In carcere per parlare del senso della vita: l’esperienza di una classe delle superiori Il Mattino di Padova, 3 febbraio 2014 Prendete una classe di studenti delle superiori, fatela entrare in carcere, respirare l’aria triste della privazione della libertà, lasciare fuori quei cellulari da cui i ragazzi non si separano mai, attraversare dieci cancelli e poi arrivare a incontrare alcuni detenuti. Ascoltare le loro testimonianze, per la prima volta provare a guardare la realtà "con gli occhi del nemico" e capire che il nemico non è così diverso da noi. Riflettere sul male da cui ognuno di noi vorrebbe essere immune, e uscire da questa esperienza con la consapevolezza che il carcere può diventare anche il luogo di un confronto profondo e importante tra la società e chi ne è stato escluso perché ha rotto il patto sociale. A raccontarci questo percorso di conoscenza molto particolare è una intera classe, che ha deciso di fissare sulla carta emozioni, riflessioni, ragionamenti nati da un progetto, che a Padova e nel Veneto porta ormai migliaia di ragazzi a parlare di legalità in carcere. L'esperienza che abbiamo fatto è servita a riflettere sul valore della libertà Il 16 dicembre la classe 4EA dell’istituto tecnico industriale "Cardano" di Piove di Sacco ha fatto visita al penitenziario "Due Palazzi" in occasione del progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere". Abbiamo iniziato il progetto alla fine di ottobre; la nostra insegnante ha introdotto l’argomento partendo dal programma di storia, parlando dell’illuminismo, dei personaggi importanti di questa corrente storico - culturale, soffermandosi prevalentemente sulla figura di un uomo che fino a quel momento sapevamo era colui che aveva scritto "Dei delitti e delle pene". Cesare Beccaria rappresentava per noi solo un personaggio da studiare, uno che aveva affrontato problemi delicati così come facevano generalmente i grandi filosofi e uomini di cultura in un’epoca in cui era possibile parlare di tutto, in cui era possibile esprimere il proprio punto di vista, mettendo in risalto la ragione, l’idea, il pensiero libero e indipendente pur di uscire da quella condizione di minorità che tanto infastidiva gli illuministi. Ma Cesare Beccaria e il suo pensiero hanno dato vita ad un percorso che ha messo in piedi questo magnifico progetto, da semplice esponente dell’illuminismo italiano è diventato il simbolo del nostro percorso scolastico che ha avuto il suo culmine quel 16 dicembre, giorno in cui le nostre vite si sono confrontate con quelle di persone che mai avremmo pensato di incontrare nel nostro cammino, nella nostra esperienza di studenti, di giovani che spensieratamente vivono la propria quotidianità tra studio, amici, sport e famiglia. Qualche settimana prima la nostra insegnante ci ha chiesto di rispondere a delle domande riguardo al carcere, i detenuti e la severità delle pene. Ognuno ha espresso le proprie idee, molto liberamente abbiamo scritto quello che pensavamo, quello che sapevamo perché sentito dire, abbiamo espresso sentimenti di rabbia, di rancore, abbiamo descritto la " pena ideale", ma mai avremmo pensato a una svolta simile, quella svolta che ci ha fatti rinascere nella testa, nelle idee, nei pensieri e anche nell’anima. Il 16 dicembre siamo partiti dal nostro istituto convinti di fare la solita uscita didattica per poi ritornare a casa e raccontare della giornata trascorsa al di fuori delle mura scolastiche. Invece la nostra giornata si è trasformata in un momento di riflessione, di pausa interiore, di scoperta. Ci siamo ritrovati all'interno di un carcere. L'idea che abbiamo sempre avuto del carcere è quella di un luogo buio, angusto, freddo. Appena entrati, quella sensazione di chiusura e oppressione non ci ha colpiti particolarmente; guardare quelle mura e quei cancelli altissimi con le guardie del penitenziario appostate lì davanti ci ha fatto subito fare un paragone, tutti ridendo abbiamo detto: "A parte i cancelli alti non sembra diverso dalla nostra scuola"; nessuno immaginava ancora la stupidità di quel paragone. Nel momento in cui ci hanno chiesto di lasciare tutto, i nostri cellulari, i nostri effetti personali, le nostre carte d'identità, lì abbiamo provato una strana sensazione, come se ci privassero della nostra vita, delle cose importanti a cui siamo legati, come se violassero le nostre vite. Siamo entrati, i cancelli si chiudevano al nostro passaggio; sembrava che un pezzo della nostra libertà rimanesse fuori, insieme all'aria e al sole che avevamo appena lasciato alle nostre spalle. Il rumore delle sbarre, i passi amplificati dall'eco, le guardie sempre pronte ad aprire e chiudere i cancelli, le videocamere apposte agli angoli del corridoio e poi quello stridulo, assordante garrito dei gabbiani che volavano alti nel cielo. La loro presenza sembrava un grande paradosso, il simbolo per eccellenza della libertà sembrava prendersi gioco di quel luogo così sorvegliato e controllato, laddove tutto era scandito dalle regole. La famosa frase "a me non succederà mai" è solo una frase sciocca Da spensierata e scherzosa, quale era stata all'inizio, la nostra visita si stava trasformando in qualcosa di più serio, tutto diventava più tetro. Attraversare il corridoio e incrociare gli sguardi dei detenuti, era una sensazione di grande impotenza; vedere la loro faccia nascosta dalle sbarre, i loro occhi che guardavano con voracità la "libera gioventù", ci ha messo addosso tristezza e angoscia a tal punto che molti di noi non hanno avuto il coraggio di alzare lo sguardo. In quell'attimo non abbiamo provato paura, ma solo rispetto, ci siamo sentiti quasi in colpa per essere così fortunati e padroni della nostra libertà. Ci siamo sentiti spinti dalla curiosità, dalla voglia di conoscere, di capire meglio, di approfondire un argomento che era iniziato qualche mese prima con una semplice lezione di storia. Ci hanno condotti nella biblioteca, ci siamo seduti, mentre i nostri sguardi incrociavano quelli dei detenuti che stavano lì seduti composti, pronti per raccontare le loro storie. Abbiamo ascoltato con interesse storie di uomini che minimamente darebbero l'idea di commettere un crimine. Istruiti, con la voglia di continuare nonostante tutto, con la volontà di proseguire gli studi per migliorarsi, anche se per molti di loro questo non servirà a riscattare la libertà ormai persa, ma sicuramente a dare dignità alla propria esistenza, a trovare spazio nelle idee, nei pensieri e a dare un senso alla vita, quella vita interrotta, ma che comunque ha un grande valore e come tale ha bisogno di essere rispettata e protetta. Lo fanno attraverso questo progetto che ha lo scopo di far rinascere. Loro rinascono tutte le volte che ci guardano negli occhi, quando intimoriti e insicuri ci accomodiamo nelle sedie, quando nel nostro sguardo si percepisce la voglia di libertà, e questa libertà la gustano loro attraverso noi; noi siamo "gocce di vita", abbiamo questo grande potere, che fino a quel momento non sospettavamo minimamente di possedere: abbiamo il potere di far star bene chi, purtroppo, il bene più grande l'ha perso. Siamo convinti che l'esperienza che abbiamo fatto è servita a riflettere sul senso della vita, sul valore della libertà, sugli errori che a volte possono essere fatali, su quelle piccole cose che hanno un valore immenso e che per noi sono scontate e spesso non riusciamo ad apprezzare, forse per abitudine. Siamo ritornati a casa sicuramente rafforzati; qualcosa in noi è cambiato: sicuramente abbiamo accantonato i pregiudizi e imparato che "condannare" non appartiene al potere umano; abbiamo imparato che nella vita si può sbagliare e che nessuno è esente dall'errore, che la famosa frase "a me non succederà mai" è solo una frase sciocca e che tutti possiamo cadere nelle trappole che la vita ci costruisce. Abbiamo imparato che il conto va pagato, prima o poi, e che le responsabilità vanno prese fino in fondo. Vogliamo ringraziarVi perché le vostre lezioni sono lezioni di vita, una scuola che si apre al mondo e che aiuta a crescere. Vi auguriamo di godere il più a lungo possibile di questa libertà che riuscite a respirare attraverso le visite di noi studenti e a noi studenti di poter accogliere come un dono le vostre testimonianze per poter crescere sani nella legalità e nella responsabilità. Un caloroso saluto Gli alunni della 4EA Giustizia: sovraffollamento delle carceri… cause, effetti e possibili rimedi di Fabio Massimo Gallo (Presidente della sezione lavoro Corte d’appello di Roma) Specchio Economico, 3 febbraio 2014 Il decreto legge svuota-carceri ha i caratteri di un provvedimento clemenziale atipico, destinato ad aggravare in modo significativo il lavoro dei magistrati di sorveglianza e del personale e che sortirà l’effetto di porre in libertà al massimo 7 mila persone su 20 mila eccedenti. Con la sentenza pilota dell’8 gennaio 2013 la Corte europea dei Diritti dell’Uomo-Cedu ha accertato la violazione da parte dell’Italia dell’articolo 3 della Convenzione europea che riconduce nella proibizione della tortura anche il divieto di pene o situazioni disumane o degradanti derivanti dal sovraffollamento carcerario. Con detta sentenza la Corte ha condannato l’Italia al risarcimento del danno in favore dei ricorrenti, ed ha assegnato un anno di tempo per prevedere un meccanismo interno per il risarcimento del danno, ove non provveda ad adeguare le condizioni detentive al rispetto della persona, come dettato della decisione stessa; e poiché il termine annuale decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza, 28 maggio 2013, il 29 maggio 2014 è la data di scadenza del termine concesso per evitare la decisione, di sicuro accoglimento delle centinaia di ricorsi proposti per lo stesso motivo nei confronti dell’Italia, la cui trattazione è stata sospesa dalla Corte in pendenza del termine. Non è la prima volta che il nostro Paese viene condannato al risarcimento del danno per le insostenibili condizioni della vita in carcere, essendo già accaduto con la sentenza del 16 luglio 2009, ricorrente Sulejmanovic, ma in quella occasione, come sottolineato nel messaggio del Presidente della Repubblica, la Corte di Strasburgo non aveva fissato un termine per risolvere la questione, come invece ha fatto con questa nuova decisione, a riprova dell’accresciuta preoccupazione dei giudici europei per la situazione carceraria italiana. È utile, a questo punto, un brevissimo excursus sulla Corte EDU, che non è organo dell’Unione Europea. Il diritto comunitario ha origine tanto normativa quanto giurisprudenziale, derivando in misura notevole dalle sentenze delle due Corti e dall’attività dei giudici nazionali, anche attraverso il dialogo tra Corte di Giustizia Europea, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e Corte Costituzionale di ciascun Paese membro. È proprio attraverso l’attività della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, istituita nel 1959, che ha trovato progressiva espansione la forza dei principi comunitari in tema di diritti fondamentali, prima ancora di arrivare al momento rappresentato dall’articolo 6 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 che al punto 2 recita: "L’unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati". Il successivo punto 3 del Trattato Ue afferma: "I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali". Tutto il cammino verso la realizzazione di un’Unione Europea è caratterizzato dalla ricerca di delicati equilibri tra il perseguimento di interessi comuni - in campo economico, militare, politico, giudiziario - e la resistenza di ciascuno Stato per difendere settori più o meno ampi della propria sovranità, con vicende difficili e discontinue, ove successi ed insuccessi si sono alternati per decenni in una situazione di incertezza ancora non del tutto superata, e rinfocolata dai problemi economici degli ultimi anni. Analogamente, con slanci in avanti e battute d’arresto, si sono sviluppati i rapporti tra diritto nazionale e diritto europeo, connotati dalla resistenza delle Corti costituzionali di fronte alle decisioni della Corte Edu o della Corte di Giustizia, e dalla difficoltà - per il singolo giudice - di individuare la normativa comunitaria immediatamente esecutiva, senza cioè la necessità di una legge nazionale di recepimento, nonché i principi comunitari, anche derivanti da decisioni, ai quali conformare la normativa nazionale applicabile al caso concreto. Per quanto riguarda l’Italia, va anzitutto ricordato che l’articolo 10 comma I della Costituzione stabilisce che "L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute". Inoltre l’articolo 117, I, nel testo modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, prevede che "La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". In tal modo è stata attribuita copertura costituzionale anche alle disposizioni convenzionali, compresa la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, con la conseguenza che il contrasto tra norma interna e Convenzione EDU costituisce oggi una questione di legittimità costituzionale, da sottoporre alla Corte Costituzionale se non risolvibile dal singolo giudice in via interpretativa. Allo stato, il complesso rapporto tra giurisprudenza della Corte EDU, della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale, e la connessa questione dei poteri-doveri del giudice nazionale di fronte alle norme comunitarie e ai diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione Edu, possono sintetizzarsi come segue. Il giudice italiano ha il potere-dovere di applicare direttamente le norme europee provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato, ovvero dei diritti inalienabili della persona (tra tante, sentenze costituzionale n. 80 del 2011, e della Cassazione n. 4049 del 19 febbraio 2013). In caso di contrasto tra la normativa nazionale applicabile e i principi fondamentali della Convenzione Edu non direttamente applicabili, al giudice italiano non resta altro rimedio che la questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 117 della Costituzione (ancora, Cassazione n. 4049 del 19 febbraio 2013). Le sentenze della Corte di Giustizia - non si riscontra identica affermazione per quelle della Corte Edu che, come già ricordato, non è un’istituzione della UE - prevalgono su quelle delle Corti costituzionali chiamate a pronunziarsi su principi generali analoghi a quelli comunitari, se le normative nazionali rientrano nella sfera di applicazione del diritto comunitario (Corte di Giustizia CE del 7 settembre 2006, C-81/05, Cordero Alonso). Ciò posto, la sentenza Torreggiani della Corte Edu, equiparando il sovraffollamento carcerario alla tortura, ha comunque ribadito un principio generale cui il nostro Paese deve adeguare il proprio sistema carcerario, ed ha altresì espressamente rilevato il malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano, oltre ovviamente alla condanna al risarcimento del danno. La motivazione della medesima sentenza ha poi dato ampiamente atto della lentezza della risposta italiana al problema, ed ha indicato, sia pure in linea generale, alcuni strumenti per evitare questa situazione, più rapidi della realizzazione di nuove strutture carcerarie, tutti in vario modo riconducibili a pene alternative rispetto alla detenzione in carcere. Il sistema normativo-giudiziario delineato impone di tenere conto di tale decisione. La situazione carceraria: ragioni del problema Esaminando ora in concreto la situazione all’interno delle carceri italiane, emerge che, secondo i dati del Ministero della Giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria, al 31 ottobre 2013, di fronte a una disponibilità regolamentare di 47.615 posti, il numero delle persone detenute ammontava a 64.323, compresi i detenuti in regime di semilibertà. Che le condizioni di vita dei detenuti siano troppo spesso intollerabili è ormai un dato di comune conoscenza, ed è stato accertato, sia pure in riferimento alla vicenda processuale, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; ed anche nel messaggio di fine anno agli italiani il Presidente Giorgio Napolitano non ha mancato di richiamare l’attenzione sul problema. La causa del sovraffollamento non risiede però nel numero dei detenuti che, come evidenziato dallo stesso Capo dello Stato nel messaggio suddetto, non è superiore alla media europea, mentre è avvilente il sovraffollamento, ossia il rapporto tra detenuti presenti e posti disponibili, che ci vedeva, nel 2011, nel penultimo posto con una percentuale del 147 per cento, seguiti solo dalla Grecia con il 151,7 per cento. Quanto al numero dei detenuti in rapporto alla popolazione, possiamo citare i dati dell’ultimo rapporto disponibile dell’Istat, del dicembre 2012, che indica 112,6 detenuti ogni 100.000 abitanti, rispetto a una media europea di 127,7; guardando oltre Atlantico, nel 2012 gli Stati Uniti d’America avevano 2.300.000 persone ristrette, con un rapporto di 761 detenuti ogni 100.000 abitanti. Verosimilmente, allora, lo squilibrio non deriva da un eccessivo ricorso alle pene detentive, bensì dalla mancanza di un adeguato numero di edifici adibiti a carceri, in una parola dall’insufficienza dell’edilizia carceraria oltre che, in minore misura, dalla durata dei processi. È anche opportuno ricordare che su 64.323 detenuti, di cui 22.770 stranieri (il dato si riferisce al 31 ottobre scorso) quelli che hanno riportato una condanna definitiva sono 38.845, numero già molto vicino all’intera disponibilità di posti; gli altri ristretti sono considerati in regime di custodia cautelare perché in attesa di sentenza definitiva. Si deve però evidenziare che la nozione di custodia cautelare include anche soggetti che hanno già riportato almeno una condanna in primo grado o addirittura in grado di appello, ricorrenti per cassazione, sicché il numero dei detenuti in attesa della prima decisione si riduce in concreto a 12.333 unità, cifra pur sempre rilevante ma pari al 19 per cento del totale. In tale contesto la ricerca di soluzioni alternative alla reclusione risponde indubbiamente alla necessità di adeguare il numero della popolazione carceraria all’effettiva capienza del sistema, ma non rappresenta un’esigenza di politica criminale per mitigare un sistema sanzionatorio i cui effetti non appaiono più duri della media europea. Va anche detto che alcune strutture sono in corso di realizzazione - 4.000 nuovi posti dovrebbero essere pronti per il mese di maggio 2014 - e altre non molte potrebbero, come alcuni vecchi carceri mandamentali, essere utilizzate immediatamente o riattivate con pochi interventi, ma non vengono messe in funzione per mancanza di personale, problema sul quale ritorneremo tra breve. Le conseguenze del sovraffollamento Che la situazione di sovraffollamento, quali ne siano le cause, sia inaccettabile, è comunque un fatto che non può essere messo in dubbio. Se infatti all’afflizione connaturata allo stato di reclusione, e derivante dalla privazione della possibilità di movimento, della facoltà di organizzazione della vita quotidiana, dalla lontananza dagli affetti, dalle amicizie, dai propri interessi, si aggiungono i disagi non necessari provocati dalla ristrettezza degli spazi a disposizione, dalla conseguente inadeguatezza di tutti i servizi, dall’aumento di conflittualità tra i detenuti stessi, dalla maggiore difficoltà di svolgere qualsiasi attività giornaliera, si comprende agevolmente il motivo della condanna della Cedu nei confronti del nostro Paese. Inoltre, come pure sottolineato dal Presidente della Repubblica nel messaggio alle Camere, il danno all’immagine nazionale sulla scena europea non è il solo, né il prevalente, motivo che impone di porre mano con decisione al problema. Considerazioni di ordine etico ed umanitario, peraltro ripetutamente segnalate anche da recenti interventi di diversi Pontefici, impongono infatti di non aggravare oltre il necessario le condizioni delle persone in carcere, di rendere più umano il trattamento e facilitare quanto più possibile il recupero morale e sociale dei detenuti. È davvero paradossale che la patria di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, pensatori che hanno insegnato all’Europa e al mondo intero il concetto di pena in senso moderno, si trovi esposta, sia pure non per dolo ma certo per colpa grave, a pesanti critiche sul piano morale e su quello giuridico per le condizioni di vita dei propri detenuti; i quali, giova ricordarlo, non rappresentano una percentuale superiore alla media europea. La condizione di sovraffollamento delle carceri italiane comporta una serie di ulteriori effetti negativi, anzitutto rendendo più difficoltoso l’apprendimento di un mestiere, fattore essenziale per il recupero morale e il reinserimento sociale del detenuto, circostanza evidenziata anche dalla Corte dei Conti e puntualmente segnalata dal Presidente della Repubblica nel messaggio dell’8 ottobre scorso. Inoltre è intuitivo che condizioni di vita ai limiti della tortura, come ritenuto dalla Corte Edu, aumentano lo sconforto e il senso di abbandono dei detenuti, con ripercussioni a volte tragiche come i suicidi drammaticamente dimostrano. Sul piano strettamente economico, è probabile una serie di altre condanne per risarcimento del danno da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in caso di perdurante inadempimento da parte italiana dei principi di cui alla menzionata sentenza. E non è da escludere una procedura di infrazione da parte della stessa Unione Europea. L’eccessivo numero di ristretti rende poi assai più arduo il controllo sull’attività svolta all’interno del carcere ove l’affollamento favorisce con tutta evidenza la prosecuzione di attività criminali da parte dei detenuti più aggressivi o "potenti", anche attraverso il dominio sul territorio come i recentissimi fatti di Mammagialla a Viterbo - la grande rissa di Capodanno tra detenuti per la supremazia nel carcere - hanno messo ancora una volta in luce. Nell’affrontare la questione carceraria non bisogna infatti dimenticare che il sovraffollamento si riflette negativamente e direttamente sul Corpo della Polizia penitenziaria, il cui organico fissato per legge - decreto legislativo 146/2000 e decreto ministeriale 8 febbraio 2001 - prevede 534 unità per il personale dirigenziale, 1.376 funzionari con professionalità giuridico-pedagogica, 1.630 funzionari con professionalità di servizio sociale e 41.281 agenti. Di fronte a tale previsione, al 30 agosto 2013 risultavano in servizio 416 unità per il personale dirigenziale, 1.002 funzionari con professionalità giuridico-pedagogica, 1.058 funzionari con professionalità di servizio sociale e 37.590 agenti (fonte Dipartimento Amministrazione penitenziaria). A causa di queste rilevanti carenze (molti carceri sono privi di direttore e mancano quasi 3.700 agenti e più di 2.000 tra operatori con professionalità pedagogica e di servizio sociale) il rapporto del personale operativo, di fronte ad oltre 65.000 detenuti è largamente inferiore alla parità, e sarebbe inferiore anche rispetto al numero dei posti disponibili (47.000). Tale situazione, aggravata dall’impiego della Polizia penitenziaria in compiti ulteriori rispetto al servizio nelle prigioni (traduzione dei detenuti, sicurezza presso varie strutture del Ministero della Giustizia ecc.) rende particolarmente faticoso e logorante, sul piano sia fisico che psichico, il compito degli agenti di custodia effettivamente impegnati nel servizio carcerario, spesso con manifestazioni tragiche come dolorosamente ricordano i 7-8 suicidi annuali tra gli agenti. Indubbiamente si potrebbero eliminare i servizi di traduzione detenuti, sicurezza del Ministero ecc. recuperando un certo numero di unità, ma non si arriverebbe mai a colmare la scopertura dell’organico. Inoltre, restituire il servizio traduzione detenuti ai Carabinieri sposterebbe semplicemente sull’Arma il conseguente problema, stante l’insufficienza di organici anche della Benemerita; affidare a privati quei compiti di protocollo, amministrativi e controllo visitatori oggi svolti dalla Polizia penitenziaria presso varie sedi del Ministero della Giustizia imporrebbe l’assunzione di altro personale, sia pure in regime di collaborazione coordinata e continuativa (ancora possibile per la Pubblica Amministrazione) con conseguenti ulteriori spese; e dunque, come si vede, alla fin fine tutto si riduce, ancora una volta, a una questione di disponibilità di mezzi finanziari. Alcune soluzioni ipotizzabili Il Presidente della Repubblica ha individuato, nel più volte citato messaggio alle Camere, una serie di possibili interventi tra i quali l’adeguamento dell’edilizia carceraria, che però richiede tempi non brevi, e la riduzione del numero complessivo dei detenuti attraverso innovazioni di carattere strutturale quali: l’introduzione di meccanismi di probation, la previsione di pene limitative della libertà ma non carcerarie ad esempio la reclusione presso il domicilio, la riduzione dell’area di custodia cautelare in carcere, lo sforzo per far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena nei loro Paesi di origine, l’attenuazione degli effetti della recidiva. Solo come rimedi straordinari il Capo dello Stato ha infine indicato l’indulto e l’amnistia per fronteggiare l’emergenza in attesa della adozione di soluzioni strutturali. Ci sia ora consentita qualche riflessione sulle ipotesi sopra riportate, muovendo dalla considerazione che la detenzione, da applicare certamente con parsimonia e sempre nel rispetto della dignità umana, risponde pur sempre ad una serie di esigenze sociali. Anche abbandonando la teoria dell’espiazione, occorre infatti ricordare che la pena detentiva assolve a molteplici funzioni, prima fra tutte assicurare ai cittadini la fiducia nelle istituzioni ed evitare che "cives ad arma ruant", cioè cedano alla tentazione di farsi giustizia da soli, il che è lo scopo primario di ogni sistema di diritto. La pena deve anche avere una certa funzione deterrente, sempre a tutela della collettività, e impedire la commissione di altri reati da parte del reo. Il bilanciamento tra tali esigenze di difesa sociale cui si affianca la funzione rieducativa, e il rispetto della persona del detenuto rappresentano il punto focale di tutta la questione. Orbene, se da una parte è indispensabile assicurare la dignità, la sicurezza e la salute dei detenuti, dall’altra è parimenti fondamentale che i cittadini non perdano la fiducia nello Stato, che deriva anche dalla certezza della pena. È sotto gli occhi di tutti la contraddittorietà di prese di posizione politiche che di volta in volta invocano maggiore rigore ogni volta che un detenuto in semilibertà, in permesso ecc. evade o commette altri reati generando reazioni nell’opinione pubblica; ogni volta che un indagato per omicidio colposo viene lasciato a piede libero o posto solo ai domiciliari; ogni volta che gli autori di delitti di ampia risonanza vengono condannati a pene ritenute troppo miti. E che alternativamente invocano riduzioni della custodia cautelare, la scarcerazione anticipata di tizio o caio a seconda della simpatia politica o umana che ispira, magari per la popolarità acquisita nel mondo dello spettacolo, l’allargamento di forme di reclusione non detentive. Il recente decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, cosiddetto decreto Svuota carceri, con la scelta di estendere temporalmente i periodi di liberazione anticipata, presenta - al di là di ogni considerazione di opportunità - i caratteri di un provvedimento clemenziale atipico, destinato ad aggravare in modo significativo il lavoro dei magistrati di sorveglianza e del relativo personale amministrativo, e che sortirà l’effetto di porre in libertà, si stima, al massimo 7.000 persone su un’eccedenza di circa 20.000. È di questi giorni, per contro, la proposta di introdurre il reato di omicidio stradale, iniziativa del tutto superflua tecnicamente e nel concreto, ma destinata a placare in qualche modo l’allarme sociale derivante dall’aumento di tali condotte. Quanto alla possibilità di far scontare ai detenuti stranieri nel Paese di origine la pena inflitta in Italia, è intuitivo che tale soluzione, indubbiamente ragionevole, non dipende evidentemente solo da scelte del nostro Legislatore, ma richiede la collaborazione degli Stati di provenienza, ottenibile attraverso accordi internazionali di non facile né rapida realizzazione. Riflessioni finali Sia pure con la consapevolezza di battere in breccia per l’ennesima volta il principio di effettività della pena, con conseguente insoddisfazione di gran parte della cittadinanza e senso di frustrazione per forze dell’ordine e magistratura, un provvedimento generalizzato di clemenza, indulto o amnistia, o entrambi secondo la scelta del Legislatore, appare attualmente da prendere seriamente in considerazione come l’unica risposta possibile, in tempi rapidi, a una situazione che ci scredita agli occhi del mondo e stride con la nostra coscienza di Paese civile. Tra l’indulto che estingue la pena, e l’amnistia che estingue il reato, dovendosi ricorrere ancora una volta a una soluzione emergenziale, appare più costruttivo il ricorso all’amnistia, per gli effetti indotti e per la maggiore semplicità di applicazione, a tutto vantaggio della speditezza del risultato e del risparmio di energie degli organi giudiziari. Trattando dei problemi di qualsiasi settore dell’amministrazione della giustizia, infatti, non bisogna mai dimenticare quali sono le risorse umane effettivamente disponibili: così, di fronte a un organico complessivo di 10.151 magistrati tra giudicanti e inquirenti stabilito dalla legge n. 181 del 2008, sono in servizio in Italia alla data del 7 gennaio 2014 complessivamente 9.118 magistrati, inclusi 649 in tirocinio che non svolgono funzioni giurisdizionali, e il numero effettivo dei posti vacanti negli uffici è pari a 1.498. Non meno gravi le carenze per il personale amministrativo: infatti, mentre la dotazione organica del personale amministrativo non dirigenziale, prevista per legge, è pari a 43.702 unità, di cui 37.778 per personale amministrativo e 5.924 per personale Nep, le presenze lo scorso mese di settembre ammontavano a 31.971 per il personale amministrativo e 4.682 per il personale Nep; infine, la dotazione complessiva nazionale dei dirigenti è fissata in 420 posti, ma le presenze sono 238. Stabilire quali reati, quali pene residue possano costituire oggetto dei provvedimenti di clemenza è ovviamente compito del Parlamento. Possiamo però ricordare che nel 2006, dopo l’ultimo provvedimento di indulto, la popolazione carceraria scese a 40.000 unità, per poi ritornare a 60.000 dopo appena due anni, nel 2008, con il rientro di gran parte dei soggetti che, usciti per effetto dell’indulto, avevano ripreso l’attività delinquenziale. Si può realisticamente affermare, dunque, che il numero di 60.000-65.000 detenuti, sostanzialmente stabile negli ultimi sette anni, è fisiologico in rapporto alla popolazione effettivamente presente in Italia, inclusi gli stranieri, e di conseguenza un nuovo provvedimento generale di clemenza servirebbe solo a tamponare, una volta di più, l’emergenza ma non risolverebbe assolutamente il problema. È quindi indispensabile porre mano, al più presto, a un massiccio piano di edilizia carceraria, per adeguare la disponibilità effettiva di posti letto e relativi servizi al prevedibile numero medio di detenuti. Si ha notizia di un piano del Dap per ampliare di 21.000 posti la capienza delle strutture esistenti, portandole così a coprire appieno le prevedibili esigenze. Tale iniziativa, a parte i necessari tempi di realizzazione, avrebbe un costo di 350 milioni di euro, somma ingente che però corrisponde sostanzialmente al rimborso elettorale di tutti i partiti italiani per un paio di tornate elettorali. A titolo di curiosità, ricordiamo anche che uno studio del Ministero dello Sviluppo Economico del 2012 ha individuato in circa 10 miliardi di euro l’anno la spesa per il mantenimento degli enti inutili. Il recupero delle spese di giustizia, a tutt’oggi problematico a dir poco, potrebbe essere un’ulteriore fonte di provvista a vantaggio dell’edilizia carceraria. Forse, indagando con buona volontà nelle pieghe del bilancio statale e agendo sul funzionamento della Pubblica Amministra-zione, non sarebbe impossibile adottare l’unica soluzione realmente in grado di contemperare le esigenze di tutela della società con quelle del rispetto per la dignità e la salute dei detenuti. Tanto più che un ambiente carcerario più umano consentirebbe, come già ricordato, di portare avanti con maggiori speranze di successo l’opera di riabilitazione morale e di reinserimento sociale voluta dalla nostra Costituzione. Nel breve periodo sarebbe anche importante agire per aiutare concretamente gli ex detenuti, usciti con o senza benefici, a reperire un lavoro, una sistemazione o almeno un sostegno sociale che consentano loro di non cedere alla tentazione di ricadere immediatamente nella commissione di reati. Opinioni divergenti si riscontrano tra gli operatori del diritto sulla reale efficacia di una politica di depenalizzazione ai fini della diminuzione della popolazione carceraria. Da una parte viene evidenziato che il 95 per cento dei ristretti è in carcere per produzione e spaccio di sostanze stupefacenti, rapine, estorsioni, furti reiterati; il rimanente, per violenza sessuale, associazione mafiosa, omicidio, reati per i quali una depenalizzazione è impensabile. D’altra parte si obietta che le pene detentive per alcuni reati minori, che assai raramente vengono espiate in carcere, possono però influire in sede di esecuzione entrando nel computo ai fini del cumulo, facendo scattare la soglia ostativa alla concessione della sospensione o delle pene alternative: pertanto, sia pure indirettamente, la depenalizzazione di alcuni reati minori ancora oggi puniti con pene detentive potrebbe agire positivamente sul numero dei detenuti. In ogni caso una seria depenalizzazione consentirebbe quanto meno un recupero di costi, di energie e di strutture, a tutto vantaggio dell’efficienza della giustizia e della rapidità delle decisioni, riducendo in particolare gli spazi della cosiddetta custodia cautelare, che sempre suscita perplessità, più o meno fondate. Certo, la soppressione degli articoli da 394 a 401 del Codice penale, attuata - sia detto, ad onor del vero, unitamente ad altre ipotesi di reato - con la legge 25 giugno 1999 n. 205, non ha prodotto grandi risultati in tal senso: articolo 394, sfida a duello; 395, portatori di sfida; 396, uso delle armi in duello; 400, offesa per rifiuto di duello e incitamento al duello; articolo 401, provocazione al duello per fine di lucro. Giustizia: Sappe; detenuti stranieri inviati in Paesi origine, nel 2012 solo 920 espulsioni Adnkronos, 3 febbraio 2014 "Gli stranieri condannati scontino la condanna nei Paesi d’origine. E se rientrano in maniera illecita in Italia, si preveda per loro l’aumento di un terzo della pena". Lo dice all’Adnkronos Donato Capece, segretario generale del Sappe, rilanciando la proposta del sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria: "Le norme per l’espulsione dei detenuti sono contenute nei trattati bilaterali siglati dall’Italia con gli altri Paesi, ma non vengono rispettate". Capece snocciola alcuni dati. Dei 62.536 detenuti presenti nelle carceri italiane (dati al 31 dicembre 2013), "21.854, ovvero il 34,95%, sono stranieri". Per il Sappe, il governo "deve potenziare le espulsioni degli stranieri detenuti in Italia. Parliamo a livello nazionale di soli 896 espulsi nel 2011 e 920 nel 2012: rispetto ai circa 22mila detenuti in Italia sono solo una goccia nel mare". La percentuale più alta di stranieri espulsi riguarda gli albanesi (262, per una percentuale che si attesta al 28,5%), seguiti da marocchini (196, quindi il 21,3%), tunisini (107, 11,6%) e nigeriani (40, pari al 4,3%). Altri 315 (il 34,2%) sono di altri Paesi. "È ovvio che questi numeri limitati - rimarca il Sappe - non producono alcun miglioramento su un sistema penitenziario sovraffollato e al collasso". "Dai dati - sottolinea ancora Capece - si vede chiaramente che gli annunciati impegni della politica per ridurre il sovraffollamento, restano parole e non trovano adeguate risposte nei fatti. Invece far scontare la pena ai detenuti stranieri nei Paesi d’origine, insieme ad altre misure per deflazionare il sistema, possono rendere il carcere più umano". "Da parte nostra non c’è alcun pregiudizio razziale - mette in chiaro il Sappe - è solo un problema di vivibilità nelle carceri e di come rendere la pena più efficace, per scongiurare eventuali recidive. Un modo - conclude il leader dei baschi azzurri del Sappe - per non continuare ad avere le carceri sempre sovraffollate, e fuorilegge". Giustizia: i detenuti stranieri scontino la pena nei Paesi d’origine? proposta impraticabile www.articolotre.com, 3 febbraio 2014 Sono anni che ormai, la proposta, ciclicamente, viene avanzata, risolvendosi con un niente di fatto. Stavolta, a presentarla, è stato Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria. Una proposta, a rigor di logica, molto semplice: in Italia, il problema è il sovraffollamento delle carceri? "Gli stranieri condannati scontino la pena nei Paesi d’origine. E se rientrano in maniera illecita in Italia, si preveda per loro l’aumento di un terzo della pena". "Le norme per l’espulsione dei detenuti", ha aggiunto l’uomo, "sono contenute nei trattati bilaterali siglati dall’Italia con gli altri Paesi, ma non vengono rispettate". Capece sciorina poi alcuni dati, che offrono uno spaccato della terribile situazione in cui versano carceri italiane. A fine dicembre 2013, all’interno delle prigioni nostrane, trovavano spazio 21.854 stranieri, ovvero il 34,95% dei detenuti. Proprio per questo, il governo "deve potenziare le espulsioni degli stranieri detenuti in Italia". "Dai dati", ha proseguito ancora il segretario del sindacato "si vede chiaramente che gli annunciati impegni della politica per ridurre il sovraffollamento restano parole e non trovano adeguate risposte nei fatti. Invece far scontare la pena ai detenuti stranieri nei Paesi d’origine, insieme ad altre misure per deflazionare il sistema, possono rendere il carcere più umano". "Da parte nostra", ha però voluto chiarire Capece, "non c’è alcun pregiudizio razziale è solo un problema di vivibilità nelle carceri e di come rendere la pena più efficace, per scongiurare eventuali recidive." Nessuna ragione per dubitarne, ma resta un aspetto non irrilevante da affrontare: la contestualizzazione. Tralasciando il fatto che il problema del sovraffollamento delle carceri tragga origine anche dalla legge Fini-Giovanardi, che ha condotto dietro le sbarre migliaia di spacciatori e consumatori di droga, resta il rischio di calpestare i diritti dei detenuti, i quali si trovano in Italia a causa dell’immigrazione. Una persona abbandona il proprio paese perchè disperata: per lo più, i migranti, sono persone che, nella propria nazione, hanno conosciuto la miseria e hanno dunque tentato di trovare occupazione e una vita decente altrove. Provengono da paesi poveri o comunque nei quali non vige uno standard di rispetto dei diritti sufficientemente evoluto. Chiedere a questi Paesi di riaccogliere i propri immigrati per far loro scontare la pena - e quindi far pagare le spese ad essa correlate, è assolutamente impraticabile: nessuno di questi stati lo accetterebbe mai. La proposta del Sappe, di fatto, ricorda da vicino quella altrettanto impossibile presentata da Alfano lo scorso agosto, quando l’attuale vicepremier suggeriva di far pagare ai paesi d’origine i costi della detenzione in Italia dei detenuti stranieri. Anche in quel caso, la proposta accolse il favore di molti, ma nulla se ne fece e nulla se ne potrà fare. Giustizia: uccisero Aldrovandi, i quattro agenti di Polizia deferiti alla Corte dei Conti www.globalist.it, 3 febbraio 2014 Ai poliziotti condannati per la morte del ragazzo formalizzata la contestazione di un'ipotesi di danno patrimoniale per il risarcimento pagato dal ministero dell'Interno. Ai quattro poliziotti condannati per l'omicidio Aldrovandi è stata formalizzata la contestazione di un'ipotesi di danno patrimoniale per il risarcimento che il ministero dell'Interno ha pagato ai familiari del giovane ferrarese morto nel 2005 in un controllo. La cifra relativa al danno erariale è di 1.870.934 euro I quattro (Enzo Pontani, Monica Segatto, Paolo Forlani e Luca Pollastri), con un atto di "contestazione di responsabilità ed invito a dedure", sono stati chiamati a replicare alla contestazione, ed hanno 30 giorni di tempo. All'esito delle repliche, se la Procura della corte dei conti fosse soddisfatta la vicenda finirebbe lì, altrimenti verranno citati davanti alla corte. La rivalsa patrimoniale può essere anche parziale e le responsabilità di ciascuno saranno oggetto di valutazione. "È incongruente - ha commentato l'avv. Gabriele Bordoni, che difende Forlani - perchè il fatto è colposo. E così come loro non possono essere espunti dalla polizia perchè si tratta di un reato colposo, malgrado i parenti comprensibilmente lo invochino, per lo stesso motivo non ci può essere rivalsa verso di loro". "Mentre io comprendo e giustifico i familiari di Federico - ha aggiunto Bordoni, non capisco il fatto che si continui sempre a battere sulla testa di questi quattro senza fare una riflessione più ampia su come male fosse stato gestito tutto il servizio quella sera, mandando in campo delle volanti non attrezzate. Così come il 118, dettaglio su cui si è sempre sorvolato, ci ha messo un tempo irragionevole per arrivare. Ci ha messo quasi venti minuti". I quattro agenti hanno scontato i sei mesi residui per via dell'indulto. Sardegna: ministro Cancellieri conferma l’arrivo nell’isola di detenuti in regime di 41-bis di Pinuccio Saba La Nuova Sardegna, 3 febbraio 2014 Un po’ tutti hanno evitato accuratamente termini come massima sicurezza o 41bis, ma le parole del ministro Annamaria Cancellieri, del Provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria Gian Franco De Gesù e dello stesso senatore Luigi Manconi (normalmente critico nei confronti dei regimi di detenzione particolarmente restrittivi), lasciano poco spazio all’immaginazione: anche in Sardegna arriveranno detenuti destinati alla massima sicurezza. Visita ad Alghero Ieri mattina il ministro di Grazia e giustizia ha visitato il carcere di Alghero, uno degli istituti di detenzione più antichi d’Italia ma nel contempo fra i più moderni per quanto concerne il lavoro di recupero e reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Ad accogliere il ministro Cancellieri, c’erano il prefetto di Sassari Salvatore Mulas, il questore Pasquale Errico, il comandante provinciale dei carabinieri Pietro Salsano, i responsabili del forze dell’ordine di Alghero e, naturalmente, il direttore del carcere algherese Elisa Milanesi. Con un breve prologo all’ingresso del carcere, dove il ministro ha salutato con calore il cappellano don Mario Chessa, parroco di Santa Maria La Palma, con un passato in Lotta Continua e stretto collaboratore della direttrice. È stata quest’ultima ad accompagnare la delegazione ministeriale "rinforzata" dalla presenza dei senatori Luigi Manco-ni e Silvio Lai (entrambi Pd), in una breve visita all’interno dell’istituto. E, come era prevedibile, il ministro si è detto molto soddisfatto dei risultati ottenuti dalla piccola struttura penitenziaria, un modello "da esportare in altre realtà", soprattutto "nelle colonie (penali) dove i detenuti sono a bassa pericolosità e a minima sicurezza", ha aggiunto il provveditore De Gesu. Nessun sovraffollamento Concetti più sfumati, invece, quando è stata affrontatala situazione delle carceri sarde, una regione che non ha certo problemi di sovraffollamento. Anzi, come ha sottolineato proprio il ministro Cancellieri, ci sono più posti liberi che in altre parti d’Italia. "A Bancali non abbiamo particolari problemi - ha detto il Guardasigilli: la struttura è nuova e il numero dei detenuti è nettamente inferiore alla capienza massima. Nelle altre realtà, nei nuovi istituti di pena, non abbiano registrato particolari criticità". Alta sicurezza Per quanto riguarda i detenuti ad "alta sicurezza", arriveranno anche in Sardegna, come prevede la normativa nazionale. "Una presenza che non incide sulla società esterna al carcere - ha detto il senatore Luigi Manconi. Sapete bene come la penso sui regimi detentivi particolarmente severi, ma ricordo che in pieno "banditismo sardo" molte città protestarono per l’arrivo dei detenuti sardi. E non mi risulta che la presenza di quei detenuti abbia portato sconquassi in quelle realtà. Questo significa che anche nelle carceri isolane, se ve ne sarà la necessità, arriveranno detenuti destinati all’alta sicurezza". Per quanto riguarda il 41 bis, che nessuno ha citato, il ministro ha sottolineato che "sono comunque situazioni che seguiremo con attenzione in modo che non si creino situazioni di disagio per la popolazione". Sorvolando sul fatto che in tutte le nuove strutture carcerarie sono state realizzate le sezioni di "massima sicurezza" destinate a ospitare capi-mafia e quant’altro, sia a Bancali sia a Nuchis sia a Uta, dove i lavori, ha assicurato il provveditore De Gesù "termineranno a brevissimo", consentendo così lo svuotamento della vecchia "galera" di Buoncammino, una delle peggiori strutture italiane. Pili non ci sta Sulla questione 41 bis è intervenuto duramente il deputato Mauro Pili: "La Sardegna non è immune all’infiltrazione mafiosa, basta scherzare con il fuoco. Sin dalle prossime ore il ministro annunci il blocco totale del trasferimento dei mafiosi" Sardegna: Sdr; De Gesu è stato trasferito, carceri nuovamente senza un provveditore Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2014 "Ancora una volta la Sardegna è fanalino di coda per la Giustizia. Non basta che sono insufficienti i Direttori degli Istituti di Pena, adesso non ha più neanche il Provveditore regionale. È uno scandalo". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" avendo appreso che "Gianfranco De Gesu è stato trasferito alla Direzione generale dell’Ufficio beni e servizi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e mantiene temporaneamente l’incarico regionale a scavalco". "La realtà penitenziaria isolana - sottolinea Caligaris - non è di certo nei pensieri del Ministro della Giustizia. A fronte di una crescita esponenziale dei detenuti, i Direttori ricoprono da sempre più incarichi perché gli interpelli vanno quasi sempre a vuoto. Il Provveditore regionale Gianfranco De Gesu, arrivato in Sardegna nel 2011, un anno dopo il pensionamento del predecessore Francesco Massidda, ha dato un contributo importante ma troppo limitato nel tempo". "La Sardegna - ricorda Caligaris - ha visto erigere nel suo territorio quattro nuove strutture detentive che raddoppieranno il numero dei reclusi. Sta subendo inerte il trasferimento dei detenuti nel regime di alta sicurezza sintetizzato nel 41-bis. Eppure non dispone neppure di un Provveditore regionale a tempo pieno che dovrebbe coordinare il sistema rendendolo efficiente e razionale. Non ci vuole molto a trarre le conseguenze da questa situazione". "Affidarsi alla fortuna - conclude la presidente di SdR - non è accettabile quando si tratta di persone private della libertà e affidate alle cure dello Stato e gli Istituti modello, quando davvero esistono, sono eccezioni". Toscana: Brogi (Pd) contrario alla proroga della chiusura dell’Opg di Montelupo Il Tirreno, 3 febbraio 2014 Enzo Brogi, Consigliere regionale Pd, interviene sullo slittamento al 1° aprile 2017 della chiusura degli Opg, richiesto dalla Conferenza delle Regioni. "Abbiamo a che fare con una situazione che riguarda la vita e la salute di cittadini reclusi in strutture fuori norma e del tutto inadeguate: su questioni di civiltà come queste non si possono tollerare proroghe. Non sono accettabili ulteriori slittamenti alla chiusura degli Opg; la proposta di prorogarne la chiusura non tiene, infatti, conto delle condizioni dei detenuti che ci vivono. È chiaro che la proroga richiesta dalla Conferenza, qualora venga approvata dal Parlamento, non rappresenterà comunque un obbligo; pertanto, auspico che la Toscana vada avanti speditamente come previsto e sia la prima a procedere con il definitivo superamento dell’Opg di Montelupo. Insomma, anche se altre Regioni purtroppo avranno necessità di questo rinvio, sia la Toscana a dare il buon esempio". Napoli: presunti pestaggi nel carcere di Poggioreale, si va verso l’inchiesta unica di Giuseppe Grimaldi Il Mattino, 3 febbraio 2014 Lesioni, violenza privata, falso. Sono i reati ipotizzati "a carico di persone al momento non ancora identificate" nella doppia inchiesta della Procura su presunti pestaggi che sarebbero avvenuti, adopera di alcuni agenti della polizia penitenziaria, nel carcere di Poggioreale. Due indagini, che presto potrebbero anche essere unificate. La prima coordinata dal procuratore aggiunto Gianni Melillo, la seconda affidata all’aggiunto Alfonso D’Avino. Non ci sono al momento nomi nel registro degli indagati, ma una svolta potrebbe giungere se gli inquirenti dovessero decidere di confrontare le gravi accuse mosse da 52 detenuti ed ex reclusi con i fogli turno e i regi stri di presenza per verificare le testimonianze delle potenziali parti lese (cioè i carcerati che sostengono di aver subito percosse e violenze morali). Lesioni, violenza privata, falso. Sono i reati ipotizzati "a carico di persone al momento non ancora identificate" nell’ambito della doppia inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Napoli su presunti pestaggi che sarebbero avvenuti, ad opera di alcuni agenti della polizia penitenziaria, all’interno del carcere di Poggioreale. Due le indagini, che presto potrebbero anche essere unificate. La prima coordinata dal procuratore aggiunto Gianni Melillo, la seconda affidata all’aggiunto Alfonso D’Avino. In entrambe non si registrano, per il momento, ancora nomi iscritti nel registro degli indagati, ma una svolta potrebbe giungere nel momento in cui gli inquirenti dovessero decidere di confrontare le gravi accuse mosse da 52 detenuti ed ex reclusi della casa circondariale napoletana con gli statini dei fogli turno e i registri di presenza per verificare le testimonianze delle potenziali parti lese (cioè i carcerati che sostengono di aver subito percosse e violenze morali). Alle ipotesi di reato per ora astrattamente ipotizzabili se ne aggiungerebbe una quarta: quella prevista e punita dall’articolo 608 del codice penale, rubricata come "abuso di autorità contro arrestati o detenuti". Ma, e questo è bene chiarirlo, si tratta di indagini complesse e delicate che esigono riscontri rigorosissimi, così come va detto che un’accusa tanto grave non può né deve colpire l’intero corpo della Polizia penitenziaria, nelle cui fila lavorano - non senza difficoltà ed emergenze - centinaia e centinaia di persone che rispettano la legge e la dignità dei detenuti a Poggioreale come nelle altre strutture penitenziarie campane e italiane. Due indagini, dunque. Una scaturita dalle dichiarazioni del presi-dente dell’associazione degli ex detenuti napoletani, Pietro Ioio, l’altra frutto di un esposto del Garante per i diritti dei detenuti, Adriana Tocco. Entrambe coincidono nella parte in cui riferiscono dell’esistenza di una cella, denominata "cella zero", al cui interno si consumerebbero violenze fuorilegge, con vessazioni fisiche al limite della tortura ma anche umiliazioni morali. Per oggi è annunciata una vista al carcere di Donato Capece, segretario generale del sindacato della Polizia penitenziaria (Sappe) che ha commentato: "A Poggioreale come in ogni altro carcere italiano, non ha nulla da nascondere. L’impegno del Sappe è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una "casa di vetro", cioè un luogo trasparente". Napoli: carcere di Poggioreale, ecco cosa accade nella cella zero... racconto-choc al pm di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 3 febbraio 2014 Le condizioni del carcere nel mirino della Procura e degli ispettori del Ministero. "Uno a uno venimmo accompagnati nella cella zero e picchiati selvaggiamente...": è un passaggio della denuncia che ha fatto scattare l’inchiesta della Procura sui pestaggi nel carcere di Poggioreale. Una denuncia forte. Quattro pagine dattiloscritte in Procura a metà settembre davanti a uno dei magistrati inquirenti napoletani più esperti e rigorosi dell’ufficio inquirente partenopeo, Vincenzo Piscitelli. Dall’altra parte della scrivania un uomo, il suo nome è Pietro Ioia, uno che si batte da sempre per i diritti della popolazione carceraria e che per questo ha anche creato l’associazione degli ex detenuti napoletani. Nasce così l’inchiesta che sta mettendo in fibrillazione gli ambienti della Casa circondariale che per il crescente degrado, le condizioni sovrumane di vivibilità, la logistica e il sovraffollamento è diventata ormai la struttura più tenuta d’occhio dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dal ministero della Giustizia, dagli osservatori specializzati e dalla stampa. Poggioreale. Tutto nasce da queste dichiarazioni: forti, in alcuni casi molto drammatiche e comunque tutte ancora da verificare, che aggiungono altra benzina su un fuoco - quello delle polemiche sulle condizioni di vita dei circa 2.600 detenuti - del carcere più affollato d’Europa. Ma questa volta Ioia racconta al Pm un’altra storia. Riferisce dell’esistenza di una cella, denominata "cella zero", al cui interno avverrebbero vessazioni sia fisiche che morali, se non addirittura veri e propri pestaggi a opera di squadrette di agenti della Polizia penitenziaria. "È una storia antica - racconta Ioia al Pm Piscitelli - non si tratta purtroppo di una novità. Dieci anni fa capitò anche a me e ai miei nove compagni di cella, a Poggioreale; durante un controllo gli agenti scoprirono un mazzo di carte da gioco napoletane, all’epoca tenerle in carcere era vietato. Uno a uno venimmo accompagnati nella cella zero e picchiati selvaggiamente". Ma oggi? Stando alla denuncia le aggressioni "mirate" proseguirebbero. L’ultimo episodio riferito al pubblico ministero si riferisce al presunto pestaggio commesso ai danni di un commerciante della Sanità finito in carcere nei mesi scorsi per reati comuni. In realtà le inchieste della Procura sono due. Due fascicoli che vertono su argomenti molto simili, ma che potrebbero essere unificati già nei prossimi giorni. Oltre a quella presentata da Ioio c’è infatti un secondo esposto che contiene almeno una cinquantina di casi sospetti relativi a maltrattamenti subìti da alcuni reclusi che si sono rivolti al Garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, da anni in prima linea per il rispetto delle condizioni di dignità umana all’interno delle carceri. "Tra il personale della polizia penitenziaria - riferisce ancora Ioio - la stragrande maggioranza è composta da persone perbene, che lavorano e lo fanno anche con grande umanità a Poggioreale; poi c’è una piccola ma agguerrita minoranza che la sera, sempre dopo le 22,30, si "diverte" prendendo di mira alcuni detenuti. Non so come li scelgano: lì basta che risulti antipatico a uno di loro che puoi finire nella cella zero... Una volta dentro ti fanno spogliare e cominciano le percosse, a mani nude ma anche con manganelli o con le scarpe". Accuse molto gravi che ora si cercherà di verificare con rigore. Intanto domani a Napoli arriva il segretario generale del Sappe, Donato Capece. "Ben vengano controlli e verifiche - dice Emilio Fattorello, segretario regionale del Sindacato di polizia penitenziaria. Noi siamo sereni. Auguriamoci che l’inchiesta faccia luce, una volta per sempre, su queste incontrollate voci che di volta in volta si ripetono". Napoli: appello del Cappellano di Poggioreale agli agenti… isolate i violenti, sono pochi! di Claudia Procentese Il Mattino, 3 febbraio 2014 "Le violenze a Poggioreale sono cosa risaputa e riguardano alcune frange della polizia penitenziaria che si comportano in maniera indegna e non professionale. Ma non demonizziamo tutta la categoria". Parla a cuore aperto don Franco Esposito, cappellano della casa circondariale e responsabile della Pastorale carceraria della diocesi napoletana, sugli ultimi avvenimenti che hanno investito l’istituto. Due inchieste della procura di Napoli partite all’indomani delle denunce, riguardanti presunti abusi e percosse sui reclusi, inviate dal garante regionale dei detenuti Adriana Tocco e dopo l’esposto dell’associazione "Il carcere possibile". "Anch’io ho segnalato alla direzione penitenziaria alcuni episodi di pestaggi che mi sono stati raccontati in via confidenziale dagli stessi detenuti - aggiunge il religioso. Ovvio che non ho potuto fare i loro nomi perché altrimenti avrebbero avuto vita difficile in cella". Ma che il lavoro, svolto con sacrificio e serietà, dell’intero corpo di polizia venga sporcato da singoli fatti violenti non è giusto. È contro l’uomo tenere sotto chiave, calpestando i loro diritti basilari, sia i detenuti che gli agenti". E a questi ultimi don Franco rivolge l’appello. "Cercate di emarginare - dice - impegnatevi ad estromettere chi compie questi atti, spesso frutto di ignoranza e cattiva preparazione, ma mai giustificabili". "In ogni padiglione esiste una cella zero - spiega il cappellano. Si tratta di una cella non numerata a piano terra, uno spazio vuoto, dove non c’è nulla, di passaggio, ed utilizzato come sala d’attesa per i detenuti che aspettano il turno per la visita medica o il colloquio. Se la notte è stata trasformata in luogo per umiliare e gonfiare di botte, questo è da brividi, ma ripeto non facciamo di tutta l’erba un fascio. I nostri volontari collaborano con molti poliziotti. Spesso sono gli agenti che vengono da noi a segnalarci i casi più difficili, di stare vicino a chi ha più bisogno o attraversa un momento particolare. Agenti che non si limitano alla funzione di sorveglianza, ma danno una mano a livello umano. Non dimentichiamo che sono loro i primi a venire a contatto con il dolore dei detenuti". Sofferenza che deriva soprattutto dall’impotenza di restare chiusi in celle che ospitano fino a 11 persone, con soltanto due ore d’aria al giorno e 3 metri quadrati a disposizione per ogni recluso, senza alcun programma di rieducazione. Isolare i violenti, spezzare il circolo vizioso dell’aggressività ed iniziare un percorso di più stretta collaborazione tra chi opera all’interno del carcere, dagli psicologi agli assistenti sociali, agli uomini della Penitenziaria: questi i temi discussi in queste ore da chi vive il carcere di Poggioreale. "C’è tensione - sottolinea don Franco. Il problema principale è il sovraffollamento. Se non lo si risolve tramite indulto o altri provvedimenti seri, è inevitabile che verrà sempre a mancare la serenità di tutti e che si verifichino fatti che non dovrebbero accadere". Napoli: a Poggioreale anche gli infermieri sotto stress, sindacati chiedono rafforzare turni Il Mattino, 3 febbraio 2014 Un grido di allarme sull’assistenza sanitaria in carcere viene lanciato dall’organizzazione sindacale Usla che, in una nota, segnala la "carenza di personale infermieristico" in servizio nella Casa circondariale di Poggioreale e chiede più attenzione per affrontare la situazione. "In ogni turno e in particolare durante il turno notturno - afferma Giuseppe Cangiamila, segretario nazionale di Usla - i lavoratori sono sotto stress". Quindi l’organizzazione sindacale sollecita un confronto sulle problematiche con i vertici dell’Asl Napoli 1 Centro. L’obiettivo è quello di migliorare le condizioni operative e quindi l’assistenza sanitaria ai detenuti. "Solo chi opera all’interno delle strutture penitenziarie - avvisa Cangiamila - sa che facilmente, in queste condizioni, possono verificarsi involontari errori verso la popolazione che vive all’interno del carcere". Genova: tenta suicidio nel carcere di Marassi, salvato dalle guardie penitenziarie Secolo XIX, 3 febbraio 2014 Un altro caso di tentativo di suicidio, che sottolinea le drammatiche condizioni del carcere di Marassi: "Ieri, intorno alle 1.55 circa, nel carcere di Marassi un detenuto magrebino si è impiccato alla finestra della camera; immediatamente soccorso dai poliziotti penitenziari, che accortisi del o gesto, sono entrati in cella lo hanno staccato dal cappio, salvando il disperato detenuto". A renderlo noto è il Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari, Fabio Pagani. "Fino a quando - si domanda Pagani - questi eroi della Polizia Penitenziaria pur con grande capacità operativa potranno evitare gesti estremi, compiuti da detenuti esasperati e purtroppo instabili? La situazione del carcere di Marassi continua ad essere insostenibile. Nel 2013 erano appena 8 i tentati suicidi, mentre siamo all’inizio del 2014 e sono già 4 i tentati suicidi messi in atto". "Un plauso a questi uomini e donne della Polizia Penitenziaria che sono oramai dei professionisti nel salvare vite umane, ma che le istituzioni hanno completamente abbandonato, o forse mai pensato", sottolinea il segretario Uil-Pa. Lanciano (Ch): il carcere di Villa Stanazzo scoppia, sovraffollamento del 40% Il Centro, 3 febbraio 2014 Flessibilità rieducativa e adattamento della pena nel tempo; ampliamento delle misure alternative al carcere come l’aumento degli affidamenti ai servizi sociali, dell’applicazione della misura cautelare ai domiciliari e del regime di semilibertà. Sono queste le misure che permettono di evitare il sovraffollamento delle carceri emerse all’interno del convegno "Alternative alla detenzione: evoluzione normativa e prospettive di riforma" organizzato dalla Camera penale di Lanciano. "Il convegno nasce dall’attualità, dall’impellenza", spiega il presidente della Camera penale, Michele Di Toro, "perché l’Italia deve rispettare la condanna emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, pronunciata l’8 gennaio 2013 per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, ovvero la presenza di trattamenti inumani e degradanti dei detenuti e il sovraffollamento delle carceri. E deve farlo adeguando le norme e il sistema penitenziario, fatto di celle e strutture sovraffollate dove i detenuti vivono in condizioni difficili". Nello stesso supercarcere di Villa Stanazzo i detenuti vivono in condizioni pessime proprio a causa del sovraffollamento. Ci sono tre carcerati in celle di meno di 9 metri quadrati; tre letti a castello per stanza, il terzo a 57 centimetri dal soffitto. E questo perché anziché 196, i detenuti sono 275. Un caso che ha portato anche il deputato di Sel, Gianni Melilla, a presentare un’interrogazione al ministro della Giustizia "per sapere se intende assumere urgenti iniziative per riportare il carcere di Lanciano a condizioni accettabili di vivibilità per i detenuti. Visto che nell’istituto penitenziario di Lanciano vi è un sovraffollamento della popolazione carceraria del 40%. Infatti", spiega Mellilla, "la capienza massima del carcere è di 196 detenuti mentre quelli presenti sono 275 cioè 79 in più; ciò determina una situazione di vita dei detenuti inaccettabile con fenomeni molto gravi come 8 casi di tentativi di suicidio e ben 22 casi di atti di autolesionismo". Problema non indifferente che si può iniziare a superare aumentando le alternative alla detenzione. "Occorrono flessibilità rieducativa, adeguamento nel tempo della pena, apertura verso l’esterno verso la società civile", ha detto nel convegno il magistrato di sorveglianza Francesca Del Villano, "oltre che l’ampliamento di quelle misure che l’ordinamento già prevede come l’affidamento ai servizi sociali, la detenzione ai domiciliari, la semilibertà". Non solo: bisognerebbe anche accelerare i processi perché chi entra in carcere lo faccia con una sentenza definitiva evitando la presenza di molti detenuti in attesa di giudizio. Bolzano: aprirà tra 2 anni il primo carcere privato d’Italia, solo la sicurezza allo Stato di Gabriella Meroni Vita, 3 febbraio 2014 Dopo la chiusura del bando, che ha visto sei partecipanti, si sta identificando il soggetto che gestirà la struttura, in funzione tra due anni. A carico dello Stato solo la sicurezza. Per la Provincia altoatesina sarà un carcere modello, vivibile e ad alta socializzazione. Ma i 5 stelle denunciano: l’unico scopo è il profitto. Se ne parla da anni, ma ora il progetto diventerà realtà: il primo carcere privato d’Italia sorgerà a Bolzano entro due anni. Il bando per la realizzazione della nuova struttura - 200 posti per detenuti, e ben 100 operatori di polizia penitenziaria - era stato pubblicato dalla Provincia autonoma lo scorso aprile, ma solo a gennaio è partita la fase di selezione dell’ente gestore. A candidarsi sono stati sei soggetti: il prescelto dovrà sostenere i costi dell’opera, stimati in 63 milioni di euro, cui si aggiungono i 15 milioni per l’esproprio delle superfici. L’operazione non è ovviamente tutta privata: il contributo pubblico ci sarà, anche se minoritario, e dopo vent’anni l’istituto penitenziario tornerà sotto l’egida del ministero della Giustizia. Ma come si è arrivati a questa novità assoluta per il nostro paese? Grazie a una norma contenuta nel decreto "Salva Italia" del governo Monti, che all’articolo 43 prevede la possibilità di finanziamento privato (project financing) per l’edilizia carceraria a patto che il contributo pubblico, insieme alla quota di debito garantita dalla pubblica amministrazione, non ecceda il 50% dell’investimento, e che le fondazioni concorrano almeno per il 20%. Il decreto specifica inoltre che al privato va riconosciuta "una tariffa per la gestione dell’infrastruttura e per i servizi connessi, a esclusione della custodia", che il concessionario incasserà dopo aver messo in funzione la struttura. E sempre al privato spetta "l’esclusivo rischio" e "l’alea economico-finanziaria della costruzione e della gestione dell’opera", come specifica ancora il decreto, che fissa la durata della concessione in misura "non superiore a venti anni". La Provincia di Bolzano è dunque il primo ente locale che ha deciso di approfittare dell’occasione, dovendo sostituire il vecchio carcere costruito 120 anni fa, che oggi ospita 125 detenuti a fronte di una capienza di 90 posti. Il nuovo istituto, che dovrebbe essere pronto nel 2016, sarà "una struttura adeguata, vivibile, con spazi di socialità, di formazione e lavoro che garantiscano la dignità della persona e facilitino il suo reinserimento", come aveva sottolineato al momento della presentazione del progetto, l’estate scorsa, l’allora presidente della provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnwalder (oggi è Arno Kompatscher). Che aveva aggiunto come "i programmi di socializzazione proposti avranno un peso importante nel punteggio finale". L’aggiudicatario, che dovrà comunque seguire gli indirizzi di progettazione (studio di fattibilità e costruzione modulare) indicati dal Dap, verrà deciso a breve, visto che in base alla procedura (per la quale la Provincia si è affidata allo studio legale internazionale Pricewaterhouse Coopers) il progetto dovrà essere pronto entro giugno. E sempre il soggetto privato dovrà occuparsi della manutenzione ordinaria e straordinaria, la gestione delle utenze, il servizio mensa dei detenuti e il bar interno del personale, i servizi lavanderia e pulizia. Gestirà anche le attività sportive, formative e ricreative, mentre le mansioni di sicurezza resteranno in capo alla polizia penitenziaria e quindi allo Stato. Non mancano comunque le polemiche: il Movimento 5 Stelle dell’Alto Adige, per esempio, ha ingaggiato una battaglia contro le decisioni della Provincia sostenendo che si tratta di un’operazione speculativa: a quanto si legge sul sito del Movimento, il terreno sul quale dovrà sorgere il carcere è stato acquistato da due società (il Gruppo Podini e l’impresa Rauch) con un preliminare di vendita da 255 euro al mq nel 2008 e un contratto definitivo del 2011 nel quale il prezzo di vendita è schizzato a oltre 10mila euro al mq. E visto che "il valore d’esproprio pagato dalla Provincia è di 15.800.00 euro", secondo i grillini il "guadagno speculativo della società che fa capo a Podini e Rauch ammonta così a 5 milioni di euro. Il 50% in meno di un anno". "Il privato cercherà, come negli Stati Uniti o forse più, di massificare il profitto", conclude il Movimento. "Operazione che di solito cozza contro la qualità, specialmente quando si hanno buoni appoggi politici con scarsi controlli". Alghero: ministro Cancellieri visita il carcere, struttura modello per media detenzione Ansa, 3 febbraio 2014 Il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri è arrivata alle 10.30 nel carcere di Alghero "Giuseppe Tomasiello", accompagnata dai senatori del Pd Luigi Manconi e Silvio Lai. La guardasigilli è stata accolta nell’istituto dal provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sardegna Gianfranco De Gesu, dal direttore del carcere Elisa Milanesi e dal comandante del locale reparto di Polizia Penitenziaria Antonello Brancati, per una visita alla struttura. Ad accogliere la Cancellieri all’ingresso anche Don Mario Chessa, il cappellano dell’istituto penitenziario e parroco della frazione di Santa Maria La Palma, che il ministro aveva conosciuto a Bologna quando Don Mario - un passato di musicista e in Lotta Continua - faceva parte dei monaci dell’abbazia di Santo Stefano, una delle chiese più antiche di Bologna. "Con lui faremo la rivoluzione - ha detto scherzando il ministro rivolgendosi ai vertici della struttura penitenziaria - una rivoluzione buona naturalmente". Alghero modello per media detenzione "Impressione ottima, perché nell’arco di tempo piuttosto breve sono stati fatti dei lavori significativi e questo diventa un carcere modello per quella che viene definita la media detenzione". Lo ha detto il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri al termine della visita nel carcere "Giuseppe Tomasiello" di Alghero. "Qui i detenuti hanno fino a nove ore di aria, quindi abbiamo superato l’obiettivo che era di otto - ha sottolineato la Guardasigilli - i detenuti circolano liberamente all’interno dell’istituto e hanno lo spazio per le attività lavorative e le attività ludiche. Quindi è un bel modello che induce all’ottimismo, perché è realizzato in una struttura che ha la sua storia. Questo è uno dei carceri più antichi d’Italia e qui siamo riusciti a raggiungere l’obiettivo che vogliamo raggiungere in tutte le carceri italiane. Torno a casa con la soddisfazione di aver visto un lavoro fatto bene" ha concluso Annamaria Cancellieri. Cagliari: presto chiusura carcere Buoncammino, a Senorbì struttura per madri detenute Ansa, 3 febbraio 2014 Il carcere di Buoncammino chiuderà a breve e a Uta aprirà la nuova struttura carceraria. Lo ha confermato stamattina ad Alghero il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. "Siamo in dirittura d’arrivo", ha detto il ministro. Durante la visita del ministro è stata annunciata dal senatore del Pd Luigi Manconi a breve, probabilmente entro febbraio, anche l’apertura a Senorbì di una struttura penitenziaria che potrà ospitare detenute con bambini da 0 a 3 anni. "In Italia mediamente - ha detto il senatore democratico - 50 bambini di quell’età vivono in carcere con le mamme. In tutto il paese ci sono due strutture idonee ad ospitare bambini di quell’età figli di detenute, senza creare traumi per via delle sbarre, delle divise degli odori e dei rumori tipici di un carcere. Di queste strutture ce n’è una a Milano e una a Venezia, altre sono in fase di realizzazione e una è un fase di completamento a Senorbì". Cosenza: Corbelli (Diritti Civili); concedere grazia a mamma Cocò, per salvarla dal carcere Ansa, 3 febbraio 2014 Il leader del movimento Diritti civili Franco Corbelli, in una nota, chiede al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di concedere la grazia ad Antonia Iannicelli, la mamma del piccolo Cocò, il bambino di 3 anni di Cassano, ucciso e bruciato insieme al nonno e ad una donna marocchina, da giovedì agli arresti domiciliari nella casa famiglia dove sono ospitate le altre sue due bambine insieme a tre cuginetti e agli zii. Corbelli, che da oltre un anno sta aiutando la famiglia, è scritto in una nota, ha parlato della grazia martedì scorso nel corso dell’incontro in carcere con i genitori del piccolo. "Dopo la tragedia e l’immane, devastante dolore che l’ha colpita - afferma Corbelli - c’è un solo modo per aiutare, salvare questa giovanissima mamma e non farla più ritornare in carcere: la grazia per cancellare tutte le pendenze giudiziarie in corso, a parte la vecchia condanna per droga, le due denunce per evasione dai domiciliari per aver in una occasione portato Cocò e le due sorelline a vedere il papà detenuto a Catanzaro che non vedevano da due anni, e, in un altro caso, per essere uscita davanti casa per non farsi vedere piangere dai suoi bambini. Chiedo al presidente della Repubblica un atto di giustizia giusta e umana per una donna la cui vita e quella del giovane marito, con la morte atroce del loro bambino, è cambiata e segnata dolorosamente per sempre". Volterra: proseguono le Cene galeotte, ricavato alla Fondazione "Il cuore si scioglie Onlus" Il Tirreno, 3 febbraio 2014 Prosegue il ciclo delle cene galeotte a Volterra. Il prossimo appuntamento è in agenda per il 21 febbraio, quando il giovane chef Riccardo Agostini, patron del ristorante "Il Piastrino" di Pennabilli (Rimini, www.piastrino.it) verrà aiutato in cucina dai detenuti del carcere di Volterra dove l’esperienza delle cene galeotte è ormai diventato un tradizionale appuntamento. Agostini "firmerà" la quarta cena di questo inverno, ottavo anno della manifestazione che ha portato finora oltre 10mila visitatori. Agostini Ha studiato all’Alberghiero, ha avuto alcune esperienze sulla Riviera romagnola e poi è stato stagista da Vissani, da cui è scaturita un’esperienza lunga dieci anni. La grande cucina di Agostini si concentra nei piatti che rispecchiano la cultura e le risorse del territorio di origine. Piatti presentati con grande cura dei dettagli e piacevoli particolari. Il ricavato (costo cena: 35 euro a persona) sarà come sempre devoluto per intero a uno dei progetti umanitari sostenuti dalla Fondazione "Il cuore si scioglie Onlus", che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze assieme al mondo del volontariato laico e cattolico. Prenotazioni allo 0552345040. Immigrazione: la "Carta di Lampedusa", chiede libertà di movimento e chiusura dei Cie di Raffaella Cosentino Redattore Sociale, 3 febbraio 2014 Terminati i lavori sull’isola. Il documento è un "patto" e "non una proposta di legge o una richiesta agli stati e ai governi", frutto di una stesura collettiva e di un processo dal basso, su cui hanno discusso antirazzisti, associazioni e lampedusani. Libertà di movimento, di scelta (del luogo in cui abitare), di restare (senza essere costretti a lasciare il paese in cui si nasce o si abita), libertà personale, diritto all’abitare, diritto alla resistenza. E ancora: chiusura dei Cie e di tutti i centri, abrogazione di Eurosur, di Frontex, del sistema dei Visti, del regolamento Dublino, del meccanismo che lega il permesso di soggiorno a un rapporto di lavoro. Sono alcuni dei principi scritti nella Carta di Lampedusa, esaminata e approvata nella tre giorni dal 31 gennaio al 2 febbraio da circa 300 persone che si sono riunite in una sala dell’aeroporto dell’isola Pelagia, rispondendo a un’idea lanciata da Melting Pot dopo le stragi dei naufragi dello scorso ottobre. "La Carta di Lampedusa è un patto che unisce tutte le realtà e le persone che la sottoscrivono nell’impegno di affermare, praticare e difendere i principi in essa contenuti - si legge nel documento, disponibile sul sito di Melting Pot. La Carta di Lampedusa è il risultato di un processo costituente e di costruzione di un diritto dal basso". Viene anche specificato che "la Carta di Lampedusa non è una proposta di legge o una richiesta agli stati e ai governi". La prima bozza del documento è stata scritta a tante mani nei mesi scorsi tramite confronti via web e conferenze online. A Lampedusa, ogni articolo e principio è stato discusso da rappresentanti di movimenti antirazzisti, centri sociali e associazioni come Terre des hommes, Un ponte per, Archivio migranti, campagna LasciateCIEntrare, Global Project, Storie Migranti. Al dibattito hanno partecipato attraverso degli interventi il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, l’associazione dei piccoli imprenditori dell’isola, alcune mamme lampedusane e gli studenti isolani del Liceo Majorana, unica scuola superiore esistente sulla maggiore delle Pelagie. Obiettivo della Carta, anche attraverso il linguaggio usato è di "non riprodurre le terminologie delle norme e dei codici" e proporre "un immaginario che pone l’essere umano al centro con la sua libertà di muoversi e abitare nel mondo". La Carta è costituita da tre parti: un preambolo, una parte sui principi e una sulle migrazioni e le politiche collegate. Nel preambolo c’è uno spazio riservato al luogo in cui nasce la Carta e di cui il documento porta il nome. "Le politiche di governo e di controllo delle migrazioni hanno imposto a quest’isola il ruolo di frontiera e confine, di spazio di attraversamento obbligato, fino a causare la morte di decine di migliaia di persone nel tentativo di raggiungerla - si legge. Con la Carta di Lampedusa si vuole, invece, restituire il destino dell’isola a se stessa e a chi la abita". Per la prima volta, nello spazio dei tre giorni di discussione ci sono stati diversi momenti di incontro fra le realtà antirazziste presenti e i lampedusani. Domenica 2 febbraio anche alcune mamme di Lampedusa sono intervenute per raccontare i disagi che vivono le loro famiglie. "Mancano le aule per cui i nostri bambini sono costretti a fare i turni di pomeriggio a scuola, ci hanno prospettato di fare lezione nei tendoni - ha raccontato Rossella - non ci sono le palestre, i nostri bambini non conoscono l’educazione fisica". Un’altra mamma, Liliana, ha denunciato i problemi legati alla carenza di strutture sanitarie. "Per i nostri figli non abbiamo un ambulatorio pediatrico che possa dare i primi soccorsi ai bambini, ricorriamo all’elisoccorso, condizioni atmosferiche permettendo - ha spiegato - questo vuol dire che le vite qui sono in gioco". Tra le altre cose, la Carta di Lampedusa "afferma la necessità dell’immediata abrogazione dell’istituto della detenzione amministrativa e la chiusura di tutti i centri, comunque denominati o configurati, e delle strutture di accoglienza contenitiva" e "la conversione delle risorse fino ad ora destinate a questi luoghi a scopi sociali rivolti a tutti e a tutte". Per quanto riguarda il sistema di accoglienza, si afferma la necessità di chiudere campi e centri in favore di un sistema di accoglienza "diffusa, decentrata e fondata sulla valorizzazione dei percorsi personali, promuovendo esperienze di accoglienza auto-gestionaria e auto-organizzata, anche al fine di evitare il formarsi di monopoli speculativi". Altri punti riguardano la cessazione immediata dell’uso del Muos di Niscemi e della base di Sigonella per la gestione dei droni Usa e Nato. Un tema particolarmente sentito durante la discussione per l’approvazione della carta è stato quello del linguaggio. All’interno del documento si legge: "ribadendo come la spettacolarizzazione del momento dell’arrivo dei migranti, sull’isola di Lampedusa come in molte altre frontiere d’Europa, con l’utilizzo di un linguaggio allarmistico e securitario - che travisa la realtà dei fenomeni e cancella le storie delle persone - contribuisca ad acuire fenomeni di razzismo e di discriminazione", la Carta di Lampedusa esprime "la necessità di combattere ogni linguaggio fondato su pregiudizi, discriminazioni e razzismo". Approvata la Carta, ora si punta a coinvolgere all’interno del patto più realtà possibili in Europa, che possano farsi portatori dei principi contenuti nella Carta. "È un tentativo di dare una spinta collettiva ad alcuni temi, di allargare una battaglia - spiega Nicola Grigion di Melting Pot. Il fatto di essere venuti a Lampedusa non è solo simbolico. Vuol dire toccare con mano cosa vogliono dire le politiche delle migrazioni sui cittadini europei". Immigrazione: Ass. Antigone; approvata la "Carta di Lampedusa", adesso chiudere i Cie Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2014 "Abbiamo contribuito alla stesura della carta di Lampedusa - dichiara Gennaro Santoro, dell’Associazione Antigone - perché l’Europa torni ad essere culla dei diritti umani e non più luogo di morte e di negazione dei diritti fondamentali. È ora però il momento di passare dalle parole ai fatti. Chiediamo all’Europa e all’Italia la chiusura immediata dei centri di detenzione per stranieri irregolari ed un ripensamento complessivo delle politiche migratorie. Il semestre della presidenza italiana del Consiglio Ue sia l’occasione perché la carta di Lampedusa si realizzi e l’isola diventi simbolo di solidarietà autentica tra i paesi del mediterraneo". Poche ore fa, dopo una assemblea partecipata ed intensa, alla quale hanno partecipato decine di movimenti e associazioni, reti ed organizzazioni, europee e nordafricane, tra le quali anche Antigone, è stata approvata la Carta di Lampedusa. A questo link il testo integrale e definitivo. India: caso marò; nuovo rinvio Corte Suprema, una settimana per decidere l’imputazione Corriere della Sera, 3 febbraio 2014 La Corte Suprema indiana ha chiesto di sbloccare l’impasse sul caso marò entro una settimana e non oltre: entro il 10 febbraio dunque il ministero dell’Interno di New Delhi dovrà decidere se invocare la legge anti-pirateria, che prevede la pena di morte, contro i due fucilieri del battaglione San Marco. All’udienza sul caso dei due marò accusati della morte di due pescatori indiani al largo delle coste del Kerala, il 15 febbraio 2012, era presente l’inviato italiano, Staffan de Mistura. Di fronte ai ritardi e all’indecisione della macchina giudiziaria indiana, l’Italia ha chiesto da tempo che Salvatore Girone e Massimiliano Latorre siano autorizzati a rientrare in Italia. "Abbiamo chiesto alla Corte che, di fronte all’indecisione della pubblica accusa, i marò siano autorizzati a tornare in Italia". Lo ha detto l’inviato del governo Staffan De Mistura. "E questa richiesta - ha insistito De Mistura - la ripeteremo con forma anche lunedì prossimo indipendentemente dall’esito dell’udienza". India: caso marò; la Corte suprema indiana verso l’esclusione del reato di terrorismo di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 3 febbraio 2014 Sarebbe così evitata la pena di morte Rischiano o no l’impiccagione? Dopo due anni di attesa il giorno della verità per i marò potrebbe essere arrivato. Si aprirà stamane l’udienza alla Corte Suprema di New Delhi per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri d’assalto del Battaglione San Marco in prestito per il servizio antipirateria sulla petroliera civile Enrica Lexie, accusati di aver ucciso due pescatori del Kerala, ma ancora in attesa di un capo di imputazione. A meno di sorprese dell’ultima ora, si va verso un rinvio. Ma quello che accadrà è comunque decisivo. Perché la Corte suprema dovrebbe, oggi stesso, secondo indiscrezioni, intimare a un ministro la formulazione del capo di accusa. E a seconda del ministro che sceglierà, il destino giudiziario potrebbe essere segnato. Dopo le pressioni diplomatiche del nostro Paese, culminate con l’intervento del capo dello Stato Giorgio Napolitano, alle quali si sono aggiunte in questi giorni mediazioni internazionali, prima fra tutte quella Usa, sembra quasi del tutto sfumata la possibilità che a formularlo venga incaricato il ministro dell’Interno indiano, favorevole all’applicazione del Sua Act, la normativa anti-terrorismo che prevede, per i colpevoli di omicidio, la pena capitale. Se la pratica verrà affidata al ministro degli Esteri, da sempre favorevole ad applicare la legge ordinaria e non quella speciale, per i Marò verrebbe almeno superato un primo gradino. Esclusa la pena di morte si dovrebbe affrontare il processo per un omicidio del quale si professano "innocenti" e la difesa potrebbe tentare di ottenere che attendano il giudizio in Italia. In aula, alla corte suprema di New Delhi, ci sarà l’inviato del governo Staffan De Mistura. "Per simboleggiare e marcare anche fisicamente la determinazione dell’Italia manifestata in modo più che lampante dal capo dello Stato - ha detto ieri De Mistura - io sarò presente, per la prima volta da quando è avvenuto l’incidente, nell’aula di un tribunale indiano". Questo, ha proseguito, "per ricordare ai nostri avvocati che debbono manifestare il livello di sdegno e determinazione della Repubblica e per mostrare quanto l’Italia esiga che a questa vicenda venga finalmente data una risposta". Il ministro della Difesa Mario Mauro spiega: "Attendiamo questa udienza con la fiducia nelle nostre ragioni. Perché sono due anni che aspettiamo che venga formulata un’accusa. E perché sono innocenti. È qualcun altro che deve provare il contrario. Dunque è logico che debbano essere riportati a casa per attendere l’esito del processo". Sarà difficile da parte dell’India non tenere in considerazione la compattezza con la quale governo, Parlamento e capo dello Stato si sono mossi. Ottenendo anche l’appoggio di sponde internazionali. Non solo la Ue, ma anche il presidente Usa Barack Obama avrebbe mosso la diplomazia per scongiurare il pericolo che uno dei Paesi che hanno risposto all’appello internazionale contro il terrorismo veda un proprio militare in servizio antipirateria colpito da un’accusa paradossale. Ciò che più sperano i Marò è che finisca quest’altalena di accuse e smentite. "È difficile non sognare, ma l’esperienza ci consiglia di rimanere prudentemente vigili", ha confessato ieri Paola Moschetti, compagna di Latorre. India: per salvare i nostri marò puntare sul rispetto delle regole di Danilo Taino Corriere della Sera, 3 febbraio 2014 L’udienza della Corte Suprema indiana che si terrà oggi a New Delhi sul caso dei due marò italiani sarà importante ma probabilmente non decisiva. È necessario saperlo, perché credere che la vicenda, vecchia ormai di quasi due anni, possa oggi essere risolta con una magia, in pochi giorni, sarebbe più di un’illusione, sarebbe un errore grave. E in questo momento, dopo rinvii e passi falsi da ambo le parti, commettere errori non è qualcosa che l’Italia si possa permettere. Nella gestione degli eventi seguiti al 15 febbraio 2012 - quando due pescatori, Ajeesh Pinku e Valentine Jelestine, furono uccisi al largo delle coste dello Stato del Kerala - si sono intrecciate così tante questioni e sono stati fatti errori da parte indiana e da parte italiana che oggi è complicatissimo riportare tutto a razionalità. La cosa certa è che l’Italia ha aperto un fronte - da qualche settimana pubblico, quindi politico - a livello internazionale e non può permettersi di perderlo: è essenziale affinché Salvatore Girone e Massimiliano Latorre abbiano un giusto processo e perché la posizione internazionale del Paese non ne sia danneggiata. Ciò avverrà se l’iniziativa giudiziaria e quella diplomatica saranno allineate, se non andranno una da una parte e una dall’altra. Nel senso che il "gruppo marò" costituito presso il governo dai ministeri interessati e il team di legali ritengono di avere il Diritto - internazionale e probabilmente indiano - dalla propria parte. È dunque vincente su due fronti presentarsi davanti alla Corte Suprema e alla comunità internazionale come il Paese che difende i diritti umani - contro l’eventuale minaccia di pena capitale e per chiedere un processo in tempi ragionevoli, che sostiene la lotta alla pirateria sui mari e che è per il rispetto di relazioni amichevoli tra Paesi. In questa cornice, saranno importanti le scelte della difesa dei due fucilieri di Marina in risposta a ciò che deciderà oggi la Corte Suprema. La possibilità che i giudici indiani vadano per un rinvio è reale e l’inviato di Roma sul caso, Staffan de Mistura, ieri lo ha detto. Un altro esito possibile è che la Corte respinga in toto o in parte la petizione italiana sulla quale è chiamata a giudicare: che non ordini cioè al ministero degli Interni di New Delhi di formulare in tempi stretti i capi d’imputazione contro Girone e Latorre; che non si esprima sull’inammissibilità della legge antiterrorismo Sua Act (con annessa o meno la possibilità di comminare la pena capitale) come base sulla quale istruire il processo; che non dia corso alla domanda di ridare piena libertà di movimento (cioè di lasciare l’India) ai due militari italiani. Una terza eventualità (improbabile) è che accetti tutte tre le richieste italiane. De Mistura ha confermato ieri che l’Italia ha preparato strategie per ciascuna delle risposte possibili. Cosa può succedere se saranno negative? La pressione politica in Italia spingerà per il ricorso immediato all’arbitrato internazionale, per chiedere che si cambi la sede del processo. Proprio perché il confronto con le autorità indiane deve essere vinto, non si possono però fare passi falsi, rischiare che la Corte arbitrale, che sicuramente ha la giurisdizione per trattare il caso, giudichi l’iniziativa italiana inammissibile per qualche ragione. Prima cioè di andare dall’arbitro, occorre avere fatto tutti i passi necessari nei confronti dell’India, cioè avere attivato l’ammissibilità della richiesta di arbitrato. Per esempio, avere cercato una mediazione con la parte indiana - incontri ufficiali - che si sia rivelata infruttuosa. Altro esempio: chiarire a New Delhi che lo scorso marzo i due marò sono stati rimandati in India perché l’Italia lo aveva promesso e per alto senso del galateo diplomatico; ma non perché riteneva che la giurisdizione sul caso fosse indiana. Finché una serie di passi tesi a costruire l’ammissibilità della richiesta di arbitrato non saranno ben definiti, davanti alla Corte di arbitrato il caso rischia di non essere solido, nonostante il diritto internazionale sia dalla parte dell’Italia. Subire una sconfitta in sede arbitrale non sarebbe positivo, ovviamente. Toglierebbe all’India gran parte dell’imbarazzo internazionale in cui si trova oggi, visti i pasticci che ha fatto e che la sua stessa stampa ormai stigmatizza. E indebolirebbe lo sforzo diplomatico internazionale che il governo e le istituzioni italiane hanno sviluppato negli ultimi tempi. Per questo è importante sapere che la soluzione del caso marò difficilmente, purtroppo, sarà affare di breve tempo. Saranno i nervi saldi, la capacità di resistere alla richiesta di scorciatoie rischiose e l’affidarsi con solidità al diritto internazionale che potranno mettere su binari giusti la vicenda di Girone e Latorre. E affermare l’Italia come difensore delle regole internazionali. Stati Uniti: caso "Chico" Forti. Il legale: Governo si mobiliti, è ingiustizia che va corretta Adnkronos, 3 febbraio 2014 "Vogliamo che il governo italiano si mobiliti con quello degli Stati Uniti per chiedere un nuovo processo per Chico Forti e ogni iniziativa che va in questa direzione è condivisibile. Il nostro connazionale deve poter avere un processo nelle regole". A dirlo all’Adnkronos è Ferdinando Imposimato, legale di fiducia in Italia di Enrico "Chico" Forti, l’italiano da 13 anni in carcere negli Stati Uniti dove sta scontando l’ergastolo. Trentino, ex campione di windsurf, Forti è stato condannato all’ergastolo in Florida nel 2000 per l’omicidio di Dale Pike, un australiano di 42 anni. "A breve verrà presentata una mozione sul caso - annuncia Imposimato - che vede primi firmatari i grillini Emanuela Corda e Carlo Sibilia. Un’iniziativa che speriamo venga sposata da tutti perchè la battaglia per dare giustizia a Chico Forti deve essere trasversale". "Mentre l’Italia ha dimostrato una grande sensibilità e ha preso in considerazione gli interventi delle autorità politiche e legali americane su altri casi - sottolinea Imposimato - lo stesso non è avvenuto finora per la vicenda di Forti: di fronte a palesi, gravi, reiterate, provate violazioni dei diritti umani noi assistiamo a un’inerzia totale. Un’ingiustizia che aspetta di essere corretta". "Le violazioni sono quelle che riguardano i principi del giusto processo previsto dalla Costituzione americana e dal patto internazionale dei diritti civili e politici firmata a New York dall’Italia e dagli Usa nel 1966. Chico Forti non ha potuto, tra l’altro, essere messo a confronto con i suoi accusatori, con il padre della vittima, ne messo in condizione di parlare per ultimo nel processo. Tutto questo è stato da me denunciato in una richiesta di revisione del caso dove chiediamo un difensore che non sia in conflitto di interessi, come è invece avvenuto nel primo processo", conclude. Libia: 54 detenuti evadono dalle celle di sicurezza di un commissariato di Tripoli Agi, 3 febbraio 2014 Nuova evasione da un carcere libico: sabato 54 dei 220 uomini detenuti nelle celle di sicurezza di un commissariato di Tripoli sono riusciti a fuggire, rompendo le finestre durante la distribuzione del pasto. Lo ha riferito un portavoce della polizia, Ahmed Boukraa, spiegando che l’evasione nel quartiere orientale di Souani è stata facilitata dall’assenza di alcuni secondini. Le guardie appostate nelle garitte non hanno aperto il fuoco per non rischiare di fare dei morti, ha spiegato il portavoce. Negli ultimi due anni le evasioni di massa dai penitenziari libici sono aumentate, soprattutto a Tripoli e Bengasi, alimentate dal crescente clima di insicurezza che vive il Paese. Ucraina: legge amnistia sarà applicata solo se manifestanti sgomberano edifici in 15 giorni Ansa, 3 febbraio 2014 Approvata dal parlamento il 29 gennaio, firmata dal presidente Ianukovich due giorni dopo e pubblicata ieri sulla Gazzetta ufficiale, la controversa legge d’amnistia per i manifestanti antigovernativi ucraini è entrata in vigore oggi. è partito così anche il conto alla rovescia per lo sgombero delle strade e degli edifici occupati. La legge non sarà infatti applicata se gli insorti non libereranno entro 15 giorni i palazzi pubblici occupati nonché le strade e le piazze, "tranne quelle dove si svolgono azioni di protesta pacifiche". Opposizione: proporremo abolizione legge amnistia L’opposizione ucraina proporrà in parlamento l’abolizione della legge d’amnistia approvata il 29 gennaio dall’organo legislativo e aspramente criticata dai manifestanti perché subordina l’applicazione dell’amnistia allo sgombero degli edifici occupati. Lo ha affermato l’ex pugile e leader del partito d’opposizione "Udar", Vitali Klitschko, arringando la folla in piazza Indipendenza a Kiev, e tornando a caldeggiare un’amnistia "senza condizioni" per i manifestanti. Klitschko è tornato a criticare l’intervento in parlamento del presidente Viktor Ianukovich, che il 29 gennaio, sarebbe entrato nell’aula per costringere i deputati del suo partito a votare per la legge d’amnistia nella sua versione voluta dal governo, cioè con la liberazione dei dimostranti subordinata allo sgombero entro 15 giorni degli edifici occupati. Secondo Klitschko, inoltre, la legge sarebbe stata votata in maniera irregolare perché diversi parlamentari della maggioranza avrebbero votato al posto di colleghi. "Dev’essere approvata una nuova legge - ha detto il campione del mondo di boxe - che preveda il rilascio incondizionato degli ostaggi. Il governo sta agendo come i pirati somali. Abbiamo bisogno di cambiare questo governo. Siamo milioni - ha concluso, non abbiamo paura e vinceremo". Stati Uniti: Texas, giovane in carcere per ritardo nella restituzione di libro alla biblioteca www.pianetabook.it, 3 febbraio 2014 Restituire un libro fuori tempo massimo, può accadere a tutti, come sa bene chi ha avuto modo di frequentare biblioteche pubbliche per motivi di lavoro o di studio. Molti, addirittura, adottano questo stratagemma per poter consultare con maggiore calma il testo preso in prestito, soprattutto in un paese come il nostro che della elasticità delle regole ha fatto una vera e propria norma e non da’ eccessivo peso ad infrazioni tutto sommato minori. La pena riservata a chi restituisce un testo fuori tempo massimo è solitamente abbastanza lieve e nel peggiore dei casi, cioè per i recidivi, si arriva ad una sospensione dal servizio che può essere abbastanza limitata nel tempo. Una norma di buon senso, che però rischia di diventare un incentivo per chi è allergico alle regole. Il caso verificatosi in Texas, però, sembra quindi destinato a far discutere molto, anche se non dovrebbe eccessivamente stupire in un paese che invece del rispetto delle regole ha fatto una sorta di religione laica. Nella città di Cooperas Cove, infatti, è stata approvata una legge in base alla quale tutti coloro che prendono in prestito un libro senza restituirlo entro il termine di novanta giorni, possono essere puniti con pene detentive. Un rimedio draconiano, quindi, verso una consuetudine che è evidentemente vista con grande fastidio soprattutto in considerazione delle cifre spese dalla municipalità al fine di riavere indietro i testi mai restituiti da utenti smemorati o troppo furbi, sia in termini di spesa vera e propria che di tempo necessario. Il primo ad incappare nei rigori della legge è stato un ragazzo, Jory Enck, il quale ha dovuto passare una notte in cella, per poi essere rilasciato il giorno dopo previo pagamento di una cauzione di duecento dollari. La sua colpa, è stata quella di non aver restituito un testo che aveva ricevuto in prestito dalla locale biblioteca nel 2010, superando perciò ampiamente il termine fissato dalla legge, che è stata dunque applicata in via retroattiva. Proprio la cifra necessaria al suo rilascio, più che la notte passata a riflettere in prigione, può essere quindi considerata il vero deterrente in grado di consigliare tutti gli altri utenti a prendere in maggiore considerazione l’impegno assunto al momento del prestito. Se qualcuno pensa che si tratti di un caso limite, probabilmente dovrebbe tenere a mente che gli Stati Uniti non sono nuovi ad exploit di questo genere. In fondo, si tratta del paese che non potendo perseguire Al Capone per la sua attività criminale, ha potuto infine chiuderne la carriera puntando ad un reato minore come l’evasione fiscale. Russia: in migliaia in piazza a Mosca per chiedere rilascio detenuti politici Adnkronos, 3 febbraio 2014 Migliaia di persone sono scese in piazza a Mosca per chiedere la scarcerazione dei detenuti politici, in particolare delle persone ancora detenute per gli scontri della Piazza Bolotnaya del maggio del 2012. "Un paese che ha prigionieri politici non è un posto per le olimpiadi", uno degli slogan della manifestazione. Iraq-Iran: raggiunto accordo per lo scambio di prigionieri, alcune centinaia di persone Nova, 3 febbraio 2014 L’Iraq ha raggiunto un accordo con l’Iran per lo scambio di prigionieri. Lo ha rivelato il ministro della Giustizia di Baghdad, Hassan al Shammari, in dichiarazioni alla stampa rilasciate durante la sua visita a Nassiriya, nella provincia di Dhi Qar. "L’Iraq sta aspettando la formazione di commissioni congiunte per lo scambio e il trasporto (dei prigionieri)", ha detto Shammari, aggiungendo che nelle prigioni irachene vi sono tra i 100 e i 150 detenuti iraniani, mentre in Iran vi sono 200 prigionieri iracheni". Shammari ha affermato che esiste anche un accordo con l’Arabia Saudita per lo scambio di prigionieri: "in passato è stato firmato un memorandum d’intesa con Riad, ma non è stato possibile effettuare in tempo lo scambio", ha detto il ministro.