Giustizia: morti di carcere di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 16 febbraio 2014 Il numero dei suicidi è solo uno degli indicatori sulle condizioni carcerarie in Italia, tra sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie estranee a un Paese civile. Francesco, 52 anni, si è tolto la vita il 6 gennaio, incastrando una camicia nella cerniera della porta del bagno di Rebibbia, a Roma. Non è stato il primo suicidio del 2014 nelle carceri italiane. Già nel pomeriggio del 3 gennaio, nell’istituto penitenziario di Ivrea, si era suicidato un uomo, anche lui italiano e di nome Francesco, più giovane di dieci anni. Ha attorcigliato un sacchetto dell’immondizia e lo ha fatto passare attraverso le sbarre del bagno interno alla cella, creando così un cappio. Poi ha infilato la testa e si è lasciato andare. Queste prime morti sono parte di una serie che, lo dicono le statistiche da oltre un decennio, arriverà a una cifra oscillante tra le quaranta e le sessanta o, magari, le settanta unità nei prossimi dodici mesi. Nel 2013, i suicidi in carcere sono diminuiti, 42 rispetto ai 56 dell’anno precedente a detta del Ministero. Secondo il dossier "Morire di carcere" di Ristretti Orizzonti, invece, sono stati 49 e 60. Tra i casi non registrati o catalogati come "incidente", quello di Denis Ronzato, 25 anni, morto il 23 aprile scorso a Castelfranco Emilia con una bomboletta del gas e un sacchetto. "Doveva essere scarcerato e ricoverato in una casa di cura, ma l’ordinanza del magistrato non era stata ancora eseguita", spiega l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. "Il ricovero del giovane, firmato da giorni dal magistrato di sorveglianza non è stato eseguito neppure quando, il 19 aprile, dopo il colloquio con i familiari, aveva dato segni evidenti di malessere psicofisico". Tre giorni prima, anche lui non conteggiato dal Ministero, era morto asfissiato Rachid Ben Chalbi, nel carcere sardo di Macomer (Nu), dove aveva inalato il gas dai piccoli fornelli da campeggio a disposizione dei detenuti. Stava per essere sepolto senza alcuna comunicazione alla famiglia, né il rito prescritto dalla religione musulmana, alla quale Ben Chalbi apparteneva. L’impegno di alcuni attivisti per i diritti umani ha poi reso possibile il trasporto della salma in Tunisia. Al di là dei conteggi (a cui andrebbero aggiunti 90 suicidi tra gli agenti penitenziari dal 2000 al 2013), nelle nostre carceri ci si ammazza con una frequenza 17/20 volte superiore a quella che si registra in Italia. Al contrario di quello che succede tra le persone libere, tra le sbarre la percentuale di suicidi è assai più elevata nei giovani tra i 24 e i 35 anni. Spesso si verifica nelle primi tempi dopo l’ingresso in carcere, quando l’impatto con un mondo di cui spesso si ignorano regole e linguaggi, codici e gerarchie, fa precipitare in uno stato di smarrimento che può portare al gesto estremo. Ma si può "morire di carcere" anche per malattie non curate o situazioni inconciliabili con le condizioni di vita dietro le sbarre. Rosaria Iardini dell’Anlaids è convinta che "almeno il 70% delle persone sieropositive non ricevono cure corrette", mentre Francesco Ceraudo, presidente dell’Associazione dei medici penitenziari, ha definito il carcere una "fabbrica di handicap". Nei casi di questi decessi in cella non sempre c’è trasparenza da parte del Ministero. Federico Perna, 34 anni, è morto a Poggioreale (Napoli) l’8 novembre scorso, per "collasso cardiocircolatorio". Racconta la madre Nobila Scafuro: "L’ho sentito al telefono l’ultima volta il martedì precedente, mi disse che perdeva sangue dalla bocca quando tossiva. Si trovava nel Padiglione Avellino, nella cella 6, assieme ad altre 11 persone. Federico non doveva restare in carcere, ma essere ricoverato in ospedale: aveva bisogno di un trapianto di fegato ed era stato dichiarato incompatibile con la detenzione da due diversi rapporti clinici, stilati dei Dirigenti Sanitari delle carceri di Viterbo e Napoli Secondigliano". Invece era stato trasferito a Poggioreale, dove le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: "Sputava sangue, letteralmente, e chiedeva il ricovero disperatamente da almeno dieci giorni lamentando dolori lancinanti allo stomaco. Abbiamo appreso della sua morte tramite la lettera di un compagno di cella, con il quale Federico aveva stretto amicizia. Non sappiamo nemmeno dove sia morto, perché le versioni sono diverse". Successivamente, la magistratura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Infine, due dati appena diffusi sul sovraffollamento, che spesso viene giustamente indicato come una delle condizioni del malessere dietro le sbarre. Al 31 dicembre, negli istituti penitenziari italiani erano recluse 62.536 persone, a fronte delle 65.701 alla stessa data del 2012. Dal 2007 al 2013, i detenuti sono aumentati del 28% (14.000 persone): se l’incremento tra gli stranieri è stato circa del 20%, quello degli italiani è stato molto più elevato (+34%). Secondo i ricercatori della Fondazione Moressa, "dall’inizio della crisi i detenuti italiani sono aumentati con un ritmo molto più sostenuto rispetto a quello degli stranieri". "Si può ipotizzare che la crisi economica e la conseguente crescita della disoccupazione, mentre nel caso degli stranieri spinge maggiormente a cercare fortuna in altri Paesi, per i nostri connazionali sfoci purtroppo spesso nell’illegalità. Resta il fatto che generalmente i detenuti stranieri finiscono in carcere per reati legati a condizioni di marginalità ed esclusione sociale, come furti e spaccio di stupefacenti". Giustizia: la voce dei cattolici contro il "fine pena mai" di Alberto Laggia Famiglia Cristiana, 16 febbraio 2014 Papa Francesco ha di recente abolito l’ergastolo nel sistema penale vaticano. Ma già da tempo i cattolici dicono "no" alla pena perpetua. Nonostante un referendum abrogativo che nel 1981 sancì la sconfitta di coloro che volevano cancellare la pena del carcere perpetuo, contro l’ergastolo e sulla sua incostituzionalità, da tempo si sono espressi autorevolmente associazioni, fior di giuristi e intellettuali, cattolici e non. Nell’area cattolica già Giuseppe Dossetti ebbe a dichiararsi a favore dell’abolizione della pena perpetua. Aldo Moro, nel 1976 in una lezione universitaria, due anni prima di essere sequestrato, processato e ucciso dalle Br, diceva ai suoi studenti in aula: "Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta". E definiva l’ergastolo "agghiacciante, psicologicamente crudele e disumano". Tra i leader carismatici dell’associazionismo Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, da sempre impegnata nel volontariato dentro le carceri italiane e nell’accoglienza di carcerati nelle comunità dell’associazione, commentava così uno sciopero della fame contro "l’ergastolo ostativo" dentro il carcere di Spoleto: "Hanno ragione i detenuti. Che senso ha dire che le carceri sono uno spazio dove si recupera la persona se è scritta la data di entrata e la data di uscita mai? È una contraddizione in termini. Perché non devono avere il diritto di dar prova che sono cambiati?". "A causa di queste norme ci sono nelle nostre carceri ragazzi quarantenni che sono stati condannati all’ergastolo a soli 18 anni e che non sono mai usciti, neanche per il funerale del padre. Ragazzi che hanno vissuto più tempo della loro vita tra le mura di una prigione che fuori. Persone che non hanno la cella del carcere come letto dove rientrare per dormire, ma ce l’hanno come tomba", afferma Giovanni Ramonda, responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII. Anche Stefano Anastasia, difensore civico dell’associazione "Antigone", che si batte per i diritti nelle carceri, non ha dubbi: "L’ergastolo è una pena detentiva non paragonabile ad altre pene, perché condanna a morire in carcere. È cioè una pena capitale a tutti gli effetti o, come la chiamava Cesare Beccaria, una pena di morte lenta. Ma di più: è una doppia pena di morte, perché prima di quella fisica c’è quella civile". Eppure mai come oggi l’argomento ergastolo sembra impopolare: "Di fronte alla crisi del sistema penitenziario italiano e alle sue gravi emergenze, purtroppo, ragionare di ergastolo può sembrare un assurdo. E poi, in tempi in cui si sente invocare la pena di morte, figuriamoci quali reazioni potrebbe scatenare una campagna per l’abolizione dell’ergastolo", afferma sconsolato il magistrato Francesco Maisto, presidente del Tribunale di Sorveglianza dell’Emilia Romagna. "Si tratta di operare senza far clamori, ma incidendo sulla sostanza. Perché non offrire una possibilità di cambiamento al detenuto, quando vengano meno i motivi di sicurezza che l’hanno tenuto recluso?". Così, invece, conclude un suo saggio sul tema (anticipato da "Ristretti Orizzonti", la rivista che si scrive dentro il carcere "Due palazzi" di Padova) il professor Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale all’università di Ferrara: "In un sussulto di coerenza politica e razionalità costituzionale, è tempo che l’Italia, da anni impegnata nella leadership della campagna internazionale per la moratoria della pena di morte (in vista della sua definitiva abolizione), torni a porsi il problema della abrogazione dell’ergastolo. Che, della pena capitale, è l’ambiguo luogotenente". Il giurista, scartata l’idea di un referendum abrogativo, propone, piuttosto, una "quaestio di legittimità davanti alla Corte costituzionale". Sull’ergastolo ostativo, "regime col quale lo Stato si comporta da ricattatore vendicativo, poiché solo se collabori con la giustizia ti offre la speranza di veder ridotta la pena, afferma: "È una variante aberrante tutta italiana il cui regime ricalca, a mio avviso, la definizione di tortura contenuta nelle carte internazionali dei diritti. È, insomma, l’altra faccia della pena di morte. Un carcere non a vita, ma a morte. Ciò è evidente considerando che l’ergastolo si prende l’esistenza della persona, anche se non gliela toglie, perché la priva di futuro; gli toglie ogni speranza. Direi che, anzi, ne è una variante ancor più crudele. Si resta vivi, ma dichiarati morti". Giustizia: perché sono contro l’ergastolo… di Agnese Moro Famiglia Cristiana, 16 febbraio 2014 "È facile dire a chi ha perso qualcuno perché un altro essere umano gli ha tolto la vita: "Ti faremo giustizia; manderemo il responsabile in prigione per molti anni o per sempre, e tu sarai ripagato". È una menzogna". La figlia dello statista, in questo suo testo scritto per Famiglia Cristiana, spiega che cosa può davvero "ripagare" chi ha subito la più tremenda delle violenze. La democrazia repubblicana, così come la disegna la nostra bella Costituzione, non è solo un sistema politico. È anche - e forse soprattutto - un progetto di vita individuale e sociale. Esprime una speranza di giustizia e di pace, che viene dalle generazioni che ci hanno preceduto, che ci accompagna dando sapore alle nostre esistenze, che vorremmo poter trasmettere ai nostri figli e nipoti. Alla base del progetto della nostra democrazia repubblicana c’è la persona; ci sono le persone reali, la loro dignità, le loro difficoltà, la loro unicità e la loro grandezza. Per l’ideologia fascista che ha preceduto la Repubblica lo Stato era tutto, le persone niente. Per la Repubblica (ovvero per tutti noi), invece, ogni persona è preziosa, e siamo impegnati, tutti insieme, a difenderne i diritti e la dignità. Ed è per questo che quando uno di noi sbaglia, anche gravemente, noi lavoriamo per impedirgli di seguitare a sbagliare e gli infliggiamo una pena che non è una vendetta, ma che gli deve servire a cambiare e a ritornare tra noi. Dall’articolo 27 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Noi non buttiamo via nessuno, e rivogliamo tutti indietro. In questo nostro progetto di vita l’ergastolo è decisamente un corpo estraneo; una contraddizione insanabile con la nostra Costituzione. Perché fa della pena una punizione e basta; perché sancisce un allontanamento definitivo e senza appello dal resto della società; perché - come diceva mio padre Aldo Moro nei suoi scritti giuridici - è decisamente contraria al senso di umanità perché nega anche la speranza di poter tornare a vivere la dimensione della libertà che caratterizza così profondamente il nostro essere uomini. Bisognerebbe avere anche l’onestà e il coraggio di affrontare il tema della giustizia. È facile dire a chi ha perso qualcuno perché un altro essere umano gli ha tolto la vita: "Ti faremo giustizia; manderemo il responsabile in prigione per molti anni o per sempre, e tu sarai ripagato". È una menzogna. Le perdite subite non si risanano, e nessuna punizione può ripagare di un affetto che non c’è più. Può invece aiutare - tanto - vedere che chi ha fatto del male ha capito quello che ha combinato, ne è realmente dispiaciuto, vorrebbe con tutte le sue forze non averlo fatto; che riprende a vivere in maniera diversa, cerca di essere utile alla società, porta il rimorso suo e anche il dolore delle proprie vittime. È quanto di più vicino alla giustizia si possa chiedere. Ed è la saggia via proposta dalla nostra Costituzione. Giustizia: progetto "Fuori di gabbia" di Paola Arosio Famiglia Cristiana, 16 febbraio 2014 Caritas Tarvisina e Cooperativa Alternativa in collaborazione con la Cooperativa Puntozero hanno avviato un progetto di formazione professionale e riabilitazione per detenuti. Ogni mattina, alle otto e trenta, le porte della falegnameria di via Santa Bona Nuova, all’interno del carcere di Treviso, si aprono. Per i detenuti è il momento di cominciare il lavoro. Di dedicarsi alla produzione di nidi artificiali. C’è chi si occupa di taglio, con squadratrice e sega circolare, chi di verniciatura, chi di serigrafia. E chi di packaging, confezionando il prodotto con il kit per il montaggio. Fatta salva un’oretta di pausa pranzo, l’attività si protrae fino alle 17. I nidi (per merli, cinciallegre, pipistrelli) si vendono, attraverso due canali: uno tradizionale (la bottega di via Cardinal Callegari 32), l’altro più innovativo (uno store on line). È questo il recente progetto Fuori di gabbia, realizzato dalla cooperativa Alternativa e dalla Caritas Tarvisina in collaborazione con la cooperativa Puntozero. "I detenuti, con le loro fragilità e risorse, sono i veri protagonisti dell’iniziativa; vengono selezionati dagli educatori e dagli psicologi dell’équipe, quindi formati e avviati al lavoro", spiega Igor De Paolo, responsabile del laboratorio. "Hanno un regolare contratto e sono sempre guidati dagli operatori". Al loro fianco, non mancano falegnami esperti, architetti, fotografi, illustratori, designer, che mettono a disposizione creatività e competenze per realizzare prodotti a prova di mercato. Ma il significato dell’iniziativa va ben al di là della produzione artigianale: in ballo ci sono concetti fondamentali, come la "valorizzazione della persona e delle sue capacità, l’importanza di fare bene le cose, la necessità di trovare un senso e di impiegare il tempo in modo fruttuoso". Dietro ciascun nido fatto e finito c’è una vita, una storia. Come quella di Karim, 27 anni, di origine tunisina, dentro per spaccio. O quella di Manuel, 36, italiano, in carcere per sfruttamento della prostituzione. O ancora quella di Raul, 42 anni, tre figli e sulle spalle un’accusa di rapina. A quelli come loro "il progetto mira a dare una possibilità concreta di riscatto", spiega De Paolo. Sì, perché "la capacità di trovare un impiego, una volta scontata la pena, diminuisce il rischio di recidiva dell’80 per cento", evitando il circolo vizioso: uscita dal carcere-mancanza di lavoro e di reti sociali-commissione di reati-ritorno in carcere. Un plauso all’iniziativa viene anche dal direttore della casa circondariale Francesco Massimo: "Siamo contenti di proseguire questo progetto che vede l’impegno congiunto di detenuti e collaboratori, in un momento difficile per il nostro Paese, in cui ci troviamo a fare i conti con la mancanza di lavoro, che colpisce anche e soprattutto chi ha trascorso anni in una cella". La speranza è che, una volta usciti, i detenuti trovino, assieme a un mestiere, anche la forza di essere davvero liberi e di spiccare il volo. Dopotutto è questa la bella lezione di Fuori di gabbia. Giustizia: il decreto-carceri in Aula al Senato, nessuna modifica rispetto a testo Camera Asca, 16 febbraio 2014 Approda in Aula senza modifiche il dl 146/2013, recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria. Il testo - già approvato dalla Camera e in calendario in Assemblea lunedì prossimo - è stato licenziato dalla commissione Giustizia così come uscito da palazzo Madama. Tutte le proposte di modifica presentate sono state o ritirate o respinte. Il provvedimento urgente, emanato dal Governo per far fronte al problema dell’affollamento delle carceri, scade il 21 febbraio. M5S: condannati per corruzione avranno sconto pena Il decreto Carceri, ora all’esame del Senato, prevede uno sconto di pena anche per i condannati per i reati di corruzione e concussione. A sottolinearlo è il senatore M5S Enrico Cappelletti che denuncia come un emendamento 5 stelle per escludere questi delitti dagli sconti di pena sia stato bocciato. "In commissione Giustizia - spiega il parlamentare - il modello unico Pd-Pdl ha votato contro l’ emendamento del M5S che prevedeva di non estendere il beneficio dello sconto del 40% di pena ai condannati per corruzione e concussione". "Bocciando questo emendamento, i detenuti per corruzione e concussione, presenti e futuri, potranno tranquillamente contare, oltre che ad una normativa colabrodo che quasi mai consente di pervenire a sentenza definitiva, anche a questo grasso sconto di pena", assicura Cappelletti. "È passato solo qualche giorno dall’umiliante relazione dell’Unione Europea che attribuisce all’Italia l’infausto primato della corruzione in Europa - ricorda il senatore - si tratta di un cancro nazionale che si porta via almeno 60 miliardi di euro all’anno. Sarebbe stato giusto aspettarsi dal Parlamento una reazione". Giustizia: Casson (Pd); con qusta è la terza volta che tiriamo il Cavaliere fuori dalla fossa di Liana Milella La Repubblica, 16 febbraio 2014 Giustizia? "No alle trattative sottobanco". Il nuovo ministro? "Senza scheletri nell’armadio, e con tanta voglia di lavorare". La legge più importante da fare? "Ce ne sono almeno cinque". Felice Casson è preoccupato e sta alla finestra per vedere che farà Renzi. Nuovo governo. Alle spalle l’incontro tra Renzi e Berlusconi per la legge elettorale. Teme un inciucio sulla giustizia? "Più che temere, ho l’impressione che sarà proprio così. Già il punto di partenza è negativo, perché il governo Letta aveva scelto in materia di giustizia e legalità un basso profilo. I casi Shalabayeva e Cancellieri lo stanno a dimostrare". Letta ormai è alle spalle. Anzi Renzi contesta proprio l’eccessiva prudenza dell’ex premier. Dove starebbe la continuità? "Già nella scelta della stessa coalizione, che per di più dovrebbe durare fino al 2018. Io però in direzione ho votato contro". Si appresta forse a votare contro anche al governo Renzi? "È prematuro parlarne... certo che quando si è discusso di giustizia, conflitto di interessi e legalità, con il centrodestra di Alfano, Schifani e Giovanardi, ci siamo sempre scontrati di brutto". Sì, ma ora c’è qualcosa di più, c’è il rapporto diretto tra Renzi e Berlusconi, ci sono contatti riservati. La giustizia, di cui Renzi non parla mai, non rischia di essere il prossimo terreno di scambio? "È sintomatico che non ne parli mai, perché è materia incandescente. Se il Pd vuol parlare di riforma della giustizia va in direzione opposta alla destra. Esempi chiarissimi ci sono su prescrizione, falso in bilancio, corruzione". Temi del tutto dimenticati... "Volutamente dimenticati, proprio per evitare scontri". Risponda da ex magistrato. Il prezzo che si sta pagando per avere una nuova legge elettorale non è eccessivo? "Rispondo da politico. Su questa legge si sta facendo una grande manfrina, perché il fatto di non averne una nuova impedisce nuove elezioni. Sia chiaro che io non ho pregiudizi nei confronti di Renzi, tanto che in Veneto lavoro benissimo con i suoi uomini, in trasparenza e con spirito costruttivo". Scusi, ma il famoso incontro nella sede del Pd non ha di fatto "sdoganato" un condannato definitivo? "È la terza volta che il Pd tira fuori Berlusconi dalla fossa. Prima è stato D’Alema, poi Veltroni. Adesso Renzi. Ma ora è peggio, perché l’ex premier è un pregiudicato per il grave di frode fiscale". Per dimostrare che non c’è inciucio quali sarebbero le cinque leggi sulla giustizia che Renzi dovrebbe varare nei suoi primi cento giorni? "Nuova legge sulla corruzione, prescrizione, falso in bilancio e auto-riciclaggio, conflitto d’interessi, via Bossi-Fini e Fini-Giovanardi". Nuovo ministro della Giustizia. Qual è il suo identikit? "Non basta che garantisca dalle porcate e che non ne abbia già fatte, deve essere in grado di agire e di cambiare la macchina dei processi e del carcere". Giustizia: ai detenuti riconosciuto il diritto a 3 metri di "spazio vitale" in cella… non a 7 La Nuova Venezia, 16 febbraio 2014 I detenuti avevano chiesto celle più ampie, di sette metri a testa; il Magistrato di Sorveglianza di Venezia ha riconosciuto loro il diritto a tre metri di spazio vitale. È il risultato dei reclami giurisdizionali presentati da quindici carcerati di Santa Maria Maggiore di Venezia (uno di Treviso), che hanno avanzato una serie di richieste per veder garantiti i diritti riconosciuti dalla Corte Europea e anche da una sentenza della Corte Costituzionale. Lo scorso 6 febbraio si sono tenute le udienze e i magistrati di sorveglianza hanno respinto le richieste di celle con luce diretta e bagno separato (perché l’amministrazione penitenziaria aveva già provveduto), ma hanno riconosciuto il diritto auna metratura minima in cella di tre metri (e non di 7 come avevano chiesto i detenuti e come è stato erroneamente riportato nell’articolo dello scorso 13 febbraio). Le ordinanze dei magistrati di sorveglianza di Venezia sono tra le prime in materia e rappresentano un importante precedente destinato a fare scuola in materia di diritti dei detenuti. Giustizia: i direttori delle carceri scrivono a Napolitano per fermare il decreto sui "tagli" Ansa, 16 febbraio 2014 Dopo "la riunione farsa del 12 febbraio scorso" al ministero della Giustizia, i direttori della carceri, attraverso la loro organizzazione sindacale, il Sidipe, scrivono ai massimi organi istituzionali, a cominciare dal Presidente della Repubblica, perché "mentre sono in corso le consultazioni per la formazione del nuovo Governo, quello dimissionario non compia un atto che sarebbe politicamente censurabile". Cioè, l’approvazione del decreto del Presidente del Consiglio che contiene il "Regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia e riduzione degli Uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche del Ministero della Giustizia". Un provvedimento che, secondo il Sidipe, "non organizza ma destruttura il Ministero della Giustizia, in particolare l’Amministrazione Penitenziaria, riducendo le dotazioni organiche" tanto tra i dirigenti che tra gli altri operatori penitenziari "in un momento storico difficilissimo" per il sovraffollamento carcerario e la pesante condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Per questo il sindacato "esprimere seria preoccupazione per gli effetti devastanti che l’eventuale approvazione del provvedimento avrebbe sul sistema penitenziario già in una situazione drammatica". Giustizia: decadenza della Fini-Giovanardi e droghe leggere, è "fuga" dalle celle Libero, 16 febbraio 2014 A Varese liberati 15 detenuti. A Vicenza pronti a uscire in 150. E a Napoli sono 1.500. A Varese il Tribunale ha liberato quindici persone detenute a vario titolo per droga. Ha preso atto, cioè, della decadenza della legge Fini-Giovanardi sancita dalla Corte Costituzionale. 1 gip del Palazzo di Giustizia della cittadina lombarda hanno passato al vaglio in tempi record sessanta fascicoli relativi a indagini e procedimenti per droghe, isolando tra questi quindici casi legati a droghe leggere o a detenzione di quantità non eccezionali di stupefacenti. Risultato? Quindici persone in custodia cautelare (sette in carcere e otto ai domiciliari) hanno ritrovato la libertà. Ad aprire le danze era stato, però, Mauro Straini, avvocato milanese che ha presentato istanza di ricalcolo della pena a favore del proprio assistilo. Il legale rappresenta un cittadino albanese di 48 anni che si è beccato una condanna a quattro anni per detenzione di marijuana con sentenza diventata definitiva il 22 gennaio. Dal momento che la pena è stata "calcolata su una base di anni di reclusione" diversa, chiede che questa venga rivista. Sono i primi effetti della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la legge varata dal governo Berlusconi-bis in tema di droghe. Questa equiparava i narcotici leggeri a quelli pesanti, fissava pene tra i 6 e i 20 anni e multe fino a 260mila euro per i reati di spaccio e detenzione. "Diecimila detenuti potrebbero uscire dal carcere", si è ventilato in prima battuta. "Sono stime impossibili da fare - ha ribattuto Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla Giustizia, ai microfoni di Radio24. I detenuti nelle carceri italiane per droga sono 15mila, ma appena 2mila non accompagnano a quella per spaccio altri tipi di condanna". Insomma per il sottosegretario è avventato parlare di un "liberi tutto". Ma mentre a Roma continua il bailamme sulle cifre, alla periferia come al centro del Paese si realizzano stime più accurate su quanti detenuti possano beneficiare del ritorno alla legge lervolino sulle droghe. Dal penitenziario Santa Bona di Treviso, ad esempio, potrebbero uscire 45 carcerati. Più di 130, invece, quelli che si metteranno alle spalle le prigioni di Vicenza. Ma è in Campania che girano i numeri più grossi. Della popolazione carceraria totale, pari a 7950 detenuti, almeno duemila sono dentro per droga. Il 75 per cento di questi scontano la pena nelle case circondariali del capoluogo. Stando alle valutazione offerte dall’associazione "Per la Grande Napoli" (presieduta dall’ex segretario Radicale Mario Staderini), delle 4.300 persone stipate nelle celle di Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli, 1500 sono dentro per droga, e 600 per droghe leggere. Giustizia: in 3mila sfilano per Aldrovandi "via la divisa… ai poliziotti che l’hanno ucciso" di Riccardo Tagliati Il Manifesto, 16 febbraio 2014 Con la famiglia perché i poliziotti che hanno ucciso Federico vengano espulsi dalla Polizia. "Gli agenti che hanno ucciso il nostro Federico devono essere licenziati". Lo hanno chiesto al prefetto di Ferrara Lino, Patrizia e Stefano, rispettivamente il padre, la madre e il fratello di Federico Aldrovandi, il 18enne ucciso da 4 poliziotti il 25 settembre del 2005. L’incontro si è tenuto al termine del lungo corteo che ieri ha portato più di 3 mila persone a sfilare per la città estense dietro lo striscione "Via la divisa". A sorreggerlo, insieme a Patrizia, c’erano Lucia Uva, Ilaria Cucchi ed Elia Bianzino, tutte accomunate dalla stessa sofferenza: un congiunto ucciso da persone in divisa. Insieme a loro tanti altri familiari di vittime delle forze dell’ordine. Dietro loro, rispettosi del dolore, hanno sfilato studenti, attivisti dei centri sociali, semplici cittadini, amici e conoscenti di Federico, amministratori locali, esponenti politici senza bandiere di partito (come richiesto dagli organizzatori) e tanti ultrà. L’appuntamento era alle 14 in via dell’ippodromo. Proprio lì, il 25 settembre di 8 anni fa, Federico di ritorno da una serata con gli amici a Bologna incontrò la morte, con la divisa della polizia e il manganello. Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri, agenti in forze all’epoca alla Questura di Ferrara, sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi per eccesso colposo in omicidio colposo. Tra indulto, carcere e arresti domiciliari gli agenti hanno scontato la loro pena e, dopo sei mesi di sospensione, tre agenti (Forlani è in malattia) sono tornati in servizio. Con compiti amministrativi, hanno spiegato dal ministero dell’Interno ai deputati grillini che avevano chiesto lumi sulla vicenda. "Devono essere licenziati perché hanno disonorato la polizia" ha detto Lino Aldrovandi. Il babbo di Aldro sale sul pianale del camioncino che sta in testa al corteo quando questo si ferma affianco al Castello Estense, nel cuore della città. Proprio in quel punto, più volte lo scorso anno, si era fermato anche il camioncino del Coisp, il sindacato di polizia che più di ogni altro ha preso le difese dei colleghi condannati per l’omicidio di Federico. È da quel punto preciso che Lino ringrazia i manifestanti: "Vi ringrazio perché siete qui per Federico e per i vostri figli". Composto, emozionato, Lino parla come il padre che è: "Il sangue e la vita di un figlio non hanno prezzo. Non credo sia una richiesta così incredibile volere che chi commette atti così aberranti non possa più indossare una divisa". L’applauso sale forte dal corteo e le lacrime faticano ad essere trattenute. Dal fondo arrivano i cori degli ultrà: "Giustizia per Federico" e "Via la divisa". I gruppi della curva del Bologna calcio, anche quelli dichiaratamente di destra, sono presenti: "Toglietevi la divisa" scrivono in uno striscione. "Per sempre al fianco degli Aldrovandi" gridano più volte. Poi ci sono gli ultrà della Spal, la squadra di Ferrara, quelli della Fortitudo Basket, quelli del Toro calcio. "Dietro quelle scrivanie nessuna dignità" scrivono gli ultrà del Lecce che appendono lo striscione proprio sotto la Prefettura. Pochi in corteo i giovani ferraresi. Prima di salire dal prefetto Patrizia prende la parola. È il giorno del suo compleanno e chi le cede il microfono non manca di farlo notare: "Anche in questo giorno deve affrontare questa assurda situazione". "Sono commossa e felice che la voce di Federico salga così alta" dice Patrizia. "Oggi insieme a me e a tutti voi ci sono molte famiglie di vittime, ci sono persone che sono sopravvissute ai pestaggi. Adesso siamo vicini alla Questura, e lo dico a voi, e lo dico a loro: sappiate che ci saranno sempre le famiglie, ci saranno sorelle, figli, madri, mogli. E io come mamma lo grido forte: Non staremo mai zitte". Il fiume di gente che ha invaso Corso Ercole I d’Este scoppia in un applauso avvolgente. Mentre Lino, Patrizia e Stefano si preparano per salire, ripartono i cori degli ultrà, che diventano cori di tutti: "Vogliamo giustizia, vogliamo solo giustizia". Giustizia: intervista a Patrizia Reggiani, la madre di Federico Aldrovandi di Salvatore Maria Righi L’Unità, 16 febbraio 2014 "Il reintegro nella Polizia dei quattro agenti che hanno ucciso mio figlio è molto triste e deludente. Non è in linea con la giustizia e nemmeno con la morale. Ma ancora una volta non siamo soli. Abbiamo avuto sollecitazioni da tanta gente, ci hanno spinti da tutta Italia a batterci perché questa storia non finisca in un bolla di sapone, e tutto torni come prima". Il 25 settembre saranno 9 nove anni, da quando Federico Aldrovandi è morto di botte e di bugie, anche se tecnicamente lo ha ucciso un anfibio schiacciato sul petto, in un’alba che all’epoca aveva parecchie ombre, ma adesso, dopo due processi e diverse condanne, è diventata molto più nitida, per quanto non meno dolorosa. La battaglia di Patrizia Moretti, di suo marito Lino e di una famiglia che ha lottato anche per non perdere se stessa, dopo aver perso Aldro, però non è ancora finita. Non perché, a cadenze periodiche, tornino alti profili di revisionismo, come il "cuscino" che Carlo Giovanardi ha scoperto nella chiazza di sangue che cinge la testa di Federico come in un martirio laico, trovando una querela per diffamazione come risposta di Patrizia. La battaglia non è finita perché in questi giorni gli agenti Enzo Pontani e Luca Pollastri, l’equipaggio della volante "Alfa 3", Paolo Forlani e Monica Segatto, colleghi di "Alfa 2", sono stati reintegrati nei "servizi amministrativi", dopo aver scontato una condanna ridotta a 6 mesi dall’indulto e un periodo altrettanto lungo di sospensione dal servizio. Patrizia chiede da sempre che non succeda quello che sta accadendo: cioè che la Polizia tolga la divisa a quei quattro agenti e li accompagni alla porta. Insieme a lei, lo chiederanno tutti quelli che oggi pomeriggio si raduneranno a Ferrara, proprio in Via Ippodromo, dove mazzi di fiori e alcuni striscioni ricordano il punto dove Federico è stato picchiato per un tempo ferocemente dilatato, per poi camminare in corteo verso la Prefettura, dove la famiglia Aldrovandi incontrerà le istituzioni che da un po’ di tempo mostrano loro un volto un po’ più gentile. Al loro fianco, altre famiglie vittime di altre morti bianche, in altri processi in cui lo Stato processa se stesso: Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Dino Budroni, Michele Ferulli. Signora Patrizia, qual è il senso di questa manifestazione? "La sentiamo nel profondo del cuore, questa necessità di cambiare le cose in profondità al di là di quello che è successo a Federico e del destino di quei quattro poliziotti, perché ormai abbiamo capito che i casi come quello di mio figlio sono una realtà molto diffusa e non si può più parlare di poche mele marce. E perché quello che è successo a Federico non capiti più a nessuno". Il caso Aldrovandi ha aperto la strada per tante inchieste e processi. "Se mio figlio è diventato un simbolo, lo sono anche gli agenti che lo hanno ucciso. Sono stati loro e chi li ha coperti, dalla Questura in su, a decidere di diventare simboli degli omicidi di Stato, non glielo ha chiesto nessuno. Quindi, in quanto tali, è arrivato il momento per la polizia, per lo Stato e le istituzioni in genere, che cosa vogliano rappresentare e come vogliano essere per le persone". Si riferisce al patto di fiducia coi cittadini? "Mi riferisco al fatto che nella vicenda di Federico ho sentito prefetti e questori rammaricarsi per non sentire nella gente abbastanza fiducia nelle forze di polizia, e della frattura con i cittadini, Ma se loro continuano a tenersi nella pancia degli assassini come gli agenti che hanno ucciso Federico, di cosa si meravigliano? E come potrebbero le persone avere fiducia?". Come fare per recuperarla? "Oggi manifesteremo con tante altre persone il nostro dissenso, ma sia ben chiaro che non c’è nessuna sfiducia nelle istituzioni: al contrario, casomai, è perché tutti crediamo che le cose possano cambiare e che da tragedie così grandi nasca il bisogno di farlo. Il bisogno di chiedere alle istituzioni di curare questa malattia che sentiamo come un cancro nelle forze di polizia, se la polizia vorrà curarsi, prima di tutto per il bene della sua parte più grande che è sana e onesta, e appartiene a tutti". E a chi tocca fare il medico? "È arrivato il momento che la politica faccia la sua parte e che fermi questa deriva che ha fatto entrare la violenza e le brutte cose nelle istituzioni. Chi è stato eletto col voto deve intervenire per darci risposte sulle cose che chiediamo: oltre alla destituzione di questi agenti, l’introduzione del reato di tortura e l’identificazione degli agenti di polizia, come succede in tutto il mondo". A suo tempo, il compianto Antonio Manganelli prese un impegno con voi. "Venne alla festa della polizia a Ferrara, nel 2011, e ci promise che avrebbe seguito con molta attenzione il caso di Federico. Non ci poteva dare garanzie, ovviamente, ma ci ha assicurato che dopo la sentenza definitiva di Cassazione, in caso di colpevolezza degli agenti, si sarebbero presi provvedimenti contro quelli che aveva definito spine nel fianco. Quelli, cioè, che commettono reati portando la divisa". Non è stata l’unica promessa non mantenuta, però. "In tutti questi anni ce ne sono state fatte tante, nei ruoli istituzionali legati alla politica e al meccanismo elettivo, ma proprio per questo poi ad ogni cambio di assetto e di incarichi, si doveva ricominciare daccapo. Anche perché, nel nostro caso, chi ha potere reale di decidere e di incidere è legato agli ambiti amministrativi che non sono certo elettivi, e anzi non cambiano mai. Per questo, ribadisco, ora tocca alla politica, al potere di chi rappresenta gli elettori, fare la propria parte. Al di là del caso di Federico e di tutti gli altri dolori casi che sono successi in questi anni, c’è una richiesta di giustizia che non può più essere ignorata". Ci sono stati anche attacchi alla sua persona. "Ho portato pazienza e aspettato fino alla sentenza della Cassazione, dopo mi sono stufata e ho querelato tutti. Come Giovanardi, che aveva detto che il sangue di mio figlio era un cuscino. O l’esponente del sindacato di polizia che aveva fatto quella manifestazione e fatto quelle dichiarazioni contro di me, contro Federico, intervendo in questioni nelle quali non c’entra nulla il sindacato. Anzi, facendo l’opposto di quello che dovrebbe fare un sindacato come il Coisp". Gli agenti condannati vi hanno mai chiesto scusa? "Mai, assolutamente. Anzi, alcuni di loro, come Paolo Forlani, hanno continuato ad attaccarci e insultarci tramite certi siti internet". La battaglia per Federico è diventata una battaglia per le morti bianche, alla fine. "Non è stata una scelta, perché chi passa quello che abbiamo passato noi, su questa strada ci si trova per forza. Ho capito che non avrei potuto non prendere questa direzione, dal momento che quei maledetti mi hanno portato via mio figlio. Non avrei mai potuto fare finta di niente, non gli avrei mai concesso questo beneficio. Mi sono stati molto utili, per questo, la vicinanza e l’esempio di Heidi Giuliani. O quelli delle madri di Plaza de Mayo, che sono state meravigliose e mi hanno insegnato tanto. Mi hanno fatto capire che non bisogna mai stancarsi di reagire, non bisogna mai tacere, per il bene superiore della giustizia, ma anche per quello dei figli, dei fratelli o dei padri che abbiamo perso". Nei primi tempi avete raccontato che la città intorno a voi non era come vi sareste aspettati. Ferrara è cambiata? "L’ambiente è stato duro e refrattario a lungo. Fin dall’inizio c’era chi si preoccupava più del fatto che mio figlio fosse in giro all’alba, che di quello che gli è stato fatto. Ma questa mentalità c’è sempre stata e ci sarà sempre. Quello che conta è che però le cose cambiano e soprattutto i giovani ci sono vicini e ci hanno dimostrato la loro presenza. Abbiamo dovuto affrontare forze in campo molto massicce, imponenti, perché anche nei siti internet siamo stati denigrati, come capita spesso alle vittime di questi delitti dove ci sono di mezzo le forze di polizia. Senza contare tutte le bugie e i depistaggi che ci sono stati per coprire le responsabilità che sono individuali, tengo a precisarlo. Con un questore che è stato più bravo degli altri ad aprire gli armadi e a tirare fuori documenti e prove, accuratamente nascosti prima, che avrebbero anche potuto cambiare il corso del processo per l’omicidio di Federico e da colposo, magari, farlo diventare doloso. Però tornerei al punto". E cioè? "La condanna dei quattro agenti e la loro carcerazione non era la cosa più importante per noi, anche se chi sbaglia deve pagare. Quello che noi abbiamo sempre chiesto era la loro destituzione, perché dei servitori dello Stato che fanno quello che hanno fatto loro, non si possono più chiamare poliziotti. Del resto, i medici che sbagliano non fanno più i medici: perché loro fanno eccezione? È gravissimo che siano ancora al loro posto, prima di tutto per tutte le persone oneste e corrette che stanno dentro le istituzioni. Non possono più liquidare la questione parlando di poche mele marce". Con la pronuncia della Corte Costituzionale sulla legge Fini-Giovanardi, come ha detto Ilaria Cucchi, suo fratello Stefano sarebbe ancora vivo. "È vero e fa venire i brividi a pensarci. Ma direi che, oltre ai casi specifici, come quello delle droghe, il problema di fondo è che un qualsiasi fermo o arresto di polizia, anche se fondato e corretto, non può e non deve trasformarsi in un pestaggio o in un’esecuzione sommaria. Non ci può essere tutta questa violenza dentro le istituzioni. Per questo, tra le battaglie che stiamo facendo, c’è anche quella di supporto all’introduzione al reato di tortura, che peraltro aveva già raccolto qualcosa come centomila firme. Purtroppo, sotto a questo profilo, l’Italia è ancora al palo, anche per le fortissime reticenze e le pressioni di una cultura della sopraffazione ancora esistente dentro alle istituzioni, dentro sacche che devono essere combattute ed eliminate. La cura, però, adesso tocca alla politica trovarla". Sicilia: gli agenti penitenziari minacciano agitazione "all’esterno personale specializzato" di Claudia Campese www.ctzen.it, 16 febbraio 2014 Dopo il caso di Varese, dove un commando armato ha assaltato il furgone che trasportava un detenuto, ferendo due agenti e liberando l’uomo, torna a riaccendersi la polemica sulla carenza di organico della polizia penitenziaria. In Sicilia il provveditorato è in ritardo di un anno sull’applicazione dei nuovi modelli organizzativi nazionali che non consentono la turnazione tra chi lavora all’interno e chi all’esterno nei servizi di piantonamento e trasporto. "Chi sta fuori è più in difficoltà. Un rischio anche per cittadini e detenuti", spiega Armando Algozzino, segretario Uil Pubblica amministrazione. Un ergastolano viene trasportato dal carcere al tribunale. Durante il tragitto, un commando armato attacca il furgone dove viaggiava l’uomo e lo libera. Nella sparatoria restano feriti due agenti "e per fortuna nessun cittadino". È successo a Varese a inizio febbraio ma, ricordano i sindacati della polizia penitenziaria, potrebbe succedere ovunque. Un problema dovuto principalmente alla carenza di organico, ma a cui in Sicilia si aggiunge l’inadempienza del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria regionale in ritardo di un anno sull’applicazione del nuovo modello organizzativo nazionale. Tra incontri, richieste e rapporti non sempre distesi, le sigle sindacali hanno deciso di interrompere la trattativa e minacciano lo stato di agitazione se non riceveranno risposte entro 15 giorni a partire da oggi. Tutto comincia nel 2012 con un nuovo decreto del ministero. Il documento viene recepito a marzo del 2013 dal capo dipartimento che lo inoltra a tutti i provveditorati regionali affinché adeguino i propri modelli organizzativi. Ma dalla Sicilia tutto tace. A quasi un anno di distanza. La differenza principale introdotta dal decreto è la possibilità di "sostituire il personale specializzato solo con altro personale specializzato", spiega Armando Algozzino, segretario della Uil Pubblica amministrazione. E invece sull’isola si procede ancora con la turnazione degli agenti tra servizi all’interno delle carceri e quelli all’esterno, cioè il piantonamento e il trasporto dei detenuti. Sebbene non in tutti i nuclei. Due mansioni diverse e con rischi differenti, con in comune la carenza di personale. "Anche all’interno degli istituti gli agenti sono in pochi, ma sono aiutati nelle operazioni di controllo da sistemi come gli allarmi e le videocamere - continua Algozzino. Fuori, invece, sei in difficoltà. E, se dovesse succedere quello che è successo a Varese, a rischio non c’è solo il personale: ma anche i detenuti trasportati e i cittadini". Per la sicurezza di tutti, spiega il sindacalista, sarebbe meglio scindere le due figure e permetterne la specializzazione. Come d’altronde previsto dal nuovo decreto. "Considerato l’attuale depauperamento, la nostra proposta è di mantenere nei nuclei esterni il personale già trasferito e richiamare quello specializzato". Un modo per aumentare anche le unità disponibili, necessarie in Sicilia e a Catania, come "a Piazza Lanza, dove gli agenti sono 95 anziché 180". Un’emergenza nazionale, spiega Algozzino, ma che ha anche una sfumatura regionale. "La Sicilia da diversi anni non riceve più personale e lo manda al Nord, che è pure carente di organico, ma quello dell’isola si è pian piano andato a ridurre per effetto di pensionamenti naturali e per malattia, e delle morti, tra cui purtroppo anche suicidi - spiega il sindacalista. E poi la tipologia di detenuti ristretta in Sicilia è diversa da quella del Nord. Dove è vero che vengono mandati i grandi boss, ma le squadre di questa gente resta da noi". Adesso la questione è passata interamente al provveditore regionale con cui i sindacati hanno interrotto ogni rapporto, in attesa di una risposta precisa. "Io mi preoccupo più che altro dei cittadini che sono spesso ignari - conclude Armando Algozzino. Noi lavoriamo per l’amministrazione, che però non ci mette in condizione di operare per la sicurezza dei cittadini, dei trasportati e di noi stessi". Piacenza: Garante Gromi; dignità dell’uomo rispettata, anche nell’esecuzione della pena Il Piacenza, 16 febbraio 2014 Le conferenze della Dante Alighieri: Gromi, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale: "l’aver contravvenuto alle norme che disciplinano la convivenza civile deve prevedere una giusta sanzione. I detenuti che non hanno avuto permessi tornano a delinquere quattro volte tanto rispetto chi ha avuto concessioni" "Pena e rieducazione: la finalità costituzionale nella realtà carceraria": questo l’argomento affrontato dal prof. Alberto Gromi, per conto della Società "Dante Alighieri" di Piacenza, conferenza presso la Galleria Ricci Oddi, innanzi a un folto pubblico fermamente interessato. Il prof. Gromi, laureato in Pedagogia, già Preside del Liceo Classico "Gioia", e docente di Scienza dell’Educazione e Pedagogia del Lavoro e della Formazione presso l’Università Cattolica di Piacenza, è investito della funzione istituzionale di "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale", presso la Casa Circondariale di Piacenza. In questa veste ha svolto l’argomento, affrontando aspetti particolarmente intensi e di umana interiore sofferenza che il "detenuto" vive nel doveroso suo assoggettamento alla sanzione da scontare, inflitta nel necessario "ribadire" dell’autorità della legge della collettività. Nei secoli passati - ha detto Gromi - la pena ha assunto spesso carattere duramente "punitivo", traducendosi non raramente in vere e proprie pene "corporali" e in detenzioni in condizioni assolutamente disumane; era insomma una sorta di contromisura "dura" come risposta ad un’azione antisociale, antigiuridica, antipolitica commessa. La finalità "rieducativa" è una conquista intervenuta, sia pur per gradi, nel secolo scorso, ed è chiaramente "consacrata" nella Costituzione Italiana, all’art. 27. Per "rieducazione" s’intende la "rimessa in moto", nella psiche del reo, della riflessione sui valori sociali da lui feriti, e la sua consapevolezza della loro rilevanza; il tutto in funzione di una sua capacità di riammissione nel contesto del vivere sociale e di una sua ri-accoglienza in una collettività. Come pervenire a una rieducazione e riabilitazione? La "Dignità" dell’uomo è il limite che "non può" essere oltrepassato nell’esecuzione della pena. L’aver contravvenuto alle norme che disciplinano la convivenza civile deve prevedere una giusta sanzione finalizzata, certamente, alla riaffermazione del ruolo primario della società e del suo rispetto ai fini della convivenza stessa; ma detta sanzione non deve avere natura repressiva, bensì essere accompagnata ad un processo di riabilitazione educativa efficace. Mancando quest’ultimo, si vanifica qualsiasi proclamazione di uguaglianza che invece è conclamata proprio dalla nostra Costituzione. La civiltà di una comunità si misura nella consapevolezza che la necessità di condannare deve accompagnarsi "al dovere" di riabilitare. E riabilitare significa adottare varie strategie (avviamento al lavoro, obiettivi da realizzare, permessi-premio, lavori socialmente utili presso comunità, esperienze teatrali, e altro), attraverso le quali il detenuto possa interiorizzare un proprio ruolo, per poterne usufruire al momento della sua riammissione nella società. Non sempre è facile realizzare iniziative adeguate. E il "Garante" non è il "papà" dei detenuti, o il "difensore" dei detenuti; ma è il "custode" dell’attuazione della tutela dei diritti umani del detenuto, proprio ai fini sopraindicati. Sovente fa notizia la fuga di un soggetto in permesso-premio; mentre non fa notizia l’"efficacia" della "miriade" di permessi rilasciati e "andati a buon fine": da una ricerca su dati pluriennali, risulta che il 18% di quanti abbiano fruito di permessi, torna purtroppo a delinquere; ma, di quanti non hanno avuto "concessioni", torna a delinquere ben il 70%! Sovente prevale il discorso della sicurezza sul discorso della riabilitazione, laddove il carcere dovrebbe invece aiutare a prendere coscienza del reato, e che il detenuto con la sua azione criminosa ha rotto il patto con la società, e se ne è messo fuori. La finalità costituzionale è proprio, dal canto suo, quello di porre nuovamente il "peccatore" in condizioni di "riabilitato": per cui, come anche l’ex magistrato Gherardo Colombo scrive ed afferma, ciascuno di noi dovrebbe essere educato non alla mera obbedienza, ma alla libertà, il che vuol dire alla "responsabilità". "Libertà" e "responsabilità" sono termini inscindibili; si è liberi solo se si è responsabili; e si è responsabili solo, se si è liberi. In questo sta l’essenza della funzione rieducativa del detenuto. Civitavecchia (Rm): processo per suicidio nel carcere femminile, è il turno dei consulenti www.trcgiornale.it, 16 febbraio 2014 Nuova udienza del processo per la morte di Alessia T., la detenuta che nel giugno 2009 si suicidò al carcere di Borgata Aurelia impiccandosi con i suoi slip. Per la vicenda sono imputati per omicidio colposo la direttrice del carcere Patrizia Bravetti, lo psichiatra Paolo Badellino, la responsabile del settore femminile del penitenziario, Cecilia Ciocci, e il commissario facente funzione degli agenti di custodia Mario Celli. Nel corso del dibattimento, il Giudice ha ascoltato due consulenti neuropsichiatrici: uno d’ufficio e uno di parte per la difesa di Bravetti. Il discorso si è incentrato sulle modalità con cui la vittima è stata curata da parte del suo psichiatra e su quelle con cui la donna è stata trattenuta all’interno dell’istituto penitenziario, nonché sulla necessità che fosse messa in regime di trattamento sanitario obbligatorio. "La donna - spiega l’avvocato Francesca Maruccio, legale difensore di Ciocci - aveva un disturbo della personalità conclamato e perdurante nel tempo. Il suo diario clinico parlava per lei, e non dimentichiamo che aveva già tentato il suicidio prima di essere trasferita dal carcere di Rebibbia". Il Giudice ha aggiornato il dibattimento al prossimo 9 aprile, quando saranno sentiti i testimoni della difesa. Dal suo arresto, la donna era caduta in una sindrome depressiva, diagnosticata in "bipolare con disturbi borderline". Questa depressione aveva portato la donna a tentare il suicidio in altre due occasioni, la prima il 13 giugno 2009, quando gli agenti del penitenziario la trovarono con il filo dell’antenna stretto intorno al collo, la seconda appena tre giorni prima del suicidio, quando batté volontariamente la testa alla parete della cella. In entrambe le circostanze venne salvata all’ultimo momento. Una situazione che, secondo il pm Alessandro Gentile, titolare dell’indagine, meritava un controllo particolare verso quella detenuta, con un controllo a vista, mentre la prescrizione decisa dal penitenziario aveva previsto solo una "grande sorveglianza", con controlli ogni dieci minuti. Il sostituto procuratore ha chiuso le indagini e chiesto il rinvio a giudizio per la direttrice, i due agenti e lo psichiatra, che aveva in cura la trentunenne. Ora resta da attendere la decisione del gip sulla richiesta del pm. Bergamo: il Cappellano; vedo troppa paura e pregiudizi, la povertà chiama in causa tutti L’Eco di Bergamo, 16 febbraio 2014 Una scelta di coraggio. Minoritaria in partenza. "Una scelta per vincere la paura" che ci blinda nelle nostre case e ci paralizza nei nostri percorsi quotidiani. Don Fausto Resmini da oltre 30 anni ormai è la voce degli emarginati della stazione e del carcere. Dal suo particolare osservatorio vede una Bergamo sempre più spaventata, sempre meno disposta a mettersi in gioco per cercare di cambiare. E poi vede l’altra Bergamo, quella degli invisibili, dei senza casa, dei detenuti, il cui orizzonte è sempre più ristretto, e il cui futuro si è progressivamente ridotto, fino a scomparire. Divorato, quel futuro, "da un giudizio sociale imperante che riduce tutto a perdonismo, buonismo, assistenzialismo". Don Fausto è un uomo abituato a raccogliere le sfide, anche andando controcorrente. Oggi invita i cristiani bergamaschi a non stare alla finestra, a rischiare di più. Perché la situazione, dice, rischia di diventare insostenibile. Dentro il carcere. E anche fuori. Don Fausto, sta dicendo che non c’è speranza? "Carcere e strada sono un’umanità senza futuro. Un’umanità che chiede diritti, chiede accoglienza, chiede ascolto. Ma la situazione che stiamo vivendo è dominata dalla paura e dalla contingenza. Il dilagare della microcriminalità impedisce di pensare a delle risposte". Ma perché sostiene che c’è un vuoto di offerta? In strada ci sono i servizi di assistenza e il carcere è pieno, è vero, però ci sono anche tanti volontari, tanti operatori che si occupano dei detenuti... "Ma non basta che ci siano gli "addetti ai lavori" ai quali delegare i compiti. In questi anni credo che sia mancato il rapporto tra periferia e centro, tra le parrocchie e le realtà che svolgono i servizi. Forse abbiamo favorito anche un processo di rimozione che invece va evitato. Noi da soli possiamo fare poco, ma se pensiamo che la comunità cristiana c’è, e si mette in gioco accettando la sfida della diversità, è tutta un’altra cosa. Pensiamo ad esempio a cosa potrebbe succedere se ogni comunità si facesse carico dei detenuti che provengono dal proprio territorio". Sta dicendo che da soli non ce la fate più? "Sto dicendo che l’intera comunità cristiana deve farsi carico della situazione. Se la risposta è lasciata ancora alla città ci troveremo di fronte a situazioni molto difficili". Avellino: detenuti minacciano di incendiare la cella e feriscono quattro agenti www.cittadiariano.it, 16 febbraio 2014 Momenti di tensione e violenza nella Carcere di Ariano. Un gruppo di detenuti ubicati nella prima sezione sottoposti a circuito penitenziario riservato ai dimittenti in "sorveglianza dinamica", ha messo in atto una eclatante azione di protesta per mantenere nella propria camera un armadietto in più. I detenuti rivoltosi hanno occupato, poiché aperti nella sezione, la corsia del reparto con le proprie masserizie minacciando di dar fuoco a tutto, rivolgendo minacce al personale ed invitando alla rivolta. La protesta è durata parecchie ore e dopo una estenuante opera di convincimento dettata dal Personale in servizio, un detenuto di quelli più facinorosi è passato alle vie di fatto colpendo con pugni un agente al volto con inaudita violenza, il recluso ha continuato l’aggressione colpendo gli agenti che erano giunti in soccorso del collega. Quattro agenti hanno fatto ricorso alle cure sanitarie presso il pronto soccorso dell’Ospedale Frangipane, da dove sono stato dimessi con diverse prognosi per le lesioni riportate. - Solo grazie alla professionalità ancora una volta messa in campo dalla polizia Penitenziaria si è riusciti a ripristinare l’ordine ed evitare il peggio tutelando la sicurezza dell’intera struttura ed evitando che la protesta si diffondesse all’intero penitenziario. La solidarietà del Sappe è rivolta ai colleghi vittime dell’aggressione "ai quali auguriamo una rapida ripresa della propria integrità fisica ed un rapido ritorno al servizio". Imperia: detenuto picchia due poliziotti penitenziari, la denuncia del Sappe www.riviera24.it, 16 febbraio 2014 Tutto avrebbe avuto inizio da un atteggiamento "troppo affettuoso" tenuto da un detenuto con la propria compagna, motivo per cui era intervenuto l’assistente. Il carcere di Imperia. Un assistente e un agente della polizia penitenziaria sono stati aggrediti, stamani, da un detenuto, in carcere a Imperia, a margine di un colloquio con i familiari. A darne notizia è il sindaco autonomo della polizia penitenziaria, Sappe. Tutto avrebbe avuto inizio da un atteggiamento "troppo affettuoso" tenuto da un detenuto con la propria compagna, motivo per cui era intervenuto l’assistente. A quel punto, un secondo detenuto, presente in sala, interviene a difesa dell’altro carcerato e prende a pugni sia l’assistente che un agente accorso in suo aiuto. "Entrambi sono stati portati in ospedale - spiega il segretario generale aggiunto del Sappe, Roberto Martinelli - e a loro va la nostra solidarietà e vicinanza. Il grave è che il detenuto responsabile delle aggressioni si era già reso protagonista di altri eventi critici nel carcere di Imperia ed evidentemente si è sentito rincuorato dall’impunità per i suoi precedenti. Queste aggressioni sono intollerabili, tanto più se messe in atto da chi già ha colpito altri poliziotti". Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite... Sollecitiamo l’Amministrazione Penitenziaria a dare un direttore titolare al carcere di Imperia, ora diretto part time dal dirigente di Sanremo, e il Parlamento a rivedere il sistema dell’esecuzione penale il prima possibile, altro che vigilanza dinamica nelle galere." "La situazione, a Imperia e nelle carceri italiane, resta grave: ma va detto che il Parlamento ignora colpevolmente il messaggio del Capo dello Stato dell’8 ottobre scorso, che chiedeva alle Camera riforme strutturali per il sistema penitenziario a fronte dell’endemica emergenza che tra l’altro determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria", prosegue il sindacalista dei Baschi Azzurri. "Addirittura il Capo del Dap Tamburino, che nostro malgrado è anche Capo della Polizia Penitenziaria, ha avuto l’ardire di sostenere che l’Italia non sarà in grado di adottare entro il prossimo maggio 2014 quegli interventi chiesti dall’Unione Europea per rendere più umane le condizioni detentive in Italia. E le aggressioni ai poliziotti sono all’ordine del giorno". A Imperia erano detenute, il 31 gennaio scorso, 107 persone rispetto ai 69 posti letto regolamentari: circa il 60% i ristretti stranieri. Martinelli torna a sottolineare le criticità dei poliziotti che lavorano nelle carceri italiane: "Il nostro organico è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno cancellato le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo". Immigrazione: Cie di Roma Ponte Galeria, altri due rimpatriati, interrotto sciopero fame Adnkronos, 16 febbraio 2014 Al Cie di Ponte Galeria a Roma altri due immigrati sono stati rimpatriati, all’indomani del rimpatrio di due dei 13 marocchini che nei giorni scorsi si erano resi protagonisti della protesta delle bocche cucite contro le condizioni e i tempi di permanenza nel centro. È quanto si apprende all’ufficio del garante dei detenuti del Lazio. I due immigrati rimpatriati oggi sono un algerino che non aveva partecipato alle proteste, e un marocchino, Hassan, che aveva manifestato cucendosi la bocca. Intanto, ieri sera, è stato interrotto lo sciopero della fame nel Cie, dove una quarantina di stranieri durante la giornata non avevano ritirato i pasti. Immigrazione: "Mai più Cie", in 5mila manifestano fin sotto le mura di Ponte Galeria di Valerio Renzi Il Manifesto, 16 febbraio 2014 "Mai più Cie", questo lo slogan che ha portato ieri più di 5mila persone fin sotto le mura del Centro d’identificazione ed espulsione romano di Ponte Galeria. In piazza i movimenti per il diritto all’abitare, le scuole d’italiano e le rete antirazziste, centri sociali, associazioni e collettivi studenteschi, esponenti di Rifondazione comunista e del sindacalismo di base. "Quello di oggi è un corteo meticcio - spiega Irene dei Blocchi Precari Metropolitani - è un movimento che fa paura, lo dimostrano gli arresti che abbiamo subito proprio a ridosso di questa giornata e il clima di tensione che la polizia sta creando. Non abbiamo paura". Le forze dell’ordine hanno sequestrato il camion che doveva aprire la manifestazione, fermando e denunciando i due conducenti per la presenza a bordo di uno striscione montato su dei pannelli di plexiglass. Il corteo è avanzato lento, scandito da slogan in lingue diverse lungo via Portuense, in questo lembo di periferia suburbana romana tra campi e palazzi, dove il Cie è stato sistemato lontano da sguardi indiscreti. In testa un gruppo di donne tunisine, con in mano le foto dei loro ragazzi persi nel Mediterraneo, raccontano la loro storia di migrazione, il dolore di avere perso i propri figli a causa di una barriera virtuale che divide un mare, la dignità di chi chiede verità e giustizia. Intanto nel Cie di Ponte Galeria continua il rimpatrio del gruppo di nord africani che nelle scorse settimane si sono cuciti le bocche e hanno portato avanti lo sciopero della fame. Da Lampedusa sono stati reclusi nel Cie capitolino, e il loro destino sarà un volo che li riporterà al punto di partenza del viaggio, dall’altra parte delle mura della fortezza Europa. "Chiediamo il blocco immediato dei rimpatri per tutti e la chiusura di queste che sono vere e proprie galere etniche - dichiara Cecilia del Laboratorio Puzzle - queste strutture devono diventare un ricordo del passato per un’Europa senza barriere, per cancellare la Bossi-Fini, senza tornare alla Turco-Napolitano che istituì questi luoghi, quando ancora si chiamavano Cpt". All’arrivo alle mura del Cie, presidiate da un’ingente schieramento di forze dell’ordine in assetto antisommossa, cresce la tensione e la rabbia. Un gruppo di alcune centinaia di giovani, coperti da fazzoletti, cappucci e dal fumo di decine di fumogeni colorati, aggancia dei rampini alla rete che circonda il Centro. Pochi secondi e la rete cade tra gli applausi. La polizia presa alla sprovvista si posiziona sul varco di decine dimetri aperto nella recinzione. Accenna una carica lanciando qualche lacrimogeno, dall’altra parte la risposta con un fitto lancio di petardi, bottiglie e torce. Ancora una decina di minuti di tensione e il corteo prosegue fino al piazzale antistante l’ingresso. Intanto, nei momenti di silenzio si sentono, le urla da dentro "libertà, libertà". La piazza risponde facendo salire in aria lanterne cinesi e fuochi d’artificio per farsi vedere oltre i muri. "Quasi tutti i Cie d’Italia sono stati chiusi dalla determinazione delle lotte dei migranti reclusi che in alcuni casi gli hanno rasi praticamente al suolo - dichiara Giansandro di Esc Infomigrante - Oggi avevamo detto che sarebbe stata una giornata determinata e così è stato. Ma questo corteo è solo un momento di un percorso che ci deve portare a chiudere davvero e per sempre tutte queste strutture, è una battaglia che questo movimento può vincere". Oggi altra manifestazione: fuori il Cara di Mineo: "Il luogo che è diventato il più grande centro di segregazione umana d’Europa - scrivono i promotori - con oltre 4mila persone, il doppio della capienza originaria, appartenenti ad oltre 50 gruppi etnici differenti africani e asiatici, rimangono posteggiati in maniera umiliante, in attesa, lunghissima, anche oltre un anno e mezzo, per il riconoscimento del diritto d’asilo". Droga: Presidente Regione Toscana Rossi; la Fini-Giovanardi ha creato sofferenze inutili Redattore Sociale, 16 febbraio 2014 Il presidente della regione Toscana Rossi critica la legge bocciata dalla corte costituzionale: "Ha riempito le carceri. Serve dibattito non solo dal punto di vista terapeutico, ma anche etico". "La legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere è una legge che ha riempito le carceri e creato sofferenze inutili su ragazzi e poveracci". Lo ha detto il presidente della regione Toscana Enrico Rossi in una nota. Sul tema, ha detto il governatore, "credo che sia opportuno confrontarsi sul tema cannabis medica da un punto di vista non solo terapeutico ma anche etico. La giunta ha di recente approvato (nel dicembre 2013) un regolamento attuativo della legge del 2012 mirato a garantire un uso appropriato del prodotto cannabis. So che su questo testo e sulla sua corrispondenza con i contenuti della legge regionale ci sono valutazioni critiche. Il messaggio che voglio mandare oggi, in occasione di questo incontro, è anche quello di una disponibilità ad un confronto serio e aperto su questo tema". Cannabis terapeutica, tema di grande attualità "Una iniziativa importante l’incontro sulla Canapa medica, organizzato oggi in Consiglio regionale, a cui mi dispiace non poter partecipare. L’uso terapeutico della cannabis è un tema di grande attualità, che la Regione Toscana ha affrontato da tempo. Condivido pienamente i contenuti della proposta di legge del senatore Manconi. Anche noi come Regione, dal maggio 2012, disponiamo di una legge che accelera le procedure di ottenimento dei farmaci a base di cannabis". Così il presidente Enrico Rossi sull’incontro organizzato nel pomeriggio di oggi da Enzo Brogi, cofirmatario della legge regionale, per presentare il libro di Fabrizio Dentini, "Canapa medica, Viaggio nel pianeta del Farmaco ‘proibitò ", con la partecipazione di Luigi Manconi, proponente di un disegno di legge nazionale depositato in Senato e del medico toscano Fabrizio Cinquini, sperimentatore dell’uso terapeutico della sostanza, arrestato l’estate scorsa per coltivazione di cannabis. "Anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale - aggiunge Rossi - che ha cancellato la legge Fini-Giovanardi per le droghe leggere, una legge che ha riempito le carceri e creato sofferenze inutili concentrate su ragazzi e poveracci, credo che sia opportuno confrontarsi sul tema cannabis medica da un punto di vista non solo terapeutico ma anche etico. La giunta ha di recente approvato (nel dicembre 2013) un regolamento attuativo della legge del 2012 mirato a garantire un uso appropriato del prodotto cannabis. So che su questo testo e sulla sua corrispondenza con i contenuti della legge regionale ci sono valutazioni critiche. Il messaggio che voglio mandare oggi, in occasione di questo incontro, è anche quello di una disponibilità ad un confronto serio e aperto su questo tema". India: il caso dei marò e quel processo che non arriva mai di Luigi Cancrini (psichiatra e psicoterapeuta) L’Unità, 16 febbraio 2014 Il caso dei due marò desta, a mio avviso, preoccupazioni più che legittime nel governo e nell’opinione pubblica italiana. Corrette e pertinenti le domande del nostro lettore sono domande, infatti, cui in un Paese diverso dall’India di oggi si sarebbe risposto (o si sarebbe, almeno, cominciato a rispondere) con un processo. In Tribunale. Esibendo e discutendo le prove fornite dall’accusa e dalla difesa. Alla ricerca di una verità probabilmente non semplice ma sicuramente non impossibile da ricostruire. Quello che non è accettabile, per i marò italiani come per tanti altri supposti autori di reato, è una carcerazione preventiva di questa durata e la girandola di complicazioni giudiziarie, variamente e incertamente condizionate da problemi di opportunità politica in un Paese vicino a un’importante scadenza elettorale, in cui si è inceppata finora la preparazione del processo che tutti stanno ancora aspettando. È da questo punto di vista che l’India si sta comportando in modo maldestro e ingiusto. Anteporre la questione del supposto e davvero difficile da immaginare "terrorismo" dei due militari italiani alla ricerca della verità processuale è contrario a tutte le norme del diritto internazionale e rende più che legittima, a mio avviso, la protesta dei due marò e quella unitaria dell’Europa e del governo italiano. Stati Uniti: bianco uccise 17enne nero per musica alta, condanna solo per tentato omicidio La Presse, 16 febbraio 2014 La giuria non è riuscita a decidersi sull’accusa principale e così Michael Dunn, l’uomo bianco che nel 2012 uccise il 17enne di colore Jordan Davis nel parcheggio di un minimarket in Florida per una disputa sul volume alto dell’autoradio, è stato condannato solo per tre capi di imputazione di tentato omicidio di secondo grado e per l’accusa di sparare su un’auto occupata. Processo annullato, invece, per l’accusa di omicidio di primo grado. Dunn uccise Jordan Davis sparando all’interno del suv del ragazzo dopo avere chiesto di abbassare il volume dell’autoradio e dentro l’auto si trovavano anche altri tre giovani, rimasti però illesi; da qui le tre accuse di tentato omicidio. La decisione dei 12 giurati è giunta dopo oltre quattro giorni di deliberazioni: ieri sera, in una nota al giudice Russell L. Healey, avevano fatto sapere che non riuscivano ad accordarsi sull’accusa principale di omicidio, ma il giudice aveva ordinato di procedere con il lavoro e loro erano tornati in camera di consiglio per altre due ore, prima di venire fuori con la sentenza di colpevolezza. Per ogni accusa di tentato omicidio di secondo grado Dunn rischia un massimo di 30 anni di carcere, mentre per la quarta accusa ne rischia al massimo 15. La data della sentenza, quella cioè in cui verrà indicata l’entità della pena, è ancora da stabilire e sarà decisa in un’udienza il mese prossimo. Il caso è stato seguito con molta attenzione negli Stati Uniti e viene spesso accostato all’omicidio di Trayvon Martin, il 17enne afroamericano ucciso il 26 febbraio del 2012 dal vigilante George Zimmerman a Sanford, in Florida, davanti a un negozio dove il ragazzino aveva comprato un pacco di caramelle. Per quell’omicidio Zimmerman è riuscito a fare valere la tesi che si fosse trattato di legittima difesa ed è stato assolto il 14 luglio scorso. Per questo, in attesa della sentenza sull’omicidio di Jason Davis, molti dei manifestanti che si erano radunati davanti al tribunale portavano cartelli sui quali si leggeva Duval, not Sanford, in riferimento al fatto che la Corte di Jacksonville, competente per la contea di Duval, non si sarebbe comportata come la giuria di Sanford, che aveva deciso l’assoluzione per l’omicidio di Trayvon. Diverse le analogie fra il caso di Trayvon Martin e quello di Jason Davis: entrambi omicidi in cui la vittima è un 17enne di colore, nel primo caso ucciso da un ispanico e nel secondo da un uomo bianco; entrambi omicidi avvenuti in Florida nel parcheggio di un supermercato, l’uno a Sanford e l’altro a Jacksonville; in entrambi i casi gli imputati hanno sostenuto di avere sparato solo per autodifesa. E ieri, nelle ore di attesa della sentenza, i genitori di Trayvon hanno espresso il loro sostegno a quelli di Jordan Davis. Indipendentemente dalla sentenza, si leggeva nella dichiarazione dei genitori di Trayvon, i genitori di Jordan Davis non rivedranno più il figlio. Si tratta di "un altro promemoria del fatto che in Florida gli stereotipi razzisti" potrebbero servire da base per illegittimi timori "e sparatorie e uccisioni dei nostri ragazzi". La tesi difensiva è che Michael Dunn abbia sparato per autodifesa. Il 47enne ha infatti testimoniato di essersi visto puntare una pistola dall’interno del suv di Davis quando la discussione si è scaldata. Fatto sta, però, che nel veicolo non è mai stata ritrovata alcuna arma. L’uomo ha detto ai giurati di avere temuto per la sua vita, percependo un "chiaro e presente pericolo". Dunn, che aveva il porto d’armi, ha sparato allora 10 colpi, raggiungendo il veicolo nove volte e colpendo solo Davis. Diversa naturalmente la versione dell’accusa, che è ben sintetizzata da quanto detto questa settimana alla giuria dal vice procuratore dello Stato, John Guy: "Jordan Davis non aveva un’arma, aveva una grande bocca" e "l’imputato non ha sparato dentro l’auto per salvarsi la vita, ma per salvare il suo orgoglio". Stando alla versione della procura, insomma, Dunn avrebbe aperto il fuoco perché ha avvertito una mancanza di rispetto da parte di Jason Davis. Pare infatti che Dunn avesse chiesto ai ragazzi di abbassare il volume della musica proveniente dall’auto ma, dopo avere inizialmente acconsentito alla richiesta, Davis abbia fatto rialzare il volume ai suoi amici. L’uomo era parcheggiato nel posto accanto a quello del suv e, secondo le autorità, Dunn si sarebbe infuriato e sarebbe sorta una lite. Una persona che usciva dal minimarket ha testimoniato di avere sentito Dunn che diceva: "Tu non mi parli in questo modo". E lo stesso Dunn ha testimoniato di avere sentito qualcuno che dal suv gridava parolacce e anche la parola "cracker", cioè "poveraccio", un insulto usato nello slang per offendere le persone bianche. Al momento della lettura della sentenza Michael Dunn non ha mostrato alcuna emozione. Il suo avvocato, Cory Strolla, riferisce che era scioccato. "È incredulo", ha detto Strolla. "Mentre era seduto accanto a me diceva: "Com’è possibile che stia succedendo?", ha aggiunto. Commossa invece la reazione dei genitori di Jason Davis, che hanno lasciato il tribunale in lacrime. La madre, Lucia McBath, ha espresso gratitudine per la sentenza. "Siamo così grati per le accuse che sono state portate avanti contro di lui", ha detto la donna. "Siamo così grati per la verità e per il fatto che i giurati siano stati in grado di capire il senso generale di tutta la vicenda", ha aggiunto. Poi il padre del ragazzo, Ron Davis, sulla pena potenzialmente lunga che rischia di scontare Dunn ha detto: "Imparerà che deve provare rimorso per l’uccisione di mio figlio e che non è stato solo un giorno come un altro in ufficio". Michael Dunn ha intenzione di presentare ricorso, puntando per esempio su come sia possibile che la giuria abbia raggiunto un verdetto di colpevolezza su quattro capi di imputazione e sia invece finita in stallo su un altro. Il procuratore di Stato Angela Corey, dal canto suo, ha fatto sapere che prenderà in considerazione l’ipotesi di chiedere a questo punto un nuovo processo per Dunn per l’accusa di omicidio di primo grado, cioè quella sulla quale la giuria non ha raggiunto l’accordo. Silenzio stampa da parte dei giurati. Il processo per l’omicidio di Jason Davis è stato istruito dalla stessa procura che ha gestito il caso Zimmerman, cioè l’omicidio di Trayvon Martin.