Giustizia: Cassazione; ai detenuti un minimo di 3 mq a testa al netto degli arredi in cella di Francesco Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2014 L’area occupata dagli arredi deve essere scomputata dalla superficie lorda della cella al fine di determinare "lo spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 5728/2014, dichiarando inammissibile il ricorso del procuratore generale del tribunale di Padova contro l’ordinanza del locale magistrato di sorveglianza che aveva accolto il reclamo del detenuto e disposto che le competenti Autorità penitenziarie adottassero le "determinazioni conseguenti ivi compresa l’allocazione del reclamante in altro locale di pernottamento ove sia garantito uno spazio minimo individuale pari o superiore a tre metri quadrati". I fatti Il magistrato di sorveglianza aveva accertato che il reclamante era ristretto, insieme ad altri due detenuti, in una cella complessivamente di nove metri e nove centimetri quadrati. E che la permanenza non era limitata al pernottamento, svolgendosi nella cella "la intera vita" dei tre reclusi. Lo spazio a disposizione di ciascuno degli occupanti era dunque di tre metri e tre centimetri quadrati "al lordo". Per cui "detratto l’ingombro del mobilio, lo spazio effettivamente disponibile per i tre detenuti - osservava il magistrato - è di otto metri e cinquantacinque centimetri quadrati e, pertanto, per ciascuno di essi di due metri e ottantacinque centimetri quadrati". Pertanto "risulta nettamente al di sotto del limite vitale di tre metri quadrati stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo", che infatti, nel caso Torreggiani, ai fini della determinazione dello "spazio vitale", ha ritenuto che doveva tenersi conto dell’ingombro dei mobili. L’accusa Per la Suprema corte non hanno invece pregio le doglianze sollevate dalla pubblica accusa secondo cui il giudice non si sarebbe attenuto alla sentenza Pilota della Cedu non avendo essa statuito nulla in proposito agli arredi e non avendo l’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo mai tipizzato le condotte integratici della violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Così come non vi sarebbe alcun canone specifico nell’articolo 27 della Costituzione e neppure nell’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario dove si parla genericamente di "ampiezza sufficiente". La motivazione della Corte Chiariscono i giudici che "in difetto di alcuna disposizione normativa e tampoco legislativa o codicistica", il giudice del reclamo "è chiamato ad accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione; e tale valutazione è operata esclusivamente alla stregua dei canoni e degli standard giurisprudenziali". Sicché lo scrutinio compiuto sulla base della regola di giudizio di matrice giurisprudenziale è sindacabile, sotto il profilo della violazione di legge, esclusivamente in caso di mancanza della motivazione. Vizio "pacificamente fuori discussione" in questo caso avendo il giudice fornito "motivazione congrua" e, dunque, sottratta a ogni sindacato nella sede di legittimità. Il computo dei mq Riguardo poi alla specifica questione del computo, la Cassazione osserva che il magistrato di sorveglianza "si è esattamente uniformato al criterio stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella citata sentenza pilota, avendo scomputato dalla superficie lorda della cella del reclamante lo spazio occupato dall’arredo fisso dell’armadio allocato nel vano". "Mentre - prosegue la sentenza - non è condivisibile l’obiezione del Pubblico Ministero concludente, fondata sulla mancata specificazione della superficie di ingombro da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’arresto in parola; gli è che, avendo quel giudice accertato, nel caso scrutinato, che la superficie della cella era pari al limite minimo di tre metri quadrati, sarebbe stata affatto superflua e irrilevante la determinazione dello spazio occupato dal mobilio, in quanto necessariamente l’ingombro - a prescindere dalla ampiezza della superficie occupata - comportava indefettibilmente l’inosservanza dello standard dei tre metri quadrati". Giustizia: il ministro Orlando oggi vede il pm antimafia Gratteri, toghe preoccupate di Claudia Fusani L’Unità, 26 febbraio 2014 Oggi a via Arenula l’incontro tra il ministro della Giustizia e il pm antimafia. Si lavora a un coinvolgimento del magistrato nell’esecutivo. Il ministro in carica incontra il ministro-ombra. Il Guardasigilli incontra chi avrebbe dovuto/voluto essere al suo posto in via Arenula, almeno secondo lo schema Renzi-Delrio: il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Il faccia a faccia avverrà oggi, al ministero. E certo non è tra le conseguenze più spontanee di questo inizio legislatura. Trasferito, suo malgrado, dall’Ambiente alla Giustizia, Orlando ha infatti contattato il pm antimafia domenica pomeriggio dopo che il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio aveva detto che "le porte di palazzo Chigi sono sempre aperte per un magistrato come Gratteri". Ora, il problema non è certo Orlando e tanto meno Gratteri anche se incuriosisce la premura, quasi la necessità dell’incontro. Il punto è che questa faccenda della mancata nomina a ministro del magistrato continua ad alimentare polemiche e retro pensieri. Per non parlare delle reazioni indignate che affollano le mailing list delle toghe, soprattutto quelle legate alla sinistra. Le toghe in servizio si chiedono preoccupate perché mai "Renzi abbia voluto forzare così tanto la mano in favore di Gratteri". La preoccupazione aumenta visto che il governo insiste per coinvolgere in squadra il pm antimafia tanto che oggi il ministro lo incontra. Gli appassionati del genere dicono che il suo vero sponsor è lo stesso Delrio fin dai tempi in cui era sindaco di Reggio Emilia e ha ospitato più volte il magistrato in occasione di celebrazioni e presentazioni di libri. E che Renzi poi si sarebbe infatuato del personaggio dopo una puntata di Presa diretta che nei fatti lanciava Gratteri-ministro con tanto di immancabile hashtag. È un fatto che venerdì scorso, prima di salire al Colle col suo nome, Gratteri abbia detto a Renzi e a Delrio: "Ok, accetto, ma guardate che succederà la fine del mondo". E i due, di rimando: "Non ti preoccupare, fai tu il ministro e avrai carta bianca". Andrea Orlando è giovane ma abile, è uomo di mare (La Spezia) e ha imparato a galleggiare prima che a camminare. Negli ultimi giorni la riforma della giustizia è spuntata all’improvviso ed è stata collocata a giugno nel cronoprogramma del governo. Dopo lavoro, fisco, pubblica amministrazione. Cosa può succedere in tre mesi che non è potuto succedere in vent’anni? Il tema sarà sicuramente al centro dell’incontro di oggi. Gratteri ha alcune idee chiare in proposito. E le ha scritte in un Rapporto di 400 pagine insieme con altri esperti, il pm Cantone, il professor Spangher, la tecnica della banca d’Italia Magda Bianco, Roberto Garofoli, la task force chiamata da Letta a palazzo Chigi per organizzare e migliorare la lotta alla criminalità e contro la corruzione. L’aggiunto di Reggio Calabria, ad esempio, vorrebbe tagliare le liste testi nei processi(le loro dichiarazioni vengono assunte una volta sola e non si ripetono). Così come vorrebbe che tutte le notifiche avvenissero per posta elettronica. E che non fossero più previsti incarichi fuori ruolo per i magistrati. Da evitare anche il ministero. Sul fronte carcerario, Gratteri è convinto della bontà di aprire penitenziari nelle isole e rispedire a casa, all’estero, i detenuti stranieri. Contro la corruzione e il crimine organizzato, la proposta prevede norme più veloci per sciogliere i comuni infiltrati dalle mafie. Ma anche lo scioglimento delle società partecipate se contaminate dalla mafia. Regole più efficaci anche per sequestrare e confiscare i beni dei mafiosi e riconsegnarli alla società civile il prima possibile. Finché possono produrre reddito e non quando sono già falliti. Oggi vedremo se il ministro Orlando accetterà un ministro-ombra al suo fianco, come consulente. O se il consulente andrà direttamente a palazzo Chigi. Giustizia: Vietti (Csm); per le riforme finora solo annunci… ma forse è la volta buona intervista a cura Gigi Di Fiore Il Mattino, 26 febbraio 2014 Vicepresidente del Csm, ampia conoscenza del sistema giudiziario italiano, Michele Vietti ha ascoltato i discorsi del neo premier Matteo Renzi in Parlamento. Discorsi in cui, ancora una volta, la giustizia viene indicata tra i primi settori da riformare. Presidente Vietti, si annuncia un’altra riforma della giustizia? "È il quarto ministro della Giustizia che vedo cambiare dall’inizio della mia consiliatura al Csm, Il rituale è ripetitivo. Ad ogni cambio di guardasigilli, si ascoltano annunci di interventi a tutto campo. I risultati, però, per una ragione o un’altra, non sono mai pari agli annunci". Cattiva volontà, o ostacoli improvvisi? "Forse solo brevità dei mandati. Stavolta, è stato lo stesso premier a parlare di riforma della giustizia nei suoi discorsi durante il dibattito parlamentare per la fiducia. Un buon segnale, perché rende ancora più impegnativa la sfida". Renzi ha detto che la riforma non escluderà nulla. Che cosa si potrebbe ipotizzare su quel nulla? "Non mi sento di fare dietrologia. Certo, l’elenco delle cose da fare è talmente lungo che conviene concentrarsi sulle priorità". Cosa indicherebbe tra le priorità su cui intervenire? "Premesso che ognuno deve fare ti suo mestiere e io ora mi occupo di governo della magi snatura, se devo indicare un problema su cui tutti ì governi dovrebbero riflettere è quello della mancanza di una organica politica giudiziaria, un disegno strategico complessivo con interventi strutturali e non emergenziali". Quali esempi farebbe come indicativi di quest’approccio politico? "Da noi si procede di continuo con metodo a pendolo. Annunci a gran voce di depenalizzazione, poi si creano inasprimenti penali anche su materie che non creano allarme sociale, o che sono fenomeni sociali come l’immigrazione". Penalizzarla è stato sbagliato? "Dico che penalizzarla è stato totalmente inefficace a risolvere il problema. Per non parlare dei reati bagatellari che intasano procure e tribunali. Non si comprende che Ogni nuova previsione di reato incide su un sistema penale con azione obbligatoria". Più reati creano un sistema di moltiplicazione a catena? "Sì, un meccanismo che non si ferma più. Penso a tutte le contravvenzioni, a ipotesi superate come l’abusivo spettacolo viaggiante. Un elenco da sfrondare. Lo ha ricordato anche il primo presidente della Cassazione, nel suo discorso di apertura dell’anno giudiziario". Molto lavoro, organici di magistrati sempre insufficienti. È così difficile coprire i posti vacanti? "Esiste una complessità nei concorsi e una eccessiva rigidità nel sistema dei trasferimenti, ma permane anche una irrazionalità nella nostra geografia giudiziaria. Troppi uffici sparsi sul territorio nazionale complicano tutto. I concorsi devono essere selettivi e rigorosi, ma io sarei stato ancora più drastico nel riformare e ridurre le circoscrizioni giudiziarie". La riforma attuata, non basta? "Passare da 165 tribunali a 140 non ha risolto i problemi. Tanta dispersione di uffici significa anche poca omogeneità nell’azione penale, la rapidità maggiore o minore nella risposta giudiziaria dipende anche da una buona organizzazione dei tribunali". Eccessiva custodia cautelare in Italia? "Uno dei problemi è anche la riduzione dei centri decisionali di chi applica la misura detentiva. Io estenderei il modello della distrettuali antimafia anche ad altre materie. Competenze distrettuali per tipologie di reati, con udienza preventiva che decide sull’arresto e, una volta arrestato, l’indagato va giudicato immediatamente". Le intercettazioni sono un altro tema caldo di annunciate riforme, mai attuate. Troppi intercettati in Italia? "Sono almeno quattro legislature che se ne parla. Io sono convinto che un’udienza filtro possa risolvere il problema. La diffusione delle intercettazioni segue la fase del loro deposito, tra l’ordinanza cautelare e il Riesame. Penserei ad un’udienza a monte, segreta, con le parti che decidono quali intercettazioni hanno rilevanza nell’inchiesta incorso". Che effetto avrebbe un’innovazione di questo tipo? "Tutelerebbe anzitutto la privacy delle persone non coinvolte nell’indagine, eliminando vicende irrilevanti. Poi, limiterebbe la divulgazione delle conversazioni non pertinenti". La magistratura e il sistema disciplinare, c’è chi sostiene che l’autogoverno è sempre assolutorio. È così? "Va chiarito che l’azione disciplinare viene attivata dal ministro e dal procuratore generale della Cassazione. Noi riceviamo la richiesta per celebrare il processo. Posso assicurare che, tra condanne e abbandono preventivo della magistratura, sì arriva al 50 per cento". Come mai nessun magistrato è civilmente responsabile del suo operato, come avviene in altre attività professionali? "Andrebbe chiarito che la responsabilità civile non può che essere indiretta. Risponde in prima battuta lo Stato, quando si accerta un dolo o una colpa grave. Altrimenti, si condizionerebbe il lavoro del giudice e si moltiplicherebbero le azioni civili. Va però regolato il sistema di rivalsa dello Stato nei confronti del singolo magistrato, eliminando l’udienza filtro". È giusto che ci siano magistrati nelle direzioni del ministero della Giustizia? "Io ne limiterei il numero, anche se in alcuni moli è meglio che ci siano. Comunque non vedo un magistrato in carriera come ministro della Giustizia". E il ritorno in magistratura di chi ha svolto attività politica? "Ho idee drastiche. Un magistrato, che ha svolto attività politica, non dovrebbe tornare a svolgere attività giudiziaria. Si dovrebbe pensare ad una collocazione alternativa nella pubblica amministrazione". La separazione delle carriere, un refrain a fasi alterne? "Sì, anche se ne sento parlare di meno. Molti dovrebbero capire che, con il sistema attuale di incompatibilità regionale in caso di cambio funzione, il problema riguarda solo il 2-3per cento dei magistrati. Un fenomeno, tutto sommato, statisticamente irrilevante". Se dovesse indicare una priorità nell’ipotetica riforma della giustizia? "L’accelerazione del processo civile. Si dovrebbe intervenire sugli appelli, che sono il collo di bottiglia di tutta la procedura. Il ricorso in Cassazione è un diritto costituzionale, ma va ripensato l’appello". In che modo? "Garantire con più decisioni collegiali il giudizio di primo grado e limitare l’appello a casi eccezionali". La legge svuota carceri ha aumentato solo il lavoro ai giudici di sorveglianza? "Non è questo il punto. Se si pensa che tutto si risolve prevedendo più carcere, si intasa il sistema. Alla fine, poi, si finisce in carcerazione preventiva o, per effetto della prescrizione, restano in cella definitivamente solo poveri cristi e extracomunitari". Il conflitto tra capo dello Stato e magistratura, risolto dalla Corte costituzionale, ha lasciato strascichi nella magistratura? "Non credo. La Corte costituzionale lo ha risolto in maniera ineccepibile e tutti se ne sono fatti, o debbono farsene, una ragione. Io credo che, in questo Paese, sia sempre meglio lasciar fuori dalle polemiche il presidente della Repubblica". Giustizia: l’On. Ciprini (M5S) presenta interrogazione parlamentare sul ruolo degli Uepe Ristretti Orizzonti, 26 febbraio 2014 Al Ministro della giustizia. Per sapere, premesso che la situazione degli istituti penitenziari in Italia è assai grave, secondo le rilevazioni e i dati del Ministero della giustizia relativi al maggio del 2013 la popolazione italiana e straniera presenti nelle carceri ha sfiorato quasi le 68.000 persone (per essere precisi 65.886 tra imputati, condannati ed internati) con una variazione percentuale rispetto all’anno precedente (2012) pari a +0,28 per cento; al 31 maggio 2013 i detenuti condannati che sono stati ammessi alle misure alternative alla detenzione sono stati 10.958 (affidamento in prova), 880 detenuti sono stati ammessi alla semilibertà e 3.030 alla detenzione domiciliare; secondo dati relativi all’anno 2012 le persone condannate (pari a 38.656) che hanno usufruito delle misure alternative alla detenzione sono il 51,70 per cento (pari a 19.986 dei soggetti) della popolazione carceraria; recentemente l’Italia ha subito condanne da parte degli organi dell’Unione europea per le condizioni "degradanti" degli istituti penitenziari e lesive della dignità delle persone e del detenuto; al 31 maggio 2013 il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sezione statistica, ha stimato in percentuale un sovraffollamento degli istituti carcerari pari al 40%; tale situazione ha fatto sì che anche recentemente il Governo è intervenuto con misure di "deflazione" della popolazione carceraria, in primis, con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria; in particolare, l’articolo 3, comma 1, lettere c) e d), contiene disposizioni concernenti l’estensione temporale a quattro anni della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale e l’articolo 4 contiene disposizioni concernenti l’introduzione della misura della liberazione anticipata speciale; in tutti i procedimenti di esecuzione concernenti misure per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale del condannato e/o detenuto, per la concessione della misura della liberazione anticipata, nonché per la concessione della semilibertà e del lavoro esterno, svolge una funzione essenziale l’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) il cui personale ha funzioni di valutazione, vigilanza e osservazione del soggetto che deve essere ammesso alla misura alternativa alla detenzione; il ruolo dell’Uepe rappresenta un tassello fondamentale nel trattamento e osservazione del detenuto; esso è il fulcro per la realizzazione degli obiettivi delineati dall’articolo 27 della Costituzione in tema di rieducazione e del diritto alla salute del detenuto; il decreto-legge n. 146 del 2013 ha previsto la concessione della misura alternativa per pene da espiare fino a quattro anni nonché l’istituto della liberazione anticipata speciale al detenuto che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, così comportando un sensibile aumento del carico di lavoro degli Uepe e di tutti gli esperti coinvolti in tali procedure; tali disposizioni sono il segno evidente della volontà del legislatore di considerare - in maniera forte - la rieducazione e inserimento sociale del detenuto quali strumenti per realizzare gli obiettivi della Carta costituzionale (articolo 27) e per dare una risposta anche al gravissimo problema del sovraffollamento delle carceri e dei suicidi dei detenuti che nelle carceri italiane hanno raggiunto livelli preoccupanti; a fronte di tale volontà deve corrispondere una uguale risposta in termini di dotazione di risorse finanziarie e di personale; tuttavia oggi gli Uepe soffrono la cronica mancanza di mezzi e di personale che viene impiegato con ritmi di lavoro sempre più gravosi, sia dal punto di vista del continuo aumento del numero dei sottoposti alle misure (per effetto della recente normativa), che per la qualità e la diversificazione degli interventi; alcune organizzazioni sindacali hanno denunciato le condizioni in cui gli operatori dell’Uepe sono costretti a lavorare lamentando lo stato di degrado in cui si trovano gli uffici e la mancanza di personale che verrebbe "rimpiazzato" da personale della polizia penitenziaria anziché essere occupato da assistenti sociali; i dati dimostrano invece che le persone ammesse a misure di esecuzione esterna della pena hanno un tasso di recidiva nel crimine ridottissimo (circa il 19 per cento); occorre dare un segno concreto di cambiamento dotando questi uffici dei mezzi, risorse e autonomia necessaria tali da valorizzare anche le scelte legislative intraprese dal Governo: se il Ministro sia a conoscenza della situazione descritta e quali iniziative intenda adottare - anche di tipo normativo - al fine di assicurare l’autonomia e il potenziamento in termini di risorse umane e strumentali degli Uepe, anche in funzione degli obiettivi previsti dall’articolo 27 della Costituzione in tema di rieducazione del detenuto così come previsto dalla normativa italiana ed europea. Giustizia: Petralia (Procura Palermo); cambiare la legislazione sul decreto svuota-carceri Adnkronos, 26 febbraio 2014 "Forse per la prima volta per lo stesso arrestato si diversificano le misure cautelari, si dà il carcere per alcuni reati e i domiciliari per altri reati e questo è il frutto di una elevazione del limite a cinque anni, previsto dalla legge cosiddetta svuota carceri. Alcuni di questi arrestati hanno una misura cautelare del carcere e degli arresti domiciliari". Lo ha detto il Procuratore aggiunto di Palermo Bernardo Petralia parlando dell’operazione "Cala Spa" che all’alba di oggi ha portato in carcere 26 persone e un’altra è ancora ricercata per il tentativo di truffa nei confronti del Monte dei Paschi di Siena. Per Petralia "è una legislazione un po’ strana che meriterebbe di essere limata, soprattutto stabilendo che il carcere è possibile pur sempre con i limiti dei cinque anni ma pur tuttavia se c’è una forma di continuazione criminale si dovrebbe dare anche per quel limite che esisteva prima. Paradossalmente non è il giudice che scaletta la misura ma il legislatore". Lettere: alcune osservazioni sul decreto "svuota-carceri"… di Silvano Bartolomei (Associazione Carcere Possibile Onlus) Ristretti Orizzonti, 26 febbraio 2014 Cercare di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario non equivale certo al varo di continui "provvedimenti tampone", che, pur non discutendo sull’utilità, di certo, non appaiono risolutivi di una questione che rischia, con il passare del tempo, di sfuggire a qualsiasi controllo. Quest’ultimo decreto legge, recante misure urgenti in materia di esecuzione della pena, che non pochi malumori ha suscitato tra le forze politiche, è riuscito, suo malgrado, a superare il varo con una larga maggioranza e buona pace di tutti. Sebbene etichettato alla stregua di un indulto mascherato, pregevole nella sostanza ma, di fatto inefficace, avrà quale unico risultato la momentanea riduzione del numero dei reclusi, con evidente illusoria creazione di nuovi spazi carcerari. Pur apprezzando l’attenzione e gli sforzi del legislatore nel volere affrontare il problema, forse anche in ossequio ai numerosi richiami e pressioni europee, si ritiene ancora insufficiente e non in grado di risolverlo in modo definitivo, poiché si prevede che beneficeranno del provvedimento solamente 3.000 detenuti, a fronte di una eccedenza stimata nell’ordine di 28.000. Il sovraffollamento carcerario, che attanaglia il sistema penitenziario italiano, e che da tempo è motivo di continue sanzioni da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione all’art. 3 della convenzione, merita ben altra attenzione e più radicali, quanto drastici e stabili interventi. Che le recenti misure governative stiano andando nella giusta direzione, è pur vero, come la depenalizzazione del reato di clandestinità, introdotto con la legge Bossi-Fini, alla modifica della legge Fini-Giovanardi, che in tema di droghe aveva abnormemente equiparato spacciatori di qualsiasi sostanza; scelte, entrambe, che in passato avevano pesantemente inciso sui flussi di ingresso negli istituti penitenziari. Altresì, condivisibile, poiché in grado di ridurre l’afflusso carcerario, è la detenzione domiciliare obbligatoria che consiste nel fare scontare agli arresti domiciliari una condanna commisurata entro i mesi 18 o in un residuo pena di analogo periodo, posto che rimane nella discrezionalità del giudice la valutazione sulla eventuale concessione. Così come opportuna, si ipotizza potrà rivelarsi, ai fine di uno svuotamento carcerario, la cosiddetta "liberazione anticipata speciale", che, modificando la legge Gozzini, porta da 45 a 75 l’abbuono per ogni semestre di pena scontato esclusivamente in regime detentivo. Ciò equivarrà alla concessione di un periodo di 150 giorni, e non più 90 nell’arco di un anno; provvedimento, questo, che garantirebbe una fuoriuscita di circa 1500 detenuti. D’altra parte, anche la reintroduzione del braccialetto elettronico, quale strumento di controllo, consentirà un potenziale svuotamento, laddove il Giudice ritenesse di doverlo utilizzare in alternativa ad un provvedimento custodiale. Un modesto svuotamento delle carceri potrebbe, inoltre, essere garantito, nel tempo, dalla facoltà di richiedere il patteggiamento, finora limitato al primo grado, anche nella fase di appello. Ma, quel che più colpisce nel recente provvedimento è la consapevolezza della necessità di istituire il Garante Nazionale dei Diritti del Detenuto, figura sinora presente a livello regionale. Oggi, il Garante Nazionale costituirà un presidio di legalità e darà voce a chi sinora non l’ha avuta, dovrà vigilare, indagare, ascoltare essere, insomma, una sorta di cerniera tra detenuto ed istituzioni. Un vero e proprio "Guardiano dei diritti", un attento osservatore di un malessere, quello carcerario, nel rispetto dell’art. 27 della Costituzione della Repubblica. Un popolo, infatti, misura la propria civiltà anche da un sistema carcerario efficiente. Alessandria: detenuto di 53 anni muore dopo il ricovero in ospedale, aveva tumore osseo Radio Carcere, 26 febbraio 2014 Ezio Ieluzzi, 53 anni, detenuto al "San Michele" di Alessandria, in carcere non ha ricevuto cure adeguate, nonostante stesse molto male. Dopo 6 mesi di sofferenze, viene finalmente ricoverato in ospedale e scopre di avere un tumore osseo. Muore il 24 febbraio 2014. Sulmona: Melilla (Sel); emergenza carcere richiede riorganizzazione, intervenga ministro Agi, 26 febbraio 2014 Nel carcere di massima sicurezza di Sulmona le emergenze ormai si accavallano: si va dagli imminenti lavori di ampliamento della struttura con un nuovo padiglione in grado di ospitare altri 200 detenuti, alle estenuanti situazioni in cui sono costretti a lavorare gli operatori che chiedono le ferie e tutti gli altri diritti soggettivi: riposi e recupero ore, ma anche docce all’interno delle celle detentive, automatizzazione di tutti i cancelli, apparato di videosorveglianza innovativo con sale di regia da implementare. Chiedono, come da contratto, di non effettuare lo straordinario o il recupero delle ore attraverso riposi compensativi. Diecimila mila ore di ferie maturate da 240 agenti sulmonesi nel 2012. Del caso si sta interessando il deputato di Sel Gianni Melilla che ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia. In particolare, il parlamentare chiede al titolare del dicastero di via Arenula "se non intenda prendere iniziative per superare rapidamente questa situazione di emergenza e prevedere un incontro con le parti sociali per definire misure straordinarie di riorganizzazione della struttura carceraria e di copertura del fabbisogno di personale penitenziario". La polizia penitenziaria, tramite le proprie associazioni di categoria, chiede, da tempo, la ridefinizione della pianta organica dell’istituto affinché si ristabiliscano le 328 unità previste nel decreto ministeriale del 2001 rispetto agli attuali 240 agenti impiegati nel penitenziario peligno. La polizia penitenziaria chiede almeno 30 nuovi agenti ed assistenti nella struttura sulmonese per coprire l’attuale emergenza e poi altri 60 agenti attraverso l’implementazione. "Nel carcere di Sulmona, il più grande d’Abruzzo, che dovrebbe ospitare 306 detenuti - ricorda Melilla - ve ne sono 471, cioè ben 167 detenuti in più con un livello intollerabile delle condizioni di vita e di sicurezza dei detenuti e del personale penitenziario. Nell’ultimo anno vi sono stati 4 tentativi di suicidio e 12 casi gravi di autolesionismo tra i detenuti, negli ultimi 10 anni ci sono stati ben 13 casi di suicidio, al punto tale - commenta infine l’on. Gianni Melilla - che questo carcere è diventato tristemente famoso a livello nazionale e internazionale". Uil-Pa: risolto problema rifiuti La Uil-Pa Penitenziari dopo ripetuti solleciti e denunce fatte a mezzo stampa ha visto finalmente risolvere il grave problema dei rifiuti non conferiti in discarica. Le montagne di materiale accumulatisi presso la Casa di Reclusione di Sulmona in mesi di scarico di competenze sono state finalmente spazzate via. Lo dice il segretario provinciale della Uil penitenziari Mauro Nardella. "Il risolutivo intervento di uomini e mezzi di pertinenza comunale - spiega - ha ridato credibilità ad una condizione igienica che era stata smarrita e che ha messo a rischio la salute di operatori e detenuti costretti a dover fare i conti oltre che con forti ed insopportabili odori anche e soprattutto con una cornice indegna per un paese civile. Un particolare ringraziamento va alla neo direttrice della struttura penitenziaria Luisa Pesante e al consigliere comunale Luigi Santilli per l’attenzione da subito dimostrata alla problematica ed alla solerzia che ha accompagnato il loro operare in tal senso. L’intervento non finirà qui. Presso il carcere - annuncia infine Nardella - a breve verranno installati compattatori ecologici grazie ai quali la struttura penitenziaria di Sulmona diventerà, con tutti i risvolti positivi che ne potranno derivare, la più grande isola ecologica della Valle Peligna" Modena: decreto svuota-carceri, domande da 124 detenuti a fine pena di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 26 febbraio 2014 Il magistrato di sorveglianza sta vagliando le loro posizioni: nessun reato grave Sant’Anna si sta già alleggerendo e potrebbe arrivare a meno di 400 carcerati Decreto "svuota-carceri": Sant’Anna si alleggerisce e potrebbe arrivare presto a una popolazione carceraria sotto i 400 detenuti, rientrando così in un ambito fisiologico dopo una lunga emergenza. Sono infatti 124 le istanze di applicazione di liberazione anticipata attualmente al vaglio del magistrato di sorveglianza di Modena, il dottor Giovanni Mazza. Si tratta di casi di detenuti che hanno scontato una consistente parte della pena per reati non giudicati gravi. Il controverso decreto legge voluto dall’ex ministro Cancellieri è entrato in vigore sabato scorso mentre il carcere di Modena, notoriamente sovraffollato, si stava già lentamente allegerendo: dagli oltre seicento detenuto che per anni lo hanno affollato, la scorsa settimana - nel calcolo tra entrate e uscite - custodiva 517 detenuti. Di questi solo 285 sono detenuti con sentenze passate in giudicato; tutti gli altri sono in custodia cautelare o in fasi giudiziarie precedenti. La liberazione anticipata, prevista da questa legge, è stata già applicabile per 27 detenuti per fine pena esecuzione. Si tratta di carcerati che avevano un periodo breve da scontare e con il calcolo dei giorni previsti dalla "Svuotacareerii", a partire dal 1 gennaio, avevano diritto a uscire. La cosiddetta "liberazione speciale anticipata" ha spinto 124 detenuti a presentare l’istanza al giudice Mazza. Non tutte saranno accolte, ma tutte sono in corso di definizione: il magistrato sta vagliando il percorso e il comportamento tenendo conto dei paramenti della legge. "La situazione di Sant’Anna sta effettivamente migliorando - spiega Mazza - oggi possiamo dire che in nessuna cella ci sono tre detenuti". Sant’Anna ha una capienza ufficiale, per il Ministero di Grazia e Giustizia, di 285 detenuti che possono arrivare fino a 600, mentre per i parametri interni al carcere la capienza va considerata adatta a 385 detenuti. Ma negli ultimi anni, come noto, è stato più volte lanciato un allarme per il sovraffollamento. "Questa situazione non viene mai valutata fino in fondo - spiega il giudice - perché in carcere non ci sono solo i detenuti ma un ambiente che li assiste: polizia penitenziaria, educatori, psicologi. Non solo: vorrei ricordare che questo provvedimento, ad esempio, interessa il mio ufficio e mi trovo in questi gironi a valutare una ingente mole di documenti da solo con una sola segretaria. Il fatto è che qui si prendono decisioni importanti che portano alla scarcerazione di detenuti". Un aspetto delicato, insomma, anche per le ripercussioni sociali che hanno queste decisioni del magistrato. In questo caso, le richieste che vengono inoltrate per la svuota carceri - ripetiamo che non interessano reati gravi come a rapina aggravata, l’omicidio, il sequestro di persona, l’estorsione e i reati di mafia oltre ad altri - suscitano sempre allarme tra la popolazione già esasperata dalla escalation dei reati. C’è anche il braccialetto elettronico, tra le possibilità di questa legge ed è stato molto pubblicizzato: una cavigliera da applicare a chi è agli arresti domiciliari. "Ma per ora a Modena non ci sono richieste e non abbiamo ancora chiara la modalità di applicazione", precisa Mazza. "Piuttosto - spiega - esiste la possibilità di esecuzione di pena a domicilio, prevista dal decreto di Alfano ma non riguarda condanne per i recidivi più gravi". Lecce: "Made in Carcere", dietro le sbarre è nato un laboratorio solidale di Chiara Merico Avvenire, 26 febbraio 2014 Lasciare un lavoro prestigioso all’apice della carriera per tornare a casa, a Lecce, e reinventarsi imprenditrice. Non è stata questa, però, l’unica scelta controcorrente di Luciana Delle Donne. La manager ha creato, infatti, un’attività molto particolare: "Made in Carcere", nata per offrire un’opportunità proprio a chi pensava di non averne più, come le donne recluse nella casa circondariale del capoluogo salentino, Borgo San Nicola. "Nessuno voleva averci a che fare - racconta Delle Donne. Sembrava che a toccarle ci si bruciasse le dita. Per questo ho scelto di lavorare con loro: perché amo le grandi sfide, fare l’impossibile". La prima grande sfida per questa ex manager è stata proprio la decisione di lasciare il suo lavoro. Ideatrice con Banca 121 (già Banca del Salento, gruppo Mps) del primo modello di banca multicanale in Italia, nel 2000 entra in Sanpaolo Imi. Ci resta fino al 2004, quando sceglie di lasciare l’incarico di responsabile dello sviluppo dei canali innovativi di Sanpaolo Wealth Management. "Avevo raggiunto una certa serenità economica - racconta -, quindi non è stata una scelta avventata. Il mio lavoro mi piaceva, ma non sono fatta per la "manutenzione ordinaria": quando una creatura è stata partorita, deve andare con le sue gambe". Così Delle Donne inizia la sua nuova avventura, bussando alle porte del carcere. "Ero consapevole di disturbare: disturbare la normalità, lo stato dell’arte, la quiete. Stavo entrando in un ambiente complesso, dove ci sono abitudini e regole precise". L’imprenditrice avvia quindi le pratiche per creare il laboratorio di "Made in Carcere", che produce "manufatti di valori": borse e altri accessori, ricavati da scarti della lavorazione tessile, con il duplice scopo di offrire una "seconda opportunità" alle donne detenute e una "doppia vita" ai tessuti. "Siamo partiti grazie ai miei fondi personali e ad alcuni sponsor, come Montepaschi e la Provincia, che ci hanno aiutato nella fase iniziale. Il primo articolo che ho brevettato è stato un collo per camicia, molto difficile da realizzare: poi è arrivato l’indulto e tutte le operaie sono uscite, quindi ho dovuto ricominciare daccapo". Un problema, quello del ricambio, che si ripete di continuo: "Tutte le volte che i detenuti escono si deve ricominciare. È come quando un figlio cresce: ti fa piacere che vada via, ma allo stesso tempo provi dolore perché sai che non lo vedrai più". Negli anni "Made in Carcere" è cresciuto e ora i prodotti vengono realizzati anche in altri istituti di pena, come quelli di Como e di San Vittore. Ma Luciana non vuole fermarsi: "Vorremmo dare al progetto una dimensione nazionale, grazie anche a Sigillo, iniziativa sponsorizzata dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), che supporta proprio la formazione in carcere". A Borgo San Nicola, intanto, l’imprenditrice ha avviato anche un progetto per la realizzazione di orti verticali, oltre ad estendere le attività di lavorazione dei tessuti: "Vogliamo creare una vera e propria cittadella del tessile, un unico grande spazio dove si possano realizzare le attività di taglio, cucito, stampa e logistica", spiega. Oltre a rappresentare un’opportunità per le detenute, "Made in Carcere" è un modello di business che funziona, come precisa la fondatrice: "Tutti gli attori hanno un ritorno: i detenuti, ma anche le aziende che donano gli scarti di tessuto: per loro si tratta di un’ottima soluzione in termini di responsabilità sociale d’impresa". Roma: a Regina Coeli detenuto ucraino tenta suicidio tagliandosi le vene, viene salvato Adnkronos, 26 febbraio 2014 Ha tentato il suicidio, tagliandosi le vene, in pieno giorno, accanto ai compagni di cella del Centro Clinico del carcere di Regina Coeli che, ignari, stavano consumando il pasto. Protagonista della vicenda, un detenuto ucraino di 49 anni, Antony P., salvato in extremis da una infermiera e da un agente di polizia penitenziaria. La notizia dell’ennesimo dramma della disperazione in carcere è stata resa nota dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. A quanto appreso dai collaboratori del Garante, l’episodio è avvenuto questa mattina, intorno alle 11.30. L’ucraino - arrivato a Regina Coeli venerdì scorso e subito trasferito nel Centro Clinico per le sue precarie condizioni di salute - era atteso per una visita medica. Non vedendolo arrivare, un agente di polizia penitenziaria in servizio nella struttura è andato a cercarlo in cella. Antony era nel proprio letto, sotto le coperte, apparentemente addormentato. Un più approfondito controllo ha però permesso di accertare che l’uomo si era reciso da poco le vene di un braccio e giaceva in una pozza di sangue a poca distanza dagli altri 4 compagni di cella che, ignari, si apprestavano a consumare il pranzo. Immediatamente soccorso dallo stesso agente e da una infermiera in servizio, l’uomo è stato trasferito dal 118 in codice rosso in uno degli ospedali di zona. "A quanto mi è stato riferito - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - quest’uomo era seriamente malato ed aveva non poche difficoltà a farsi comprendere dagli altri a causa della lingua. Resta il dato di fatto dell’ennesimo dramma della disperazione consumato all’interno di un carcere che è per definizione un luogo duro ma lo è ancor di più con le difficili condizioni che si sono venute a creare in questi anni. Fa riflettere e sconvolge la decisione di un uomo che decide di togliersi la vita non di notte, quando la solitudine si fa sentire forte, ma in pieno giorno fra compagni di cella alle prese con i normali gesti della quotidianità. Non essere in grado di capire i fantasmi di questa gente è la vera sconfitta del sistema". Sulmona (Aq): un lavoro per i detenuti…. solo così il carcere "cura" di Marianna Gianforte Il Centro, 26 febbraio 2014 La casa circondariale che da via Lamaccio si staglia contro il Velino-Sirente la conoscono tutti come "il carcere dei suicidi". Un marchio a fuoco che la direttrice Luisa Pesante - è la seconda donna a dirigere la struttura dopo Armida Miserere, morta suicida nell’aprile del 2003 - vuol cercare di lavare via. Con piccole trasformazioni, aperture al mondo esterno che vanno decise con attenzione per non sbagliare. Ed è di sabato scorso il congresso della Fillea Cgil dentro al carcere, il primo nella storia del sindacato. Il viso apparentemente duro della direttrice dal nome emblematico tradisce un sorriso di dolce soddisfazione, quasi il sapore di una "conquista", quando parla dei progetti avviati per il reinserimento dei detenuti, o quando descrive i diversi laboratori di artigianato in cui i reclusi imparano un mestiere. Risponde alle domande scegliendo come sfondo uno dei murales che arricchisce il corridoio del piano terra realizzato dai reclusi. A breve, partirà l’ampliamento del carcere per accogliere altri 200 detenuti. Un nuovo padiglione che risponderà alle domande "come, dove e per chi", mettendo al centro il reinserimento del recluso, come ha spiegato il commissario all’edilizia penitenziaria, Angelo Sinesio. Dottoressa pesante, il congresso della Cgil di sabato scorso è stato un segnale che si è voluto inviare all’esterno per abbattere il connubio carcere-suicidi che lo ha caratterizzato? "Una brutta nomea che il carcere di Sulmona purtroppo si porta dietro, che in realtà è un triste fenomeno che ha caratterizzato tutti i carceri italiani. Ma qui ha avuto più clamore rispetto che altrove. Siamo di fronte a tragedie ogni volta che avviene un suicidio. Ma non è un fenomeno che ha colpito particolarmente questo istituto". Come combattere il disagio che vivono i detenuti tra le pareti di un carcere? "Il disagio fortissimo dei detenuti lo si combatte innanzitutto all’interno del penitenziario, con l’attività degli operatori penitenziari, da parte dei quali c’è una grandissima professionalità nonostante la carenza d’organico della polizia penitenziaria e di altri, come gli educatori e gli psicologi. In questo momento l’amministrazione penitenziaria ha messo in atto un sistema organizzativo che sta funzionando bene. Mi dispiace, invece, che la stampa enfatizzi situazioni tipiche, come le evasioni o i suicidi che, per carità, hanno bisogno di essere raccontate, ma non misuri mai il dato statistico con quanto avviene a livello nazionale. Questi fenomeni potrebbero essere molto più ampi e invece l’amministrazione penitenziaria riesce a contenerli". Quanto è importante il lavoro per evitare questi episodi estremi ma anche per il reintegro dei detenuti nella società una volta fuori dal carcere? "Il lavoro è lo strumento principale di reinserimento del detenuto per una sua ripresa dignitosa di vita nella legalità e per un rientro nella società a tutti gli effetti. Ma per quanto riguarda questo aspetto in particolare, resto delusa dal nostro legislatore. Non sta facendo un investimento in responsabilità dei detenuti. In questo carcere, ad esempio, abbiamo reclusi che hanno già trascorso una parte della pena molto significativa (oltre 20 anni), o stanno scontando anni di fine pena molto lunghi: in alcuni casi hanno degli ergastoli (si tratta di reati gravi, cosiddetti ostativi). Ma in questo momento il legislatore non ha saputo cogliere il percorso positivo che queste persone hanno compiuto all’interno dell’istituto, anche grazie agli operatori penitenziari, e sono persone che avrebbero potuto dimostrare anche all’esterno il loro senso di responsabilità, sono pronte per essere reinserite nella vita per proseguire la loro esistenza in modo diverso". In che modo? "Anche con misure alternative: per esempio con uno speciale affido in prova, o essere utilizzate in parte nei lavori socialmente utili gratuiti per la società, e in parte con un lavoro retribuito che gli consenta il reinserimento e il rientro nelle loro famiglie". In questo carcere quali tipi di attività svolgono i detenuti? "Qui abbiamo una realtà molto bella. Ci sono tre laboratori d’altissimo livello, una falegnameria, una calzoleria-pelletteria e un laboratorio di sartoria e di serigrafia e stampa. La nostra intenzione è di aumentare questa produttività, di non produrre più soltanto per l’interno dell’amministrazione ma anche per l’esterno, con commesse private. Un po’ come quello che ci ha permesso di fare la Fillea Cgil, che ci ha dato questa prima possibilità di sperimentarci con la produzione dei gadget per i congressisti che sono stati fatti completamente all’interno dell’istituto". Piano carceri: sappiamo che molto presto anche questa struttura sarà interessata da un ampliamento. Di cosa si tratta e quanti nuovi detenuti potranno entrarvi? "L’istituto sta per avviare la costruzione di un nuovo padiglione secondo gli standard europei e dovrebbe ospitare circa 200 nuovi posti detentivi. Ovviamente questi spazi sono studiati in maniera diversa dal passato, con maggiori spazi comuni, percorsi e stanze che rispettino anche la disabilità del detenuto e con un maggiore rispetto della dignità della persona anche quando reclusa". Treviso: protocollo d’intesa interregionale per garantire formazione degli ospiti dell’Ipm Italpress, 26 febbraio 2014 È stato firmato nei giorni scorsi il protocollo d’intesa tra la Regione del Veneto, la Regione Friuli Venezia Giulia, le Province autonome di Trento e Bolzano, insieme alle competenti autorità scolastiche, con cui viene sancito l’impegno a concorrere al finanziamento di un Fondo speciale che garantisca per tre annualità la prosecuzione degli interventi di istruzione e di formazione in favore degli ospiti dell’Istituto Penale Minorile di Treviso. Nel darne notizia l’assessore regionale alla formazione, istruzione e lavoro, Elena Donazzan, ricorda che la giunta veneta aveva approvato nel dicembre scorso il provvedimento che autorizzava la sottoscrizione di questo protocollo d’intesa al fine di garantire per tre anni un servizio di istruzione e formazione rivolto ai ragazzi ospitati nell’istituto penale. "Si tratta di un intervento estremamente importante, significativo ed unico nel suo genere - sottolinea l’assessore - perché mette assieme competenze diverse e ben tre Regioni, con l’unico intento di garantire il diritto allo studio a giovani in stato di detenzione. Nella sostanza oltre ad un diritto si offre un’opportunità, una prospettiva e soprattutto una speranza". L’istituto penale minorile di Treviso è l’unico esistente nell’area nord orientale del Paese e raccoglie minorenni provenienti da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. La legislazione italiana garantisce l’azione di recupero dei condannati attraverso l’articolo 27 della Costituzione che sancisce il principio della rieducazione. "Certo che il contesto è di estrema fragilità - aggiunge l’assessore Donazzan - in quanto, oltre alla condizione oggettiva, la popolazione carceraria presso l’Istituto minorile di Treviso è ad alto turn over. Ma il modello operativo sviluppato in questi anni e non più sostenuto da fondi ministeriali, avendo dato ottimi risultati anche di reinserimento, non poteva essere abbandonato. In questo caso le Regioni si sono dimostrate molto più attente e sensibili dello stesso Governo che, pur certificando tramite il Ministero di Grazia e Giustizia che questa rappresentava un’attività di eccellenza esportabile presso gli istituti penali minorili del Paese, ha ritenuto di non sostenerla più finanziariamente. Ciò è ancora più significativo in quanto è la legislazione nazionale, e non quella regionale, a stabilire che gli istituti di pena dovrebbero garantire ai propri ospiti la possibilità di frequentare le scuole superiori e di iscriversi all’università". "Fino ad oggi - conclude l’assessore veneto - il servizio di istruzione e formazione presso l’Istituto Penale Minorile di Treviso è stato garantito ed erogato dall’Istituto Comprensivo n. 5 "Coletti", ma nell’ultimo periodo le risorse economiche per sostenere l’istruzione dei ragazzi detenuti erogate dall’Ufficio Scolastico regionale per il Veneto non risultavano più sufficienti per garantire una formazione adeguata. Alla luce di ciò è stato quindi approvato e firmato questo protocollo d’intesa con l’impegno delle amministrazioni del Nordest a concorrere al finanziamento di un Fondo speciale per garantire per tre annualità la prosecuzione degli interventi". Avezzano (Aq): al via carcere a sorveglianza dinamica, l’ora d’aria dura l’intera giornata www.marsicalive.it, 26 febbraio 2014 San Nicola, un modello di "carcerazione attiva", dove il lungo cammino all’insegna di rispetto reciproco, formazione a 360°, collaborazione con l’esterno, Comune in primis, ha prodotto un’importante passo in avanti: l’istituto di pena - diretto da Mario Giuseppe Silla, primo in Abruzzo-Molise, diventa un carcere a sorveglianza dinamica, dove i detenuti possono stare fuori dalle celle per l’intera giornata. Conquista sancita dalla visita ad Avezzano del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Bruna Brunetti, dopo aver visitato la casa di pena, insieme al sindaco di Avezzano, Gianni Di Pangrazio, e al direttore dell’ufficio detenuti, Fiammetta Trisi, ha lodato il "clima di grande serenità generale, collaborazione con gli enti locali, in particolare il Comune di Avezzano, e le tante attività volte alla formazione dei detenuti per il reinserimento. Questa è la strada maestra da seguire per umanizzare le carceri". Il passaggio alla sorveglianza dinamica spinge il "San Nicola", dove i detenuti frequentano corsi di formazione professionale, computer, musica, pittura, verso una nuova ambiziosa meta: la classificazione a istituto di "custodia attenuata" avanzata dal Provveditore al Ministero degli Interni. Musica per le orecchie del direttore, Mario Silla, che ha condiviso il risultato con tutto il personale, i detenuti, i collaboratori esterni, e il Comune: "oggi", ha esordito Mario Silla, con al fianco il comandante della polizia penitenziaria, il commissario capo, Sarah Brunetti, "si realizza un sogno, frutto dell’intenso lavoro di tutto l’istituto, all’insegna del rispetto reciproco e della collaborazione, con il sostegno delle istituzioni, sindaco di Avezzano in testa. Ora incrociamo le dita e continuiamo a mantenere questo metodo di lavoro, nella speranza che il Ministero accolga la richiesta del provveditore di promuovere il San Nicola a carcere a custodia attenuata". Augurio condiviso dal primo cittadino, Gianni Di Pangrazio, convinto sostenitore della "carcerazione attiva mirata a offrire una chance di riscatto sociale a chi ha commesso uno sbaglio e vuole tornare sulla retta via". Per questo Comune e Istituto collaborano già su due progetti di formazione per il reinserimento (enogastronomia e cura del verde pubblico) che coinvolgono una decina di detenuti. Bologna: Dozza, dopo bocciatura della Fini-Giovanardi escono 18 detenuti per marijuana La Repubblica, 26 febbraio 2014 Sono 18 i detenuti scarcerati dalla Dozza dopo la sentenza con cui la Corte costituzionale ha bocciato la legge Fini-Giovanardi. Si tratta di persone accusate di spaccio di droghe leggere, in custodia cautelare in attesa del processo di primo grado, del giudizio d’appello o del pronunciamento della Cassazione. La detenzione preventiva è stata sostituita, con provvedimenti dei giudici di riferimento, dall’obbligo o dal divieto di dimora. Per definire la posizione e le possibilità di uscita dei detenuti definitivi, in fibrillazione, si aspetta il deposito delle motivazioni della Consulta. Salerno: estorsione dal carcere, coinvolto anche sovrintendente della Polizia penitenziaria www.salernotoday.it, 26 febbraio 2014 Associazione per delinquere di stampo camorristico, corruzione ed estorsione: queste le pesanti accuse per sette persone destinatarie di altrettante ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dalla Procura della Repubblica di Salerno ed eseguite dalla squadra Mobile della Questura di Salerno questa mattina. Scoperto, infatti, un sistema di natura estorsiva e delittuosa che partiva dal carcere grazie alla complicità di un sovrintendente della Polizia Penitenziaria: da dietro le sbarre sarebbero partite le lettere minatorie utili per i crimini. Ad esito delle indagini condotte dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Salerno su un gruppo criminale operante a Salerno, Pontecagnano e nella Piana del Sele, la Squadra Mobile della Questura, in collaborazione con la Polizia Penitenziaria, ha dato esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare. Le ipotesi di reato contestate agli arrestati sono relative alla costituzione di un gruppo criminale ad opera di pregiudicati già detenuti che, dal 2009 fino ad almeno l’agosto 2012, avvalendosi della collaborazione del sovrintendente della Polizia Penitenziaria G. A., all’epoca in servizio presso la Casa Circondariale di Salerno - Fuorni, gestivano, insieme ad altri affiliati liberi, estorsioni da compiersi nei territori di Pontecagnano e della Piana del Sele. Le indagini, dirette dalla Procura e svolte dalla Squadra Mobile di Salerno, scaturirono dal rinvenimento e sequestro ad opera della Polizia Penitenziaria di Salerno - Fuorni di telefoni cellulari all’interno di una cella del carcere che venivano usati da alcuni detenuti per comunicare con l’esterno. G. A., nato a Laurino (SA) di 55 anni residente a Cava dei Tirreni (Sa); A. D.F., nato a Pontecagnano - Faiano (Sa) di 50 anni, residente a Perito (Sa); G. C., nato a Perito (Sa) ed ivi residente, di 36 anni; F. C., nato a Salerno, di 32 anni, residente a Pontecagnano - Faiano (Sa); M.O. C., nato a Pago di Vallo di Lauro (Av), di 48 anni, residente a Battipaglia (Sa); L. C., nata a Napoli, di 31 anni, residente a Castel Volturno (Ce); A. I., nata a Salerno, di 39 anni, residente a Pontecagnano - Faiano (Sa). Per i primi sei è stata disposta la custodia cautelare in carcere, per la settima la custodia cautelare agli arresti domiciliari. Numerose altre perquisizioni, disposte dalla Procura, sono state eseguite nella mattinata nei confronti anche di altri indagati non raggiunti da misura cautelare. Droghe: le motivazioni della sentenza di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 febbraio 2014 "Evidente estraneità" delle "disposizioni aggiunte in sede di conversione" e mancanza di nesso funzionale tra i contenuti e le finalità del decreto-legge originario (n. 272 del 30 dicembre 2005) e la legge 49 del 21 febbraio 2006. In estrema sintesi, sono queste le motivazioni per le quali la Corte Costituzionale, con la sentenza emessa il 12 febbraio scorso, ha dichiarato illegittima la legge Fini-Giovanardi sulle droghe partorita con un colpo di mano del governo Berlusconi che, a poche settimane dallo scioglimento delle camere, ridisegnò completamente il testo unico sulle droghe con un maxi-emendamento introdotto in sede di conversione al decreto legge sulle Olimpiadi invernali di Torino e sul quale pose la fiducia, bypassando così il doveroso dibattito parlamentare. Un dispositivo, quello pubblicato ieri sul sito della Consulta, atteso particolarmente per capire gli effetti immediati della sentenza soprattutto da parte di chi è incappato in questi lunghi otto anni nelle maglie di quella che è considerata una delle leggi più repressive d’Europa. La risposta ora c’è: "Deve, dunque, ritenersi - si legge nelle motivazioni redatte dalla giudice Marta Cartabia - che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel Dpr 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo". I giudici costituzionalisti, cancellando gli articoli 4-bis e 4-vicies ter della legge di conversione Che modificavano gli articoli 73, 13 e 14 del testo unico sulle droghe - unificazione delle condotte e delle tabelle che identificano le sostanze, aumento delle pene per i consumatori e per i reati connessi alla cannabis e ai suoi derivati - hanno così accolto completamente le questioni di legittimità sollevate dalla III Sezione penale della Cassazione nel giugno 2013, ma hanno anche recepito appieno le argomentazioni esposte durante l’udienza pubblica dall’avvocato Giovanni Maria Flick, ex presidente della Consulta: "Le impugnate disposizioni introdotte dalla legge di conversione - si legge infatti nelle motivazioni - riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente (di cui trattava invece il decreto legge, ndr). Inoltre, esse sono norme a connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano la disciplina dei reati in materia di stupefacenti". Senza contare che è "di assoluta evidenza" la "disomogeneità delle disposizioni impugnate rispetto al decreto legge". Dunque, "una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare". Infatti, "la legge di conversione non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, come del resto prescrivono anche i regolamenti parlamentari"; "diversamente, l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare". Da ieri si torna dunque alla pre-esistente legge Jervolino-Vassalli emendata dal referendum dei Radicali del 1993 che eliminò la punibilità del consumatore. Ma cosa succede a coloro che stanno già scontando una condanna inflitta sulla base della legge incostituzionale? "È compito del giudice comune, quale interprete delle leggi - spiega la Consulta - impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo". In sostanza, spiega l’avvocato Flick al manifesto, la Consulta rimanda al giudice ordinario ogni decisione, citando però l’articolo 2 secondo il quale la nuova norma (in questo caso la legge pre-esistente) va applicata retroattivamente seguendo il principio del "favor rei", il giudizio più favorevole all’imputato, a meno che la condanna non sia già definitiva. C’è però, spiega ancora Flick, un orientamento minoritario giurisprudenziale che chiama in ballo anche l’articolo 30 della legge 87/1953 sul funzionamento della Consulta secondo il quale, a prevalenza sull’articolo 2 del codice penale, cessano gli effetti della legge giudicata incostituzionale e dunque anche le sentenze passate in giudicato devono essere disattivate. Ma il dibattito è appena cominciato, perché con le motivazioni di ieri si apre una nuova "era" in materia di stupefacenti, nel nostro Paese. A 14 anni dalla Conferenza nazionale sulle droghe di Genova, ne continuerà a discutere venerdì e sabato prossimi durante la due giorni di convegno promossa dalla Comunità di San Benedetto al Porto a Palazzo Ducale. Decine di ospiti e laboratori permuoversi "Sulle orme di Don Gallo", "per una nuova politica sulle droghe". Droghe: per le condanne successive al 2006 sarà possibile chiedere la revisione di Eva Bosco La Sicilia, 26 febbraio 2014 La cosiddetta Fini-Giovanardi sulle droghe ha introdotto attraverso un maxi-emendamento modifiche del tutto estranee al decreto legge di partenza, varando una riforma così incisiva sul piano politico, giuridico e scientifico che proprio per questo avrebbe meritato ben altro approfondimento nel dibattito parlamentare. Un dibattito compresso dai tempi rapidi dell’iter di conversione del decreto e schiacciato dal voto di fiducia che lo stesso governo pose sul maxi-emendamento, "precludendo una discussione specifica e una congrua deliberazione" sui singoli punti. È per questi motivi che la Corte Costituzionale ha giudicato illegittima la legge e precisamente due articoli, aggiunti in sede di conversione al cosiddetto decreto-Olimpiadi, varato dal governo a fine 2005 e convertito a inizio 2006. La norma conteneva misure sulle olimpiadi invernali, contro il terrorismo e la criminalità organizzata e anche per impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. Ma queste ultime si trasformarono, nella legge di conversione, in norme sulle droghe, cancellando la distinzione tra legge e pesanti e anche la diversificazione nelle pene previste per i diversi reati. La questione è finita di fronte alla Corte Costituzionale, che l’ha discussa e decisa tra l’11 e il 12 febbraio. Oggi il deposito delle motivazioni, estensore il giudice Marta Cartabia. La decisione della Corte, come spiega la sentenza, riguarda un problema di natura procedurale: l’iter di conversione di un decreto e la violazione dell’articolo 77 della Costituzione. In sostanza, la possibilità di emendare un decreto durante la fase di conversione in legge - passaggio parlamentare semplificato e particolarmente rapido - non è incondizionata, ma incontra dei limiti. Quindi "la legge di conversione non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore. Diversamente, l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare", scrive la Corte. Le conseguenze di questa decisione sono però più ampie, perché i due articoli decadono e con essi la parificazione delle droghe leggere a quelle pesanti. Di conseguenza, spiega la sentenza, torna in vigore la legge sulle droghe precedente alla Fini-Giovanardi, ossia la Iervolino-Vassalli (modificata dal referendum del ‘93 che abolì il carcere per l’uso personale). Quanto ai singoli imputati, il giudice comune dovrà tener conto del favor rei, cioè del principio che implica l’applicazione della norma penale più favorevole. Di fatto, come spiega il penalista Roberto Afeltra, tornando in vigore le norme precedenti, "le sanzioni per le droghe leggere si riducono e tornano da un minino di 2 a un massimo di 6 anni di carcere, ma in virtù del favor rei si riducono anche quelle per le droghe pesanti, passando da un minimo di 6 a un massimo di 20 anni, anziché 8-20 anni. Inoltre, sarà possibile chiedere la rimodulazione della pena per le sentenze successive al 2006". La decisione della Corte avrà quindi riflessi anche sulla popolazione carceraria. Ora, commenta il coordinatore dei garanti dei detenuti, Franco Corleone, "è certificato per sentenza inoppugnabile che è stato compiuto un abuso". Droghe: spazio al "favor rei", il giudice dovrà evitare effetti pregiudizievoli sugli imputati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2014 Corte costituzionale. Depositate le motivazioni della sentenza sulla legge Fini-Giovanardi. Il giudice dovrà applicare il principio del favor rei per impedire che la pronuncia di incostituzionalità della Fini-Giovanardi, che fa rivivere la Craxi-Jervolino Vassalli, non si traduca in un danno per i singoli imputati. La Corte costituzionale, con la sentenza numero32 depositata ieri, fornisce le motivazioni della bocciatura della Fini-Giovanardi e si preoccupa di prevenirne le conseguenze. L’articolo 73 del Dpr 309/1990 che torna ad applicarsi, risultando di fatto non abrogato, prevede pene più miti, rispetto alla norma illegittima, solo per gli illeciti che riguardano le droghe leggere, mentre riserva un trattamento più severo ai reati relativi alle droghe pesanti Per questo la Consulta si sente in dovere di tutelare la posizione giuridica degli imputati, invitando il giudice a tenere conto "dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex articolo 2 del codice penale, che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo". La Consulta ricorda che la mancata applicazione del Dpr 309/1990 lascerebbe non punite alcune tipologie di condotte per le quali esiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione, imposto dalla decisione quadro 2004/757/Gai che obbliga gli Stati a sanzionare le condotte intenzionali in materia di traffico illecito degli stupefacenti, fatto salvo il consumo personale. Il ritorno in auge della norma del 1990 è dovuto allo "scivolone" del Governo che ha introdotto, in sede di conversione al Dl 272/2005, disposizioni(articoli 4-bis e 4-vicies ter) diverse per materia e finalità rispetto ai contenuti del Dl. La Consulta spiega che la possibilità di emendare un decreto nel corso del suo iter parlamentare trova un limite proprio nella "competenza tipica". La legge di conversione non può dunque aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, pena il rischio di sfruttare l’iter semplificato per aggirare il confronto parlamentare. L’unico articolo del Dl 272/2005 a cui, in ipotesi, potevano riferirsi le disposizioni illegittime era l’articolo 4, con il quale ci si poneva l’obiettivo di impedire l’interruzione dei programmi di recupero per i tossicodipendenti i recidivi. La strada scelta era stata quella di abrogare l’articolo 94-bis della ex Cirielli che, abbattendo da quattro a tre anni l’ammontare della pena, inflitta o residua, in relazione alla quale erano applicabili i benefici a carattere terapeutico, tagliava fuori dal percorso di recupero un numero altissimo di detenuti, con effetti anche sul sovraffollamento carcerario. L’articolo 4 contiene, dunque norme di natura processuale che riguardano l’esecuzione della pena e la persona del tossicodipendente. Diverso il caso degli articoli 4-bis e 4-vicies ter che si riferiscono agli stupefacenti e non alla persona del tossicodipendente e dettano la disciplina dei reati in materia. L’estraneità non era sfuggita al Parlamento costretto a modificare, in sede di conversione, il titolo del Dl per includere il "corpo estraneo". Nella sentenza, redatta dal giudice Marta Cartabia, si sottolinea che la disomogeneità diventa ancora più evidente se si tiene conto che, con due soli articoli, è stata introdotta nell’ordinamento "una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanziona-torio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe cosiddette "pesanti" e di quelle aventi a oggetto le droghe cosiddette "leggere", fattispecie differenziate invece dalla precedente disciplina". È stato un intervento di grande rilevo - che non a caso faceva parte di un autonomo disegno di legge giacente da tre anni in Senato - frettolosamente inserito in un maxiemendamento. Una forzatura blindata sulla quale non è stato possibile intervenire per effetto del voto bloccato, a cui si è aggiunta la fretta di fine legislatura che ha impedito al presidente della Repubblica di rinviare la legge, non disponendo di un potere di rinvio parziale. Una situazione analoga a quella che si è verificata con il decreto "Salva Roma", che induce la Consulta a ricordare che il rispetto del requisito della omogeneità (articolo 77 della Carta) è fondamentale per mantenere nella cornice Costituzionale i rapporti tra Governo, Parlamento e presidente della Repubblica. India: il "caso marò" e la Convezione di Roma a proposito di lotta al terrorismo in mare di Cristiano Cominotto e Simone Melzi (Avvocati) Italia Oggi, 26 febbraio 2014 La Corte Suprema dell’India dovrà a breve pronunciarsi sulla legittimità della scelta di accusare i due fucilieri di Marina italiani sulla base del c.d. Sua Act, la legge di ratifica indiana della Convenzione per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima sottoscritta a Roma nel 1988, in vigore dal 1992. Questa Convenzione, ratificata sia dall’Italia che dall’India, si configura come un trattato internazionale multilaterale volto alla repressione di tutti e solo quegli atti illeciti compiuti contro la sicurezza della navigazione marittima e connotati da una matrice terroristica in ambito marittimo. La Convenzione di Roma trae origine dalla vicenda dell’Achille Lauro, in cui erano apparse chiare le lacune giuridiche sovranazionali in tema di tutela della sicurezza marittima. Difatti le distinte norme internazionali sulla repressione della pirateria, racchiuse nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, apparivano non assimilabili e inadeguate. La Convenzione di Roma si configura dunque come positivo esito settoriale di codificazione del diritto internazionale. Oggi l’importanza della Convenzione del 1988 è stata ribadita dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che, attraverso varie risoluzioni, nel contesto del contrasto internazionale alla risorta pirateria marittima, ha ritenuto legittimo il suo utilizzo purché solo nei confronti di atti terroristici violenti in mare e tali da porre in pericolo la sicurezza della navigazione o l’incolumità delle persone imbarcate. Questa precisazione è importante perché ne limita in maniera chiara il ricorso, a livello giuridico internazionale. La Convenzione di Roma impone dei doveri agli Stati firmatari tra cui l’obbligo giuridico, vincolante a livello internazionale, di individuare le pene più adeguate agli illeciti in essa previsti, tenuto conto della loro gravità. Le condotte illecite previste nella Convenzione del 1988 sono descritte nel suo articolo 3. Tra le varie fattispecie da incriminare si prevede che sia punito chiunque, illecitamente e intenzionalmente (quali prerequisiti indispensabili), commetta, tramite violenza, un atto violento nei confronti di una persona che si trovi a bordo di una nave, ove questo atto sia di natura tale da pregiudicare la sua sicurezza. Dovrà essere punito inoltre chiunque ferisca o uccida una persona, qualora tale fatto sia attuato commettendo una delle fattispecie previste nell’articolo in esame. In relazione all’obbligo internazionale per ogni Stato firmatario della Convenzione di Roma di recepire, con pene adeguate, nel proprio sistema penale interno gli illeciti in essa previsti, il legislatore indiano attraverso il c.d. Sua Act, la già ricordata legge interna di ratifica della Convenzione per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima, ha previsto in particolare nell’art. 3, c. 1, lett. g), par. i) la pena capitale per chiunque causi la morte di una persona a bordo di un’imbarcazione. A questa norma ha fatto riferimento la pubblica accusa indiana nell’imputazione prevista per i due soldati italiani, prediligendo tuttavia la scelta di derubricare l’incriminazione, in base a quanto previsto nella diversa lett. a) del medesimo articolo, in cui si prevede una pena fi no a 10 anni di carcere per chi commetta un atto di violenza contro una persona a bordo di una nave. Su un piano di stretto diritto quindi la scelta indiana di applicare la Convenzione per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima, come trasposta nel proprio ordinamento interno, appare dubbia. L’opzione più efficace rimane quella di ricorrere al Tribunale internazionale del diritto del mare o a un arbitrato internazionale, in modo da garantire una maggiore imparzialità. India: Vito (Fi); non lasciamo soli i nostri marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone 9Colonne, 26 febbraio 2014 "Parlerò subito della cosa che più mi sta a cuore, della quale mi sto più occupando con la Commissione difesa e con i colleghi che ringrazio per l’attenzione che hanno: la vicenda dei nostri due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, che sono ingiustamente detenuti in India da oltre due anni; fucilieri di Marina che si stanno comportando con grande senso dell’onore e di responsabilità e ai quali voglio mandare il nostro affettuoso saluto". Lo ha detto Elio Vito, deputato del gruppo Forza Italia e presidente della Commissione difesa, intervenendo in Aula durante la discussione sulle comunicazioni del Governo. "La invito a fare in modo - ha proseguito, rivolgendosi al presidente del Consiglio - che in tutti i colloqui internazionali che lei avrà parli dei nostri due fucilieri di Marina", perché "per internazionalizzare la crisi occorre impegnare la comunità internazionale attivamente". "Noi vorremmo sapere dal Governo se ci sono le condizioni per continuare a impegnarci a partecipare nella missione antipirateria, alla quale partecipavano Latorre e Girone. E queste condizioni devono essere assicurate dalla solidarietà e dall’impegno internazionale nell’aiutare l’Italia ad affrontare e a risolvere la vicenda dei due fucilieri di Marina", ha sottolineato Vito. "Se non c’è questo impegno internazionale, se la vicenda riguarda solo l’Italia e non riguarda anche l’Europa, la Nato, le Nazioni Unite, probabilmente dobbiamo fare una valutazione se continuare o meno a partecipare e a dare il nostro contributo a quel tipo di missione". "Io credo che vada continuato a fare questo: continuare a garantire, ad assicurare che loro non saranno lasciati soli dallo Stato e dal Governo, ha concluso". India: torna alla ribalta il caso Tomaso ed Elisabetta, detenuti da più di quattro anni di Mara Cacace www.savonanews.it, 26 febbraio 2014 Ieri al Tg5 si è parlato anche di Tommy ed Ely. Grande l’emozione di chi ha potuto rivedere i ragazzi anche solo attraverso lo schermo della loro televisione. In attesa nel frattempo di nuove notizie sulla causa di oggi. È prevista, nuovamente, per questa mattina la causa di discussione del caso di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni detenuti in India da ben 4 anni con una condanna all’ergastolo per la morte del loro compagno di viaggio e amico Francesco Montis. Come per i Marò che sono arrivati ieri a subire il 27esimo rinvio del loro processo. Non si può non ricordare che Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni stanno vivendo la stessa sorte da ben più di 4 anni. E se poco si è parlato dei due ragazzi a livello nazionale l’attenzione non è mai scesa sulle pagine del social network dedicato ai due ragazzi e tra gli amici, da sempre attivi per la causa. Ieri al Tg 5 un servizio ha parlato dei due giovani scatenando l’emozione tra chi li ha potuti rivedere anche solo attraverso lo schermo della televisione. Si spera che riaccendere l’attenzione sulla vicenda possa servire a smuovere le cose e a sensibilizzare ancora di più i funzionari governativi che se non mancano di pronunciarsi "sulla situazione scandalosa che vivono i Marò per un processo del tutto illegittimo" come afferma il ministro degli Esteri, ben poco si sono pronunciati sulla vicenda di Tommy ed Ely a livello nazionale. I rinvii che questo processo ha subito nel corso degli anni, infatti, ormai sono così tanti da fare fatica a tenere il conto, ma la speranza dei ragazzi e della famiglia non cessa e ci si augura solo che possa concludersi presto quello che, per i due italiani, è un vero e proprio incubo senza fine. La madre di Tommy, Marina Maurizio, si è recata nuovamente in India per seguire, come sempre da vicino, il caso che vede coinvolto suo figlio ed Elisabetta e per portare la voce dell’Italia e degli amici ai due ragazzi. In attesa che oggi possa finalmente arrivare una notizia positiva e non quella dell’ennesimo rinvio aspettiamo speranzosi notizie dall’India. Grecia: il carcere dei "vip", accoglie principalmente la criminalità dei colletti bianchi www.globalist.it, 26 febbraio 2014 Alla periferia della capitale il più grande istituto penitenziario di Grecia assieme ai terroristi accoglie i boiardi di Stato, ed un’ala è stata trasformata in zona privilegiata. Nei pressi di Atene, il carcere di Korydallos ospita tradizionalmente i detenuti più pericolosi del paese ma come risultato della crisi politica ed economica che ha scosso il paese, ormai accoglie anche detenuti meno comuni: un ex ministro, parlamentari neo-nazisti, i leader di estrema sinistra e di molti uomini d’affari corrotti. Tra i "vip" che adesso soggiornano nella prigione, ci sono l’ex ministro Akis Tsohatzopoulos, 73 anni, fondatore del partito socialista Pasok, che ha trascorso quasi 20 anni della sua vita al governo prima di essere condannato nello scorso ottobre a 20 anni di carcere per riciclaggio nelle forniture di armi e poi altri funzionari e imprenditori coinvolti nella corruzione, come l’ex ministro cipriota Dinos Michaelides, estradato in Grecia nel mese di settembre oltre a rappresentanti delle imprese tedesche e delle fabbriche di armi russe, accusati di corruzione nello stesso caso. Ancora, nel carcere di Korydallos è rinchiuso il proprietario di una banca privata salvata dallo Stato che viene accusato di abuso di beni sociali ed a che di corruzione nella gestione di una squadra di calcio. La corruzione endemica potrebbe essere una delle cause della terribile svolta presa dalla crisi economica la crisi in Grecia. Mostra un salto nella questione, e dopo il pacchetto di misure imposto dai Paesi donatori oltre che da Ue, Bce e Fondo monetario nel dicembre scorso "Transparency International" ha assegnato ad Atene il massimo riconoscimento per i progressi compiuti . Un’ala dell’edificio principale di Korydallos, soprannominata "l’ala Vip" dai media greci, accoglie principalmente la criminalità dei colletti bianchi. "Korydallos è considerato il carcere più sicuro del Paese", dice l’avvocato Yannis Pagoropoulos il quale però aggiunge che la struttura è sovraffollata come la maggior parte delle prigioni greche, Korydallos è il più grande complesso di detenzione del Paese ma i suoi cinque edifici ospitano più del doppio della loro capacità con circa 2.500 criminali comuni, ma anche estremisti politici. Cinque membri del partito neo - nazista "Alba Dorata" sono in carcere per omicidio dopo l’offensiva giudiziaria contro questa formazione e l’assassinio di un musicista antifascista . Dal 2003 a Korydallos risiede anche una dozzina di membri della banda "17 novembre", la più feroce organizzazione dell’estrema sinistra greca, disciolta nel 2002. Ai vecchi terroristi si sono aggiunti poi dal 2011 i membri della cospirazione delle "Cellule di Fuoco", la nuova generazione di estremisti, noti per gli attentati con pacchi esplosivi tra il 2008 e il 2010. I membri di entrambi i gruppi a volte si ritrovano in tribunale, alimentando le critiche, soprattutto dopo la morte nel mese di gennaio, durante un congedo, dell’ergastolano Christodoulos Xiros, membro del "17 novembre". Korydallos (il nome in lingua greca significa "allodola"), costruita nell’omonimo sobborgo ad ovest di Atene negli anni 60, "è una sorta di snodo, tutti i criminali passano qui - dice alla "France Presse" Spyros Karakitsos, presidente di Osye, il sindacato delle guardie carcerarie - originariamente progettato per detenzione temporanea adesso ospita anche condannati a pene severe per mancanza di spazio altrove". Perfino i colonnelli della giunta militare 1967-1974 avevano scontato la loro pena in questa struttura ma gli esperti del sistema carcerario ritengono tuttavia che questa convivenza tra detenuti comuni e politici, tra cui terroristi "è un grave problema che non rispetta le norme europee: si tratta di una miscela esplosiva, soprattutto tenendo conto delle condizioni pietose dei detenuti e della mancanza di personale che compromette la sicurezza". "Mi vergogno delle condizioni di Korydallos", continua il sindacalista - la creazione di una "ala Vip" in teoria dovrebbe riprodurre la tipica separazione in qualsiasi carcere in base alla natura del crimine ed alla nazionalità dei detenuti, ma qui invece ha prodotto soltanto speciali condizioni di confort". Per i 12.900 detenuti nelle 34 carceri di tutta la Grecia ci sono solo 1.800 dipendenti e le lacune sono enormi, di recente lo ha ammesso perfino il segretario per la politica penitenziaria del ministero della Giustizia, Marinos Skandamis. La Grecia è stata ripetutamente ammonita dalle organizzazioni internazionali sulle condizioni miserabili delle sue prigioni e nel 2008 a Korydallos c’era stata anche una rivolta. La scomparsa di Christodoulos Xiros ha spinto le autorità ad avviare un’ennesima riforma del sistema carcerario ma in un Paese in cui la riqualificazione delle carceri non era mai stata una priorità, la crisi economica rende la situazione ancora più insostenibile". Medio Oriente: sono 4.800 i palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane di Saed Bannoura, traduzione di Cecilia Bianchi www.infopal.it, 26 febbraio 2014 Il responsabile del Censimento dei prigionieri del ministero palestinese, Abdul-Nasser Ferwana, ha dichiarato il 4 febbraio che Israele detiene circa 4.800 palestinesi in 70 luoghi diversi tra prigioni, centri di detenzione e centri di interrogatorio, contravvenendo in tal modo al diritto internazionale. Negli ultimi 3 anni, secondo Ferwana, durante alcune incursioni e violazioni nei territori palestinesi occupati, l’esercito israeliano ha arrestato circa 11.034 palestinesi di cui 2.500 bambini. Il funzionario precisa che i soldati hanno prelevato e incarcerato più di 10.000 bambini palestinesi dall’inizio dell’Intifada al-Aqsa a fine settembre del 2000: "Queste arrestazioni violano il diritto umanitario internazionale". Ferwana sottolinea che "la violenza nell’esecuzione degli arresti, gli interrogatori, la tortura e la durezza delle condizioni di detenzione costituiscono delle gravi infrazioni". Aggiunge inoltre che "in questo momento abbiamo più di 4.800 palestinesi dietro le sbarre e molti di loro sono detenuti dall’inizio dell’Intifada al-Aqsa. Sono incarcerati in 17 prigioni e centri di detenzione diversi. Tra le 17 donne in stato di arresto, Lina al-Jarbouni è colei che sconta la pena più lunga: è stata arrestata 12 anni fa e condannata a 17 anni di reclusione". Oltre a ciò, il responsabile del censimento informa che Israele trattiene 150 persone in detenzione amministrativa, cioè senza accuse né processi. Tra i prigionieri spiccano inoltre 12 parlamentari eletti di cui un ministro del governo locale. Negli ultimi dieci anni, Israele ha sequestrato e incarcerato più di 60 parlamentari ed ex-ministri e la maggior parte di loro è trattenuta in detenzione amministrativa. Tra i 474 prigionieri che scontano l’ergastolo, Ferwana dichiara che Abdullah Barghuti, lontano parente di Marwan Barghuti, si è visto infliggere 67 condanne a vita con l’aggiunta di altri 250 anni di prigione. Sempre secondo le cifre esposte dal responsabile, sono 30 gli ordini di carcerazione effettuati da Israele prima della creazione dell’Autorità palestinese, avvenuta il 4 maggio 1993. Tra queste, 15 persone sono state arrestate più di 25 anni fa, mentre il record storico è detenuto da Karim Yunis, dietro le sbarre da più di 31 anni. In base alle informazioni presentate del funzionario del ministero, Israele continua a negare ai prigionieri malati il diritto a cure sanitarie professionali e specializzate. Sono 1.500 i detenuti che soffrono di uno stato di salute precario; alcuni sono colpiti dal cancro, altri hanno invece perso la mobilità e alcune funzioni. Dal 1967 sono 205 i detenuti deceduti durante la prigionia. Le cause del decesso vanno dalla tortura durante gli interrogatori alla mancanza di cure mediche appropriate, per non parlare dell’uso eccessivo della forza. L’ultimo caso registrato è quello di Hassan Torbay, 22 anni, originario di Nablus in Cisgiordania, morto di cancro all’ospedale di Afula. Israele rifiutò di procurargli i trattamenti necessari e lo ricoverò solo quando la sua salute era già gravemente compromessa. Sono decine i palestinesi che muoiono poco dopo la loro liberazione a causa del deterioramento dello stato di salute aggravato dalla mancanza di cure nelle prigioni israeliane. Tra questi figurano Morad Abu Sakut, Hayel Abu Zeid, Ashraf Abu Threi, Fayez Zeidat e Zakariyya Issa. Abdul-Nasser Ferwana lancia un’appello ai media chiedendo di prestare maggiore attenzione alla questione dei prigionieri palestinesi, di concentrarsi sulle loro sofferenze e sulle infrazioni e gli abusi psicologici e fisici commessi contro di loro nelle celle israeliane. Israele: detenuto palestinese morto in prigione israeliana, famiglia accusa carcerieri Nova, 26 febbraio 2014 La famiglia di un detenuto palestinese morto ieri sotto la custodia israeliana, il quarantasettenne Abd al Rahman al Taweel, ha accusato oggi le guardie carcerarie israeliane di aver aggredito l’uomo diverse settimane prima del decesso. Lo rivela l’agenzia di stampa palestinese "Màan". Secondo i familiari, l’uomo sarebbe stato aggredito assieme ad altri detenuti da guardie "armate di spray al peperoncino" e sarebbe stato ricoverato a seguito delle ferite riportate. Il Servizio penitenziario israeliano (Ips) ha tuttavia negato le accuse sostenendo, inoltre, che il prigioniero sarebbe stato rilasciato il 16 febbraio dopo aver sofferto di attacco cardiaco. Iran: pastore cristiano detenuto è in precarie condizioni di salute, sollecitare la liberazione Agenzia Fides, 26 febbraio 2014 Il Pastore cristiano evangelico e cittadino iraniano Behnam Irani - detenuto dal 2011 dopo una condanna per "azioni contro lo stato" - è in precarie condizioni di salute che potrebbero comprometterne la sopravvivenza. Per questo urge rilasciarlo: lo chiede, in una nota inviata a Fides, l’Ong "Christian Solidarity Worldwide" (CSW), ricordando che, "anche se condannato con accuse di tipo politico, in realtà il Pastore è in carcere a causa della sua fede, in flagrante violazione della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici". Il Pastore ha subito un intervento chirurgico il 22 febbraio ed è ora ricoverato nel Shahid Madani Hospital a Karaj. Behnam Irani soffriva di gravi emorragie a causa di ulcere allo stomaco e complicazioni intestinali. Secondo fonti dei CSW, l’operazione ha avuto successo e il Pastore tornerà nei prossimi giorni nella prigione di Ghezal Hesar. Il Pastore Irani, cittadino iraniano convertitosi al cristianesimo, era divenuto capo della "Chiesa dell’Iran" con sede a Karaj. Avendo organizzato riunioni di preghiera "non autorizzate", è stato condannato nel 2011 a sei anni di reclusione. Nei primi mesi della sua prigionia all’istituto penale di Ghezal Hesar, il Pastore Irani è tenuto in isolamento in una piccola cella, dove le guardie ripetutamente lo svegliavano durante il sonno, come forma di tortura psicologica. È stato poi spostato in una stanza angusta dove i detenuti non potevano sdraiarsi a dormire, in seguito trasferito in una cella sporca a sovraffollata che condivide con 40 detenuti. È stato sottoposto a pressioni fisiche e psicologiche per convincerlo a riconvertirsi all’islam. Le autorità iraniane, infatti, sono particolarmente sensibili e ritengono "un esempio pericoloso" gli iraniani che si convertono dall’islam alla fede cristiana. Nella nota inviata a Fides, Mervyn Thomas, Direttore esecutivo di CSW, dichiara: "È inaccettabile lasciare che le condizioni di salute di un detenuto possano deteriorarsi a tal punto. Continuiamo a chiedere il rilascio del Pastore, imprigionato solo perché cristiano".