Una storia "tristemente esemplare" Il Mattino di Padova, 13 gennaio 2014 Salvatore ci ha scritto la sua storia nello spazio del sito di Ristretti Orizzonti, che è una linea diretta con i nostri lettori, noi ora questa testimonianza vogliamo pubblicarla, e darle più spazio, perché è drammaticamente "perfetta" per far capire tutto quello che nella nostra Giustizia non funziona, dai grandi problemi come quello di un carcere sempre più "scuola di delinquenza" ai piccoli assurdi come la revoca della patente a una persona sottoposta a una misura di sorveglianza speciale. Buon giorno mi chiamo Salvo ed è la prima volta che mi metto a chattare per un qualsiasi motivo. Ora questo che significa? semplice, significa che se io sto facendo uno sforzo del genere avventurandomi in sentieri a me sconosciuti, è perché l'argomento mi interessa molto, visto che mi tocca da vicino e che lo conosco molto bene. Ora vi voglio raccontare i miei trascorsi, ero un giovane poco più che maggiorenne e anche se abitavo in uno di quei quartieri difficili di Catania, i miei genitori erano riusciti fino a quel momento a tenermi lontano da quel mondo. Andavo a scuola per conseguire un diploma superiore che mi aprisse qualche porta lavorativa in più, e la mia vita scorreva in maniera tranquilla come quella di un giovane perbene, perché era quel tipo di persone che frequentavo, e alle forze dell'ordine ero sconosciuto. Ma in un giorno tranquillo di bigia da scuola vidi passare un’auto diretta al Pronto Soccorso, in quell’auto c’era mio padre che era stato vittima di un incidente stradale. Fu in quel momento che la mia vita cambiò e io ancora neanche me ne rendevo conto. Mio padre a causa di quell'incidente rimase paralizzato dalla vita in giù e per lui cominciò un calvario lungo 21 anni. Da quel momento la mia famiglia si separò, mio padre e mia madre incominciarono ad essere trasferiti da un ospedale all'altro d'Italia nella speranza di fare riacquistare l’uso delle gambe a mio padre, e io e mio fratello rimanemmo da soli, senza soldi e senza guida, se non quella di mia nonna che poverina con i suoi 80 anni non poteva di certo mettersi a correre dietro a due adolescenti. E fu così che abbandonai la scuola ed incominciai a frequentare quel quartiere in cui per anni avevo abitato ma mai vissuto, per la verità per me rappresentava una sorta di giungla nella quale mi dovei battere per entrare a farne parte, perché in quel momento io vedevo in quella giungla la mia sola ancora di sopravvivenza e la afferrai al volo senza farla scappare. Fu così che potei per la prima volta conoscere la durezza della strada, quella stessa strada della quale io non mi ero mai accorto perché i miei genitori mi ci avevano tenuto lontano, ma ora la musica era cambiata, ero passato rapidamente da figlio di famiglia a uomo indipendente che deve provvedere ai suoi bisogni. Ora nei quartieri poveri se non ci sei vissuto non potrai mai sapere come funziona, ed è per questo che la maggior parte dei giovani che crescono in questi quartieri delinque e la stragrande maggioranza dei giovani dei quartieri bene no. È per questo forse che sarebbe meglio iniziare a fare una riforma proprio da là, perché se uno è affamato non guarda in faccia a nessuno, tantomeno alle regole di uno stato ladrone che per primo ti dà il cattivo esempio. La galera è come fare un corso d'aggiornamento, entri ladro di bici ed esci rapinatore Incominciai così a commettere i primi furti e a guadagnare i primi soldi, che poi mi portarono verso la tossicodipendenza. Inizio con un primo arresto, due giorni di carcere e via a casa, pena sospesa, dopo una settimana ero di nuovo dentro, altri quindici giorni e via rimesso in libertà, altra pena sospesa, ancora non risultava agli archivi neanche la prima pena, era passato troppo poco tempo mi disse l'avvocato, andò avanti bene o male così per un po'. E questo secondo me è un altro errore perché così non si fa altro che alimentare in un giovane poco giudizioso l’impressione che si possa fare quello che si vuole, tanto con qualche escamotage in un paio di settimane sei libero, ed invece no, bisognerebbe fargliela fare un po’ di pena ad un giovane come me di allora, ma non di galera, perché credetemi, per me che ci sono stato, le galere non servono a niente. Per i detenuti è come per un lavoratore fare un corso d'aggiornamento, entri operaio ed esci caporeparto, entri ladro di bici ed esci rapinatore, perché la parola reinserimento di cui tanti si gonfiano la bocca non esiste né dentro né fuori dal carcere, se non per pochi, e le persone che per forza di cose sono diventate lupi aspettano solo che venga aperta la gabbia per andare a caccia in attesa che si riapra di nuovo la gabbia. Ecco a cosa servono le carceri in Italia. Ed è per questo che io dico che ai giovani di primo pelo non bisognerebbe perdonarli così velocemente, ma neanche metterli insieme ai lupi e farne dei lupi anche loro, bisognerebbe privarli della libertà per un periodo breve affinché loro comprendano lo sbaglio che hanno fatto e la strada che hanno intenzione di percorrere alla fine dove li porterebbe. Fare un reinserimento serio e non come lo si fa di solito, e soprattutto all'uscita da questo periodo di punizione non lasciare precedenti sulla fedina penale, affinché questo non precluda la possibilità di fare qualsiasi attività lavorativa, compresa quella di entrare a far parte delle forze dell'ordine, perché non ci sarebbe giudice o guardia migliore di chi quelle cose le ha vissute sulla sua pelle e sa quel mondo come funziona. In quanto a me, oggi ho 38 anni e da 20 ho a che fare con la Giustizia, ho quattro figli a cui cerco di dare il meglio e tenerli lontani dai guai, proprio come fecero i miei genitori allora, però lo stato non mi aiuta, non dico economicamente ma giuridicamente, e ora vi spiego il perché. Nel 2001 ho conosciuto quella che oggi è mia moglie, nel 2002 abbiamo fatto la classica "fuitina" e siamo poi diventati genitori, ancora a quei tempi non mi era chiaro quali fossero le mie future responsabilità, e quindi fu normale per me continuare a fare la vita che avevo fatto fino a quel momento. Nel 2003 mi arrestarono, mi feci sei mesi ed uscii con l'affidamento al Ser.T, fu allora che mia moglie mi comunicò l'intenzione di lasciarmi se non avessi cambiato vita di lì a poco. E fu per questo che io, impietosito da quell'esserino piccolo e dalla disperazione di mia moglie, decisi almeno di provarci e seguii il programma del Ser.T, che diede buoni risultati grazie alla mia buona volontà, poi trovai un lavoro come camionista, ed effettivamente quello si rivelò il mestiere giusto per me, e nel giro di un anno e mezzo riuscii a farmi assumere da un'importante ditta di autotrasporti con un buonissimo stipendio. Dopo quasi 12 anni mi arriva una pena definitiva di un anno e quattro mesi Proprio quando la vita sembrava che mi stava sorridendo arrivò il fulmine a ciel sereno, che stravolse tutto quello che ero riuscito a creare con grandi sacrifici: mi avevano fissato il processo per la sorveglianza speciale, al processo il giudice, non curandosi che gli avevo dimostrato con prove certe che io lavoravo con busta paga e contratto d'assunzione a tempo indeterminato, pensò bene di darmi un anno di sorveglianza con relativa revoca della patente di guida e obbligo di dimora. Io dovetti consegnare le dimissioni dove lavoravo perché un autista senza patente non serve a niente, e restai di nuovo disoccupato, e prima di poter riconseguire tutte le patenti che avevo erano passati già tre anni, alla faccia del reinserimento sociale. Ma intanto il posto di lavoro che avevo lasciato non lo potei riottenere più perché la crisi già iniziava a farsi sentire più forte. Perché ti tolgono una patente che rappresenta un mezzo di lavoro, questo io mi chiedo, forse che per andare a rubare ci vuole la patente ed un permesso? Comunque sia, passato quel periodo riesco a riprendermi la patente e compro a furia di debiti un carro attrezzi e mi metto in proprio, e la cosa incomincia a girarmi di nuovo bene, e tutto sembra a posto fino al 2011, anno in cui mi arriva una pena definitiva di un anno e quattro mesi, residuo pena di una rapina commessa nel 2000. Dopo quasi 12 anni mi portano il conto, quando io mi sento e sono un'altra persona. All'uscita dal carcere di quello che avevo lasciato non era quasi rimasto più nulla, quindi mi ritrovo oggi con tanta buona volontà ad andare avanti ma con uno stato che mi rema contro e che vuole scaricare su gente come me tutte le sue colpe, vorrei andare via dall'Italia ma nemmeno questo mi è concesso, l'unica cosa che ti concedono è di restare in Italia a delinquere per sopravvivere. Ecco perché ci vuole l'amnistia, perché è giusto che uno paghi ma subito e non con dodici anni di ritardo, quando magari vorresti essere un'altra persona e ti sei rifatto una vita migliore, e il passato torna di nuovo a ripiombarti addosso, quando non ha più senso punirti perché quelle punizioni servono solo a distruggere ciò che di buono c'è. Ci vuole l'amnistia affinché si riparta da zero con tempi più giusti e con leggi che rieduchino e reinseriscano. Salvo B. Giustizia: amnistia e indulto… non abbiamo più solo il dovere, ma l’obbligo di intervenire di Marco Pannella e Maurizio Turco Il Tempo, 13 gennaio 2014 Prendiamo atto che oggi continua ad essere oggettivamente impedito dal Regime qualsiasi dibattito, sia sulle violazioni in corso in tema di giustizia, che di quelle che si stanno spudoratamente programmando in tema di riforma della legge elettorale. In tema di giustizia c’è anche, purtroppo, un fatto "nuovo". Oggi Alessia Morani, responsabile giustizia del Pd, quindi a nome suo e del suo partito, ha preannunciato "una riforma che, ad esempio, vuole evitare sia l’amnistia che l’indulto". Una "riforma" di cui si comprende solo che questa volta è in manifesta opposizione al Messaggio inviato dal Presidente della Repubblica alle Camere e al quale non è stato dato alcun seguito istituzionale dovuto. Tutto questo mentre la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, dopo decenni di impegni non mantenuti da parte dell’Italia, ha fissato per il prossimo maggio il termine ultimo per porre fine sia allo stato di tortura in cui vivono i detenuti che all'offesa alla natura stessa dello Stato di diritto e degli impegni internazionali sottoscritti. Tortura contro la quale, peraltro, l’Italia non ha ancora una legge. Occorre anche aggiungere il quarto di secolo di denunce da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa accompagnate dalla richiesta di porre rimedio alla "non ragionevole" durata delle procedure giudiziarie civili, penali ed amministrative che da venticinque anni, sostiene il Comitato, mettono in pericolo lo Stato di diritto in Italia. Occorre anche, non solo per amore della verità ma anche per doveroso pudore, ricordare qui l’articolo 111 della "più bella Costituzione del Mondo" - per ogni processo "La legge ne assicura la ragionevole durata" - articolo anch’esso divorato dai suoi estimatori. In tema di legge elettorale l’attuale non "dibattito" pubblico conferma clamorosamente di fatto il rifiuto della Riforma alla quasi contestuale chiamata alle urne. In palese violazione di principi stabili da accordi internazionali sottoscritti dall'Italia e che prevedono che passi almeno un anno tra la riforma della legge elettorale e la sua prima applicazione, all'evidente fine di mettere l’elettore in condizione di comprenderne il meccanismo. Violazioni che sono date per scontate per le prossime elezioni nazionali, ma anche per quelle regionali, come è già accaduto in passato. Su queste informazioni, verità oggettive negate, dobbiamo ribadire come non siano in causa solamente i doveri democratici ma formali obblighi di carattere innanzi tutto costituzionale per difendere il rispetto dello Stato di diritto, della legalità, della democrazia. C’è quindi l’obbligo di lottare sin da queste ore per fermare e prevenire il compiersi di un nuovo ed ulteriore colpo allo Stato di diritto e alla giurisdizione europea - costituzionalizzata! - assicurando il tal modo la più tempestiva informazione del Presidente della Repubblica, quale massimo garante del rispetto della legalità da parte dello Stato, e con esso della Corte europea dei diritti dell’uomo e del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Tentiamo così di esigere ed ottenere che vi sia sul tema del diritto e del rispetto della legalità nazionale ed internazionale un dibattito pubblico sin qui impedito, negato. Dibattito che l’Autorità per le Garanzie nelle Telecomunicazioni attraverso due delibere ha chiesto si tenesse sul tema della giustizia e al quale avrebbero dovuto partecipare anche i radicali. Censura che il Tar del Lazio ha riconosciuto costituire una violazione dei diritti dei cittadini e dei radicali chiedendo all’Agcom di esigere che fosse sanata altrimenti l’avrebbe commissariata ad acta: ennesima decisione ed ingiunzione restata anch'essa senza nessuna, ripetiamo: nessuna, conseguenza. Giustizia: per curare la giustizia italiana c’è solo un provvedimento, amnistia di Annarita Digiorgio Notizie Radicali, 13 gennaio 2014 Il 3 gennaio ho effettuato una visita ispettiva presso il carcere di Taranto con la compagna radicale Maria Rosaria Lo Muzio e il consigliere regionale del Pd Fabiano Amati. Non è la prima volta, e non è il primo carcere. Questa volta l’urgenza era data dall’allarmante notizia di un’accesa protesta scoppiata tra i detenuti di Taranto, a seguito della quale avevo lanciato un appello pubblico sulla stampa a consiglieri e parlamentari tarantini per verificare l’accaduto. L’unico a rispondere all’appello è stato Fabiano Amati, che non è propriamente di Taranto. Nelle carceri italiane si pratica tortura. Non lo dico io dopo avere verificato le squallide condizioni in cui a Taranto sono stipati in un letto a castello peggio di polli 650 esseri umani dove potrebbero starcene 200. Lo dice la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Che ha condannato l’Italia. Perché il nostro Paese ha violato l’articolo 3. E l’articolo tre è "divieto di tortura". In Italia i detenuti vengono torturati. E non migliori sono le condizioni degli agenti penitenziari e del personale amministrativo. È non è una condanna tout court. È una sentenza pilota. La Cedu cioè, a seguito di un’iniziativa dei Radicali (su radicali.it è disponibile il modello da compilare per il ricorso), verificando che l’Italia tortura i detenuti, e condannandola al risarcimento con 100 mila euro a testa verso i 7 detenuti di quella sentenza, visti gli oltre 5 mila ricorsi per lo stesso tipo, tutti italiani, ha appurato che tutti gli altri detenuti sono in quelle condizioni, per cui ha detto all’Italia "io ti obbligo a risolvere strutturalmente il problema e interrompere il tuo reato", verso tutti i detenuti, non solo questi 7, e ti do un anno di tempo per farlo. Ovviamente l’Italia, nella figura dell’allora presidente del consiglio Monti, quello che avrebbe dovuto ridare dignità al nostro Paese agli occhi dell’Europa, ha provato a prendere tempo con un controricorso, che è stato rigettato. E cosi la Corte ha stabilito "Se tra un anno continui a infliggere tortura, io accolgo tutti i ricorsi e tu risarcisci tutti". Considerando le altre migliaia di ricorsi nel frattempo arrivati, si prevede che il 28 maggio, termine ultimo di scadenza, cioè tra 140 giorni, dato che nessuna delle attuali soluzioni adottate riesce a riportarci nell’alveo della legalità, è previsto per noi un salasso, praticamente una manovra finanziaria. Con questa multa stratosferica l’Italia inaugurerebbe il suo semestre di presidenza europeo: a guidare l’Europa l’anno prossimo sarà una nazione che pratica ed è condannata per tortura. Se dovessimo entrarci oggi con questo palma res di sicuro non ci accetterebbero. E senza considerare che i cittadini muoiono nelle mani e per opera dello Stato. Perché dove c’è strage di legalità, c’è strage di esseri umani. Ed è già umiliante che debba essere stata l’Europa a dirci di porre fine a un crimine di Stato cosi efferato, in più sembra che non ce ne preoccupiamo, che possiamo continuare a torturare i nostri simili come se nulla fosse. Alcuni provvedimenti senza dubbio sono stati presi, ma sono cucchiaini. Anche in questa visita a Taranto abbiamo riscontrato notevoli e repentini cambiamenti rispetto all’ultima visita di agosto. Fino ad allora a seguito di ogni visita abbiamo presentato interrogazioni parlamentari per chiedere l’abbattimento dei muri divisori nelle sale colloqui, l’aumento delle ore fuori dalla celle, la ristrutturazione dei padiglioni e dei cortili per l’ora d’aria. Fino ad agosto nessuno ci aveva mai risposto. Ora finalmente dopo trent’anni i muri divisori delle sale colloqui (che erano già illegali da tempo) sono stati abbattuti, i detenuti trascorrono 8 ore al giorno fuori dalla cella, e la struttura pian piano è stata ristrutturata. Questo, ci dice il comandante, è tutto merito della sentenza e del ministro Cancellieri. La quale presentando i suoi decreti ha dichiarato forte e chiaro "con le misure delineate per via ordinaria, possiamo arrivare a prevedere entro la fine del prossimo anno una significativa riduzione del gap tra ricettività delle istituzioni penitenziarie e presenze in carcere, nell’ordine del 50%". Quindi non saranno sufficienti a rientrare totalmente, per questo, ha detto, "servono misure straordinarie quali amnistia e indulto". E ha invitato il Parlamento, a cui tale decisione compete, a vararle con la certezza, visti i provvedimenti già approvati, che stavolta non cadranno nel vuoto. Ed è questa la soluzione indicata anche da Napolitano, il quale per la prima volta nella sua storia (e dopo la dura lotta di Marco Pannella che con il suo corpo e i sui digiuni da due anni gli chiedeva di intervenire con un messaggio alle Camere), ha scritto al Parlamento ricordando che è un "obbligo" rientrare nella legalità. Messaggio però che è stato sequestrato dai Presidenti delle Camere che con grande sgarbo istituzionale da oltre due mesi ancora non ne hanno calendarizzato la discussione. Mentre Renzi, il nuovo che avanza, si dichiara contrario all’amnistia perché "sennò come gliela spiego la legalità ai ragazzi". E come gliela spieghi se hai uno Stato che è condannato, illegale, e criminale. Con la tortura gliela spieghi? Un parlamento dunque che non risponde alle richieste ufficiali del Presidente della Repubblica, del Ministro di Giustizia, di un obbligo europeo e costituzionale, e alle grida disperate di 65mila cittadini torturati insieme alle loro famiglie. Né all’umanità, né alla legalità. Né alla giurisprudenza europea, ne a quella italiana. La famosa Costituzione Italiana, quella che chiamano la più bella del mondo, evidentemente non l’hanno letta. O se la sono mangiata. Perché essa sancisce chiaramente che le pene devono tendere alla rieducazione. Ma la rieducazione, fuori dalla Carta, non esiste. Non è solo una questione di sovraffollamento infatti. Anche la cedu ha detto che sotto i tre metri quadri è tortura certa, sopra bisogna verificare quanto tempo trascorrono fuori cella, come vengono trattati, e le attività che svolgono. Ma qui chi esce, esce peggio di come è entrato. A Taranto non c’è speranza. Persino il campo da calcio è diventato il terreno per la costruzione del nuovo padiglione da 200 posti del piano carceri. Un inutile e irragionevole dispendio di spesa, che a nulla servirà visto che già oggi ce ne sono 400 in più, e sicuramente ne manderanno altri. E cosi ci saranno materassi per nuovi carcerati togliendo i tiri al pallone a quelli che già ci sono. La metà dei quali è in attesa di condanna, quindi non può fare nessuna attività neppure scolastica. Basterebbe far scontare la custodia cautelare ai domiciliari per svuotare le carceri italiane, basterebbe la custodia cautelare fosse tale, una estrema ratio come previsto dal codice, e non un abuso di arresto preventivo come anticipo di pena. Non ci sono aziende per lavorare all’interno del carcere di Taranto, né cooperative, e gli unici detenuti che lavoratori lo fanno alle dipendenze dell’ amministrazione penitenziaria per piccola manutenzione interna o passaggio del vitto. E non ci sono progetti con gli enti locali per lavori esterni e quindi possibilità di richiedere misure alternative. La metà dei detenuti è tossicodipendente o afflitta da problemi psicologici. Gente che non dovrebbe stare in carcere, ma in comunità terapeutica a spese della regione. Ma le comunità non ci sono, perché la regione non investe. Infatti aldilà del Parlamento tantissimo possono fare anche gli enti locali su cui il carcere insiste. Soprattutto per la rieducazione, il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, e l’affettività. Oltre che avere esclusiva competenza sul piano sanitario. Ma non solo. Possono anche intervenire sul sovraffollamento. Un ottimo esempio negli ultimi giorni l’ha dato il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, il quale ha siglato su sua iniziativa un protocollo con il Ministro di Giustizia con cui la Regione stanzia 4 milioni di euro per comunità extra murarie nonché progetti di lavoro che permetteranno a 350 detenuti (in Toscana ce ne sono 900 oltre il numero regolamentare, in Puglia 2000) di uscire dal carcere, a patto che il Ministero si impegni a non occupare i posti così liberati con detenuti provenienti da altre regioni. Abbiamo presentato questo protocollo al consigliere regionale Fabiano Amati a seguito della nostra visita, e se ne è fatto promotore con una richiesta per audizioni ad hoc ai presidenti di Commissione. In Puglia è stato anche nominato dopo una nostra battaglia il garante regionale dei detenuti, ma questi, seppur ben stipendiato, da oltre due anni ben nulla ha fatto se non qualche convegno. La sua presenza negli 11 istituti penitenziari pugliesi è pressoché inesistente. Per questo abbiamo preso noi l’impegno insieme ad Amati di visitarli a stretto giro tutti e 11. Nell’ultima visita abbiamo poi scoperto che da qualche mese il delegato che il garante aveva su Taranto non può più svolgere questo compito a seguito di una circolare del Dap che indica solo il garante in persona possa svolgere tale compito, senza delegati. E cosi quei già scarsissimi colloqui che i detenuti potevano avere con una figura atta a tutelarli (si occupava prevalentemente di domande di trasferimento) ora non potranno più esservi. Per questo noi ufficialmente chiediamo al Sindaco di Taranto di nominare un garante dei detenuti comunale, come in tante realtà esiste, che sopperirebbe all’evanescenza di quello regionale. Una figura che sia davvero vicina ai detenuti e stimoli le istituzioni locali ad avviare progetti di reinserimento e miglioramento delle condizioni di vita di questi cittadini. Noi saremmo sempre al suo e al loro fianco continuando a lottare per i diritti di tutta la comunità penitenziaria. Le carceri in definitiva non sono che la punta finale e se vogliamo più evidente di una giustizia italiana al collasso. Per cui non è più rinviabile una riforma strutturale (da noi prospettata con i 12 punti referendari: abolizione Bossi-Fini e Fini-Giovanardi, abolizione ergastolo, responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere), nonché tutti i provvedimenti utilissimi presi dal governo. Nel contempo chiediamo ufficialmente al Consiglio Regionale Pugliese di creare un intergruppo Carceri che si impegni a studiare la situazione e le soluzioni più indicate, ai Presidenti delle Commissioni sollecitati da Amati ad effettuare quest’ indagine conoscitiva, al garante regionale di operare più e meglio rispondendo ai compiti previsti dalla sua nomina, e ai Sindaci di nominare i garanti comunali. C’è un ampio campo d’azione, oggi quasi deserto, che potrebbe invece diventare il terreno di un intervento riformista da parte degli enti locali, fondato sull’umanità, sul buon senso, e sulla sussidiarietà. Nonché sulla sicurezza, perché solo un cittadino recuperato è un cittadino sicuro. Tutte queste cose insieme sono la terapia per curare la patologia nel lungo periodo, ma prima bisogna abbassare la febbre. E la febbre la si deve abbassare qui e ora (140 giorni alla scadenza obbligatoria del 28 maggio). E la febbre si abbassa solo un provvedimento straordinario previsto dalla Costituzione. Che in un colpo solo libera carceri e tribunali, e fa rientrare immediatamente lo Stato in una condizione di legalità. Abbassare la febbre ha un nome, e si chiama amnistia. Giustizia: la condanna dell’Europa sulle carceri incombe… e i nervi saltano di Dimitri Buffa www.clandestinoweb.com, 13 gennaio 2014 Il 24 maggio del 2014 potrebbe passare alla storia del nostro paese come una data non esaltante: quella in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ci darà una punizione esemplare, pecuniaria e politica, per come abbiamo lasciato che la questione giustizia e quella delle carceri sprofondassero nella vergogna attuale. Inascoltati gli appelli di Marco Pannella e dei radicali per "un’amnistia per la repubblica", disattese le stesse proposte in materia del pur volenteroso ministro Guardasigilli Anna Maria Cancellieri (cui si è tentato di tappare la bocca con uno scandalo da tre soldi) e ignorato persino il messaggio alle camere del presidente della repubblica Giorgio Napolitano, che risale allo scorso 8 ottobre ma che né Camera né Senato hanno ancora calendarizzato all’ordine del giorno per una discussione ufficiale, resta la "dead line" del 24 maggio. In vista della quale i nervi ovviamente iniziano a saltare. E infatti ieri il sito "Dagospia" riferiva il "gossip", confermato dagli interessati e riportato in un articolo del "Fatto quotidiano", di una vera e propria lavata di capo fatta dal ministro ai vertici del Dap. "Non fate niente per i detenuti". E Dagospia scriveva pure che questi ultimi, i vertici del Dap, avevano anche pronta una lettera di dimissioni, di cui però nessuno sapeva dire se fosse già arrivata o meno sul tavolo della Cancellieri. Il tutto era condito con l’indiscrezione che la Cancellieri avrebbe accolto di buon grado l’avvicendamento di Giuseppe Tamburino, e dei suoi vice Luigi Pagano e Francesco Cascini, perchè al loro posto avrebbe voluto insediare Mauro Palma, già responsabile della Onlus "Antigone", e persona di fiducia della stessa ministra. Naturalmente oggi sui giornali e sui siti internet è arrivata la proverbiale "acqua sul fuoco" e le precisazioni di tutti. Il problema del 24 maggio però resta. E i nervi tesi pure. Da una parte la Cancellieri non ci sta a passare per quella che si trova il cerino in mano di un problema creato da altri e sedimentatosi negli anni a causa di questa pseudo ideologia securitaria e forcaiola di alcuni partiti politici (che bloccano le riforme) che vuole "tutti in galera" senza nemmeno avere le strutture per ospitare la gente, come se gli umani potessero essere ammassati tutti nelle discariche stile Malagrotta. Dall’altra il governo di Enrico Letta e il Parlamento che non si prendono la responsabilità di parlare di amnistia e indulto perchè in Italia stiamo perennemente in periodo pre elettorale e i provvedimenti di clemenza ai carcerati sono molto poco popolari nei sondaggi. Salvo alcune decisive eccezioni (sondaggio Datamedia per Il Tempo). Risultato? Il 24 maggio si appropinqua e con questa data si avvicina anche l’ennesima figuraccia istituzionale dell’Italia in materia di giustizia e dintorni. Stavolta però è difficile trovare un colpevole per acquietare le proprie coscienze. E quindi al ministero di via Arenula, e fra poco - vedrete - anche a Palazzo Chigi, cominciano a volare parole grosse e cazziatoni. Nel nostro amato Paese, purtroppo, funziona sempre così. O quasi. Dap: nessuna lettera dimissioni vertici "Non c’è nessuna ipotesi di dimissioni collettive dei vertici del Dap prospettate al ministro della Giustizia". È quanto fanno sapere fonti del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in merito ad alcune ricostruzioni di stampa secondo cui una lettera di dimissioni sarebbe già stata scritta, se non addirittura inviata al Guardasigilli. L’ipotesi di un cambiamento al vertice del Dap era stata ipotizzata dopo una riunione, avvenuta giovedì scorso, in cui il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, avrebbe strigliato i vertici dell’amministrazione penitenziaria, il capo del Dap, Giovanni Tamburino, e i suoi due vice, Luigi Pagano e Francesco Cascini. Il ministro avrebbe preteso un "cambio di passo" e un impegno più stringente in vista delle risposte che il governo deve dare all’Europa sull’emergenza del sovraffollamento delle carceri, per rispettare la scadenza, a maggio prossimo, imposta dalla Corte europea di Strasburgo. Giustizia: la Corte di Cassazione sospende il "fine pena mai" per quattro ergastolani di Riccardo Lo Verso Live Sicilia, 13 gennaio 2014 Ad usufruire del pronunciamento Giovanni Matranga, Francesco Mule, Giuseppe Dainotti e Giulio Di Carlo. E presto la stessa cosa avverrà per altri detenuti. Si scrollano di dosso quel "fine pena mai" al quale erano stati costretti dopo tre gradi di giudizio. Non più l’ergastolo, ma 30 anni ciascuno di carcere. Con la prospettiva, più o meno vicina, di lasciare le celle. Una prospettiva diventata realtà dopo il pronunciamento della Corte di Cassazione e che si basa su una questione di diritto affrontata negli ultimi periodi non solo dai supremi giudici ma anche dalla Corte europea per i diritti dell’uomo e dalla Corte Costituzionale. Non sono più ergastolani Giovanni Matranga, Francesco Mule, Giuseppe Dainotti e Giulio Di Carlo. E presto la stessa cosa avverrà per altri detenuti. Non si sa ancora quanti. Gente che in carcere ci sta da decenni. Dalla lupara bianca di Antonino Rizzuto, scomparso Palermo nel 1989, all’omicidio di un bidello di Piana degli Albanesi, Filippo Polizzi, avvenuto nello stesso anno, mentre l’uomo era in macchina: tutti gli episodi fanno parte della guerra di mafia degli anni Ottanta. Gli imputati erano stati tutti condannati con il rito abbreviato fra il 2 gennaio e il 23 novembre 2000. La prima data è quella dell’entrata in vigore della legge Carotti che aveva disposto la sostituzione dell’ergastolo con la pena di trent’anni. Il 23 novembre quella legge, però, fu superata da un decreto legislativo che all’articolo 7 sanciva il ritorno al passato. E cioè all’ergastolo. Nel 2009 la Corte europea diede ragione a un imputato italiano e la Cassazione gli ridusse la pena a trent’anni. Nei mesi scorsi, visto che sono aumentati i ricorsi davanti ai supremi giudici, la Corte costituzionale è intervenuta stabilendo, una volta e per tutte, che l’articolo 7 del decreto legislativo del 2000 è incostituzionale. Tra i primi a beneficiare dei paletti giuridici fissati dalla Consulta sono stati Dainotti, Di Carlo, Mule e Matranga. Sono stati accolti i ricorsi degli avvocati Valentina e Marco Clementi, Antonino Mormino e Vincenzo Zummo. E adesso per i quattro ex ergastolani è tempo di fare i conti per capire quando potranno lasciare il carcere. Su di loro non pesa più il "fine pena mai". Giustizia: Businarolo (M5S) a Cancellieri, nelle carceri carenza drammatica psicologi Ansa, 13 gennaio 2014 Pochi minuti di sostegno psicologico al mese per ogni detenuto. È questo ciò che offre il carcere italiano ai reclusi per la "drammatica carenza di psicologi", peraltro discriminati all’interno degli istituti di pena rispetto ai professionisti che si occupano dei detenuti tossicodipendenti. È la situazione descritta dall’on. Francesca Businarolo (deputata, M5S) in una interrogazione al ministro della Giustizia. "In carcere si soffre. Strutture inadeguate, sovraffollamento, una qualità di vita indegna di un paese civile spingono molti detenuti sull’orlo della disperazione, fino a compiere gesti estremi. Le statistiche - dice Businarolo - parlano di un tasso di suicidi che supera venti volte quello della popolazione in libertà per una casistica di 692 decessi in dodici anni (dato aggiornato a giugno 2013). Non si contano i tentati sucidi e gli atti di autolesionismo". "In questa cornice - aggiunge - appare drammatica la carenza di psicologi e psicoterapeuti operativi nei carceri italiani. Nel 2008 con un’apposita riforma, le competenze relative alla sanità penitenziaria sono state trasferite al Servizio sanitario nazionale per garantire una maggiore tutela della salute dei detenuti in un’ottica di parità dei diritti. Ad eccezione, per l’appunto, degli psicologi penitenziari, esperti in servizio di osservazione e trattamento, e dei criminologi, categorie che da anni operano in condizioni di disparità, rispetto a psicologi, psichiatri e psicoterapeuti che lavorano, sempre in carcere, seguendo i tossicodipendenti; questi ultimi convenzionati con il Servizio nazionale sanitario". "Il risultato - sottolinea la deputata - è un diverso trattamento per i detenuti (solo i tossicodipendenti, una minoranza, vengono seguiti costantemente) così come per i professionisti: gli psicologi penitenziari si trovano nella difficoltà di svolgere il loro compito istituzionale, continuamente modificato nel corso degli anni, e recentemente ridotto a pochissime ore mensili (retribuite con 17,63 euro lordi, con l’ultimo aumento, 5 anni fa, di 20 centesimi), non pienamente rispettose del diritto all’assistenza e lesive della dignità professionale". E la parlamentare porta ad esempio il caso della casa circondariale di Montorio, dove "con circa mille detenuti gli psicologi sono solamente due e le ore non superano le 300 all’anno. Ciò significa, contando tutta la popolazione carceraria 18 minuti per detenuto". O quello del carcere penale di Padova, su circa 900 detenuti, "il monte ore mensile è stato fissato a 23 ore nel 2012, aumentate nel 2013, viste le difficoltà dell’anno precedente a 46 ore". Oppure il caso di Rebibbia a Roma "dove sono previste circa 20 ore mese per circa 130 detenuti che hanno accesso a questo servizio, ma anche in questo caso il tempo è esiguo: 9 minuti al mese per ogni detenuto. Nel chiedere al ministro come intenda intervenire la parlamentare conclude:" Un paese civile si giudica anche dalle sue prigioni: le carceri italiane hanno moltissimi problemi, lasciare soli i detenuti psicologicamente più fragili non aiuta loro né la società, dal momento che il loro recupero viene reso inevitabilmente più difficile". Giustizia: nostre signore delle carceri… di Ilaria Lonigro D-Repubblica, 13 gennaio 2014 La prima donna a dirigere un penitenziario, Armida Miserere, morì suicida. Oggi il lavoro di direttore è ancora più duro. Ma le donne che lo scelgono - 86 le direttrici su 206 istituti penitenziari - sono più rivoluzionarie e coraggiose di molti colleghi uomini. Hanno a che fare con collaboratori di giustizia e mafiosi, con celle che scoppiano e con la reperibilità 24 ore su 24, 365 giorni all'anno. Devono farsi rispettare dal personale e tener fede - nonostante tutto - al mandato della rieducazione, nel Paese con le carceri più stipate d'Europa (142,5 detenuti ogni 100 posti, contro una media di 99,6). In Italia le donne dirigono 86 istituti penitenziari su 206. In molti altri sono vice direttrici o direttrici aggiunte. Quando non si irrigidiscono per farsi rispettare in un mondo maschile, riescono a fare grandi cose. Come? Mostrando coraggio, cura e sensibilità. "Se c'è una cosa a cui non mi sono mai abituata del lavoro in carcere, è la contraddizione tra l'obiettivo istituzionale di restituire alla società cittadini "rieducati", e la prassi delle nostre prigioni, che si basa sull'annullamento totale della personalità dei reclusi. Ho sempre combattuto perché il potere assoluto della gestione delle carceri lasciasse ai detenuti l'esercizio di tutti i diritti dell'uomo compatibili con lo stato di detenzione. Solo così si può sperare di non peggiorare gli abitanti del carcere e giovare alla sicurezza sociale, abbattendo la recidiva". Lucia Castellano, 49 anni, 20 dei quali passati a dirigere istituti penitenziari, dal Marassi a Genova a Secondigliano, da Alghero a Bollate (Milano), racconta la sua visione a D.it. "A Bollate abbiamo puntato sulla progressiva responsabilizzazione dell'utenza, sul lavoro fuori e dentro il carcere, sulla partecipazione attiva della città alla vita del penitenziario. 120 detenuti, un decimo della popolazione totale, la mattina escono a lavorare all'esterno. Si preparano a una libertà definitiva. La recidiva si riduce", spiega. Oggi, in aspettativa, è vicepresidente della commissione speciale sul carcere della Regione Lombardia, dove siede in Consiglio. "Manca il coraggio di scommettere sugli uomini e sulla loro reale voglia di reinserimento sociale. Noi operatori penitenziari siamo ancora dominati dalla paura del cosiddetto "evento critico": le evasioni, le risse, i suicidi. Non ci rendiamo conto che questi eventi sono molto più frequenti nei regimi "chiusi"in cui i detenuti sono costretti in cella tutta la giornata, senza prospettive. Forse - conclude - per i direttori donna è più facile far risaltare l'aspetto della cura su quello della mera esclusione". Luisa Pesante, 47 anni, a Sulmona ricopre l'incarico che fu di Armida Miserere, la prima direttrice di carcere morta suicida nel 2003, impersonata da Valeria Golino nel film "Come il vento", da poco nelle sale. Il film ha commosso molti di quelli che hanno lavorato con "Lady di ferro", che proprio nel carcere abruzzese si è tolta la vita. Oggi la situazione non è migliorata: il lavoro, primo strumento di reinserimento per i detenuti, è sempre più raro. Ma Luisa Pesante è convinta: il carcere non deve solo contenere. "Bisogna dare a tutti la possibilità di dimostrare che il percorso di vita può cambiare. Questa è una Casa di Reclusione per condannati a pene elevate, con reclusi di Alta Sicurezza e collaboratori di giustizia. Ma il mandato è sempre trattamento e rieducazione, per riportare tutte le persone ristrette ai valori positivi della collettività. L'augurio è che questi valori tornino ad essere presenti di nuovo nella società esterna, dove a volte sembrano mancare più che nelle mura di cinta dei penitenziari'' racconta la direttrice, che è aiutata molto dalla Polizia Penitenziaria, dall'Area Trattamentale e dai volontari. "Le direttrici sono tante perché le donne vincono più spesso i concorsi nel pubblico. Ma i vertici sono altri"mette in chiaro l'ex capo di Bollate Lucia Castellano. "Come in tutti i campi, le donne non arrivano mai al vertice perché, per i carichi familiari, rinunciano agli incarichi apicali. La colpa è soprattutto della mancanza di servizi. E per i ruoli legati alle nomine - afferma - si preferisce ancora il potere maschile". Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone, che si occupa di carceri, non ha dubbi: "Il mestiere di direttore penitenziario è usurante, è totalizzante. Lascia poco spazio alla vita privata e a quella familiare. Produce spostamenti continui che sono deleteri per chi ha figli. Le donne vivono questa fatica ancora più drammaticamente. Per questo bisognerebbe prevedere per tutti gli operatori penitenziari, direttrici in primis, una mobilità volontaria verso altre amministrazioni dello Stato". Il presidente di Antigone non ama generalizzare. "Ma se devo dirlo, abbiamo conosciuto due modelli di direttrici: quelle che usano più rigidità, forse per compensare i rischi di un minore ascolto da parte del corpo di polizia penitenziaria e dei detenuti, in maggioranza uomini; e quelle che manifestano più coraggio, per essere coerenti con il dettato costituzionale di rieducazione, come ha fatto negli anni passati con grande apertura Lucia Castellano a Bollate"conclude. Lettere: San Patrignano e le cifre sul carcere e la cannabis di Marcello Chianese (Responsabile dell'ufficio legale di San Patrignano) Corriere della Sera, 13 gennaio 2014 Caro direttore, nell'attuale dibattito sulle droghe una delle principali tesi sostenute dai legalizzatori e/o liberalizzatori è che le carceri italiane sono sovraffollate di ragazzi trovati in possesso di cannabis. Un convincimento che non riusciamo a capire da dove provenga e in base a quali numeri. Noi un dato statistico che ci permettesse di sostenere tale tesi non siamo mai riusciti a trovarlo. Ciò per la semplice constatazione che l'art.73 della legge 309/90, per tutti la Giovanardi Fini, che attualmente disciplina gli stupe/acenti, non prevede distinzione fra droghe cosiddette leggere e quelle droghe considerate pesanti e conseguentemente non vi è distinzione nel raccoglimento dei dati. Detto questo però siamo convinti che in carcere non vi sia un solo semplice detentore di cannabis. Quando sono presenti detentori di cannabis è perché al tempo stesso si tratta di spacciatori. La legge infatti, al contrario di quanto affermato da alcuni, da sempre punisce lo spaccio e non la detenzione. Infatti il comma uno bis dell'articolo 73 che fa riferimento alla detenzione dice che un giudice per condannare un detentore di qualsiasi tipo di stupefacente deve dimostrare che la sostanza deve apparire destinata ad un uso non esclusivamente personale. Un giudice quindi per condannare un soggetto per detenzione di stupefacente deve (perché giuridicamente ne ha lui l'obbligo) motivare la sentenza affermando che la droga fosse ragionevolmente destinata allo spaccio. Ciò è pacifico in giurisprudenza e logico in termini letterali tanto che il legislatore ha sentito l'esigenza di disciplinare l'ipotesi del mero detentore, vale a dire del soggetto trovato con dosi di cannabis tali da far ritenere l'uso personale, con le sanzioni amministrative come specificato nell'articolo 75. Nessuno quindi può essere in carcere con una sentenza di condanna definitiva per aver detenuto qualche spinello perché nessuno ha mai inteso farlo. Trento: con i nuovi sconti di pena a Spini di Gardolo si svuota il carcere di Mara Deimichei Il Trentino, 13 gennaio 2014 Sono già una decina quelli che hanno lasciato Spini grazie al nuovo decreto. E ora iniziano le scarcerazioni per quelli "beccati" con una piccola dosi di droga. Il carcere di Spini si sta svuotando. La causa? L’applicazione del decreto svuota carceri firmato il 17 dicembre ed entrato in vigore la vigilia di Natale. Gli uffici giudiziari trentini si sono messi subito al lavoro ed erano oltre 30 le richieste di parere partite dal tribunale di sorveglianza e dirette alla procura. Una decina quelle che sono state accolte e quindi una decina i detenuti che grazie all’aumento del premio per la buona condotta, hanno lasciato le celle. A questi si aggiungono quelli che a Spini c’erano arrivati in forza di un’accusa di spaccio accompagnata dall’attenuante della "modesta quantità". Ora infatti il "piccolo spaccio" è diventato un reato autonomo e la pena è minore rispetto a quello per il precedente generico spaccio e quindi di minor durata è anche la custodia cautelare. Che da un anno è scesa a tre mesi. Solo ieri un giudice - dopo aver analizzato le posizioni - ha deciso per due scarcerazioni di due persone ma è facile intuire che questo numero aumenterà. Ma cosa prevede il decreto che è già stato ribattezzato svuota carceri? Per quanto riguarda la liberazione anticipata, lo "sconto" di buona condotta per la liberazione anticipata passa da 45 a 75 giorni ogni 6 mesi di carcere. Ossia 150 giorni l’anno. La misura, che scatta sempre con l’ok del giudice, avrà valore retroattivo dal gennaio 2010 e varrà 2 anni dall’entrata in vigore della legge. Produrrà un’uscita anticipata che nel massimo arriva a 6 mesi e per chi vede partire il conteggio dal 2010 interesserà potenzialmente 1.700 persone. Come detto fino a pochi giorni fa erano esattamente 33 le richiesta di parere chiesta dal tribunale di sorveglianza alla procura trentina e in una decina di casi si è arrivati alla scarcerazione. In altri casi il parere seppur positivo può non aver portato alla liberazione anticipata perché comunque il "super sconto" riconosciuto non era sufficiente per far aprire la cella. Per quanto riguarda invece il "piccolo spaccio", il decreto lo ha fatto diventare un reato autonomo e non - com’era fino a poche settimane fa - un’attenuante del più generico reato di spaccio. Conseguenza? Per le ipotesi minori di spaccio la norma non impedisce l’arresto e l’applicazione di misure cautelari ma prevede la riduzione, nel massimo della pena edittale, da sei a cinque anni. E diminuisce di conseguenza anche il periodo possibile di cautelare: da un anno a tre mesi. E quindi un po’ alla volta usciranno da Spini anche tutte quelle persone che c’erano finite in virtù di un’accusa di spaccio e che abbiamo già trascorso i tre mesi dietro le sbarre. Le ragioni di queste decreto - voluto dal ministro Cancellieri - sono note. Le condizioni delle carceri italiane sono un buco nero da superare. Lo vuole l’Europa, pronta a chiedere conto a suon di sanzioni se da qui a maggio non si metterà in sicurezza il sistema. Lo chiedono da tempo la Corte Costituzionale e il Capo dello Stato, e "il decreto è una prima risposta al suo appello", aveva osservato il premier Letta nel giorno in cui c’era stato il via libera. Oggi i detenuti sono 63.657: rispetto al 2010 si registra un calo rilevante, ma il tasso di sovraffollamento resta sopra il 140%. Fugatti (Lega): serve piano contro microcriminalità (Ansa) "Con il decreto svuota carceri votato dal Governo Letta e dai parlamentari trentini del Pd, del Patt e dell’Upt, il carcere di Spini di Trento si sta svuotando e nelle strade di Trento troveremo nei prossimi giorni decine di ex galeotti pronti a delinquere, che si vanno ad aggiungere a quelli già presenti sul territorio trentino". A sostenerlo, in una nota, è il consigliere provinciale e segretario della Lega Nord del Trentino Maurizio Fugatti. "Come già sta avvenendo in questi giorni, in cui la cronaca nera ci racconta - riferisce Fugatti - dei fatti di violenza di una ragazza aggredita alla stazione dei treni, di un’altra aggredita dentro la propria auto a Povo, di un furto con pistola alla edicola di Villazzano, di due scippi ai danni di due anziane a Trento e di decine di furti ormai quotidiani nelle varie valli e zone del Trentino, ci sarà quindi da aspettarsi un ulteriore aggravamento della microcriminalità grazie proprio alla scarcerazione di coloro che erano presenti nel carcere di Spini". "Ormai Trento e il Trentino - sostiene il consigliere leghista - sono in mano alla microcriminalità e il decreto svuota carceri non farà altro che aggravare la situazione. Occorrerebbe subito un piano di azione forte tra forze dell’ordine, Provincia e Comune di Trento per evitare l’aggravarsi della situazione. E a chiederlo dovrebbe essere il presidente Rossi o il sindaco Andreatta, ma sappiamo già che purtroppo ciò non avverrà. I trentini sapranno quindi chi ringraziare per gli atti di violenza che subiranno nelle prossime settimane: a Trento il centrosinistra che governa e a Roma lo stesso centrosinistra che con i vari Dellai, Panizza, Tonini, Ottobre e Fravezzi ha votato lo svuota carceri". Benevento: 3 progetti della provincia per formare i detenuti, stanziati 60mila euro www.laprimapagina.it, 13 gennaio 2014 Tre progetti contro la marginalità e la devianza sociale sono stati approvati con propria delibera dal Commissario straordinario della Provincia di Benevento prof. Aniello Cimitile. L’iniziativa viene realizzata con la cooperazione dell’Istituto Penale Minorile di Airola e con la Casa Circondariale di Benevento e riguarda percorsi appositamente pensati per il re-inserimento nella vita sociale di persone ristrette nei due luoghi di detenzione. Un primo progetto, infatti, prevede un corso di formazione professionale per artigiani della durata di otto mesi riservato a cinque giovani ospiti dell’Istituto di Airola; mentre gli altri due, riservati ad ospiti della Casa Circondariale di contrada Capodimonte, sono finalizzati alla formazione di tre archivisti, nonché di venti imbianchini-decoratori. La spesa complessiva a carico del Bilancio della Provincia è pari a poco più di 60mila euro. Bergamo: a Via Gleno scuola per i detenuti, in 500 frequentano le lezioni www.ecodibergamo.it, 13 gennaio 2014 Sono oltre 500 i detenuti che annualmente frequentano corsi scolastici all’interno della Casa circondariale di Bergamo con circa 180/190 presenze settimanali. "Negli ultimi anni gli studenti sono triplicati. A fronte di una presenza in carcere di stranieri pari al 50% di tutti i detenuti, gli studenti non italiani sono l’80%", spiega Mariagrazia Agostinelli, coordinatrice del Centro permanente territoriale Eda "Donadoni" di Bergamo. La proposta scolastica è ampia; ci sono corsi di alfabetizzazione, quelli per la certificazione Cils per la lingua italiana, percorsi modulari, corsi per sostenere l’esame di Stato (ex licenza media), fino alla scuola secondaria superiore, particolarmente impegnativa con 6 ore di lezione al giorno. Una convenzione con l’Istituto tecnico commerciale Vittorio Emanuele II garantisce infatti il supporto di 8 docenti di discipline tecniche mentre 10 sono gli insegnati del Centro Eda, a cui si aggiungono 4 volontari. Circa cento i detenuti di altre carceri quest’anno che, a seguito di un "interpello" che ha permesso di rendere nota l’offerta formativa di Bergamo, hanno presentato la richiesta per seguire le lezioni della scuola superiore con il trasferimento nella struttura in via Gleno. "Sono state accolte 15 domande per evidenti ragioni di capienza", spiega Agostinelli. Negli ultimi anni la presenza media in carcere è attestata sui 520 detenuti, quando il carcere potrebbe ospitarne 380. Anche negli spazi della scuola "si scoppia", costringendo a turni per non lasciare fuori nessuno. "La situazione è critica - chiarisce la coordinatrice - nelle sezioni in cui si trovano quanti sono in attesa di sentenza definitiva dove talvolta abbiamo liste d’attesa di un mese. Al ministro Annamaria Cancellieri nella sua ultima visita a Bergamo abbiamo presentato una richiesta per ristrutturare l’area ed avere spazi adeguati all’attività scolastica". Sono invece sufficienti le 7/8 aule al penale, nel femminile saranno presto attrezzati 3/4 spazi, mentre ora si utilizza una sola grande stanza. Un progetto nuovo riguarda i "protetti": "Si tratta di detenuti che per la propria incolumità devono essere separati dagli altri. Con 12 di loro facciamo lezione in una cella". Alcuni corsi sono attivati tutto l’anno, perché in carcere il tempo scorre sempre uguale e l’estate, con la diminuzione delle proposte, può essere un momento critico. A numero chiuso sono i corsi professionali promossi dall’Abf dedicati alla panificazione, all’idraulica e quest’anno anche al giardinaggio. Oltre alla scuola ci sono proposte di tipo culturale come i laboratori di ceramica, di scrittura (con la pubblicazione, tra le altre iniziative, del notiziario "Alterego"), di teatro, con la messa in scena finale di uno spettacolo presentato ai ragazzi delle scuole superiori; una collaborazione con la Gamec propone percorsi artistici legati ad un’attività con gli studenti del Vittorio Emanuele. Da un paio di anni si è dato vita agli "Incontri con gli autori", che portano in carcere scrittori per dialogare con i detenuti. "È chiaro - commenta Agostinelli - che tra le mura si fa lezione in modo diverso, con attenzioni particolari perché ci si confronta con adulti che vivono la privazione della libertà. Si deve trovare la giusta distanza tra noi e lo studente, senza dimenticare che è un detenuto. Ai docenti i corsisti chiedono serietà e che non si sconti loro nulla. Se si esige molto significa che li si stima e si vedono in loro potenzialità. Certamente c’è anche chi non ce la fa". Impegno, fatica, successo La scuola diventa uno spazio in cui ri-occuparsi di sé, ripensare alla propria vita: "Per gli stranieri significa studiare la lingua italiana; molti intravedono un’occasione di riscatto nei confronti della propria famiglia e della società; un modo per mostrare che il tempo di detenzione non è stato sprecato. La scuola insegna l’impegno e la fatica ed è ovvio che nessuno di loro pensa di andare a fare il ragioniere". La fatica anche di rinunciare all’aria, alla palestra: le lezioni si svolgono in questi momenti della giornata carceraria. Sorprendentemente c’è chi in carcere è "rientrato" proprio per sostenere l’esame finale anche dopo aver riconquistato la libertà: "A giugno scorso a cinque studenti è stato permesso di presentarsi agli esami; quel giorno erano veramente altre persone anche nell’aspetto. Per loro è stato un modo per dimostrare a sé e a noi di avercela fatta". Lecce: il ministro Cancellieri fra le vie del barocco, in attesa della visita in carcere www.lecceprima.it, 13 gennaio 2014 "Lecce è bella oltre ogni aspettativa", ha commentato il guardasigilli che ha girato nel centro storico seguita dalla scorta. È ospite di un'amica dei tempi della scuola. Domani appuntamenti con gli studenti al "Da Vinci"di Maglie e a Borgo San Nicola. Con sit-in di protesta dei sindacati. Oggi è stato il giorno del relax. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha visitato la città di Lecce. Un ampio giro nel centro storico, per ammirare le bellezze barocche. "Lecce è bella oltre ogni aspettativa", ha commentato davanti ai cronisti che l’hanno inseguita per tutto il pomeriggio, armati di macchine fotografiche e videocamere. Il tragitto, rigorosamente a piedi, ha previsto alcune tappe obbligate per qualsiasi comune turista, come la basilica di Santa Croce e piazza Duomo. Proprio all’interno della Cattedrale, il ministro è stato accolto dall’arcivescovo Domenico D’Ambrosio, dopo la celebrazione della messa pomeridiana. In città è ospite di una sua amica che in gioventù ha vissuto a Roma. Insieme hanno frequentato il liceo. Il palazzo, in via San Francesco d’Assisi (nei pressi della Villa comunale) è stato letteralmente blindato dalla scorta personale e dalle forze dell’ordine, che l’hanno ovviamente accompagnata per l’intero arco del pomeriggio lungo il percorso nel borgo antico, che ha previsto anche passaggi davanti al convento delle monache Benedettine e in piazza Sant’Oronzo. Domani, il ministro è atteso da due eventi istituzionali. Nella mattinata, a partire dalle 9,30, sarà presso il liceo "Leonardo Da Vinci" di Maglie, nell’ambito della rassegna "Costituzione, legalità, lotta alla mafia: ipotesi di riforma e priorità di attuazione". Un programma promosso in collaborazione con l’Università del Salento e con il patrocinio del ministero dell’Istruzione, dell’università e ricerca, della Provincia di Lecce e del Comune di Maglie. Annamaria Cancellieri parlerà dunque delle riforme della giustizia "e della legalità ai ragazzi", ha anticipato oggi. Gli studenti avranno l’opportunità di rivolgere domande dirette. All’incontro, introdotto dalla dirigente scolastica Annarita Corrado, interverrà il presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone. Gli occhi sono però tutti puntati soprattutto sul secondo appuntamento, quello presso il carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, previsto per il primo pomeriggio. Un tema, quello delle carceri italiane, che l’ha vista protagonista, come ben noto, anche di una recente e furibonda polemica, nell’ambito del cosiddetto "caso Ligresti". Il penitenziario leccese è una struttura che, secondo il guardasigilli "funziona molto bene", ma dove pure si registrano da anni evidenti malumori. Tanto che una delle organizzazioni sindacali degli agenti penitenziari, l’Osapp ha preannunciato un sit-in di protesta, fin dalle 14. Il segretario regionale del sindacato, Pantaleo Candido, accusa i vertici dell’amministrazione penitenziaria di non aver ascoltato i loro incessanti appelli. "Siamo stanchi di essere inascoltati, ecco perché protesteremo in occasione della visita del ministro della Giustizia, insieme alle altre sigle". Gli agenti sostengono che "la revisione degli organici imposta dalle scrivanie dei vertici del Dap" sarebbe stata fatta "senza conoscere la vera realtà in cui versano i comandi degli istituti penitenziari pugliesi, sotto organico e costretti a turni massacranti". Ancora, Candido lamenta "il mancato arruolamento degli agenti ormai al di sotto delle 14mila unità a livello nazionale". "Chiediamo - aggiunge - di ammettere le fatiscenti condizioni in cui versano i nuclei traduzioni con il personale allo stremo, il più delle volte umiliato a dormire nelle topaie messe a disposizione di alcuni Istituti e con mezzi vecchi, fatiscenti e pericolosi". Senza dimenticare che occorrerebbe integrare l’organico, prima di aprire nuovi padiglioni. Il segretario, infine, accusa il Dap anche d’indifferenza verso gli agenti, per i casi di inchieste giornalistiche e programmi televisivi che, a suo dire, li vedrebbero oltremodo criminalizzati. Quasi a rimarcare il senso di abbandono. Caltanissetta: i minori ospiti dell'istituto penale preparano il pranzo agli immigrati La Sicilia, 13 gennaio 2014 Gli ospiti degli istituti penali per minori dell'intera Sicilia (che sono quattro: Acireale, Catania, Caltanissetta e Palermo) sono stati coinvolti dall'Associazione Euro nel progetto "Che Natale che fa", che consisteva nella realizzazione di degustazioni gastronomiche per persone svantaggiate ed aveva lo scopo di offrire "il piacere della buona cucina per regalare un sorriso a chi è in difficoltà e fornire agli ospiti degli istituti penali minorili, un punto di partenza per una nuova vita lontano dalla devianze". Le cene sono state offerte agli immigrati richiedenti asilo politico. "Motivo ispiratore di questi incontri - ha spiegato Eugenio Ceglia, presidente dell'Associazione Euro - è stato il voler dare ai giovani ospiti degli istituti penali, la possibilità di esprimere la propria creatività e di farne dono a persone che vivono quotidianamente in condizioni sociali e personali disagiate. I giovani detenuti hanno potuto cimentarsi nella veste di cuochi, sfruttando le abilità acquisite nei laboratori di gastronomia seguiti all'interno degli istituti penali, dalla quale possono trarre stimoli importanti per il loro percorso rieducativo". Il pranzo preparato presso l'istituto penale di Caltanissetta è stato condiviso con la locale comunità del Bangladesh. Nuoro: "Salta il muro" vince il torneo in carcere Liberi nello sport di Valeria Gianoglio La Nuova Sardegna, 13 gennaio 2014 Alla fine - e considerato il nome promettente e decisamente a tema non poteva che andare così - ha vinto "Salta il muro". Nella finalissima disputata ieri pomeriggio sul campetto del carcere di Badu ’e Carros, ha superato di ben cinque reti i "Pistonca united". E tra gli applausi del pubblico, della direttrice del carcere, Carla Ciavarella, del vescovo Mosè Marcia, e degli organizzatori del torneo, con il presidente provinciale delle Acli, Tore Urru, quello di Nuoro, Salvatore Rosa, e il segretario del sindacato giornalisti, Franco Siddi, si è chiusa così la quarta edizione del torneo maschile legata al progetto "Liberi nello sport". Una edizione particolarmente partecipata, sentita, e ricca anche di progetti per il futuro, visto che gli organizzatori, insieme alla Lega calcio con il presidente Luigi Abete, come hanno annunciato ieri vogliono metter su un piano per risistemare il campo di calcio del carcere nuorese. Il torneo maschile legato al progetto "Liberi nello sport" si è chiuso dunque ieri pomeriggio. Era cominciato a ottobre, nel campo della parrocchia di Beata Maria Gabriella. Vi hanno partecipato dodici squadre composte in gran parte da detenuti, avvocati, agenti di polizia penitenziaria, giovani calciatori nuoresi. Due, le squadra composte da detenuti: Azzurra e La Fenice. La prima, era composta da detenuti della sezione alta sicurezza del penitenziario barbaricino. La seconda, da detenuti della sezione comune. Le due formazioni si sono scontrate proprio nella semi-finale e l’ha spuntata la squadra Azzurra, che tra gli altri ha eliminato anche la squadra degli avvocati. Ieri pomeriggio, dunque, la fase finale: al primo posto Salta il muro, al secondo i Pistonca united, al terzo posto, Azzurra. Come capo-cannoniere è stato premiato Salvatore Latorre, che ha conquistato anche un riconoscimento per la rete più bella, segnata in rovesciata, e per l’estro artistico, visto che ha creato una maschera in legno che poi è stata messa in palio per lo stesso torneo. Tutti soddisfatti, dunque: giocatori, organizzatori, pubblico. Il progetto "Liberi nello sport" adesso coinvolgerà in altre iniziative anche le detenute della sezione femminile di Badu e Carros. "Questa del torneo è stata una iniziativa davvero lodevole - ha commentato il segretario del Fnsi, Franco Siddi - una iniziativa che avvicina la gente comune al carcere. Bisogna continuare su questa strada e continuare a raccontare questo universo". Libri: "L’urlo di un uomo ombra", di Carmelo Musumeci, Edizioni Smasher recensione di Francesca de Carolis Ristretti Orizzonti, 13 gennaio 2014 Prima di iniziare a leggere, l’invito è a fermarsi qualche secondo in più sull’immagine di copertina. Sulla maschera di creta, che sembra testa d’uomo, che non ha occhi, ma due buchi neri, come buco nero è la bocca spalancata. Per un urlo che non ha voce, che si ferma strozzato in gola. È lo stesso volto delle anime ( le avete mai incontrate?) non ancora del tutto morte, che si fermano per qualche tempo, fra il tempo della vita finita e il tempo dell’aldilà, a passeggiare nei meandri della nostra cattiva coscienza. Sì che le abbiamo tutti incontrate, quelle anime, nelle notti più inquiete… e qualcuna magari l’abbiamo anche riconosciuta, per questo abbiamo timore a parlarne… Un muto urlante volto di creta, plasmato da Carmelo Musumeci, che ben introduce nel mondo dei morti viventi: gli ergastolani ostativi. Come Carmelo, appunto, dalla cui parte ho già scelto di stare. Carmelo Musumeci, che frequento ormai da qualche anno. Per quanto e per come si possa frequentare una persona in carcere. Poco, fisicamente molto poco, sì… ma c’è una conoscenza che passa attraverso scambi, che sono lettere, biglietti, cartoline e pagine e pagine di scritti che sono il diario dei lunghi anni da recluso fuori dal mondo. Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo, uomo ombra. Per intenderci di quelli che in carcere resteranno fin a che morte non li separi da questo mondo, se non cambia qualcosa nella legislazione nata come emergenza e poi irrigiditasi nell’ordinarietà, come spesso accade in questo nostro strambo paese. Uomini che nel frattempo vivono una vita che non è già più vita, senza essere ancora morte. Sappiamo essere ben crudeli, noi uomini. Nessun altro animale ci eguaglia in crudeltà. Le pagine di questo libro sono un’incursione nel mare di scritti che Musumeci si ostina a comporre per raccontarsi e raccontarci, giorno dopo giorno, cos’è la vita fra le mura di una carcerazione eterna. Chi lo conosce sa che Musumeci è il capofila di una battaglia contro l’ergastolo, che si è laureato in giurisprudenza, specializzandosi in diritto penitenziario, che con costanza e assiduità spedisce oltre il muro di cinta delle sue prigioni, appelli, riflessioni, osservazioni… Ma questa raccolta è distillato di pagine di diario, citazioni, racconti, poesie, anche, che negli anni Musumeci ha scritto… restituendoci forme e linguaggi diversi di un unico racconto, che è racconto di sentimenti. Che, a saperlo ascoltare, è davvero urlo che strozza in gola. Perché dei sentimenti di chi abbiamo dannato per sempre non vorremmo sapere proprio nulla. Ma nonostante gli anni in prigione, racconta Carmelo, il carcere non è riuscito a togliergli la dignità e ancora conserva nell’anima la memoria e l’orgoglio di quando era libero. Ad assicurarcelo basta un cenno di versi: … vedere il tuo sguardo / e levarsi in volo / volteggiare / essere liberi. E mi fermo qui. L’invito è ad andare a perdersi in quest’urlo. Nella dolcezza delle poesie, nella lucidità delle cronache, nel ritmo pulsante dei racconti. Scegliete poi voi quale voce amare di più. Ma scegliete, per conoscere e riconoscere la storia di un uomo. Perché la cosa peggiore che possa capitare ad una persona è scomparire nel nulla, dissolversi nei numeri e nelle statistiche, perdere nome, cognome, identità, diventare un numero, una sigla: fine pena 99/99/999. Dannazione dell’incubo numerico… Carmelo Musumeci, con questi scritti, con tutti i suoi scritti in realtà, urla continuamente il suo nome e il suo cognome, per farcelo stampare bene in testa… per invitarci a conoscere, anche, i nomi e i cognomi e le storie di quelli come lui, e aiutarli a uscire dall’ombra. Ascoltate: "… e non è vero che si scrive per se stesso, si scrive sempre per gli altri. Si scrive per sentirsi vivi. Io scrivo anche per dimostrare a me stesso che, nonostante sono chiuso in una cella, coperto di cemento e ferro e cancelli blindati, non solo respiro, ma sono anche vivo". Buona lettura. Immigrazione: l’accoglienza e la convenienza, troppe ipocrisie di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 13 gennaio 2014 La richiesta di Matteo Renzi di inserire la riforma della Bossi-Fini fra i temi del contratto di governo, al di là delle motivazioni del neosegretario del Pd, potrebbe essere una occasione da cogliere per dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione. Dobbiamo solo limitarci a tamponare e contenere i flussi migratori o abbiamo bisogno di interventi più attivi e, soprattutto, più selettivi? Una domanda che diventa possibile se ci si lascia alle spalle le ambiguità e le ipocrisie che hanno fin qui dominato il campo. Le ambiguità dipendono dal fatto che sembriamo incapaci, a causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza (il dovere di accogliere i meno fortunati di noi)? Troppo spesso i due criteri vengono mescolati, l’immigrazione viene giustificata alla luce di entrambi. Se non che, si tratta di criteri fra loro in contraddizione. Ne deriva l’impossibilità di formulare proposte coerenti. Le ragioni della convenienza sono note: abbiamo bisogno di contrastare l’invecchiamento della popolazione, abbiamo bisogno - almeno se la ripresa economica, come si spera, prima o poi arriverà - di forza lavoro aggiuntiva e di nuovi consumatori. Ma a queste ragioni, ispirate alla convenienza, ne vengono sovente aggiunte altre di diversa natura, di ordine umanitario (le ragioni dell’accoglienza). I piani si confondono rendendo impossibile fare scelte razionali. L’appello all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici (ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati. È la confusione fra il messaggio evangelico e la politica, fra l’universalismo della Chiesa, che parla a tutti gli uomini, e l’inevitabile particolarismo dello Stato che risponde a un insieme definito di contribuenti. L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della "scarsità": quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo? Quante risorse possiamo mettere a disposizione dell’accoglienza se la vogliamo decente? A chi e a quali altri compiti toglieremo queste risorse? L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o "meschino" possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza, della nostra convenienza. Una volta adottato con franchezza ci consente di porci il problema - che altri Stati si sono già posti - di come selezionare gli immigrati. È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali caratteristiche, con quali eventuali competenze? Oggi il problema forse non si pone data l’elevata disoccupazione intellettuale giovanile (che resta grave, anche facendo la tara alle statistiche ufficiali che, fraudolentemente, imbarcano fra i disoccupati anche gli studenti). Però, domani potremmo avere bisogno di importare mano d’opera qualificata, per esempio in settori tecnici lasciati sguarniti dai nostri giovani. In quel caso, una politica dell’immigrazione lungimirante cercherebbe di attirare quel tipo di mano d’opera a scapito di altri tipi. Considerando inoltre che un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa mano d’opera non qualificata. Oltre una certa soglia, non può assorbirla nei mercati legali, finendo così per favorire quelli illegali, gestiti dalla criminalità. Un effetto collaterale di una politica ispirata alla convenienza è che faremmo star bene anche gli immigrati che accogliamo. E poi ci sono altre considerazioni che dovrebbero entrare nelle valutazioni di chi decide la politica dell’immigrazione. Per esempio, certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico. Quanto meno, questo dovrebbe essere un legittimo tema di discussione. Una politica realistica, fondata sulla convenienza, si dovrebbe insomma porre problemi di scelta, di selezione (da monitorare e rivedere nel tempo, alla luce dell’esperienza). Non si tratta di inventare nulla. Altri Paesi hanno già imboccato questa strada. Droghe: lieve entità reato autonomo, prescritti in 6 anni i fatti ante decreto carceri di Mattioli Leonello www.telediritto.it, 13 gennaio 2014 Notizia di decisione della sesta sezione: il più breve termine di estinzione del reato determinato dal dl 146/13 si applica retroattivamente per il principio del favor rei. Pene più lievi e, soprattutto, prescrizione più breve per i piccoli spacciatori di droga. A smentire i dubbi circolati nei giorni scorsi interviene la sesta sezione penale della Cassazione: è ufficiale, il dl svuota carceri ha davvero trasformato in reato autonomo la "lieve entità" del fatto che fino al 22 dicembre scorso costituiva una mera attenuante, con l’effetto di sottrarre la fattispecie al bilanciamento con le aggravanti come la recidiva. Risultato: il più breve termine di prescrizione di sei anni si applica ai fatti anteriormente commessi, come conferma la notizia di decisione 1/2014 della Suprema corte, relativa a un’udienza dell’8 gennaio scorso (presidente Agrò, relatore Leo: cfr. in allegato il testo della notizia di decisione, mentre cliccando sul link in grassetto si accede alla sezione in cui il documento è pubblicato sul sito web della Cassazione). In sintesi: la nuova formulazione dell’articolo 73, comma 5, del testo unico sugli stupefacenti (Dpr 309/90) introdotta dall’articolo 2 del decreto legge 146/13 (il nuovo svuota carceri) configura un titolo autonomo di reato per fatti di lieve entità riconducibili alle altre previsioni contenute nello stesso articolo 73 e la pena massima è ridotta da sei a cinque anni di reclusione: ne consegue che il più breve termine di prescrizione di sei anni previsto per tale reato ex articolo 157 comma 1 Cp si deve applicare anche retroattivamente, a norma dell’articolo 2, comma quarto, Cp, vale a dire per il principio del favor rei (cfr. "Reato autonomo il piccolo spaccio di droga: 5 anni il massimo edittale. Così la liberazione anticipata", pubblicato il 2 gennaio). La scelta del legislatore è motivata nella relazione illustrativa del dl 146/13 a chiudere con il passato laddove in caso di ritenuta equivalenza fra la lieve entità e la recidiva si è verificato "un eccesso di risposta punitiva": l’ultimo esempio in ordine di tempo risale a qualche giorno fa, laddove il reo nel procedimento deciso dalla sentenza 116/14 sconterà, per la cessione di tre dosi di cocaina, quattro anni di reclusione in base alla condanna emessa all’esito del giudizio abbreviato (cfr. "Lieve entità del fatto solo equivalente alla recidiva se il piccolo pusher ha precedenti specifici", pubblicato il 7 gennaio). Non resta ora che attendere il deposito delle motivazioni della sentenza emessa l’8 gennaio. Droghe: cannabis, il disastro del proibizionismo di Stefano Bartolini (Università di Siena) L’Unità, 13 gennaio 2014 Il dibattito sulla legalizzazione della marijuana si è di nuovo riacceso nel nostro Paese come in tutti i Paesi occidentali. La crescita dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città europee. Il motivo di fondo di questo progressivo spostamento della opinione pubblica è che i risultati di mezzo secolo di proibizionismo sono disastrosi. Come azione di contrasto della offerta ha ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime, ferocissime mani. Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che ha continuato a crescere a ritmi baldanzosi tra i ricchi e i poveri dei Paesi occidentali e di quelli in via di sviluppo. In compenso questo gigantesco buco nell’acqua ha costi giganteschi. Finanziari, sociali, civili, criminali ed etici. Il motivo lo chiariscono gli economisti, dimostrando che ogni tanto ci azzeccano pure loro. È difficile trovarne uno proibizionista. Il motivo è che un economista tende a pensare che rendere illegale una merce che è consumata da milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette di partiti, parlamenti e governi. Gli economisti, specialmente quelli di destra, avvertono quasi istintivamente che enormi masse di denaro nero rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato. Milton Friedman, premio Nobel per l’economia che fu praticamente il fondatore del neo-liberismo e il principale consigliere economico di Reagan, era un feroce anti-proibizionista. Inoltre un economista percepisce immediatamente che l’illegalità di una merce così popolare, se contrastata seriamente, è destinata a gravare di costi enormi le finanze pubbliche. Ad esempio nel nostro Paese il proibizionismo assorbe risorse di polizia, giudiziarie, carcerarie enormi. Tanto per dare una idea, il sovraffollamento da terzo mondo delle nostre carceri verrebbe di molto alleviato dalla legalizzazione e gli immensi ritardi della nostra giustizia penale si ridimensionerebbero. Ma in realtà si tratta di briciole rispetto al sollievo che la legalizzazione arrecherebbe alle esangui casse pubbliche. Le stime sui mancati introiti fiscali della tassazione di un commercio tanto imponente variano ma comunque parlano di miliardi. Inoltre il narcotraffico è un fattore permanente di destabilizzazione per interi paesi, ben al di là del nostro. Nel 2006 il presidente messicano Calderòn decise di usare l’esercito dichiarando «guerra alla droga». Da allora tale guerra ha prodotto la sbalorditiva cifra di 60.000 morti, che arrivano a 100.000 se si contano gli scomparsi. Ci sono Paesi interi la cui economia è stata distrutta dalla transizione dell’agricoltura alla produzione di droghe, come l’Afghanistan, ormai avviato a divenire la prima monocoltura di oppio del pianeta. I sostenitori del proibizionismo non negano questo disastro ma dicono che continuare a sostenerlo è il minore dei mali possibili. La motivazione che viene portata più spesso è etica: uno Stato non può legalizzare cose che fanno male. Questo argomento assume un sapore tragicomico in una società devastata da dipendenze di ogni genere, cominciando con quella dallo shopping e continuando con videogiochi, videopoker, slot, calcio, tv, sesso, pornografia, alcol, sigarette, tanto per menzionare qualcuna delle più comuni. E ovviamente una alluvione di droghe chimiche legali, elegantemente definite psico-farmaci. Esistono una quantità di cose che sono legali, possono fare malissimo e sono persino pubblicizzate. Allora la domanda cruciale diventa: perché pigliarsela solo con alcune droghe? Il proibizionismo è in ritirata perché non esiste una risposta a questa domanda. Anzi, non ne esiste una nobile. Inoltre è evidente che esiste un modo migliore del proibizionismo per ridurre le dipendenze. Il calo costante e spettacolare del consumo di tabacco negli ultimi decenni in tutto l’Occidente dimostra che le campagne informative funzionano. Il proibizionismo è un lusso che non possiamo più permetterci e il suo superamento è una priorità. Dire che ciò non è urgente significa dire che non è urgente migliorare le nostre finanze pubbliche e contrastare la mafia. Invece sono due dei nostri handicap principali. Le mafie si occupano anche di altre cose oltre alla droga, ma questa rimane il loro core business. La legalizzazione delle droghe le indebolirebbe molto. La legalizzazione è inevitabile prima o poi. È il quando che fa la differenza. India: caro marò, la giustizia prevalga sull’emozione di Ferdinando Camon Il Trentino, 13 gennaio 2014 Siamo al punto cruciale di una vicenda dolorosa e ingloriosa: i nostri due marò stanno per essere mandati a processo. Mentre scrivo, non sappiamo se l’India vuol processarli con una legge che prevede la pena di morte, o con un’altra. Sappiamo però che l’Italia ha gestito la cosa nel peggiore dei modi. Prima ci dicevano che i marò avevano sparato in aria, che la barca indiana era un’altra, che i pescatori non avevano obbedito ai segnali di allontanarsi, che avevano intenzioni ostili, che venivano dritti sulla nave italiana, che le armi che hanno ucciso non sono in dotazione alla Nato, che il calibro delle pallottole non è in uso nel nostro esercito… Adesso il nostro ministro degli Esteri se ne esce con questa clamorosa dichiarazione: "Non sappiamo se i nostri marò sono innocenti, non sappiamo se sono colpevoli: i processi servono a questo". Ma allora il processo è giusto. Dove sta lo scandalo? Nel lunghissimo tempo d’attesa? Ma perché, i processi che svolgiamo noi italiani in Italia hanno forse attese più brevi? Ma se riceviamo un sacco di condanne dall’Europa, proprio per questo! Lo scandalo sta nel fatto che l’India vuol processarli lei e non li cede all’Italia? Ma perché, se noi catturiamo in Italia due stranieri che hanno ucciso due italiani, non li processiamo noi, secondo le nostre leggi? Lo scandalo sta nel fatto che i due marò non hanno libertà di movimento? Ma stanno nell’ambasciata, mangiano all’italiana, sono contattabili e visitabili: noi gli imputati stranieri in attesa di giudizio li seppelliamo in carceri lerce, sovraffollate, in spregio di ogni pudore e dignità. Qui il primo, unico problema è ben altro: l’India avrà forse un’accusa mal documentata (speriamo), ma dobbiamo smetterla di trattare l’India come un paese del Terzo Mondo, ritenendoci noi del Primo Mondo. Adesso è l’India che tratta noi come un Paese del Terzo Mondo, e presenta se stessa come del Primo Mondo. Nel mondo avviene un declassamento dell’Italia e un innalzamento dell’India, e dei Paesi al suo livello. I nostri marò sono stati mandati là a proteggere una nostra nave mercantile dai pirati. Applicando al processo contro i nostri marò la sua legge anti-pirateria, l’India rovescia i ruoli: i pirati siamo noi, e lei si difende dai pirati. Chi dei nostri ha sbagliato a impostare tutta l’operazione? Ma è chiaro: l’esercito. Non si mandano soldati a compiere missioni così rischiose (o uccidi o vieni ucciso) senza uno straccio di strumento che testimoni quello che succede. I nostri marò dicono di aver sparato in acqua, prima a 300 metri poi a 200 e infine a 150. E non hanno un filmatino? Ci sono cineprese da 150 euro. Gli indiani dicono che i nostri non hanno lanciato razzi né suonato sirene né nulla, hanno sparato e basta. Ma nella nostra gigantesca nave non c’era un sistema di registrazione sonora della scena? Un cellulare? Un megafono? Un lampeggiatore? Il governo italiano avverte che userà "la massima inflessibilità". Che vuol dire? E non è troppo tardi? Già il governo ha fatto una figuraccia mondiale quando informò che non avrebbe rimandato in India i due marò, salvo a rimangiarsi la decisione quando si accorse che l’India avrebbe potuto arrestare il nostro ambasciatore, che sul ritorno dei marò aveva messo per iscritto la sua parola d’onore. Abbiamo sbagliato tutto e anzi di più. La colpa è dei comandi militari. Non si mandano soldati su una nave civile, a subire gli ordini del comandante (civile) della nave: i militari devono obbedire ai comandi militari, anche se i soldati stanno in India e i comandi a Roma. E i soldati che vanno per sparare devono documentare quel che fanno. Pensavano forse: andiamo, spariamo, e tutto finisce lì? Adesso lo sanno: tutto "comincia" lì. Processarli per una possibile condanna a morte sarebbe una barbarie: quei mari sono infestati di pirati, e l’India lo sa, è anche colpa sua. I marò possono aver agito per impreparazione, e questo non è ammissibile. Ma i pescatori sono morti per povertà, e neanche questo è ammissibile. India: caso marò; oggi a Roma una manifestazione promossa da Fratelli d’Italia Ansa, 13 gennaio 2014 Fratelli d’Italia ha organizzato una manifestazione per i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone per domani a partire dalle 17 nella Galleria "Alberto Sordi", a Roma. "La mobilitazione si è resa necessaria dopo le notizie apparse sulla stampa indiana secondo cui i due militari italiani rischiano la pena di morte", afferma il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che ieri ha inviato al presidente della Camera Laura Boldrini un’informativa urgente per chiedere l’intervento in aula del ministro degli Esteri, Emma Bonino. "Rinnoviamo il nostro invito a partecipare a tutti i cittadini e a tutte le forze politiche, per difendere i diritti dei nostri connazionali illecitamente detenuti in India da 22 mesi in piena violazione delle norme internazionali e porre fine a una vicenda vergognosa che calpesta la dignità dell’Italia", aggiunge Meloni. "Ci aspettiamo di vedere domani in piazza quante più persone possibili, per affrontare insieme quella che rappresenta una priorità nazionale ma che per troppo tempo forze politiche e istituzioni hanno sottovalutato", conclude il presidente di Fratelli d’Italia. Russia: Pussy Riot; in carcere abbiamo visto l'inferno, ti tolgono tutto, sei solo un corpo di Mark Franchetti (Corrispondente da Mosca per il "Sunday Times" di Londra) La Stampa, 13 gennaio 2014 Le due Pussy Riot appena liberate denunciano le prigioni russe dove sono state detenute per quasi due anni come "un mondo infernale di schiavitù e abusi". E si impegnano a denunciarlo e a riformarlo. Nadezhda (Nadia) Tolokonnikova e Maria Alyokhina - le due leader del gruppo punk di opposizione - sono state rilasciate il mese scorso nell'ambito della amnistia generale accordata dal Cremlino, dopo aver passato 22 mesi in cella per aver cantato una canzone contro Vladimir Putin nella cattedrale di Mosca. Ancora più determinate di prima dell'arresto, le due giovani rivelano di essere scioccate dalle "terrificanti e degradanti" condizioni di vita all'interno delle prigioni femminili russe. Nel corso di un incontro in un affollato caffè moscovita a tarda notte le due orgogliose attiviste anti-Putin ci raccontano come le detenute erano costrette a lavorare 16 ore al giorno nella fabbrica tessile della prigione per cucire uniformi della polizia. Lì, le detenute sono picchiate, sia dalle guardie che da altre prigioniere al servizio dell'amministrazione penitenziaria. Subiscono continui abusi e sono private dei diritti più elementari, come andare in bagno e lavarsi. "Quando sono stata per la prima volta trasferita dalla prigione di Mosca al campo di prigionia dove ho scontato la maggior parte della condanna, ho pensato che forse non sarebbe stato così male -racconta Nadia - . Ma poi mi sono ritrovata di fronte all'inferno". "Ti tolgono tutti i diritti. Non sei trattata come un essere umano ma come un corpo. Il nonnismo è molto diffuso e il sistema è orientato a degradarti. Sono lavori forzati. I detenuti sono sfruttati fino all'osso, dormono quattro o cinque ore per notte. E se ti lamenti la vita diventa ancora più orrenda". Tolokonnikova era pagata meno di un euro all'ora, dice, per lavorare come cucitrice. Le impedivano spesso di andare al bagno. Descrive il cibo come "rivoltante". Alle detenute erano affibbiati obiettivi di produzione assurdi ed erano punite severamente se non li raggiungevano. Le prigioniere venivano colpite dalle compagne, con l'approvazione dell'amministrazione penitenziaria, nei reni e in faccia. Contro chi protestava venivano scatenati "calunniatori" e "provocatori" che spesso usavano "trappole sessuali" per incastrali: ufficialmente il sesso non è ammesso in prigione e chi trasgredisce è punito. "Da quando ti alzi a quando vai a letto, esausta, sei costantemente sotto pressione psicologica", racconta Maria Alyokhina, che ha passato cinque mesi in isolamento "per la sua stessa sicurezza". E rivela che le detenute sono soggette a periodiche visite ginecologiche forzate. "Molte volte mi hanno minacciato che sarei stata incriminata nuovamente, per cose nuove. Il momento peggiore è stato quando ho visto una detenuta che stava morendo di cirrosi costretta a lavorare. Le prigioni russe sono posti dove tutto viene fatto per di-struggere ogni senso di umanità". Le due Pussy Riot, entrambe madri di figli piccoli, dicono che la pubblicità mondiale che il loro caso ha attirato è valsa un trattamento migliore rispetto alle altre prigioniere e che sono state risparmiate dalle violenze fisiche. L'amministrazione, però, ha cercato spesso di fomentare contro di loro l'odio delle compagne. "Le punizioni collettive erano le peggiori", dice Nadia, che a settembre ha fatto lo sciopero della fame per nove giorni per protestare contro gli abusi. "Fai qualcosa che non piace al capo della prigione e 100 persone sono punite. La pressione per costringerti al silenzio è insopportabile". Entrambe dicono che per aumentare il loro isolamento le altre prigioniere erano istruite severamente a non parlar loro. Quelle che osavano essere amichevoli venivano picchiate. "Le autorità della prigione incoraggiavano il nonnismo, tradimenti e paura fra le prigioniere, autorizzando alcune ad agire contro le altre", si sfoga Alyokhina. In una lettera aperta per spiegare lo sciopero della fame Nadia Tolokonnikova ha rivelato che le detenute erano forzate a stare in piedi fuori al freddo come punizione. Una zingara era stata picchiata a morte un anno prima dell'arrivo di Nadia e l'omicidio liquidato e coperto dall'amministrazione come "morte per infarto". Le detenute appena arrivate che non reggevano i ritmi di lavoro erano costrette a cucire nude. Lo scorso autunno la pubblicità negativa causata dallo sciopero della fame e le condanne suscitate dalla lettera aperta hanno condotto le autorità della prigione a trasferire Tolokonnikova in una prigione in Siberia dove le sue condizioni sono migliorate. Dal momento del loro rilascio le Pussy Riot sono determinate a orientare il loro attivismo sulla riforma del sistema per mettere fine agli abusi. Le due hanno fondato "Zona di legge", un gruppo per i diritti umani che raccoglierà testimonianze di ex detenuti e porterà avanti denunce nei tribunali russi. L'obiettivo è assicurare che i diritti dei prigionieri siano rispettati. Tolonnikova sottolinea che le condizioni in tutte le prigioni russe non sono così brutte come in quella dove ha scontato la maggior parte della pena. "Non siamo né piegate né spaventate e non lasceremo la Russia", dice Alyokhina con aria di sfida. "Anzi, siamo tutte e due molto più lucide e determinate. Siamo più forti, con più esperienza". "Non posso dormire", aggiunge Tolokonnikova. "Solo due o tre ore a notte. Quando dormo mi sento colpevole di perdere tempo. Sento un peso, il senso di responsabilità, il dovere di agire. Penso agli occhi, alle espressioni delle donne che ho incontrato in prigione e che mi hanno raccontato gli abusi che hanno dovuto sopportare. Persone sul confine fra la vita e la morte". Stati Uniti: bufera sul killer-scrittore che vince il premio letterario per il miglior poliziesco di Francesco Tortora Corriere della Sera, 13 gennaio 2014 La giuria colpita dal realismo e l’autenticità delle pagine. L’autore condannato nel 1988 per l’omicidio di una ragazza. Quello che ha colpito la giuria del "Private Eye Writers of America", concorso letterario che premia il miglior thriller dell’anno scritto da debuttanti, è l’estremo realismo e l’autenticità del romanzo "Cuts through Bone" (Tagliare le ossa). Tuttavia i giudici non sapevano che Alaric Hunt, l’autore di questo opera a cui è stato conferito un assegno da 10.000 dollari, è un autentico killer: il quarantaquattrenne è stato condannato a 30 anni di carcere senza condizionale nel 1988 per l’omicidio di una ragazza e ha scritto in carcere il romanzo poliziesco. Hunt non ha potuto ritirare personalmente il premio perché da circa 25 anni è rinchiuso nel penitenziario americano di Bishopville per l’omicidio di Joyce Austin, ragazza ventitreenne di Clemson, Carolina del Sud. Assieme al fratello Jason, l’allora diciannovenne, mentre portava a termine una rapina in una gioielleria, appiccò fuoco al campus universitario dove la ragazza risiedeva e quest’ultima morì soffocata dalle esalazioni del fumo. I due criminali furono acciuffati qualche giorno dopo il delitto e condannati alla lunga pena detentiva. Nella biblioteca del penitenziario Hunt ha scoperto la letteratura e il piacere della scrittura. Sedotto dalle opere di Hemingway, dei filosofi greci e dai romanzi di fantascienza, nove mesi fa ha cominciato a scrivere il suo primo poliziesco che racconta la storia, ambientata a New York, di un veterano di guerra ingiustamente accusato dell’omicidio della sua ragazza e i protagonisti sono due detective che indagano sul caso. La vicenda del premio assegnato al killer ha diviso l’opinione pubblica americana e anche la critica. C’è chi ha sottolineato come l’autore del libro abbia sfruttato i suoi crimini per vincere la competizione letterario: "Ha ucciso mia figlia e adesso gli danno anche un premio - ha dichiarato con amarezza Frances Austin, madre della vittima al New York Times. Non riesco a crederci". Minotaur, la casa editrice che ha pubblicato l’opera, ha respinto le critiche e controbatte: "Non ha scritto un libro di memorie in cui racconta i suoi crimini - spiega un portavoce della casa editrice - Il romanzo poliziesco non ha alcun collegamento con il delitto che l’ha fatto finire in carcere". Alle polemiche Hunt non vuole partecipare, ma ricorda al quotidiano newyorchese la sua triste condizione di condannato e che prima di riacquistare la libertà dovrà attendere almeno 5 anni: "Ho paura di soffocare nella malinconia - spiega il galeotto. Questo è il destino di molti prigionieri. Ho ucciso Joyce Austin, ho ucciso me stesso e mio fratello. È un vuoto che non riuscirò mai a colmare". Spagna: nazionalisti baschi di destra e sinistra in piazza a sostegno dei detenuti Eta www.euronews.com, 13 gennaio 2014 Oltre 100mila persone hanno manifestato a Bilbao per chiedere che i detenuti dell’Eta scontino le loro pene nei Paesi Baschi. Il corteo è stato organizzato - prima volta nella turbolenta storia basca - dalla destra e dalla sinistra nazionaliste, dopo che l’Alta Corte di Madrid aveva vietato quello convocato dall’associazione dei familiari dei prigionieri. Sono circa 600 i membri dell’Eta detenuti in Spagna. "Noi vogliamo che il percorso che abbiamo intrapreso, la stagione della costruzione del dialogo, sia avviata sulla base del rispetto dei diritti umani - sostiene Joseba Egibar, portavoce della destra nazionalista basca - Il dialogo e gli accordi saranno alla base dei nuovi rapporti e le organizzazioni politiche, le istituzioni e la stessa Eta devono venire incontro alle richieste della società basca". L’Eta - che ha dichiarato il cessate il fuoco nel 2011 e potrebbe annunciare a breve il disarmo - è accusata di aver ucciso oltre 800 persone in 40 anni di lotta armata. Il mese scorso, i detenuti hanno riconosciuto l’autorità dei tribunali spagnoli. Iraq: prigionieri torturati da soldati britannici, a Corte Aja dossier con migliaia di casi di Anna Lisa Rapanà Ansa, 13 gennaio 2014 Una nuova ondata di pesanti accuse all’operato delle forze armate dell’Occidente sui fronti di guerra, con inquietanti descrizioni di umiliazioni e maltrattamenti. Questa volta il rischio di scoperchiare comportamenti illegali diffusi, con abusi e torture su detenuti in Iraq, pende sui soldati britannici, dopo che una organizzazione tedesca per la difesa dei diritti umani insieme ad uno studio legale inglese ha raccolto prove e testimonianze in un dettagliato dossier inviato ora alla Corte Penale Internazionale dell’Aja. Il rischio di un nuovo scandalo è concreto, con il coinvolgimento diretto di governo e vertici militari a Londra che potrebbero essere costretti a rispondere di crimini di guerra. Lo scopo del dossier è infatti quello di indurre la Corte penale internazionale ad aprire un’inchiesta per crimini di guerra sulla base dell’articolo 15 dello Statuto di Roma. Il governo britannico però respinge con forza le accuse, escludendo che i suoi soldati inviati in Iraq abbiano perpetrato le "sistematiche" torture descritte nel dossier. E ricordando che indagini a riguardo sono già state condotte, afferma che per gli incresciosi casi emersi i provvedimenti adeguati sono già stati presi. È intervenuto il ministro degli Esteri in persona, William Hague, per sottolineare che "tali accuse sono comunque già oggetto di indagine e in alcuni casi già riscontrati e riconosciuti, per cui il governo ha già espresso rammarico, le appropriate scuse e i conseguenti risarcimenti sono già stati disposti". È tuttavia la prima volta che queste arrivano al Cpi e con la motivazione che esistono responsabilità individuali, nello specifico vertici militari e al ministero della Difesa. Phil Shiner, dello studio legale Public Interest Lawyers (Pil), ha spiegato che il dossier contiene elementi secondo cui le responsabilità "sono ai più alti livelli" e che la Cpi non può esimersi dal fare un’indagine prima di decidere se procedere o meno. "Si tratta di responsabilità individuali in crimini di guerra", ha detto, sottolineando che è un "fatto storico. La Gran Bretagna non è mai stata oggetto di indagine da parte della Corte penale internazionale". Shiner e il suo studio legale rappresentano oltre 400 iracheni, con "migliaia di accuse di maltrattamenti fino a torture, che sono crimini di guerra, o trattamenti crudeli, inumani e degradanti" e che riguarderebbero detenuti civili. Nelle 250 pagine del dossier - che verrà presentato il prossimo martedì a Londra e i cui contenuti sono stati anticipati oggi sulla stampa - si descrivono persone "incappucciate", costrette a elettroshock, aggressioni sessuali, finte esecuzioni, minacce di stupro e di morte e "umiliazioni culturali e religiose", nel periodo che va dal 2003 al 2008. Medio Oriente: a Gaza nasce il primo bimbo da una "gravidanza di lotta" www.articolotre.com, 13 gennaio 2014 La "gravidanza di lotta" è la nuova forma di combattimento dei palestinesi: fanno nascere i figli dei detenuti portando di contrabbando nella Striscia di Gaza il loro seme. Gaza, Sperma di contrabbando. Hassan, il primo bimbo a nascere da una "gravidanza di lotta". È nato qualche giorno fa a Gaza, Hassan, un bimbo concepito con inseminazione artificiale con lo sperma di un detenuto rinchiuso in carcere. È il primo bambino a nascere a Gaza grazie a una "gravidanza di lotta". Lo ha annunciato una associazione di detenuti. Questo caso, già ricorrente fra i prigionieri palestinesi in Cisgiordania, costituisce invece un precedente per la Striscia di Gaza sottoposta a blocco israeliano, secondo il direttore dell’associazione prigionieri Waed di Gaza, Saber Abu Karch. I genitori del piccolo Hassan sono Tamer al-Zàanin, 29 anni, e Hana, 26. E non si vedono da sette anni: lei vive chiusa nella Striscia; lui è recluso nella cella di una prigione israeliana con l’accusa di terrorismo e uscirà fra cinque anni. Il liquido seminale di Tamer, infatti, è stato portato clandestinamente nei territori occupati dove in un laboratorio medico di Gaza due specialisti l’hanno usato per fecondare Hana. L’anno scorso, in Cisgiordania, sono stati tre i bimbi nati grazie a questa nuova forma di sfida all’occupazione israeliana e alle politiche detentive di Tel Aviv. Secondo fonti vicine alla famiglia, Tamer Zaanin, 29 anni, condannato a 12 anni di reclusione dalla magistratura israeliana, è stato arrestato nel 2006, solo tre mesi dopo il matrimonio. Circa 5.000 palestinesi sono detenuti in Israele che non autorizza loro delle visite coniugali.