Ma non spiega quando e come San Vittore potrebbe cambiare volto. È vero che nel piano carceri del governo è stata inserita la ristrutturazione dei due raggi del carcere, il secondo e il quarto, chiusi da anni perché ormai inagibili. Ma in particolare per il secondo, che presenta cedimenti strutturali ed allagamenti delle fondamenta, è impossibile prevedere quanto si debba spendere per tornare a renderlo agibile. Così intanto i millecento chiusi in gabbia a San Vittore resteranno a San Vittore, impilati l’uno sull’altro, chiusi in cella venti ore al giorno, per ricordare ai milanesi che "questo Stato ha regole e sanzioni". Certo, la De Cesaris aggiunge che "un detenuto è un cittadino come un altro, anche lui ha diritto al lavoro e diritto di essere reimmesso nella società". Ma non dice che il diritto al lavoro per il 95 per cento degli ospiti di San Vittore è impraticabile, a differenza di quello che avviene a Bollate e che sarebbe avvenuto se San Vittore - a costi non molto più alti di quel che costerà ristrutturarlo - fosse stato spostato fuori dal centro. Trieste: inaugurata la mostra conclusiva del progetto "Filatelia nelle carceri" Il Piccolo, 17 gennaio 2014 Si inaugura oggi alle 10, allo Spazio Filatelia di via Galatti 7/d, la mostra conclusiva del progetto "Filatelia nelle carceri" promosso da Poste Italiane. Si tratta della seconda iniziativa di questo genere in Italia dopo quella pilota effettuata nel carcere milanese di Bollate. Nell’intento degli organizzatori, la promozione all’interno delle carceri, in questo caso del Coroneo, dello studio della storia dei francobolli e l’avviamento dei partecipanti alla realizzazione di una propria collezione filatelica a tema. Nel carcere triestino sono stati una decina gli ospiti che hanno aderito alla proposta e hanno dato vita al "Circolo Filatelico 26" che ha preso il nome dall’indirizzo del Coroneo. Dallo scorso luglio sono stati aiutati a apprendere la materia da Igor Tuta, vicepresidente del circolo filatelico opicinese Lavrenc Kosir, dalla direttrice dello Spazio Filatelia Daniela Catone, e dalla volontaria Carola Duranti, in un percorso didattico che ha previsto due lezioni mensili della durata di due ore ciascuna. Il risultato dello sforzo e dell’impegno dei corsisti verrà esposto negli spazi del negozio filatelico di via Galatti. Si tratta di otto collezioni complete assemblate da altrettanti carcerati che hanno optato per questa opportunità di lavoro e riabilitazione. I temi sono i seguenti: "Moto", "Natura e fiori", "Pesci", "Romania", "Animali", "Città e paesi d’Italia", "Fantasia animata di Disney" e infine "Scoutismo". Per realizzarle, gli ospiti della casa circondariale hanno potuto giovarsi di materiali donati da circoli filatelici e da collezionisti privati. L’inedita rassegna sarà visitabile sino a venerdì 31 gennaio. Per informazioni, il telefono è lo 040-676430. Milano: intervista al musicista Franco Mussida; la mia missione e il carcere di Andrea Pedrinelli Avvenire, 17 gennaio 2014 Una mostra di sculture con "stazioni d’ascolto" che i critici d’arte hanno valutato con favore; un libro (La musica ignorata, edizioni Skira) dalla profondità, su senso ed etica della musica, sconosciuta ai consueti volumi di artisti. E ora addirittura un progetto di tre anni nelle carceri, voluto dalla Siae e patrocinato da Ministero di Grazia e Giustizia e Presidenza della Repubblica. Per la precisione, il progetto CO2 coinvolge musicisti, educatori e psicologi per dimostrare che la musica può ridare equilibrio e portare a una socialità di valori condivisi; e sperando di lasciare al Ministero un nuovo modo pratico per aiutare chi ha sbagliato, si parte da un test su 40 detenuti nelle carceri di Opera, Monza, Secondigliano e Rebibbia (sezione femminile). Avrete comunque capito che l’indirizzo cui cercare Franco Mussida, ormai, non è più il rock. Già da molti anni più attivo nel CPM, la scuola che ha fondato a Milano, che non come membro della Pfm, ora Mussida svolta in toto. "Ritengo di avere un compito dell’essere artista e uomo e lo voglio svolgere senza limiti. Chi fa musica pare sempre più svuotato mentre lei agisce per riempire, arricchire, avvicinare la gente". Mussida, cosa c’entra il rock con sculture, libri e il progetto per "controllare l’odio" nelle carceri? "Il punto è che i miei studi di 35 anni mi hanno portato a occuparmi di una musica che definisco ignorata. E che però supera generi e forme, ed è capace di aprire la coscienza e spingere verso un Oltre. Oggi però il musicista, che può orientare l’umore, di solito usa la musica prevalentemente per il piacere di farla; e l’ascoltatore la vive sempre più come sottofondo. Non si ha tempo per elaborarla o specchiarsi emotivamente in essa. È allora necessario andare oltre il mercato, ed impegnare la musica in azioni concrete: unico modo perché la musica promuovano una nuova ecologia dei sentimenti". Detto in parole più semplici, cosa significa? "Significa non limitare l’arte di far musica, specie quella popolare, all’aspetto ludico o competitivo. Portarla oltre l’arena dei talent o il puro intrattenimento. Però sono argomentazioni difficili da comprendere, per chi si occupa solo di vendere dischi. Quindi mi sono affidato a sculture e ad un libro: mi sono reinventato artista visivo. E l’ho fatto per ribadire i concetti di cui sopra in modo più preciso, senza peraltro rinunciare a fare musica in modo più tradizionale, come nel recente disco per sola chitarra Il lavoro del musicista immaginativo. La gioia è stata veder riconosciuto l’azzardo di cambiare pelle, per restare musicista davvero". Quindi anche dentro il progetto "CO2", che prende il titolo da un elemento per respirare ma significa anche "controllare l’odio". In carcere… "Già. Per anni ho sperimentato musica su persone con problemi di dipendenze. Ora la porgeremo a persone senza dipendenze per aiutarli ad aprirsi, a percepire i loro migliori sentimenti. A febbraio l’inizio dei corsi per educatori, a marzo installeremo le stazioni d’ascolto in carcere, poi partirà la sperimentazione. Tramite l’ascolto della musica proveremo a promuovere più tolleranza nei soggetti interessati". La musica è sempre qualità? "No, però molta lo diventa, se elaborata attraverso un ascolto consapevole, senza farsi prendere dall’uso bulimico dei sentimenti. Evitiamo preconcetti: la malinconia del metallaro che ascolta una ballad dei Metallica non è diversa da quella di chi ascolta un notturno di Chopin; è evocata da identici intervalli che stanno nella musica di tutti i generi. Ora però conta rieducare l’ascolto, poi si vedrà: partiamo dunque con brani strumentali, senza che i testi assorbano attenzione. Ciò che preme adesso è dimostrare che la musica è specchio emozionale, porta a capire noi stessi e di conseguenza gli altri". Ma nel mercato d’oggi, manca ai musicisti o al pubblico la percezione di tale potenzialità? "Più ai musicisti. Gli adolescenti ce l’hanno. Anche i deejay: anche se usano la forza della musica partendo dalla componente ritmica". Si può parlare di una sua svolta etica, Mussida? "Dica pure spirituale. L’obiettivo è far riflettere sulla musica come ponte verso il sacro che c’è dentro e intorno a noi. Sul mondo del suono come elemento di vita: che dunque non va sperperato. Con la musica oggi si fa come con l’acqua, la si usa e poi la si getta. Eppure serve per vivere da uomini fra gli uomini". Rossano (CS): recita musicale dei detenuti di Ciminata Greco rinviata al 27 gennaio www.strill.it, 17 gennaio 2014 Fatto in carcere, i manufatti lignei realizzati dai detenuti di Rossano premieranno il talento degli artisti di Casa Sanremo. Rinviata a lunedì 27 la recita nel carcere di contrada Ciminata Greco. I detenuti si esibiranno in un saggio musicale di teatro, chitarra, organetto e fisarmonica. A darne notizia è Giuseppe Greco, direttore dell’Istituto musicale "Donizetti" di Crosia che nello scorso mese di ottobre ha avviato, all’interno della struttura diretta dal Dott. Giuseppe Carrà, il progetto Note Di Libertà, il percorso educativo musicale rivolto ai detenuti. Giuseppe Greco, responsabile della Gg Eventi, unica concessionaria in Calabria per l’evento Casa Sanremo, il dietro le quinte ospitale della kermesse canora, porta nuovamente nella Città dei fiori, insieme agli imprenditori del food e delle eccellenze enogastronomiche del territorio anche l’artigianato realizzato dai detenuti di Rossano. Una chitarra in legno, è il manufatto consegnato l’anno scorso con il contributo dell’azienda Pirri che opera all’interno del carcere, al cantante pugliese Albano ed il direttore di Radio Italia Mario Volanti. Legalità, recupero, riscatto, rieducazione ed integrazione, promozione e valorizzazione dell’arte e del talento. Sono, questi - dichiara Greco - gli obiettivi del progetto sociale portato all’interno della struttura penitenziaria. Grazie al presidente del consorzio Vincenzo Russolillo del Gruppo Eventi, organizzatore e ideatore di Casa Sanremo, sempre attento alla Calabria, l’opera dei detenuti tornerà al Palafiori per portare un messaggio sociale oltre che artistico. L’arte come riscatto. Note di libertà. Lunedì 27, presso il carcere di Rossano, dalle ore 10 alle ore 11, insieme ai musicisti del Donizetti si esibiranno i detenuti di media sicurezza allievi, oltre che di Giuseppe Greco, di Rosario Lullo per l’organetto e la fisarmonica e di Carlo Rosati per la chitarra e Angela Greco per l’aspetto psicopedagogico. Seguiranno le performance dei detenuti di alta sicurezza autori e allo stesso tempo interpreti di un’esibizione teatrale. Padova: consegnati dal Rettore i libretti universitari ai 16 studenti-detenuti matricole Ansa, 17 gennaio 2014 Consegnati alle 16 matricole che si trovano al Due Palazzi. Il rettore dell’Ateneo di Padova, Giuseppe Zaccaria, ha consegnato oggi con una cerimonia al Due Palazzi i libretti universitari ai 16 studenti-detenuti matricole del nuovo anno accademico. Si tratta di iscritti ai corsi di laurea triennali, magistrali o a corsi singoli. Attualmente gli iscritti all’Università in convenzione sono 48, e risiedono al Due Palazzi, mentre altri 9 studenti stanno scontando la loro pena all’esterno della casa di reclusione, seguiti dai tutor dell’ateneo. Germania: i direttori delle carceri hanno un problema, le loro celle si svuotano sempre di più di Stefano Vastano L’Espresso, 17 gennaio 2014 Lo scorso marzo c’erano 3 mila detenuti in tutta la Renania-Palatinato. Appena 1.500 ad Amburgo, 544 a Brema e 797 nella Saarland. In tutta la Germania nel 2013 i detenuti erano 57.600 (54 mila uomini e 3.300 donne), contro i 64 mila del 2007 o i 79 mila del 2003. Dato il calo sistematico dei prigionieri, i 16 Länder federali stanno smantellando le prigioni (solo in Bassa Sassonia se ne stanno chiudendo tre). Oppure si trasformano le strutture. Nella cittadina di Stendal, nella Sassonia-Anhalt, l’ex-carcere di 3.500 metri quadrati sta diventando, dopo investimenti per 2 milioni di euro, una palazzina di 28 appartamenti tra i 40 e i 90 metri quadrati. In quello che era il vecchio carcere di Offenburg, nella regione di Stoccarda, sta sorgendo, per 5 milioni, un albergo con 50 stanze. Quando nel 2015 aprirà i battenti, "le stanze dell’hotel", giura l’architetto Jürgen Grossmann, "avranno il fascino e le dimensioni delle vecchie celle". Anche durante l’ultimo "Documenta" del 2012, il festival dell’arte a Kassel, le 90 celle dell’ex carcere s’erano trasformate per i 100 giorni della manifestazione in hotel (con 10 mila presenze in tre mesi). E oggi il vecchio carcere in mattoni rossi di Kassel è uno dei luoghi più gettonati per eventi sportivi e culturali della cittadina. Gran Bretagna: ricerca psicologia, detenuto si ritiene superiore a chi sta fuori Agi, 17 gennaio 2014 Uno studio della University of Southampton ha mostrato che molti carcerati credono di avere più spiccate caratteristiche comportamentali pro-sociali, come gentilezza, moralità, autocontrollo e generosità, rispetto alle persone che non sono in prigione. Gli scienziati, come si legge sul British Journal of Social Psychology, hanno poi rilevato che i detenuti non si valutano più rispettosi della legge rispetto a quelli che non sono in prigione, ma sullo stesso livello degli altri. Gli scienziati hanno coinvolto nella ricerca 79 detenuti appartenenti a un carcere nel sud dell’Inghilterra, che sono stati sottoposti a un questionario di valutazione di se stessi nei confronti degli altri prigionieri e del cittadino medio. Ogni detenuto ha valutato se stesso superiore, sui tratti generosità, gentilezza, fiducia, onestà, affidabilità, etc., al prigioniero medio. Inoltre, si ritenevano superiori al cittadino medio su tutto, tranne sul tratto del rispetto della legge, nei confronti del quale si ritenevano pari agli altri. Tunisia: amnistia per 689 detenuti, ma non a rapper e blogger Ansa, 17 gennaio 2014 Amnistia per 689 detenuti comuni per commemorare il terzo anniversario della rivoluzione tunisina: la ha annunciata oggi il presidente tunisino Moncef Marzouki, rispettando quella che è divenuta una tradizione annuale a partire dal 2011. Secondo quanto scrive Tunisia Live, tuttavia, nessun perdono è stato concesso a numerosi altri prigionieri anche "politici" tra i quali il rapper Ahmed Laabidi e il blogger Jabeur Mejri. Il primo, noto con il nome d’arte di Kafon, era stato arrestato nel giugno di quest’anno per aver fumato marijuana e condannato ad un anno di carcere più una multa di 600 dollari. Mejri aveva ricevuto una condanna più dura: sette anni e mezzo nel marzo scorso per aver postato online disegni raffiguranti il profeta Maometto. L’avvocato di Mejri, Ahmed Mselmi, ha ricordato che il suo cliente ha già avanzato due richieste di amnistia, che solo l’attuale presidente può concedere. Marzouki ha promesso di fare qualcosa per Majri, ma "quando sarà il giusto momento politico". L’avvocato del cantante Laabidi, Ghazi Mrabet, secondo quanto scrive Tunisia Live, ha detto che il suo cliente non ha mai avuto un vero e proprio processo: "Ho dovuto letteralmente scavare negli archivi per trovare il suo incartamento", ha spiegato, aggiungendo che ancora non è prevista una data per il processo, senza il quale non può scattare alcun provvedimento di amnistia. Cina: Unione europea "preoccupata" per l’arresto di Ilham Tohti, intellettuale uighuro Ansa, 17 gennaio 2014 L’Unione Europea è "preoccupata" per la sorte di Ilham Tohti, l’intellettuale uighuro arrestato nei giorni scorsi dalla polizia cinese. Lo ha detto oggi a Pechino l’Ambasciatore dell’Ue in Cina, Markus Ederer, nel corso della conferenza stampa di presentazione del semestre di presidenza greca dell’Ue. Ederer ha sottolineato che la situazione dei diritti umani in Cina rimane "grave" e, oltre al caso di Tohti, ha citato quelli di Xu Zhiyong, l’avvocato promotore del Nuovo Movimento dei Cittadini in attesa di processo e di Liu Xia, la moglie del premio Nobel detenuto Liu Xiaobo che da tre anni è tenuta illegalmente agli arresti domiciliari. L’Ambasciatore dell’Ue si è augurato che il caso di Tohti venga trattato "sulla base delle leggi cinesi". Secondo le dichiarazioni della moglie, Tohti é stato prelevato dalla sua abitazione di Pechino mercoledì scorso da un folto gruppo di agenti di polizia. Sono stati sequestrati documenti e computer, ha aggiunto la donna. Gli uighuri, turcofoni e musulmani, sono gli abitanti originari della provincia cinese del Xinjiang. La situazione nella regione è tesa dal 2009, quando quasi 200 persone persero la vita in scontri tra uighuri e immigrati cinesi nella capitale della regione, Urumqi.