Legge sulla droga: torniamo alla prevenzione, alla cura e alla riduzione del danno Il Mattino di Padova, 24 febbraio 2014 La Corte Costituzionale ha "bocciato" la legge Fini-Giovanardi, che dal 2006 equiparava le droghe leggere a quelle pesanti livellando verso l’alto reati e pene. La conseguenza è che la distinzione tra i diversi tipi di droghe riprende corpo e con essa viene finalmente messo in crisi il sistema delle pene, che aveva contribuito a riempire le carceri in questi ultimi anni. Ora speriamo vivamente che emerga la volontà da parte del Parlamento di riparare una volta per tutte alle storture e alle sofferenze prodotte da questa legge, inserendo in una nuova legge come pilastri principali la prevenzione, la cura e la riduzione del danno. Ma chi ridurrà la pena alle migliaia di persone punite per droghe leggere con troppa galera? All’indomani dell’annuncio che la Consulta ha bocciato la Fini-Giovanardi, il problema è diventato capire cosa succederà ora con i condannati. Un giornalista mi ha chiesto cosa pensavo della notizia che 10 mila detenuti avrebbero lasciato le carceri. Ho risposto che se fossi uno dei circa 3 mila condannati per droghe leggere, non saprei come fare a uscire dal carcere. Un’istanza di revisione del processo sarebbe inammissibile, così come ogni forma di ricorso al magistrato di sorveglianza. L’unica possibilità sarebbe chiamare l’avvocato e dirgli di presentare domanda di incidente d’esecuzione, nella speranza di trovare un giudice disposto a leggere le carte del mio processo, accettare che la mia pena sia stata sproporzionata, e definire un’altra condanna più bassa. Sempre convinto che le probabilità che questo accada sono davvero basse. Tuttavia io ho esultato di fronte alla sentenza della suprema corte. Ma se l’ho fatto non è stato sicuramente perché tanti condannati usciranno. Conoscendo il processo penale italiano, so quanto questo sia difficile. Se ho esultato è stato, innanzitutto, perché questa sentenza permetterà la rimessa in discussione dell’assurdità ideologica che c’è in qualsiasi norma che equipara le pene per droghe leggere a quelle per droghe pesanti. Un altro motivo di contentezza è il principio di questa sentenza: non si può infilare in un decreto legge (in questo caso per esempio un decreto che riguardava le Olimpiadi invernali) norme che nulla hanno a che fare con il motivo del decreto stesso. Noi che ci occupiamo di carcere ricordiamo bene quegli anni in cui la politica infilava carcere e pacchetti sicurezza in ogni decreto a partire da tutto quello che echeggiava tra telegiornali e salotti televisivi come emergenza microcriminalità. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul reato di immigrazione clandestina e le sentenze della Corte europea sul sovraffollamento hanno certificato l’ingiustizia prodotta da quella politica, e oggi finalmente si è cambiato rotta e si parla di umanizzare le carceri. Se la Corte costituzionale ha sentenziato che è incostituzionale legiferare in quel modo, si certifica anche l’assurdità di decreti che hanno causato il disastro del sistema penale attuale. E allora adesso occorre fare qualcosa di coraggioso. Sarà difficile che questa sentenza porti a rivedere tutti i decreti degli ultimi quindici anni, tuttavia la speranza è che questa sentenza impedisca in futuro che simili procedure siano usate per legiferare in materie delicate come quella delle pene. In Italia le pene previste per spaccio e traffico di stupefacenti sono tra le più alte in Europa. È chiaro che quelle migliaia di persone condannate per droghe leggere sono state punite davvero con tanta, troppa galera, spesso espiata in condizioni inumane. Ma la triste verità è che loro non possono fare nulla per vedersi ridurre la pena, perché in Italia la certezza della pena è così certa, che la revisione del processo non è possibile nemmeno di fronte ad una illegittimità costituzionale. Qualche titolo di giornale ha annunciato che questa sentenza farà uscire diecimila detenuti. Io sono sicuro che tra i condannati non ne uscirà nemmeno uno, e non per cattiveria dei giudici, ma perché il sistema è talmente rigido che non lo permette. L’unica soluzione alle tante inutili sofferenze che il sistema penale produce, rimane l’indulto. Così, oltre a risarcire i detenuti per averli tenuti in condizioni inumane e degradanti, le istituzioni possono fare un atto di giustizia nei confronti di tutti quelli che sono stati condannati in modo sproporzionato per effetto di una legge, emanata con una procedura incostituzionale. Elton Kalica Curare o proibire e reprimere Quando ero un ragazzo di quindici-sedici anni i primi spinelli me li feci con alcuni amici al parco pubblico del mio quartiere. Per noi di pubblico non c’era un bel niente. Quello che facevamo era totalmente "privato", ben nascosto, necessariamente ci dovevamo nascondere perché avevamo timore di essere scoperti da qualcuno di nostra conoscenza o, peggio ancora, dalla polizia. La recente, molto attesa, sentenza della Corte Costituzionale potrebbe contribuire ad aprire un varco proprio in questa direzione: l’accettazione sociale del fatto che ci siano persone che consumano una sostanza e non per questo debbano essere messe al bando. Nella mia lunga esperienza con le droghe ho sempre pensato che ci fosse un’enormità di persone che per un motivo o per un altro speculassero su noi consumatori di droghe leggere o pesanti. Dai grandi trafficanti, che cercavamo di emulare fantasticando di una vita fatta di soldi e droga sempre a disposizione, fino ai "salvatori" quelli che cioè promettevano di guarirci dalla nostra malattia. Crescendo ho imparato a rendermi conto che la speculazione sul diverso, che a volte è anche il più debole, spesso ha precise finalità sociali e politiche. Non credo al fatto che, da parte di chi certe politiche del proibire e reprimere le ha sempre sostenute, ci sia stata solo la ferma convinzione che proibendo e reprimendo si possano salvare vite umane e tutelare la salute pubblica: la realtà ci parla chiaro, c’è una presa d’atto a livello mondiale del fallimento della guerra alla droga fatta con il proibire e reprimere. Io ne ho incontrati in carcere di ragazzi arrestati con l’accusa del possesso di piantine di marijuana o di modeste quantità di hashish: quello che più mi stupiva era leggere i verbali del loro arresto e, in un caso specifico, vedere quale macchina investigativa, costosissima e fatta con denaro pubblico, fosse stata messa in moto per prendere questi "pericolosi criminali" (tre ragazzi e una ragazza tra i 20 e i 23anni) che trafficavano intorno a limitate quantità di hashish. Il fatto che la Corte costituzionale abbia dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi può essere un primo segnale di apertura per favorire lo sviluppo di una cultura antiproibizionista, intesa soprattutto come cultura per misurarsi con l’aspetto del consumo di sostanze quale fenomeno socialmente diffuso, che non si può affrontare e comprendere con la repressione e l’esclusione, perché l’ottica deve essere quella di tutelare la salute e la libertà delle persone. Proibire e punire non si è rivelato, infatti, un metodo efficace proprio per la tutela della salute. Salute e libertà non possono essere curate o tutelate con lo stigma e la condanna. Tantomeno questo può avvenire con la droga, che è certamente qualcosa con cui non giocare. Se penso alla mia esperienza personale e quella di molte persone che conosco non trovo mai un periodo della vita in cui, attraverso la proibizione rigida e la punizione, ci abbiano aiutati a uscire da situazioni critiche in relazione al consumo di sostanze. Parlo qui di proibizione e condanna anche da parte delle persone a cui eravamo affettivamente legati. È stato solo incontrando l’accettazione e la possibilità di un confronto che abbiamo, invece, potuto metterci in una condizione critica verso noi stessi e i nostri comportamenti. La grande diffusione della marijuana tra i giovani dovrebbe, in quanto genitori, farci riflettere in modo più realistico e meno ideologico sul giusto modo per affrontare quello che, in particolare per i più giovani, rischia di diventare un problema, soprattutto se penso al modo in cui ragazzi dai 13 ai 16 anni si avvicinano con superficialità al consumo di questa sostanza. Il fascino che ha spinto noi molti anni fa ad assumere certi atteggiamenti era determinato proprio dal fatto che noi si stesse facendo qualcosa di proibito: la repressione delle forze dell’ordine quando ci trovavano con gli spinelli in tasca o a "farci le canne" non è stata certo un motivo per indurci a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni. Alessio Guidotti Giustizia: l’esecutivo offre una consulenza al magistrato antimafia Nicola Gratteri di Silvia Barocci Il Messaggero, 24 febbraio 2014 La notizia la lancia Matteo Renzi in persona, via twitter: il lavoro preparato da Nicola Gratteri sulla giustizia "è uno dei dossier più interessanti. È sul tavolo". Eccolo che rispunta il nome del procuratore aggiunto di Reggio Calabria che il premier incaricato, salendo venerdì scorso al Quirinale, aveva piazzato nella casella di ministro della Giustizia. Dopo tre ore di colloquio con Giorgio Napolitano, la scelta veniva dirottata su Andrea Orlando. "C’era un problema che non avevamo valutato, una grossa ingenuità. Il fatto che un magistrato non vada al ministero della Giustizia è una regola che è impossibile da eludere", ha ora ammesso il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Ma quel che resta riservato per l’intera giornata è un colloquio telefonico avuto tra il neo Guardasigilli Orlando e il magistrato antimafia. Ieri hanno concordato di vedersi nei prossimi giorni, per discutere del "dossier" sulla criminalità mafiosa che Gratteri ha contribuito a scrivere assieme ad altri magistrati ed esperti che hanno fatto parte di una commissione voluta dall’ex premier Enrico Letta e presieduta dal segretario generale di Palazzo Chigi Roberto Garofoli. Quel corposo lavoro - 398 pagine - parte dall’analisi del peso economico delle organizzazioni criminali, i cui ricavi ammontano all’1,7 per cento del Pil (18-34 miliardi circa). Nelle ultime settimane, con il governo Letta agli sgoccioli, gli uffici legislativi di Interni, Giustizia e Palazzo Chigi avevano cominciato a tradurre quelle proposte in norme. Se non un posto da ministro, per Gratteri potrebbe profilarsi un incarico di consulente del governo. "Le porte di Palazzo Chigi per lui sono sempre aperte", assicura Delrio. Il magistrato, che ha appena messo a segno un blitz internazionale sventando assieme all’Fbi un patto tra la ‘ndrangheta e la famiglia mafiosa Gambino di New York, ha tutta l’intenzione di veder diventare realtà quelle "sue" proposte. La prima: giro di vite sul reato di associazione mafiosa (416 bis) che ora prevede da sette a dodici anni per chi partecipa all’ associazione e da nove a quattordici per coloro che la dirigono. Secondo Gratteri, le pene vanno equiparate a quelle per il reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (reclusione non inferiore a dieci anni per chi partecipa all’associazione e non inferiore a venti per chi la promuove). In secondo luogo, intervenire sul reato di voto di scambio politico-mafioso (416 ter), estendendo la punibilità anche ad altri vantaggi o utilità e non al solo denaro. E ancora: il regime di carcere duro (41 bis) oggi riservato a circa 700 boss non deve essere più "polverizzato", ma concentrato in carceri "ad hoc", con personale specializzato. Ma molto insisterà Gratteri con Orlando anche sul tema dell’efficienza. Chiedendo una riforma che consentirebbe di risparmiare su uomini e tempo: le notifiche non più a mano ma per via elettronica, da rendere obbligatorie anche nel penale (nel civile il processo telematico partirà il prossimo 30 giugno). Il dossier contiene poi altre novità, come l’introduzione del reato di auto riciclaggio (ad oggi il codice penale non consente la punibilità di chi ricicla i proventi del delitto che egli stesso ha commesso o contribuito a commettere), una "rivoluzione" nella gestione e destinazione dei beni confiscati alle mafie e le modifiche alle norme sullo scioglimento degli enti territoriali in odore di mafia. Resta da vedere cosa di queste proposte vedrà mai la luce e, soprattutto, se passerà la prova del voto in Parlamento. Giustizia: su tavolo premier Renzi dossier antimafia, Gratteri chiamato come consulente di Massimo Nesticò Ansa, 24 febbraio 2014 Non ha potuto averlo al Governo da ministro della Giustizia, come avrebbe voluto, ma Matteo Renzi conta ancora su Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e magistrato simbolo della lotta alla ‘ndrangheta. "Se vorrà essere consulente del premier per la criminalità - ha detto il braccio destro del presidente del Consiglio, Graziano Delrio - le porte di Palazzo Chigi per lui sono sempre aperte". E lo stesso Renzi in un tweet ha assicurato che è sul suo tavolo il rapporto - cui ha lavorato anche Gratteri - "Per una moderna politica antimafia", preparato da una commissione istituita dall’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta. Delrio ha ammesso che il magistrato calabrese era candidato Guardasigilli, ma la nomina è stata stoppata dal Quirinale. "Gratteri - ha spiegato il sottosegretario - era in corsa, eravamo molto determinati su questa scelta, ma c’era un problema molto serio che non avevamo valutato, una grossa ingenuità. Il fatto che un magistrato non vada al ministero della Giustizia è una regola che è impossibile da eludere". Da parte sua il procuratore continua a tacere. "A costo di ripetermi a distanza di 24 ore - ha detto, contattato dall’Ansa - non dico neppure una sillaba". Sono tuttavia eloquenti le 182 pagine del rapporto predisposto dalla commissione presieduta dal segretario generale della presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli e che Letta aveva inserito nel suo "Impegno Italia" presentato subito prima delle sue dimissioni. Un documento che Renzi ha annunciato di voler valorizzare e sul quale potrebbe dunque basarsi l’eventuale consulenza di Gratteri. Il dossier parte da un’analisi del peso economico della criminalità organizzata, i cui ricavi annuali variano da un minimo di 8,3 ad un massimo di 13 miliardi di euro (in media lo 0,7% del Pil). A fronte di questa realtà, il rapporto propone una serie di interventi normativi per migliorare il contrasto. Tra le misure suggerite, spicca l’introduzione del reato di auto riciclaggio, in modo da punire chi ricicla in prima persona i proventi della propria attività delittuosa. Nonché un giro di vite sul voto di scambio, inserendo l’espressione "altra utilità" all’articolo 416 ter del Codice penale per estendere l’oggetto materiale dello scambio a ipotesi ulteriori rispetto alla mera erogazione di denaro, ovvero a qualsivoglia vantaggio sia elargito dal politico quale corrispettivo della promessa formulata da esponenti dell’associazione mafiosa. Si propone poi una più efficace strategia di aggressione ai beni mafiosi superando le attuali criticità: sono ben 12.946 i beni confiscati definitivamente e 1.708 le aziende. Infine, si punta a rendere più stringente il regime del 41 bis in modo da isolare effettivamente i detenuti dall’ambiente esterno. "È necessario - si legge nel rapporto - che i detenuti sottoposti al regime speciale siano ristretti in carceri a loro esclusivamente destinate o, comunque, in sezioni di istituti penitenziari a loro riservate". Sempre sul fronte giustizia c’è poi da registrare il secco "no" di Delrio a chi gli chiedeva se il ministro Andrea Orlando riproporrà la riforma che aveva tratteggiato nel 2010, attirandosi diverse critiche. "Orlando - ha puntualizzato il sottosegretario - è responsabile giustizia, ha mostrato molta competenza, ma questo governo è un governo di coalizione e non del Pd. C’è un pezzo della destra più responsabile, un pezzo di centro riformista ed il Pd". Quindi "le proposte andranno affinate in itinere". Giustizia: Cancellieri "ho lavorato sull’emergenza carceri, nessun partito mi ha aiutata" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 24 febbraio 2014 "Con la nascita di questo governo si capisce finalmente qual era l’obiettivo della campagna contro di me. Bisognava indebolire il governo Letta e io sono stata usata per uno scopo preciso". Il giorno dopo il passaggio di consegne con Andrea Orlando, Anna Maria Cancellieri non riesce a nascondere l’amarezza. E accetta di raccontare questi dieci mesi al ministero della Giustizia, "una delle esperienze più difficili, ma anche esaltanti della mia carriera". Ministro, ammetterà che quelle telefonate erano quantomeno imbarazzanti. "Posso ribadire, come del resto ho fatto in Parlamento, di aver commesso una leggerezza chiamando la moglie di Ligresti il giorno degli arresti. Ma nessuno mi convincerà di aver sbagliato quando sono intervenuta per Giulia. Mi sarei rimproverata se non l’avessi fatto. In ogni caso la violenza nei miei confronti è stata di un tale livello che prescinde dalla mia persona". Per questo ha deciso di non dimettersi? "Ho sempre avuto l’appoggio delle istituzioni e poi c’è stata la scelta coraggiosa di Enrico Letta di andare nella sede del Pd a difendermi, non avrei mai potuto tradirlo". Pur sapendo che questo poteva mettere in difficoltà l’intero esecutivo? "C’è stata la malafede di chi mi accusava di aver chiesto la scarcerazione di Giulia Ligresti nonostante la consapevolezza che il ministro non ha alcun potere su questo e ignorando le parole del procuratore di Torino Giancarlo Caselli che ha sempre detto il contrario. Di fronte alle operazioni politiche bisogna rimanere con i nervi saldi". Lei è stata attaccata anche sul decreto svuota carceri. "Questo è un Paese che non ama chi si occupa dei detenuti. Io sono orgogliosa del lavoro di questi mesi. Molto bisognerà ancora fare, ma la strada è tracciata e io resto convinta sia quella giusta. Siamo passati da 69.500 detenuti a 61.000, abbiamo creato 4.500 posti in più, ma soprattutto abbiamo 45.000 reclusi in regime di "celle aperte" che consente quindi una maggiore socializzazione. Eppure mi hanno massacrata anche su questo". A chi si riferisce? "Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia hanno mostrato di essere forcaioli, ma posso dire che anche gli altri partiti non hanno fatto nulla per difendere il provvedimento. Tranne qualche parlamentare isolato, non c’è stato vero appoggio. Ma io conosco bene i motivi". Che cosa vuole dire? "La politica repressiva paga in termini elettorali mentre schierarsi dalla parte di chi sta in carcere fa perdere consenso. I detenuti sono merce a perdere. Io ho potuto firmare quel provvedimento proprio perché io non faccio parte di alcun partito. Mi hanno messo in quota Scelta Civica perché Mario Monti mi aveva voluta nel suo governo, ma alla fine io sono e resto soltanto un funzionario dello Stato". Lei si è schierata per l’amnistia e l’indulto. Qualcuno ha insinuato volesse fare un favore a Silvio Berlusconi. "È stato un modo subdolo per cercare di evitare provvedimenti di clemenza che invece sarebbero indispensabili. È l’unica strada possibile se si vuole alleggerire la situazione delle carceri e il carico di arretrato nei tribunali. Quanto a Berlusconi, tutto dipende da come viene formulato il provvedimento e in ogni caso a decidere è il Parlamento, non il ministro. C’è stata una sollecitazione chiara anche dal capo dello Stato, certamente senza alcuna intenzione di fare favori a qualcuno. In ogni caso io vado via con una lettera di apprezzamento dell’associazione Antigone per il lavoro svolto. È per me una delle soddisfazioni più grandi". Anche sulla nuova geografia giudiziaria ha ricevuto numerose critiche. Ritiene che sia stata una scelta giusta? "Giusta e sacrosanta. Capisco che ognuno vorrebbe avere il tribunale e l’ufficio sotto casa, ma questo non è possibile anche perché la situazione era ferma da oltre un secolo. È stata una riforma epocale, se non sarà bloccata inciderà in maniera molto positiva sull’organizzazione del lavoro e soprattutto sul bilancio dello Stato". Alcuni sindaci e amministratori pubblici sostengono di essere stati penalizzati ingiustamente. "Quando si fanno accorpamenti e trasferimenti c’è sempre chi si lamenta. Ho avuto la fila di parlamentari che chiedevano di avere riguardo per il proprio territorio". Difendevano i cittadini. "O forse i propri interessi. L’importante è che adesso si vada avanti altrimenti molti uffici sono a rischio efficienza per la mancanza del personale". Dove? "Le situazioni peggiori sono a Milano, Modena e Brescia. Ci sono problemi anche a Roma. È importante intervenire e farlo con urgenza. La verità è che questo ministero è al centro di conflitti antichi tra poteri costituiti e questo rende difficilissimo il lavoro del Guardasigilli". Renzi ha detto che le riforme sono la sua priorità, non basta? "In realtà mi preoccupa che la giustizia non sia stata inserita nella sua lista nonostante ci sia un’ampia intesa politica che potrebbe favorire l’approvazione di numerose nuove norme. Noi avevamo in cantiere svariati provvedimenti". Gli avvocati sono già scesi in piazza contro il taglio dei tribunali e l’aumento dei costi. "Sono migliaia, devono lavorare, quindi comprendo le ragioni della loro protesta. Però si deve sapere che molte rivendicazioni vengono fatte sulla pelle dei cittadini. Con loro abbiamo avuto difficoltà, ora eravamo pronti a riprendere il dialogo". Ma davvero credeva che il governo Letta potesse andare avanti? "Eravamo sotto attacco ogni giorno, ma mai potevamo immaginare una fine così repentina. E invece da mesi qualcuno aveva già deciso tutto". Giustizia: quando il detenuto si uccide in cella è sconfitta la società di Antonio Mattone Il Mattino, 24 febbraio 2014 Tre suicidi nel giro di pochi giorni nelle carceri campane. Queste vittime fanno a salire a 9 il numero dei detenuti che si sono tolti la vita nelle prime settimane del 2014 in Italia. "La morte di un uomo è una tragedia, la morte di milioni è una statistica", affermava Stalin. Questi ultimi episodi portano al drammatico bilancio di 810 suicidi a partire dal 2000. In Campania, lo scorso anno, si è toccato il picco dell’ultimo decennio, con 9 carcerati che si sono ammazzati. M.C. era alla prima esperienza detentiva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel padiglione di Alta Sicurezza. Nulla lasciava prevedere il suicidio. Forse la prospettiva di una lunga detenzione lo ha demoralizzato. Nella Casa Circondariale "Giuseppe Salvia - Poggioreale", invece, A. A. era alla sua settima carcerazione. Tossicodipendente di 36 anni, è morto asfissiato inalando il gas della bomboletta che i detenuti utilizzano per cucinare. Probabilmente cercava solo un po’ di sballo ma non è riuscito a controllare gli effetti della sua azione. Infine, nell’Opg di Napoli, B.M., internato in misura di sicurezza provvisoria, si è impiccato nella stanza in cui stava solo. Questi tre suicidi hanno un filo conduttore: la disperazione e la solitudine di chi vive la carcerazione e non riesce a sopportarla. È nell’immediatezza dell’ingresso in prigione o in prossimità della liberazione, che di solito avviene questo gesto estremo. Sappiamo come il carcere impoverisce e la lontananza dalla famiglia può creare forti lacerazioni al suo interno. La paura di uscire e di trovarsi senza sostegno, senza casa, lavoro e affetti può creare smarrimento e turbamento. Un detenuto che si uccide alla vigilia della dimissione non solo è la peggiore sconfitta del sistema penitenziario, ma è il fallimento di un intero sistema sociale. Anche lo stress quotidiano della vita in carcere, può rappresentare un elemento in grado di far superare la soglia di resistenza di una persona. Basta pensare che in un carcere come Poggioreale, si vive anche in 12 detenuti in uno spazio di appena 30 mq. per 22 ore al giorno, dove tutto è pubblico e condiviso. Persino le proprie lacrime e il proprio dramma sono visibili a tutti, e le proprie preghiere per essere nascoste devono essere solo mormorate. La promiscuità è totale. Nella maggioranza dei padiglioni non ci sono docce nella stanza, ed è possibile usufruirne solo per 2 volte alla settimana. È predisposto un unico luogo dove si cucina e si espletano i propri bisogni fisiologici, con tutto quello che questo comporta. Eppure l’ordinamento penitenziario definisce le celle "stanze di pernottamento", dove si dovrebbe solo dormire, mentre la vita quotidiana andrebbe svolta in altri locali definiti di soggiorno, dedicati alla realizzazione delle attività lavorative, scolastiche e trattamentali. Il carcere diviene così scuola di delinquenza ma anche luogo di disperazione. Il disagio che si vive nelle prigioni italiane non risparmia gli operatori penitenziari. Anche tra gli agenti si registrano numerosi suicidi, 100 casi dal 2000 ad oggi. Turni massacranti per la carenza di personale, condizioni lavorative stressanti rendono questo lavoro davvero difficile. Il carcere invece di recuperare e restituire alla società persone cambiate annienta le esistenze più fragili e le spinge alla marginalità, fino a compiere gesti estremi. Occorre ben più di una legge svuota carceri per fargli riacquistare la sua funzione rieducatrice. Bisogna investire risorse, ed energie. Ma sappiamo come questo tema sia impopolare. "Chi salva una vita salva il mondo intero", è scritto nel Talmud. Anche se si tratta di quella di un detenuto. Giustizia: finire in carcere per 28 euro dovuti all’Inps? In Italia si può di Vittorio Zirnstein www.monitorimmobiliare.it, 24 febbraio 2014 Finire dietro le sbarre per un omesso versamento di 28 euro all’Inps. Impossibile? Purtroppo no! È una storia raccapricciante e grottesca, ma non per questo meno vera quella che vede protagonista un agente di commercio di Como, che si è visto condannare a 2 mesi di carcere per avere mancato di versare una cifra inferiore a 30 euro. La vicenda riguarda cioè una piccolissima realtà imprenditoriale, praticamente a livello personale, come nel Paese ce ne sono tante, come ben sa chi opera per esempio nell’intermediazione immobiliare. I fatti: 5 anni fa Luigi Balzaretti è tenuto al pagamento dei contributi per un collaboratore. L’Inps gli manda una comunicazione in cui segnala che il versamento dei contributi è inferiore al dovuto. Per la "ragguardevole" cifra di 28 euro. Sia quel che sia, il dovuto va dal dato e il Balzaretti passa la comunicazione al commercialista, ma nessuno provvede al pagamento. Dopo 5 anni, e nessuna altra comunicazione, l’agente di commercio riceve una comunicazione dal Tribunale di Como in cui apprende di essere stato condannato a 2 mesi di reclusione o a 3.500 euro di sanzione pecuniaria. A parte l’originario corto circuito tra contribuente e commercialista, si sarà sicuramente trattato di un errore, o per lo meno un disguido: un baco tra gli intoppi e le storture della burocrazia che ha ricreato nella realtà qualcosa di molto simile alla finzione letteraria de Il processo di Kafka. Purtroppo no, nemmeno in questo caso! La realtà non ha bisogno di essere realistica: non è infatti nemmeno la prima volta che qualcosa del genere succede. Risale al 2010 un’analoga vicenda capitata a un artigiano di Trento per cui si aprirono le porte del carcere a causa di un’evasione contributiva di 143 euro. Il tutto era nato per un mancato versamento di 68 euro alcuni anni prima, poi lievitati a causa di sanzioni e interessi di mora. L’odissea dell’artigiano trentino dietro le sbarre durò "solo" 7 giorni a fronte di una condanna di 3 mesi. E in manette, nel 2012, è finita pure la signora Maria Crocitti di Aosta, ex titolare di una pizzeria al trancio, condannata al "gabbio" per il mancato versamento di qualche centinaio di euro di contributi previdenziali. Sono casi delicatissimi, perché in tutti l’evasione c’è stata, e come tale va rimediata. Rimediata, però, non sanzionata come se una distrazione (perché fondamentalmente di questo si tratta) fosse tra le peggiori colpe del codice penale. La sproporzione tra il reato e la pena è talmente deforme e smisurata che non può che suscitare rabbia e indignazione. Causata sostanzialmente dalla miseria di uno Stato forte con i deboli e debole con i forti. Dove gli unici a pagare sembrano sempre essere solo e soltanto i ladri di polli. E soprattutto dall’ottusità e dalla totale mancanza di flessibilità del sistema fiscale e contributivo. Così ottuso da creare, anche dal punto di vista patrimoniale, una perdita peggiore del danno originario che si vorrebbe raddrizzare. A voler essere cinici e facendosi sponda con i conti della serva, infatti, in tutti i casi citati la condanna equivale a una perdita netta per il Paese, anche di natura economica, visto che mediamente il mantenimento di un detenuto costa ai contribuenti 400 euro al giorno. Giustizia: gli psicologi penitenziari scrivono al neo-ministro Orlando "non eliminateci…" di Alessandro Bruni (Presidente Società Italiana Psicologia Penitenziaria) Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2014 Gentile Ministro della Giustizia, le scriviamo innanzitutto per farle i migliori auguri e darle il benvenuto nel mondo della giustizia che ben conosce e, in particolare, in quel complesso mondo parallelo che è il carcere. La sfida attuale è quella di intervenire in modo stabile al fine di ridurre gli ingressi in carcere (tipologie dei reati e adozione di misure alternative alla detenzione), rendere vivibile il carcere (per i detenuti e per gli operatori), riducendo il sovraffollamento e potenziare tutte le attività necessarie per raggiungere gli obiettivi della rieducazione del condannato e della tutela della salute. Dentro questa sfida, oltre a misure legislative e strutturali, è ovviamente centrale la questione delle risorse umane, di chi quotidianamente cerca di combattere sul campo una sfida che sembra quasi impossibile. In questo ambito, tra le diverse figure di operatori penitenziari, ci permettiamo di segnalarle -anomalia tra le tante anomalie - la curiosa vicenda di psicologi e criminologi penitenziari che si sta consumando in questi giorni: dopo 35 anni vengono eliminati e si crea per il futuro la figura "a rotazione". Ovviamente non si tratta della questione di una "categoria" o di una "lobby", né costituiamo un bacino elettorale (siamo solo qualche centinaio), ma di una questione di valore simbolico e di garanzia di diritti: abbiamo creato una professione in ambito penitenziario e maturato una importante esperienza con la quale ci piacerebbe contribuire, per la nostra piccola parte, ma in modo forte, al "grado di civilizzazione" della nostra società che "si misura dalle sue prigioni". Ci rivolgiamo a lei con la fiducia che qualcosa possa cambiare per i detenuti e per gli operatori: bisognava intervenire ieri (come segnaliamo dallo scorso anno e come hanno segnalato anche alcuni suoi colleghi parlamentari con diverse interrogazioni), ma oggi è indispensabile un suo intervento (che sarà a "costo zero") per fare in modo che una semplice Circolare non disperda una importante esperienza umana e professionale da tutti ritenuta utile. Ancora auguri di buon lavoro e rimaniamo in attesa di un suo positivo e urgente segnale. Giustizia: avviato progetto per lo screening sulla salute dei detenuti, coinvolte 6 Regioni www.eolopress.it, 24 febbraio 2014 Avviato un progetto sperimentale per tracciare lo stato di salute nelle carceri italiane e che vedrà coinvolte sei regioni italiane. Oltre alla Regione Lazio l’iniziativa, che si muove nell’ambito del progetto varato dal Ministero della Salute, ha valenza interregionale coinvolgendo la Regione Toscana, ente capofila, le Regioni Umbria, Veneto, Liguria e l’Azienda Unità Sanitaria Locale di Salerno. Dall’inizio del mese di febbraio 18 medici del Lazio stanno effettuando uno screening di massa sullo stato di salute degli oltre 7.000 detenuti che vivono nelle 14 carceri laziali, secondo un comunicato della Regione. "Uno studio utile a prevenire le malattie e in particolare i suicidi all’interno degli istituti di pena", afferma la nota. "Quello avviato è un progetto di grande civiltà che ritengo significativo per migliorare la sanità penitenziaria della nostra regione - ha detto il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti: per la prima volta si avvia infatti uno screening di massa della popolazione carceraria. Si tratta di una rilevazione strategica di dati, effettuata con criteri controllati su sei regioni pilota, che fornirà una visione epidemiologica globale e sostenibile della popolazione carceraria e permetterà di mettere in atto interventi utili a garantire le cure adeguate e a ridurre la piaga dei suicidi". L’iniziativa della Regione Lazio si muove nell’ambito del progetto ministeriale per monitorare la salute dei detenuti negli istituti penitenziari di sei regioni italiane. Alla "Casa Circondariale di Rieti", alla fine di questo percorso, spetta il compito di valutare i rischi suicidari attraverso uno specifico protocollo di intervento elaborato dal tavolo tecnico ministeriale. Giustizia: effetti del decreto-carceri, ogni braccialetto elettronico costa 55mila euro l’anno di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2014 La recente approvazione della legge di conversione del decreto 146 svuota-carceri, poi convertito in legge con testo pubblicato sulla gazzetta ufficiale di venerdì 21 febbraio. Una delle misure più innovative riguarda i braccialetti elettronici che da adesso in poi saranno la regola e non più l’eccezione. Prima il giudice nel disporre i domiciliari, lo prescriveva solo se necessario. Si rovescia quindi l’onere motivazionale senza ulteriore aggravio per le forze di polizia. Ma con un aggravio sicuro per le casse dello stato. Ecco perché. Introdotto nel 2001 e presentato come una grande innovazione, il braccialetto elettronico non ha mai avuto molta fortuna, anzi, tante sono state le polemiche circa il suo utilizzo e i suoi costi. Per usare le parole della Corte dei Conti: "Una reiterata spesa anti-economica e inefficace". Fece sorridere poi la dichiarazione di Francesco Cirillo, vice-capo della Polizia, che nel 2011, durante un’audizione alla commissione Giustizia del Senato, commentò così il contratto con Telecom: "Se fossimo andati da Bulgari avremmo speso di meno". Il braccialetto elettronico è un dispositivo collocato alla caviglia o al polso del carcerato, capace di inviare impulsi radio a un’unità di sorveglianza locale (Smu), simile a una radiosveglia, installata nell’abitazione del detenuto che, grazie ad una linea telefonica, invia segnalazioni alla centrale operativa di Telecom Italia, che gestisce la manutenzione dell’intero sistema. L’ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri a proposito dei costi elevati dei braccialetti ha dichiarato che "lo Stato spende una cifra considerevole e la piattaforma dei costi che è sempre in uso è notevole. Allora dobbiamo decidere una volta per tutte se usarlo o no". Poi conclude: "Non lo dico io ma Strasburgo ci chiede di usare strumenti elettronici di controllo. Proviamoci e se non saranno necessari bisognerà dire con forza che non vanno, ma qualcuno dovrà assumersi questa responsabilità". Nella convenzione da cento milioni di euro stipulata tra ministero dell’Interno e Telecom Italia, 9 milioni riguardano i braccialetti elettronici. Nel corso di una recente audizione il capo della polizia, il prefetto Alessandro Pansa, ha offerto dati precisi e un ammonimento sul "sistema attuale davvero costoso", con "cifre esagerate". "Negli ultimi tempi, grazie alla grande attenzione posta su questo tema, siamo arrivati a 90 apparecchiature utilizzate, mentre fino a poco tempo fa erano, al massimo, una quindicina". "La convenzione attuale" con Telecom, iniziata nel 2001, e "che siamo costretti a utilizzare, ci consente di impiegare un numero massimo di 2mila dispositivi". Il prefetto Pansa ha spiegato che "il sistema attuale è abbastanza costoso: a regime, qualora impiegassimo tutti e 2mila i braccialetti disponibili, raggiungeremmo un costo annuo di circa 9 milioni di euro. La parte più rilevante è data dai costi fissi, si legge nell’articolo di Chiara Rizzo su tempi.it dello scorso 4 febbraio. Più nel dettaglio Pansa ha calcolato che "il costo è di 9 milioni l’anno. Il noleggio di 2mila braccialetti elettronici costa 2,4 milioni di euro, la movimentazione logistica dei braccialetti 2,9 milioni, la centrale operativa, le reti di trasmissione e le segnalazioni 3,7 milioni. Noi oggi non spendiamo 9 milioni, ma 3,2 per l’organizzazione, una cifra minore per quanto riguarda la manutenzione, perché i braccialetti sono pochi, e una cifra ancora minore per il noleggio. Intorno a questo servizio spendiamo, dunque, io credo, meno di 5 milioni (divisi per i 90 braccialetti l’anno il costo è di 55mila euro l’uno). È chiaro che si tratta di una diseconomia enorme e di cifre esagerate: in effetti, il braccialetto elettronico è un cellulare che trasmette e non riceve". L’efficienza. Pansa tuttavia ha sottolineato che "quello che costa moltissimo è la rete di gestione degli allarmi, la sala operativa aperta 24 ore su24 che fa il monitoraggio di ognuno di questi braccialetti. Una mega sala operativa per 90 braccialetti è eccessiva, ma, se i braccialetti saranno migliaia, diventerà un valore". Il prefetto ha proseguito: "Sicuramente oggi, se andiamo sul mercato, troveremo soluzioni che costeranno molto di meno. Il problema fondamentale è che oggi sul mercato troveremmo di meglio". La domanda in commissione Giustizia è stata a quel punto unanime: se si può risparmiare, perché si mantiene il contratto con Telecom? La convenzione illegittima. La risposta di Pansa lascia chiaramente comprendere come nel 2001, quando l’allora ministro dell’Interno Enzo Bianco avviò la convenzione con Telecom la procedura non fu né trasparente né corretta. Nel 2011, durante il Governo Berlusconi, tale convenzione fu poi rinnovata, sempre senza condurre alcuna gara o revisione. "Si tratta, tuttavia, di una convenzione illegittima - ha spiegato Pansa - poiché il Consiglio di Stato, confermando una sentenza del Tar, ha stabilito che non avremmo potuto accordarci direttamente con Telecom e ricorrere a una convenzione unica". Telecom, intanto, ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che interverrà su questa vicenda a giugno, probabilmente secondo Pansa confermando l’illegittimità. Intanto però "siamo costretti a spendere 26 milioni di euro per una fideiussione da depositare in banca in caso di soccombenza". Lazio: il Presidente Zingaretti; ok progetto su salute e prevenzione suicidi per detenuti www.romadailynews.it, 24 febbraio 2014 Dall’inizio del mese di febbraio 18 medici del Lazio stanno effettuando uno screening di massa sullo stato di salute degli oltre 7.000 detenuti che vivono nelle 14 carceri del Lazio, uno studio utile a prevenire le malattie e in particolare i suicidi all’interno degli istituti di pena. "Quello avviato è un progetto di grande civiltà che ritengo significativo per migliorare la sanità penitenziaria della nostra regione - spiega il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti - per la prima volta si avvia infatti uno screening di massa della popolazione carceraria. Si tratta di una rilevazione strategica di dati, effettuata con criteri controllati su sei regioni pilota, che fornirà una visione epidemiologica globale e sostenibile della popolazione carceraria e permetterà di mettere in atto interventi utili a garantire le cure adeguate e a ridurre la piaga dei suicidi". L’iniziativa della Regione Lazio, infatti, si muove nell’ambito del progetto varato dal Ministero della Salute per monitorare la salute dei detenuti negli istituti penitenziari di sei regioni italiane. Il progetto ha valenza interregionale in quanto coinvolge la Regione Toscana, come ente capofila, le Regioni Umbria, Veneto, Liguria e l’Azienda Unità Sanitaria Locale di Salerno. Alla "Casa Circondariale di Rieti", alla fine di questo percorso, spetta il compito di valutare i rischi suicidari attraverso uno specifico protocollo di intervento elaborato dal tavolo tecnico ministeriale. "Lo scopo - conclude Zingaretti - è quello di rilevare le patologie presenti e i trattamenti farmacologici utilizzati, cosi come i fattori di rischio, attraverso una scheda di rilevazione informatizzata, utilizzabile in tutte le strutture penitenziarie del territorio. Vogliamo così migliorare il percorso sanitario, facilitando la trasmissione di informazioni cliniche da un istituto all’altro, e la continuità assistenziale del detenuto se soggetto a trasferimenti". L’estensione e lo sviluppo di questo strumento informatico implementano anche il programma di prevenzione sul tema dei suicidi che si terrà presso la "Casa Circondariale di Rieti". La Regione Lazio per adempiere al compito ha istituito un gruppo di lavoro specifico per la elaborazione e la definizione di un programma operativo di prevenzione. Ai 18 medici individuati sono stati consegnati a gennaio dei computer contenenti la scheda di rilevazione informatizzata. Entro il 3 giugno 2014 tutti i dati raccolti dovranno essere trasmessi alla Regione Toscana per l’elaborazione. Piacenza: aperto un nuovo padiglione con 200 posti, accoglierà detenuti da tutta Regione www.piacenzasera.it, 24 febbraio 2014 Il 20 febbraio scorso è stato aperto, su disposizione del Provveditorato regionale di Bologna, il nuovo padiglione all’interno della Casa circondariale piacentina. La struttura, allo stato, ospita una parte di detenuti già ristretti nel vecchio istituto e, a regime, sarà destinata a detenuti provenienti dalla regione, per un totale di 200 unità. Lo afferma la direttrice Caterina Zurlo in una nota diramata alla stampa. "Si tratta di condannati a pene non elevate - spiega la nota - che non presentano problematiche di natura sanitaria e con una condotta penitenziaria corretta, secondo parametri indicati dall’Amministrazione regionale. La struttura si sviluppa su 5 piani: un piano terra che ospita una sala convegno, uffici ed aule ed una grande e moderna cucina, e quattro piani superiori che accolgono ciascuno una sezione detentiva di 16 camere a 3 posti letto di 22 mq. cadauna e 1 camera attrezzata per l’handicap con 2 soli letti. La capienza di ogni sezione è di 50 unità. Ogni camera detentiva è dotata di bagno con doccia ed in ogni sezione è prevista un’ampia sala che sarà utilizzata come refettorio comune. Muovendosi dal piano terra, ove è previsto anche un locale medico, si incontra la sezione Aldebaran, quindi Antares, poi Sirio ed infine Vega. Da sempre l’uomo ha alzato lo sguardo al cielo, per cercare qualcosa a lui non facilmente percepibile... risposte, conforto, sostegno, speranza, Fede.... Noi crediamo che all’interno di un carcere, all’interno di alte mura, questa ricerca diventi più profonda e si faccia più forte. Da qui, i nomi delle sezioni, ognuna identificata visivamente da un dipinto raffigurante la stella, a cura di un ospite dell’istituto, D.P., dotato di grande maestria nell’arte del disegno e della pittura. Il regime di sorveglianza è affidato sostanzialmente alle telecamere, all’automazione, ai sistemi di allarme, e prevede una sorveglianza da parte del personale di custodia di tipo dinamico e non fisso. Le stanze rimarranno aperte dalle ore 9,00 alle 19,30, orario di rientro in stanza, dopo una giornata dedicata alla socializzazione, allo stare insieme, ai corsi scolastici o ricreativi offerti, allo stare all’aria aperta". Il direttore intende ringraziare tutto il personale: di polizia penitenziaria, dell’area educativa, dell’area contabile, che ha creduto in questa esperienza, nuova per tutti, e che si è prestato ad operare con professionalità e impegno, anche in affanno e in momenti non sempre facili, per arrivare poi alla meta. Tanto rimane ancora da fare, ma si è certi che si potrà contare sull’apporto del volontariato e degli enti locali per la realizzazione di iniziative condivise che offriranno nuovi contenuti alla carcerazione. Massa: l’ala B è pronta ma resta chiusa, collaudata nel luglio 2012 ed ancora inutilizzata Il Tirreno, 24 febbraio 2014 L’ala B del carcere di Massa, quella che avrebbe dovuto risolvere i problemi di sovraffollamento della Casa circondariale di via Pellegrini, ha superato il collaudo il 24 luglio del 2012. È scritto in un documento ufficiale comparso ieri in aula durante il processo sull’appaltopoli che vede imputati l’ex direttore Salvatore Iodice, l’ex contabile del penitenziario Salvatore Cantone e l’ex funzionario Stefano Tendola. Un’area che potrebbe ospitare più di un centinaio di detenuti e che nonostante sia funzionale (come attesta il documento protocollato del provveditorato interregionale delle opere pubbliche di Toscana e Umbria) resta off limits. Lo ha prodotto la difesa Iodice - l’avvocato Riccardo Balatri - rispondendo in questo modo a quanto aveva detto il sostituto procuratore Rossella Soffio durante la requisitoria, criticando la condotta del direttore che per fare i suoi interessi aveva costretto i carcerati a una detenzione decisamente inumana. C’è tutta la storia dell’ala B nella relazione del provveditorato: la consegna dei lavori avveniva il giorno 04 luglio 2006 con riserva riguardante principalmente il rinvenimento di manufatti non previsti all’interno dell’area di sedime dello scavo (vecchia centrale termica obsoleta) per l’esecuzione delle fondazioni, nonché la mancanza di altri (idoneo impianto fognario atto a ricevere le acque reflue) non trascritta nel registro di contabilità e non confermata nello stato finale. Il tempo del cantiere viene fissato in 480 giorni, praticamente un anno e mezzo. E precisamente il time out è il 27 ottobre del 2007. La spesa di poco superiore ai tre milioni. La ditta che si aggiudica l’appalto è la Ibeco costruzioni spa di Roma. Ma poi arrivano le varianti e soprattutto scoppia il caso appaltopoli e quindi nel 2008 la Ibeco viene costretta ad accettare l’esecuzione dei maggiori lavori senza costi aggiuntivi per l’ente pubblico. Ma la realizzazione dell’opera è un vero calvario, con più di seicento giorni di sospensione divisi in tre episodi caratterizzati da problemi relativi alla sicurezza del cantiere per carenza di personale. In più il provveditorato continua a chiedere continue migliorie al progetto iniziale e la ditta si impunta, anche perché sa che più di quanto stabilito in partenza non incasserà. Nonostante questo cammino ad ostacoli il 24 novembre del 2009 il cantiere è finito. Tre visite del collegio poi hanno certificato la validità del lavoro eseguito dall’Ibeco, che in pratica ha buttato giù la vecchia palazzina, ricostruendola ex novo ampliata. Non tutto è stato realizzato a regola d’arte: fanno eccezione, per guanto riguarda la tenuta contro l’umidità, le finiture degli infissi in acciaio al di sotto dei quali risultano tracce di infiltrazioni. Che sono stati poi risolti in secondo tempo. arrivando così al 24 luglio del 2012, quando la commissione dice che il collaudo è stato superato e che quindi l’ala B può essere utilizzata. Ma finora non è stato così. Perché? Anche il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, in visita al carcere di via Pellegrini, nel settembre scorso, aveva detto che l’ala doveva essere aperta per dare respiro alle 263 persone detenute in uno spazio che si e no ne poteva ospitare poco più della metà. Insomma, dopo essere stato accusato di trattare male i detenuti adesso è Iodice a contrattaccare e a dire che quell’area - nonostante sia stata ristrutturata a regola d’arte - rimane inaccessibile. Per quale motivo si sono persi tutti questi mesi? Viterbo: recupero dei detenuti, firmata un’intesa tra Comune e Casa circondariale di Domenico Savino www.viterbooggi.it, 24 febbraio 2014 Palazzo dei Priori e l’amministrazione penitenziaria di Mammagialla vanno di pari passo nell’ottica del recupero dei detenuti. È stato firmato un protocollo d’intesa tra il Comune e la Casa circondariale di Viterbo riguardo una serie di interventi sociali da realizzare all’interno e all’esterno del carcere. Il protocollo prende vita da una iniziativa del Ministero di Grazia e giustizia e l’Anci (associazione comuni italiani) in tema di reinserimento sociale dei detenuti. Inizialmente verranno portati avanti progetti per cui il Terzo settore ha già avuto finanziamenti, poi si passerà ad altre iniziative i cui fondi sono regionali e si attestano sui 200mila euro. Si tratta di attività poste in essere da cooperative e associazioni che operano fattivamente all’interno del penitenziario attraverso aiuto ai detenuti e ai loro familiari, laboratori teatrali, creazione di storie attraverso pannelli disegnati dai detenuti stessi. Nella fattispecie il protocollo, illustrato nella sala del Consiglio di Palazzo dei Priori dall’assessora ai servizi sociali Fersini, dal sindaco Michelini e dalla direttrice della Casa circondariale Teresa Mascolo, prevede attività di sensibilizzazione e informazione sulla condizione carceraria, collaborare per la raccolta e scambio di dati sulla condizione dei detenuti e su percorsi per il loro reinserimento, definire con cadenza annuale un piano di interventi da realizzare all’interno e all’esterno della Casa circondariale coinvolgendo il Terzo settore, promuovere la crescita della cultura della legalità, favorire l’inclusione sociale e il reinserimento lavorativo dei detenuti, sostenere l’azione delle altre istituzioni, monitorare il buon funzionamento degli interventi avviati al fine di consentire una eventuale riprogrammazione in itinere e una loro maggiore efficacia. L’assessore ai servizi sociali Fabrizio Fersini si sofferma sul concetto di inclusione sociale: "Questo protocollo vuole sollecitare una serie di politiche nei confronti di chi è escluso. Si tratta di azioni e progetti che favoriscono l’inclusione nella società di coloro che vivono una condizione di ristrettezza della propria libertà. In carcere ci sono storie e vite di persone che non hanno potuto scegliere. E programmi di questo tipo servono ad aiutare queste persone. Il recupero di un detenuti è un valore per la società". La direttrice di Mammagialla Teresa Mascolo allarga il discorso anche ai volontari: "Senza l’aiuto della comunità esterna l’amministrazione penitenziaria può fare poco. Il protocollo è la formalizzazione di intenti che vengono da entrambe le amministrazioni finalizzato anche alla sicurezza del territorio". Plaude all’iniziativa il sindaco Michelini: "La collaborazione tra Comune di Viterbo e istituto penitenziario è il frutto di un senso di responsabilità verso il territorio. Questi progetti possono rappresentare una occasione di speranza per coloro che vivono in carcere. In tal modo anche queste persone potranno sentirsi utili alla società". Tempio P.: assistenza sindacale ai detenuti, grazie a un accordo con il patronato Inas-Cisl di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 24 febbraio 2014 Fra il patronato Inas-Cisl della provincia Olbia-Tempio e la Casa circondariale di Nuchis è stato siglato un protocollo d’intesa con lo scopo di fornire agli ospiti della struttura un supporto qualificato per il disbrigo delle pratiche di assistenza e di previdenza sociale. La notizia è stata data da Mirko Idili, segretario generale della Cisl Gallura, dopo la firma della convenzione avvenuta nella direzione del carcere a Nuchis. "La collaborazione - dichiara il sindacalista - nasce in un’ottica di solidarietà sociale. Il progetto per un tale intervento si è concretizzato in brevissimo tempo grazie alla sensibilità dei rappresentanti della Cisl e del patronato Inas-Cisl che presteranno servizio direttamente in loco, tenuto conto della difficoltà obiettive per gli utenti di poter, in via autonoma, curare le loro pratiche. Lo sportello è stato reso immediatamente operativo nella struttura carceraria grazie anche alla grandissima sensibilità e disponibilità di Carla Ciavarella, direttrice della struttura, che ha messo a disposizione degli operatori Inas-Cisl una spazio adeguato e debitamente arredato, dove sarà possibile ricevere i detenuti ed istruire, praticamente in diretta, le diverse pratiche". "Il servizio sarà assicurato con cadenza settimanale. Si tratta - spiega ancora il segretario - di una operazione a costo zero per entrambe le istituzioni e che risulta essere molto utile per assicurare la necessaria tutela assicurativa e previdenziale dei cittadini detenuti". Presso il nuovo sportello sarà possibile per gli ospiti della struttura impostare pratiche assistenziali e previdenziali, verificare e sistemare la propria posizione assicurativa, fare domanda di pensione, di assegno per il nucleo familiare, di indennità Aspi, di invalidità civile, di permesso di soggiorno o rinnovo dello stesso, di ricongiungimento familiare per extracomunitari e infine domande per assistenza e tutela dei danni alla salute. Un plauso arriva anche dalla segreteria regionale della Cisl che ringrazia "Giuseppe Raimondi, responsabile territoriale, lo stesso segretario provinciale Idili e tutti gli operatori che con generosità ma altrettanta sensibilità e attenzione si alterneranno settimanalmente allo sportello". Sassari: studenti alla scoperta del pianeta carcere, incontro con la Garante Cecilia Sechi La Nuova Sardegna, 24 febbraio 2014 Questa mattina, nell’aula magna dell’Azuni, è infatti previsto un incontro tra gli alunni del Liceo classico e il Garante delle Persone private della libertà personale del Comune, Cecilia Sechi. La proposta è partita proprio dalla responsabile dell’ente locale, convinta che "su temi delicati e sensibili si debba partire da una prima conoscenza diretta per poi avviare un dibattito e rispondere alle perplessità o alle critiche degli studenti e infine avere un confronto costruttivo, non paludato". Un’inziativa che il dirigente del liceo Azuni Massimo Sechi ha condiviso pienamente, collaborando per renderla possibile e armonizzandola con le esigenze della scuola. "Siamo entrambi convinti - spiegano in una nota - che un tale incontro possa rientrare a pieno titolo nelle iniziative sul tema della legalità, portando un valore aggiunto nel permettere agli studenti di trovarsi di fronte a persone che sono a loro disposizione con la loro esperienza concreta". L’iniziativa vedrà la presenza del direttore del carcere di Bancali Patrizia Incollu, dei responsabili dell’Area educativa, dell’Area sicurezza e di quella sanitaria, il cappellano del penitenziario e tanti altri esperti del circuito penale. I ragazzi potranno così conoscere e interloquire personalmente con figure che difficilmente rompono la riservatezza del loro lavoro. L’incontro - sarà molto semplice e informale: i vari ospiti spiegheranno sinteticamente i loro ruoli per preparare un approfondimento grazie alle domande degli studenti. "È un’iniziativa - spiega Cecilia Sechi - che vorremo proporre ad altre scuole per rispondere e confrontarci con gli studenti sulle loro più pressanti esigenze di chiarezza e informazione, comprese auspicabili provocazioni. Come Garante sono infatti convinta che dobbiamo affrontare platee nuove, che siano palestre di confronto poiché rivolte a un pubblico di non addetti ai lavori e perché il primo passo e diritto per un confronto anche critico nasce dalla conoscenza che va a tutti gli interlocutori restituita". Droghe: intervista a Luigi Manconi "Renzi non tradisca, avanti con la depenalizzazione" di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 febbraio 2014 "Nei democratici c’era un patto per una nuova legge sulle droghe. Ora si vada avanti". Nel nuovo Guardasigilli Andrea Orlando, il senatore democratico Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani, ripone "grande fiducia e notevoli aspettative". E del neo premier Matteo Renzi vuole ricordare le "parole pronunciate quando era segretario del Pd" riguardo la necessità di superare la legge Fini-Giovanardi. Insomma, sarà pure "un tipo estremamente convenzionale", come gli piace definirsi quando racconta di aver "fumato canne solo un paio di dozzine di volte nella vita", ma è anche un instancabile innovatore. E un pragmatico sognatore. Senatore, abbiamo un nuovo ministro di Giustizia e poco più di tre mesi per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, come ci ha imposto la corte di Strasburgo. Qual è la road map da seguire, secondo lei? La soluzione è una e una sola, auspicata dal capo dello Stato, dal precedente ministro di Giustizia Cancellieri e dai più autorevoli giuristi. L’indulto e l’amnistia come misure straordinarie, necessarie e indifferibili, e l’abrogazione dell’ex Cirielli, della Fini-Giovanardi e della Bossi-Fini. Senza queste misure il rischio è di ricorrere a pannicelli caldi. Dopo la sentenza della Consulta che ha cancellato la Fini-Giovanardi siamo tornati alla situazione normativa post referendum del 1993, con la depenalizzazione del consumo. Perché è necessaria una nuova legge sulle droghe? Perché bisogna abrogare tutte le sanzioni, amministrative e penali, per tre condotte, essenzialmente: la detenzione, la coltivazione e la cessione di piccoli quantitativi di stupefacenti per uso personale, che è poi il comportamento più diffuso. Sono, queste, condotte punite con sanzioni pesanti anche secondo la Jervolino-Vassalli emendata dal referendum del 1993. Parliamo di depenalizzazione o anche di legalizzazione? Penso che una impostazione rigorosa sotto il profilo scientifico e giuridico dovrebbe portare a legalizzare in primo luogo le sostanze più nocive, proprio perché i loro effetti possono essere meglio controllati e più efficacemente ridotti. Non a caso l’alcol e il tabacco, che sono più nocivi della marijuana - sempre che non si parli di abuso durante l’adolescenza - sono sottoposti a un regime legale di regolamentazione. Ed ecco perché io la chiedo per i derivati della canapa indiana. E per le droghe più nocive? La legalizzazione di tutte le sostanze è estremamente difficile da conquistare anche perché richiederebbe una strategia comune a livello europeo. Ma purtroppo in Italia perfino la politica di riduzione del danno (con l’uso legalizzato di sostanze in condizioni protette) che le legislazioni proibizionistiche europee pure consentono e che ha visto come protagonisti molti gruppi di ispirazione cattolica, è stata osteggiata in tutti i modi possibili a livello istituzionale ed è ancora un obiettivo lontano dall’essere realizzato. E perfino l’uso terapeutico della cannabis che è finalizzato al bene dell’individuo, incontra resistenze e difficoltà. Perché tra le mille ragioni c’è un’ostilità culturale. E oggi invece, in questo nuovo equilibrio politico, secondo lei si aprono nuovi spazi di rinnovamento per quanto riguarda l’approccio alle droghe? Penso che ci sia continuità, che non sia cambiato l’orientamento moderatamente favorevole ad una depenalizzazione. Perché così è stato detto da Renzi prima che diventasse presidente del Consiglio e perché questo il partito ci ha garantito quando al Senato ci hanno chiesto di non presentare emendamenti al decreto Cancellieri che andassero nel senso della depenalizzazione perché, aspettando la sentenza della Consulta, alla Camera si stava lavorando ad un ddl specifico per superare la Fini-Giovanardi. Ecco perché solo in pochissimi abbiamo votato gli emendamenti favorevoli alla depenalizzazione presentati dal M5S, ma rinunciando a presentare i nostri. E poi ci sono le parole della responsabile Giustizia del Pd, Alessia Morani, e c’è un nuovo Guardasigilli verso il quale ho grande fiducia e notevoli aspettative. Quindi voglio sperare che sia ora possibile andare avanti. Come si procede ora, dopo la sentenza della Consulta, nei confronti di chi ha subito una condanna con le norme ritenute incostituzionali? Quando la sentenza della Corte costituzionale sarà depositata immediati saranno i benefici per le persone in attesa di giudizio per detenzione di droghe leggere. Più complicato è il percorso che si troveranno davanti i condannati che stiano già scontando la loro pena. In prima battuta, l’ordinamento riconosce al condannato la possibilità di rivolgersi al giudice dell’esecuzione, perché valuti se la sua pena sia congrua rispetto ai nuovi limiti stabiliti dalla Corte. Non è detto che tutti i giudici si riconosceranno competenti a ricalcolare la pena, né che tutti lo facciano secondo gli stessi parametri. Quindi, come propone Luigi Saraceni, si potrebbe approvare una minima proposta legislativa che assicuri celerità e uniformità di giudizio in casi di questa natura. Oppure, come propone Giovanni Maria Flick (vedi il manifesto del 12/2, ndr), si potrebbero garantire effetti simili con un indulto mirato esclusivamente ai condannati per fatti di droga, tale da ridurre la loro pena di quel tanto che è stato loro mediamente aggravato dalle norme incostituzionali. Droghe: ministro Orlando, ora tocca a lei…. di Luigi Saraceni Il Manifesto, 24 febbraio 2014 Partirei da un dato. Finire in carcere per scontare una pena comminata da una legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima sin dalla nascita, è una inaccettabile iniquità, che urta il più elementare senso di giustizia. Eppure questo è il rischio che corrono coloro che, per fatti di cannabis, sono stati condannati con sentenza passata in giudicato sulla base della legge Fini-Giovanardi, recentemente cancellata dalla Consulta. Il rischio dipende dal fatto che la Consulta non ha cancellato i reati, ma solo dichiarato illegittimo l’aumento delle pene previsto dalla Fini-Giovanardi per fatti di cannabis, ripristinando le pene più miti previste dalla legge precedente. In casi come questo si discute se l’aumento di pena sancito dalla legge dichiarata incostituzionale si possa cancellare, rimettendo in discussione le condanne passate in giudicato. Una controversia del genere è in atto davanti la corte di Cassazione a proposito della aggravante della "clandestinità" introdotta nel codice penale nel 2008 dal governo legaforzista, per colpire più duramente gli immigrati "irregolari" che avessero commesso un qualsiasi reato (anche il classico furto di mela). Questa insensata efferatezza è stata cancellata dalla Consulta nel 2010 ed ora in Cassazione si discute se gli immigrati nel frattempo condannati con sentenza passata in giudicato devono o no scontare anche il pezzo di pena relativo all’aggravante dichiarata incostituzionale. A breve, sulla questione si dovranno pronunciare le sezioni unite della Cassazione per dire quale delle due soluzioni sia quella giusta. Come si vede, la questione ha strette analogie con quella che i giudici dovranno affrontare con riferimento alla decisione della Consulta sulla Fini-Giovanardi, perché anche in questo caso si tratta di stabilire se le condanne passate in giudicato non si possono toccare o se invece devono essere modificate per adeguarle alle pene minori previste dalla legge precedente per la cannabis. Ma, come si sa, l’esercizio della giurisdizione è inevitabilmente caratterizzato da incertezze e disparità di trattamento, che solo un intervento legislativo, necessario e urgente per attuare il dettato costituzionale uscito dalla decisione della Consulta, potrebbe eliminare in radice. E sarebbe altresì utile non solo per attenuare l’intollerabile sovraffollamento carcerario, ma anche per snellire il compito degli uffici giudiziari che saranno sovraccaricati dai ricorsi degli interessati. Partendo dalla premessa che la Fini-Giovanardi ha aumentato di due terzi le pene per la cannabis previste dalla legge precedente, si potrebbe stabilire che il giudice dell’esecuzione, con un semplice decreto, diminuisca di due terzi le pene della condanna da eseguire. Una simile soluzione sarebbe certamente in contrasto con l’intangibilità delle sentenze definitive, come quelle di cui parliamo. Ma il feticcio del "giudicato" - che in realtà è solo un espediente pratico, necessario ad evitare che i processi si protraggano all’infinito - ha fatto il suo tempo. Nel nostro sistema penale sono già previsti altri casi in cui le esigenze della pratica devono cedere il passo ad eccezionali esigenze di giustizia. E non si può negare che ricondurre al dettato costituzionale le pene da eseguire, costituisca una ragione di eccezionale rilevanza, che merita una deroga alla intangibilità del giudicato. Una soluzione analoga sarebbe utile ed equa anche per i processi pendenti in Cassazione. A seguito della decisione della Consulta, i giudici di piazza Cavour, nei processi per cannabis (pare che siano migliaia), avranno l’obbligo di annullare le sentenze di condanna emesse in base alla Fini-Giovanardi, rinviando il processo, per la rideterminazione della pena, ai giudici territoriali; e costoro dovranno emettere una nuova sentenza, che a sua volta sarà nuovamente impugnata in Cassazione. Un andirivieni di carte e fascicoli processuali, che si potrebbe evitare con una norma che dicesse che la Cassazione ridetermina direttamente la pena riducendo di due terzi quella inflitta dal giudice di merito. La storia finirebbe lì, senza altri strascichi, con una sentenza standard. Alla Giustizia è andato un ministro di etichetta garantista. Sarebbe un bel biglietto da visita se, traducendo l’etichetta in opere, avvertisse la necessità e l’urgenza di dare attuazione al dettato costituzionale in una materia di grande rilevanza sociale. India: ministro difesa; su marò no a compromessi, saranno processati secondo nostre leggi Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2014 Il ministro indiano della Difesa, AK Antony, ha escluso ogni "compromesso" sul caso dei due marò italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. "Non vi saranno compromessi. Non torneremo indietro in alcun modo su questo caso - ha detto Antony citato dalla rete televisiva Ndtv- Andremo avanti sul caso in base alle leggi indiane". Antony ha risposto così ai giornalisti che lo interrogavano a Kochi, in Kerala, se vi è un ammorbidimento delle autorità indiane sul caso dopo che il ministero della Giustizia ha convenuto con quello degli Esteri sulla inapplicabilità della legge anti terrorismo, il Sua Act. I due marò, allora in missione antipirateria a bordo di un nave commerciale italiana, sono accusati di aver ucciso due pescatori a largo della costa del Kerala nel febbraio 2012. Il ministro rispondeva a una domanda sull’atteggiamento del governo verso il caso; in particolare gli era stato chiesto se ci fosse stato un ammorbidimento della posizione in relazione all’applicabilità o meno del cosiddetto Sua Act, la legge anti-terrorismo. Secondo il Times of India, il governo di New Delhi ha deciso di abbandonare la richiesta del Sua Act e di ricorrere al codice penale ordinario indiano. L’ultima parola spetta comunque al presidente della Corte Suprema, il giudice B.S. Chauhan, che si pronuncerà lunedì. Ieri, poco dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, il premier Matteo Renzi aveva telefonato ai due marò. "Ho appena parlato al telefono con Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Faremo semplicemente di tutto", aveva annunciato su twitter. Anche Roberta Pinotti, neo-ministro della Difesa, aveva confermato che la vicenda dei due fucilieri é una delle priorità dell’esecutivo. I marò "sono il primo pensiero, la prima preoccupazione che dobbiamo avere", aveva sottolineato. Afghanistan: talebani annunciano sospensione negoziati con Usa per rilascio prigionieri Adnkronos, 24 febbraio 2014 I talebani hanno annunciato oggi la sospensione delle trattative con gli Stati Uniti per la liberazione di un soldato americano in cambio di detenuti afghani a Guantánamo. Un comunicato diffuso dai talebani riferisce che vi sono stati alcuni sviluppi nel negoziato, fra cui la consegna "di un video del prigioniero americano per provare che è vivo", ma la leadership ha deciso di sospendere i negoziati "a causa della complicata situazione nel Paese". La settimana scorsa il Washington post aveva scritto che gli Stati Uniti volevano negoziare la liberazione del sergente Bowe Bergdahl, catturato dai talebani nel 2009, in cambio di cinque talebani afghani prigionieri nel campo di detenzione americano di Guantánamo. Ma il portavoce della Casa Bianca Jay Craney aveva smentito l’esistenza di negoziati. Israele: detenuto si impossessa di una pistola, spara sulle guardie e viene ucciso Adnkronos, 24 febbraio 2014 Dramma nel carcere israeliano di Rimonim. Un detenuto americano-israeliano è stato ucciso da truppe di élite dopo che si era impossessato di una pistola, aveva sparato contro tre guardie e si era barricato nel bagno. Un guardiano è in condizioni critiche, un secondo è grave, mentre il terzo è stato ferito leggermente, riferisce il sito Ynetnews. È stata aperta un’inchiesta per capire come il prigioniero si sia impossessato dell’arma. Il detenuto, Samuel Sheinbein, era arrivato in Israele nel 1997 all’età di 17 anni per sfuggire ad una accusa di omicidio in Maryland. Quando gli Stati uniti cercarono di ottenere l’estradizione, Sheinbein era però già diventato cittadino israeliano. La vicenda creò tensione fra i due Paesi. Alla fine il giovane fu imputato per omicidio in Israele e patteggiò una pena di 24 anni. Libano: evasi tre detenuti dal carcere di Rumiyeh, due sono siriani Aki, 24 febbraio 2014 Tre detenuti sono fuggiti stamani all’alba dalla prigione di Rumiyeh, a nordest di Beirut. Lo riportano i media libanesi, secondo cui le forze di sicurezza sono riuscite a catturare uno dei prigionieri evasi. Il ministro dell’Interno, Nuhad Mashnuq, ha precisato in dichiarazioni alla radio Voce del Libano che si tratta di un cittadino libanese accusato di omicidio, mentre gli altri due sono "siriani". Il sovraffollato carcere di Rumiyeh, costruito nel 1971, è il piu’ grande del Libano.