Giustizia: dall’indulto allo svuota-carceri, una "emergenza"... che dura da dieci anni ?Gazzetta del Sud, 15 febbraio 2014? Sovraffollamento, evasioni, episodi di violenza ed autolesionismo fino al suicidio. È il quadro, vergognoso, della vita nelle carceri italiane. L'Italia rischia una multa salata da parte dell'Europa, se non risolverà urgentemente l'emergenza. Come? Svuotando le carceri, ad esempio. Ed infatti è attualmente al vaglio del Senato il decreto conosciuto come "svuota-carceri". Il Senato lo dovrà approvare entro il 21 febbraio. Se ciò non accadrà esso decadrà dopo essere stato approvato alla Camera (il 6 febbraio scorso). E se accadrà? Circa 3mila detenuti potranno lasciare l’istituto di pena. E una volta che l’avranno fatto? Come evitare che ritornino a delinquere? L’indulto del 2006 Prima dell`indulto del 2006 (Governo Prodi) i detenuti negli istituti di pena italiani erano 61.400. Con il provvedimento di clemenza, a partire dal luglio 2006, abbandonarono il carcere 26mila detenuti definitivi con una pena residua non superiore a tre anni. Ma per i quattro anni successivi, il ritmo di crescita delle presenze rimase molto elevato, con una media di oltre 7mila unità in più ogni anno, fino a giungere a un picco di oltre 69mila detenuti nel 2009, 30mila in più di quelli presenti dopo l`applicazione dell`indulto. In conclusione: dopo aver svuotato velocemente le carceri, l’indulto finì col riempirle nuovamente, ed ancora più di prima, probabilmente perché gli ex detenuti, trovatisi alle prese con la "vita di fuori", non trovarono le giuste condizioni di reinserimento. La situazione attuale Quale sia la situazione carceraria oggi l’ha riferito recentemente la ministra alla Giustizia Annamaria Cancellieri nella sua relazione alla Camera sullo stato della giustizia in Italia nel 2013. Al 9 gennaio 2014, i detenuti in carcere erano 62.326. Ma le carceri sono cronicamente piene anche perché la giustizia italiana è cronicamente lenta. Alla data del 30 giugno 2013 si contavano 5.257.693 processi pendenti in campo civile e quasi 3 milioni e mezzo in quello penale, ha riferito Cancellieri. I detenuti che potrebbero usufruire oggi dell’indulto sono 3 o 4mila. A questi vanno aggiunti i circa 10mila detenuti che lasceranno il carcere in seguito all’abolizione da parte della Corte Costituzionale di due articoli della legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere. Qual è il rischio, con questi numeri? Che non siano state previste misure per il "dopo" e che, non trovando una propria collocazione nel "mondo", queste persone, una volta fuori dagli istituti di pena, in mancanza di alternative, si rivolgano nuovamente agli ambienti della criminalità. E facciano ritorno in carcere. Come e più di prima. Il decreto svuota-carceri Il decreto è stato approvato alla Camera lo scorso 6 febbraio (296 i voti a favore, 183 i contrari e due gli astenuti) ed attende solo l’ok del Senato per essere convertito in legge. Le principali novità: 1) Viene introdotto come regola il braccialetto elettronico dal giudice che dispone gli arresti domiciliari, salvo casi particolari; questo alleggerirà anche il lavoro delle forze dell’ordine e scoraggiare l’evasione. 2) Per reati inferiori ai 18 mesi, il condannato può scontare la pena a casa propria, anche in caso di parte residua della condanna. Fanno eccezione coloro che si sono macchiati di reati gravi e coloro per i quali è acclarato il pericolo di fuga. 3) Per ogni sei mesi di pena inflitta, sale a 75 giorni la "detrazione" prevista nell’ambito delle liberazioni anticipate (oggi è di 45 giorni). Non possono usufruire dello sconto, i condannati per mafia e per delitti gravi come omicidio, violenza sessuale, rapina aggravata ed estorsione. 4) Il limite per l’affidamento in prova ai servizi sociali è aumentato a quattro anni. 5) Per i detenuti, nasce la figura del "garante nazionale", composto da tre membri esperti in carica per cinque anni senza possibilità di rinnovo del mandato. Compito del garante è vigilare sul rispetto dei diritti umani nelle carceri e trasmettere al Parlamento una relazione sul suo operato che prevede accesso libero a strutture carcerarie e alla consultazione di documenti e richiesta di informazioni. 6) Droghe: lo spaccio lieve diventa reato lieve. Viene anche meno il divieto di disporre per più di due volte l’affidamento terapeutico al servizio sociale dei condannati tossico/alcool dipendenti. Ai minorenni tossicodipendenti accusati per piccolo spaccio sono applicabili le misure cautelari con invio in comunità. 7) Espulsione stranieri: oltre ai condannati che devono scontare due anni, rientrano anche quelli che hanno commesso un delitto previsto dal testo unico sull’immigrazione (condanna inferiore ai due anni), per rapina o estorsione aggravate. Si velocizza la procedura di identificazione finalizzata, eventualmente, all’espulsione. Giustizia: sistema-carcere in crisi, mettere mano al portafoglio per non farlo alla coscienza di Claudia Osmetti Libero, 15 febbraio 2014 Ciascun detenuto deve disporre di almeno sette metri quadrati di "spazio vitale". Lo ha stabilito pochi giorni fa il tribunale di Sorveglianza di Venezia accogliendo parzialmente i reclami di natura giurisdizionale che erano stati presentati da una quindicina di detenuti. Ma non è tutto. Già, perché se non si adeguerà alla misura prevista dall’ordinanza, il carcere del capoluogo veneto, Santa Maria Maggiore, dovrà risarcire personalmente ogni detenuto: cento euro a testa e al giorno. Non proprio bruscolini se si tiene conto che di carcerati lì ce ne sono 253 - per una capienza di 168 posti. Conti alla mano, e se tutti presentassero un reclamo del genere, in un anno il carcere dovrebbe pagare, solo di indennizzo ai propri detenuti, quasi un milione di euro di indennizzo ai detenuti. Il pronunciamento in questione è previsto dal decreto svuota-carceri, quello per cui tanto ha fatto il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e che è appena stato approvato dalla Camera. Di fronte all’inosservanza dell’amministrazione che arreca un "attuale e grave pregiudizio" nei confronti dei diritti dei detenuti, infatti, può adesso essere presentato un reclamo formale che (sommandosi a quello ordinario) aziona, automaticamente, il procedimento di fronte al tribunale di Sorveglianza. Cosa che hanno fatto i carcerati veneti denunciando la situazione di sovraffollamento nella prigione di Santa Maria Maggiore. Per la verità i magistrati di Venezia non hanno fatto altro che recepire le disposizioni europee: è stato il Consiglio d’Europa, infatti, a garantire come soglia minima in una cella la superficie di 7 metri quadrati a persona. I giudici hanno invece respinto altre richieste sollevate dai detenuti, nello specifico: quelle relative all’illuminazione naturale, al bagno chiuso, alla possibilità di trascorrere otto ore fuori dalla cella. Ma in ogni caso con questa decisione si crea un precedente importante. Che potrebbe avere ricadute sul sistema carcerario - e dunque sulla finanza pubblica - non di poco conto. Le carceri italiane sono quasi tutte fuori norma dal punto di vista del sovraffollamento. Basta citare a caso: nel luglio scorso la casa circondariale di Regina Coeli a Roma ospitava 1.250 detenuti a fronte di 750 posti previsti, la prigione napoletana di Poggioreale aveva registrato 2.640 detenuti contro una capienza regolamentare di 1.503 posti (ottobre 2013), mentre al carcere milanese di San Vittore le cose non vanno meglio: il posto per detenuto (aggiornato al novembre 2013) nella prigione più famosa del capoluogo lombardo è pari a un metro quadro. Viene dunque spontaneo chiedersi quanto verrebbe a costare l’estensione di questo provvedimento veneziano al resto delle carceri italiane. Dare una stima certa è difficile, ma indovinare l’ordine delle cifre è facilmente intuitivo: parliamo di milioni. Milioni che si potrebbero risparmiare: adeguandosi alle indicazioni di Bruxelles che ricordano fin troppo spesso come le nostre prigioni violino i diritti dei carcerati (non ultima la sentenza Torreggiani con la quale la Cedu ha condannato l’Italia per il trattamento disumano e degradante riservato ai detenuti nelle nostre prigioni e che tra soli 103 giorni farà scattare l’ennesima mora). Secondo il deputato Ncd Alessandro Pagano (interrogato sulla questione dal Fatto pochi giorni fa) quella che potrebbe diventare presto un’azione collettiva dei carcerati porterebbe a un esborso complessivo di 365 milioni di euro, ossia la stessa cifra stanziata per il piano carcerario: "Una follia per le casse dello Stato". Vien da pensare che converrebbe buttar giù qualche muro in più. Ma cosa succederà nello specifico a Venezia? Il Ministero ha 15 giorni per impugnare le ordinanze tramite l’Avvocatura dello Stato, altrimenti la decisione passerà in giudicato, come si dice, e l’amministrazione dovrà scegliere: o adeguare le celle o pagare l’indennizzo. Con una puntualizzazione da fare: il decreto svuota-carceri dice espressamente di essere "senza ulteriori spese a carico dell’amministrazione". Insomma, il rischio (più che mai concreto) è che questa ordinanza rimanga inattuata. Giustizia: piano-carceri, parla Angelo Sinesio "al Dap appalti riservati per un miliardo" di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014 Nessuna "matematica creativa": e se c’è, "è da imputare alla direzione dei beni e servizi". Le consulenze? "Abbiamo tagliato il 70 per cento delle spese". Il piano carceri di Sabella? "Secondo il capo del Dap Giovanni Tamburino ha riproposto moduli di sconfortante piattezza". Denunciato dall’ex pm antimafia Alfonso Sabella, il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Angelo Sinesio si difende con una memoria depositata in commissione Giustizia e rilancia: "Per 11 anni l’espressione "riservata" è stata utilizzata non solo per l’esecuzione delle gare, ma anche per la procedura. Se si cerca nel sito del Dap non si troverà una sola gara. In questo modo è stato gestito oltre un miliardo di euro, noi abbiamo dato un segnale di discontinuità". Sabella l’accusa di avere alterato le cifre del piano carceri… L’incremento di 3.000 nuovi posti è stato fatto su richiesta del Dap. Nessuno ha gonfiato il numero di posti, nessuno si è appropriato di meriti altrui. Il Commissario è servente, non ha un quadro delle esigenze: chi stabilisce quali lavori fare è l’amministrazione penitenziaria. Improvvisamente, nel luglio scorso, il consigliere Sabella ha raccolto i documenti dal nostro sito, dove si possono leggere le mie controdeduzioni, e ha scritto l’esposto: lo avrebbe potuto fare qualsiasi cittadino, era tutto in Internet. Detto questo, io sono tranquillo. C’è un prestanome di un’azienda trovato in possesso di quadri rubati… Erano tutte aste pubbliche aggiudicate da Commissioni a cui io non ho mai partecipato. La storia del prestanome l’ho appresa dal giornale, non ne potevo sapere nulla, io ho chiesto la documentazione necessaria, tra cui il certificato antimafia e me lo hanno trasmesso. Lei è sempre stato molto vicino al Guardasigilli Annamaria Cancellieri, al punto da essere considerato il suo "braccio destro". Pensa allora di essere stato danneggiato per questo, in questa vicenda? Quando si ha un rapporto stima e di fiducia ci sono oneri e onori. Ritengo che oggi sia lei la danneggiata. Dieci anni trascorsi a occuparsi di sicurezza nazionale hanno creato intorno al funzionario Sinesio un alone di mistero. Ha lavorato per i servizi segreti? Sono stato dipendente dei servizi. Mi presentò Paolo Borsellino, quando chiuse l’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, dove lavoravo, Borsellino disse: questa professionalità non la possiamo perdere. Che fa, si ripara dietro l’amicizia con il giudice ucciso in via D’Amelio? Per nulla. Con lui avevo un rapporto di amicizia, come ha ammesso la stessa pm Alessandra Camassa. Ero tra i pochi a conoscere la sua avversione per la Procura Nazionale Antimafia, e lo dissi a Ilda Boccassini, quando mi interrogò. Ma non venni mai chiamato in aula. E, ripeto, fu Borsellino a portarmi ai servizi, dove ho conosciuto Contrada, che ho incontrato tre sole volte in vita mia. Non solo, sono stato uno dei due funzionari dello Stato a essere chiamato come testimone d’accusa contro Contrada, al processo in cui venne condannato per mafia. Non capisco di che cosa avrebbe dovuto vergognarsi il ministro della Giustizia a prendere me. E dopo la morte di Borsellino le fu chiesto perché aveva confidato a Tonino De Luca, che la rivelò a Contrada, la notizia che il pentito Mutolo stava parlando di lui, confidenza fattale dalla pm Camassa? Nessuno mi ha mai sospettato di nulla, non sono mai stato indagato e la mia posizione non è mai stata archiviata contrariamente a quanto è stato sostenuto. La stessa Camassa escluse che potessi essere io l’amico che aveva tradito Borsellino. Io ho solo riferito la notizia al mio superiore gerarchico, De Luca e sono stato io a raccontare l’episodio ai pm Scarpinato e Morvillo. Quella con Camassa fu una discussione franca, mi invitò lei a Pizzolungo e non aveva riserve nei miei confronti. Lì abbiamo parlato di tutto, e ricordo che lei era insistente su Mannino. A un certo punto ho avuto un giramento di stomaco e sono andato a vomitare, ma non avevo un telefono. Che lei e suo marito abbiano riferito anni dopo quella circostanza in termini diversi da come era stata accertata mi lascia perplesso. Giustizia: Pannella; Renzi è contro l’amnistia… come fa Napolitano a dargli l’incarico? Public Policy, 15 febbraio 2014 "Noi non possiamo adesso presentarci alle elezioni europee perché sono negate le condizioni del presentarsi", anche perché adesso Napolitano dovrà "dare l’incarico a un leader divenuto tale perché una campagna massiccia nelle primarie a suo favore lo ha creato premier, con un sistema tipicamente antidemocratico, demagogico, populista". Lo dice durante una conferenza stampa alla Camera il leader dei Radicali, Marco Pannella. Con le sue prese di posizione contro l’amnistia, il leader Pd Matteo Renzi, che secondo Pannella è "furbo e bravo", avrà infatti al suo fianco "tutta la realtà pregressa creata in Italia, antidemocratica, che gli farà da trombetta. Ma se Napolitano ritiene un obbligo intervenire sulle carceri (con provvedimenti come l’amnistia; Ndr), come fa a dare l’incarico a chi punta sulla carta opposta a quella?", dice ancora il leader radicale. Milano: Sappe; detenuto 50enne in attesa giudizio si suicida nel carcere di Opera Adnkronos, 15 febbraio 2014 Nuovo suicidio nelle carceri. Un uomo detenuto presso la Casa di Reclusione di Milano Opera, C. I., di circa 50 anni, "in attesa di primo giudizio per omicidio e lesioni, detenuto nel primo padiglione della casa di reclusione di Milano Opera, è stato trovato dall’agente in servizio in una pozza di sangue, durante il giro di routine all’interno della sezione". È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. "Immediati sono stati i soccorsi - prosegue il leader dei baschi azzurri del Sappe - ma il detenuto si era autolesionato in parti vitali e nulla si è potuto fare se non constatarne il decesso da parte del sanitario di turno. Nulla ha fatto presagire l’insano gesto dell’uomo il cui comportamento risultava corretto sia nei confronti degli altri detenuti sia verso il personale di Polizia Penitenziaria". "Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria - rimarca Capece - con le criticità che l’affliggono, non si è riusciti ad evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere nella propria cella". Il Sappe sottolinea che "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16.000 tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". Capece torna a puntare il dito contro le criticità delle carceri italiane: "Nei 206 penitenziari del Paese -spiega- il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici ma il Capo del Dap, Giovanni Tamburino, alza le mani di fronte alla sentenza Torreggiani". "Il nostro organico è sotto di 7.000 unità - conclude il Sappe - la spending review e la legge di Stabilità hanno cancellato le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggiri sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo". Livorno: il carcere è una "discarica sociale", la denuncia del Garante Marco Solimano www.today.it, 15 febbraio 2014 La denuncia del Garante dei detenuti Solimano: "Situazione drammatica e molti di loro non dovrebbero stare dentro". Un piatto di insalata e wurstel per pranzo, su un tavolino a 30 centimetri dal wc. Niente acqua calda, la muffa che copre ogni lembo di intonaco e un’unica doccia da dividere in 40. Sono le "camere di pernottamento" e dovrebbero essere adibite a questo. Invece sono più 160 detenuti a viverci, tutto il giorno chiusi in celle da undici metri quadrati, dove sono ristetti in quattro. A denunciare questa drammatica situazione è Marco Solimano, garante dei detenuti della città toscana, che definisce il carcere Sughere una "discarica sociale". In questo istituto penitenziario oltre il 57% dei detenuti è migrante e il 40% tossico dipendente: "Molti di loro non dovrebbero neppure essere lì - spiega Solimano che insieme agli avvocati Vinicio Vannucci e Marco Talini, in rappresentanza della Camera Penale di Livorno sono stati in visita al carcere. "Parliamo di reati minori, come quelli legati all’abuso di sostanze" spiega il garante dei detenuti. Molti dei detenuti sono ristretti per provvedimenti di custodia cautelare e sono in attesa del processo sul loro destino. Insomma anche il carcere di Livorno subisce il dramma del sovraffollamento. Misure alternative e di recupero, nei rari casi in cui viene effettuato, garantisce l’abbassamento delle probabilità della recidiva. Intanto sarebbe già assegnata la gara d’appalto per la ristrutturazione dei due padiglioni carcerari chiusi dal 2011, i cui lavori dovrebbero partire a giugno. Pistoia: il Garante regionale Corleone; 117 detenuti, situazione di grave sovraffollamento Adnkronos, 15 febbraio 2014 "La visita di oggi ha messo in luce una realtà difficile. Sono 117 i detenuti presenti nella casa Casa Circondariale di Pistoia, una struttura la cui capienza regolamentare non dovrebbe superare le 74 unità". A dichiararlo è il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, che ha svolto questa mattina, accompagnato dal Garante dei detenuti di Pistoia, Antonio Sammartino, una visita al Carcere di quella città. Nel corso della visita è emerso che a Pistoia i detenuti di origine straniera sono il 50 per cento della popolazione carceraria, mentre un detenuto su tre si trova recluso per violazione della legge sugli stupefacenti. "La direzione del carcere è fortemente impegnata nel migliorare sia la vivibilità degli spazi detentivi, sia il complesso delle iniziative rieducative, anche in sinergia con il territorio e il volontariato", ha affermato Corleone. "Permane tuttavia una situazione generalizzata di sovraffollamento, soprattutto per un certo numero di celle oggi occupate, in modo inaccettabile, da tre letti. Questa realtà richiede un intervento urgente di sfollamento e l’adozione di misure alternative come la detenzione domiciliare e l’affidamento in Comunità per i detenuti tossicodipendenti secondo quanto previsto dal protocollo stipulato tra la Regione e il Ministero della Giustizia". L’apertura della struttura esterna, già individuata e sostanzialmente pronta, struttura che dovrebbe essere adibita a sezione per la semilibertà, dovrebbe migliorare in modo notevole, secondo Corleone, le condizioni di vita nell’Istituto. Napoli: Caputo (Regione); nel carcere di Poggioreale una situazione sanitaria disastrosa www.campanianotizie.com, 15 febbraio 2014 "Situazione allarmante al carcere di Poggioreale, 2.630 detenuti in una struttura che ne può ospitare massimo 1.500, liste d’attesa lunghe anni, problemi per l’approvvigionamento di farmaci". È quanto è emerso dalla prima tappa effettuata dalla Commissione Trasparenza e Controllo Atti nell’ambito dell’iniziativa di verifica dei livelli di assistenza sanitaria nelle carceri campane. Con Nicola Caputo presidente della Commissione hanno preso parte alla visita i consiglieri regionali Giulia Abbate (segretaria della commissione) ed Enrico Fabozzi oltre ai funzionari Uoc Tsip dell’Asl Napoli 1. "Quello che ci ha più colpito sono le lunghissime liste d’attesa per una visita specialistica, i dati ci sono stati forniti dallo stesso direttore sanitario del penitenziario. Per una visita di un otorino ci sono in lista in questo momento 179 persone il primo aspetta dall’8 aprile 2013, stessa situazione per ortopedia e pneumologia. Inoltre manca la specialistica per neurologia, ortopedia ed endocrinologia, c’è la fisioterapia ma manca il fisioterapista". "Anche in questo istituto come a Secondigliano abbiamo costatato livelli assistenziali insoddisfacenti, con tempi lunghissimi per le visite specialistiche, carenza di personale e l’assenza di un rapporto di continuità assistenziale tra i sanitari e i detenuti. Complessivamente il personale medico ed infermieristico presente è insufficiente per una popolazione carceraria che sfiora le tremila persone, una situazione di così grave sovraffollamento contiene anche un elevato rischio di diffusione di malattie infettive". "C’è da dire che sono insufficienti anche i fondi erogati dallo stato per il penitenziario che sicuramente sopporta un peso in termini di detenuti enorme rispetto alla struttura. Tutto il sistema sanitario dell’istituto inoltre non è informatizzato e questo rallenta ulteriormente tutte le procedure" Nel corso della visita i consiglieri regionali si sono soffermati in alcuni reparti ed hanno interloquito anche con i detenuti. Particolare effetto ha suscitato il caso di Vincenzo Di Sarno il 38enne affetto di tumore per il quale aveva interceduto anche il Presidente Napolitano. I consiglieri regionali hanno chiesto anche informazione sul caso Federico Perna, il giovane di Pomezia gravemente ammalato, detenuto a Poggioreale e morto lo scorso 8 Novembre. Dalla prossima settimana continueranno le visite ai penitenziari della regione per verificarne i livelli di assistenza sanitaria Quello alla salute è un diritto costituzionalmente garantito, anche ai detenuti che per la loro particolare condizione dovrebbero avere maggiore attenzione e personale specializzato. Reggio Calabria: dossier fotografico della Uil-Pa penitenziari sul carcere di Arghillà Ristretti Orizzonti, 15 febbraio 2014 Prosegue, anche in Calabria, l’iniziativa "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori" della Segreteria Nazionale della Uil-Pa Penitenziari che in un anno a già interessato quasi 30 istituti penitenziari in tutta Italia. Dopo aver toccato, e fotografato, le carceri di moltissime città, quali, per citarne solo alcune, Trento, Firenze, Cagliari, Palermo, Venezia, Avellino, Bologna, Milano, Paliano, Pavia, Monza, Lanciano, Lecce, Bolzano, Ascoli Piceno e Catanzaro, lunedì sarà la volta del nuovo e moderno penitenziario di Reggio Calabria - Arghillà. A riferirlo è Gennarino De Fazio, Segretario Nazionale della Uil-Pa Penitenziari, che spiega: "lunedì, insieme ad Angelo Longo, Coordinatore Gau, e Bruno Fortugno, Coordinatore Provinciale, ispezioneremo i luoghi di lavoro della seconda Casa Circondariale reggina e ne documenteremo lo stato attraverso un servizio fotografico. L’iniziativa è nata a livello nazionale al fine di rendere uno spaccato oggettivo, scevro da qualsiasi interpretazione personale, delle realtà penitenziarie che hanno condotto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a condannare e mettere in mora il nostro Paese per trattamenti inumani e degradanti. Il carcere di Arghillà, tuttavia, è stato messo in funzione solo da 7 mesi destinandovi detenuti preventivamente ed accuratamente selezionati e dovrebbe pertanto presentarsi in ottimo stato sia per quanto attiene alla struttura sia per quanto concerne la civiltà dei livelli di detenzione. In questo caso, dunque, la visita della Uil, oltre che a verificare le condizioni generali dei luoghi di lavoro e degli ambienti di pernottamento del personale, sarà finalizzata soprattutto a cercare di testarne l’efficienza organizzativa e di comprendere anche i motivi per i quali, nonostante l’emergenza penitenziaria più volte richiamata pure dal Presidente Napolitano, si tengano ancora inutilizzate la terza sezione maschile (80 posti) e quella che dovrebbe essere, per come si è appreso dalla stessa Amministrazione, la sezione femminile (44 posti). Inoltre cercheremo di capire le ragioni, ammesso che ve ne siano, per le quali ad Arghillà non sono ancora stati assegnati un Direttore in pianta stabile ed un Comandante della Polizia penitenziaria titolare e per le quali, analogamente, la totalità del personale vi risulti tutt’ora distaccato temporaneamente e non si proceda, come ci sembrerebbe doveroso, a trasferimenti definitivi". "D’altronde - prosegue il Segretario Nazionale della Uil-Pa Penitenziari - la storia del penitenziario di Arghillà è contornata da molti "misteri". Misteri che vanno dai tempi che si sono resi necessari per il completamento e la messa in funzione dell’istituto, ad oltre 10 anni dall’edificazione, alla mancata realizzazione, ad oggi, di una strada adeguata che permetta il transito degli automezzi in sicurezza, all’assenza di una caserma per la Polizia penitenziaria, alle ingenti risorse economiche che sono state impiegate dalle diverse autorità che nel corso degli anni si sono succedute nella responsabilità dei lavori. Forse anche per questo, per come riportato dalla stampa nazionale, nell’ambito dell’indagine che sarebbe stata avviata dalla Procura della Repubblica di Roma in ordine al piano carceri, un filone specifico riguarderebbe proprio l’istituto di Arghillà". "Insomma - conclude De Fazio - per dirla con un antico slogan coniato dal Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, "proveremo ad abbattere le mura dei misteri, per abbattere i misteri di quelle mura". Successivamente alla visita, martedì 18 febbraio 2014 alle ore 09.00, presso la Camera Sindacale UIL di Via Georgia 16 in Reggio Calabria, la Uil-Pa Penitenziari incontrerà gli organi di informazione per descrivere la situazione rilevata e distribuire i dvd contenenti le riprese fotografiche. Immagini che saranno in seguito disponibili anche sul sito internet www.polpenuil.it, nella sezione "Lo scatto dentro", e di cui è consentita la pubblicazione attesa l’autorizzazione preventivamente richiesta ed ottenuta dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Lecce: "Senza scarti", 68 Comuni partecipano a progetto per il reinserimento dei detenuti www.iltaccoditalia.info, 15 febbraio 2014 Storia e numeri di un progetto del Pit9 che ha dato lavoro ad ex detenuti e adolescenti a rischio devianza. Una seconda possibilità. È ciò di cui ha bisogno un detenuto, una volta fuori dal carcere. Ed è ciò che si riproponeva di fare il progetto "Senza scarti" concepito nell’ambito del Pit9, il progetto integrato territoriale del Sud Salento (68 Comuni con capofila Casarano). "Senza Scarti" è nato all’indomani dell’ultimo indulto, quello del 2006, e si è sviluppato tra la fine del 2007 e la fine del 2009, interessando la quasi totalità dei Comuni del Pit9 e i sei Ambiti Territoriali per i Piani Sociali di Zona. Dotazione finanziaria, 655mila euro (fondi Cipe 2000/2006 spalmati su tre azioni di progetto). Obiettivo di "Senza scarti" era promuovere la legalità in una comunità, come quella Pit9, caratterizzata da un elevato tasso di disoccupazione e da fasce ampie di ex detenuti, ex tossicodipendenti, famiglie numerose, monoreddito e multiproblematiche. Come? Attraverso l’attivazione di tirocini formativi in aziende e pubbliche amministrazioni. Hanno beneficiato del progetto 100 adulti ex detenuti e 40 minori o neomaggiorenni, seguiti dai Servizi sociali territoriali o presi in carico dall’Ussm (Ufficio di servizio sociale). Ogni tirocinante è stato seguito da un tutor aziendale ed ha ricevuto un rimborso spese mensile di 500 euro. L’obiettivo iniziale è stato raggiunto, ma solo in parte, secondo Annatonia Margiotta, responsabile dell’attuazione di "Senza scarti" (coordinatore di progetto era Antonio Facchini). In un report di recente pubblicazione, "Valutare per progettare - Il Caso di studio del progetto Senza Scarti" (Guida Editori), Margiotta si sofferma a riflettere sui punti di forza e sulle debolezze del progetto. A noi ha raccontato l’impegno al fianco delle persone in difficoltà ma anche i persistenti pregiudizi, nei loro confronti, da parte del territorio, probabilmente - ci ha detto - non preparato a sufficienza a reintegrare soggetti svantaggiati. Il progetto, nel suo complesso, si è articolato in tre linee di intervento: la prima, finalizzata a promuovere l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati con l’attivazione di tirocini formativi presso aziende e pubbliche amministrazioni; la seconda, che prevedeva interventi di animazione territoriale, sensibilizzazione, promozione della cultura della legalità e dell’integrazione culturale; la terza, volta a favorire interventi a sostegno della creazione di reti territoriali, per la prevenzione della devianza, tra Pubblica Amministrazione, scuola, Prefettura e terzo settore. Dott.ssa Margiotta, in che cosa è consistito il suo lavoro nell’ambito del progetto "Senza scarti"? "Nel dare attuazione al progetto, nel metterlo in pratica nel sociale. Non mi sono occupata, invece, della parte relativa alla rendicontazione". Come sono stati individuati i soggetti destinatari del progetto? "Tramite procedure di evidenza pubblica. In un bando sono state indicate le caratteristiche dei destinatari: per gli adulti, essere ex detenuti, beneficiari dell’indulto e presi in carico per misure alternative alla detenzione; per i minori, essere seguiti dai Servizi sociali territoriali o presi in carico dall’Ussm, l’Ufficio di servizio sociale per i minorenni. Inizialmente il bando era destinato a 25 adulti e 40 minori, ma poi i numeri sono cambiati". In che senso? "È facile capire che 25 tirocini destinati agli adulti di 68 Comuni fossero insufficienti. E infatti arrivarono circa 300 candidature, tutte da parte di soggetti in possesso dei requisiti per accedere al bando. Ciò significa che non era stato fatto, a monte, un buon lavoro di coinvolgimento e di analisi del territorio. Cioè, in base a quale mappatura dei 68 Comuni, era stato stabilito il numero di 25? Che senso ha progettare qualcosa che non corrisponde alla realtà del territorio e ai suoi reali bisogni? In un territorio come quello del Pit9 ad alto tasso di devianza, microcriminalità e disoccupazione, era impensabile che potessero candidare solo in 25. Per quanto riguarda le imprese, invece, vale il discorso contrario. Aderirono al bando solo in nove. Perché Probabilmente perché mancò un’opera di contaminazione e di sensibilizzazione ad inizio progetto. Il numero di nove fu talmente esiguo, che fummo costretti ad inserire le persone beneficiarie all’interno delle Pubbliche amministrazioni". Lei crede che la scarsa risposta delle aziende sia dipesa dal fatto che i beneficiari del bando fossero ex detenuti? "Ovviamente sì. Il pregiudizio accompagna tutte le diversità sociali: i disabili, i tossicodipendenti, gli immigrati, gli ex detenuti. Il pregiudizio pesa molto sulla società. Ecco perché sarebbe stato utile un lavoro a monte, di sensibilizzazione delle imprese". Chi avrebbe dovuto farlo? "Chi ha redatto il progetto, ma non voglio puntare il dito contro nessuno. Mi limito ad esprimere il mio punto di vista, per aver viso il progetto svilupparsi nella pratica". Che cosa le è rimasto dell’esperienza "Senza scarti"? "Ho avuto la conferma che il rischio del pregiudizio in ognuno di noi è dietro l’angolo, per via degli stereotipi che, in maniera anche inconsapevole, ci si forma nei confronti di soggetti ‘diversi’. Io ha instaurato con tutte le persone beneficiarie del progetto un rapporto umano che mi arricchita moltissimo in termini di conoscenze e di esperienza. Durante l’intero percorso le ho seguite da vicino, le ho riunite in ufficio per capire se tutto si stesse svolgendo come avevo immaginato. Intanto, aveva rapporti costanti con i tutor aziendali, che avevano il compito di seguirle nel percorso di tirocinio negli enti o nelle aziende. A metà e a fine percorso ho fatto interviste ad ognuno di loro per monitorare lo stato dell’arte. Il valore dell’intero progetto sta nelle testimonianze che ho raccolto e che saranno il centro di un secondo libro di imminente pubblicazione: ‘Con l’opportunità che stiamo vivendo, stiamo riacquistando dignità e fiducia in noi stessi’. E nessuno mi ha dato problemi di alcun tipo, nonostante io fossi molto severa con loro. Tutti hanno capito che è meglio muoversi nella legalità perché se ne guadagna in dignità e rispetto sociale. Le donne mi dicevano di sentirsi gratificate perché potevano essere un esempio positivo per i propri figli e che mai avrebbero voluto che quelli potessero fare i loro stessi sbagli. Qual è il dramma di tutta questa storia? Che una volta terminati, nessun tirocinio si è trasformato in rapporto di lavoro. Per le motivazioni che ho già illustrato: le aziende non erano state preparate, le persone non sono state messe nelle condizioni di acquisire alcuna competenza specifica da sfruttare nel mondo del lavoro". Per la verità, noi abbiamo avuto notizia di un’assunzione a tempo indeterminato di un ex detenuto da parte della cooperativa sociale presso la quale aveva svolto il tirocinio "Senza scarti". La notizia è recentissima, in quanto risale al mese scorso e probabilmente Margiotta non ne aveva notizia, al momento dell’intervista. Lei non sa se queste persone abbiano trovato altri sbocchi lavorativi? "Purtroppo potrebbero essere tornate a delinquere. Molte di loro, a conclusione tirocinio, erano già in crisi perché sarebbero tornate a fare quello che facevano prima. Mi auguro almeno di non aver contribuito a peggiorare ancora di più la loro situazione, perché abbiamo dato loro l’illusione che dalla criminalità e dalla marginalità si può uscire, per poi riconficcarli di nuovo dov’erano". Con lo "svuota carceri" il problema del reinserimento lavorativo di ex detenuti si ripresenterà. Come affrontare la nuova emergenza? "È un tema da non sottovalutare. È giusto svuotare le carceri perché le condizioni di vita lì dentro sono disumane. Ma bisogna considerare che sui 65mila detenuti totali in Italia, solo 800 sono avviati in percorsi lavorativi all’interno del carcere. 800 è un numero davvero esiguo rispetto a quello che si può fare. Bisognerebbe già all’interno delle carceri prevedere dei percorsi lavorativi, in modo tale che con la costituzione di cooperative direttamente collegate a queste realtà, le persone possano trovare davvero una vita lavorativa fuori dagli istituti di detenzione. Se questo non si farà, il rischio è che oggi svuoteremo le carceri e domani saranno più piene di oggi". La storia di Paolo, ex detenuto Grazie al progetto "Senza scarti" del Pit9, ha potuto scoprire il piacere di mettersi in gioco e voltare pagina. Oggi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Dentro per spaccio. Dopo due settimane di carcere, l’affidamento ad una comunità terapeutica per il recupero delle tossicodipendenze. Poi l’indulto, ma Paolo (nome di fantasia), poco più che ventenne, decide di terminare comunque il suo percorso in comunità. Rimane lì per 24 mesi. Oggi ricorda quel periodo come fosse un’altra vita. Ed in effetti è così, oggi che, a 29 anni, è fuori dal giro", è ritornato a casa con i suoi ed ha un lavoro fisso: un contratto a tempo indeterminato come operatorio socio sanitario in una struttura per disabili, la cooperativa sociale "Alberto Tuma" di Alliste. Proprio lì, alcuni anni fa, tra il 2007 ed il 2009, Paolo ha frequentato un tirocinio del progetto "Senza scarti" del Pit9, destinato ad ex detenuti e minori in difficoltà. Ha avuto modo di ricostruire piano piano quello che la vita ed alcune scelte sbagliate gli avevano portato via: la sua identità. Si è fatto conoscere come un ragazzo pieno di voglia di fare, che sa mettersi in gioco e non molla. Uno che riesce ancora a sognare. Che cosa? Magari una famiglia, con dei bambini. Proprio come gli altri. Oggi i risultati di quel progetto ritornano d’attualità, dal momento che è al vaglio del Senato il decreto "Svuota carceri" che porterà fuori dagli istituti di pena circa 30mila detenuti in Italia; a questi si aggiungeranno i circa 10mila che usciranno per effetto della bocciatura da parte della Corte Costituzionale di due articoli della legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere. I dati pugliesi sono ancora in fase di "conteggio". Secondo il Sappe Puglia, il sindacato della polizia penitenziaria (responsabile Federico Pilagatti), non dovrebbero essere più di 300 gli interessati da questi provvedimenti, ma il dato ci sembra sottodimensionato, considerando che la Puglia è terza in Italia per sovraffollamento: oggi si contano 3.722 detenuti negli istituti di pena pugliesi a fronte di una capienza massima di 2.444 con un esubero di 1.278 detenuti. Paolo, come sei venuto a conoscenza del bando "Senza scarti"? "Attraverso il centro per l’impiego". Eri già uscito dal carcere? "Avevo appena concluso il mio percorso all’interno di una comunità terapeutica; quando sono uscito, sono venuto a sapere del progetto del Pit9. È stata una bella coincidenza. Il progetto offriva una retribuzione mensile di 500 euro; così ho presentato la mia domanda". Che cosa ha significato per te metterti a lavorare? "È stato molto importante. Pensavo che non avrei più trovato lavoro ed avevo una grande voglia di farmi conoscere dalla gente per quello che sono davvero". Come ti sei sentito quando hai saputo che dovevi andare in carcere? "Ti cade il mondo addosso perché capisci l’errore che hai fatto. Pensi che non lo vuoi fare più. Poi c’è chi continua a sbagliare e chi no, come me. Quest’esperienza mi ha riabilitato". Perché? "Perché appena esci, la prima cosa che pensi è al modo in cui ti presenterai alle aziende per chiedere lavoro. Presenti il curriculum ed hai paura che ti facciano qualche domanda in più. Pensi che appena vengono a sapere il tuo passato, si riempiono di pregiudizi nei tuoi confronti". Che rapporto hai con i colleghi? "Il rapporto con i titolari e con i colleghi è quasi familiare. Io mi sento come a casa mia". Hai mai avuto la sensazione che ti potessero guardare in maniera diversa rispetto agli altri? "All’inizio sì, ma era un pensiero mio; nessuno qui mi ha mai fatto sentire diverso dagli altri. Sono tutti sempre molto disponibili e cordiali con me. Tutto questo mi ha invogliato ad andare avanti. Così ho preso la qualifica di Oss, che mi ha permesso di essere assunto come operatore". Lavorare ti fa sentire meglio? "Lavorare con persone portatrici di handicap mi fa guardare in maniera più lucida a ciò che mi è successo; riesci a capire che il dolore non è solo il tuo; che ci sono tante persone che soffrono e non per propria causa ed hai voglia di fare qualcosa per loro. Il mio problema rispetto al loro non è niente". Oggi, che sei uscito fuori del "giro" ti senti una persona a rischio? "Forse lo sono, perché in quel mondo ci sono già stato. Può essere facile cascarci di nuovo. Sono però più consapevole del lato bello della vita e so che quella strada non porta a niente ma solo alla disperazione". Come immagini il tuo futuro? "Sono un ragazzo che cerca di fare sempre qualcosa di nuovo; vado in palestra, mi mantengo in forma; sto frequentando un corso per istruttore di palestra. Cerco di fare sempre cose che mi appassionino". Ti immagini con una moglie, dei figli? "Mi piacerebbe, penso come a tutti. Mi immagino con una vita normale, come tutti". Ex detenuto? Oggi è uno di noi Da pregiudicato a infermiere. Storia di un recupero e un’integrazione possibili. Così la pubblica amministrazione può essere motore d’innovazione, anche sociale. Riccardo Tuma ha 32 anni ed è responsabile della cooperativa sociale "Alberto Tuma" di Alliste, un centro diurno che si occupa di assistenza a minori affetti da disabilità. Oggi ospita 29 minori e si avvale di un team di esperti costituito da un educatore professionale, un animatore sociale, tre operatori di cui due Oss, una psicologa a collaborazione esterna. La cooperativa "Tuma" è stata una delle realtà aziendali (furono nove in tutto) che hanno aderito al progetto "Senza scarti" del Pit9, finalizzato all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, ex detenuti o minori in difficoltà. La pratica del tirocinio non è sconosciuta alla cooperativa sociale, che collabora costantemente col Tribunale, con il Tribunale minorile e con l’Uepe di Lecce, venendo spesso a contatto con ex detenuti o persone che hanno commesso piccoli reati. In occasione di "Senza scarti" frequentarono il tirocinio nella struttura tre minori (che nel frattempo sono diventati neomaggiorenni) e due adulti. Uno di loro, dopo un contratto a progetto durato circa due anni, è stato da poco assunto, e stavolta a tempo indeterminato, come operatore. È la storia di un successo. Di come dovrebbero andare sempre le cose. Riccardo, come giudica il progetto "Senza scarti"? "È stata un’esperienza molto positiva; le persone che abbiamo ospitato nella nostra struttura non hanno più reiterato il reato. Anzi si sono reinserite a livello sociale, alcuni si sono iscritte a scuola, altre hanno perfezionato le proprie conoscenze frequentando dei corsi, come ha fatto Paolo (nome di fantasia, ndr) che ha conseguito la qualifica di Oss (operatore socio sanitario) ed è rimasto con noi, diventando operatore a tutti gli effetti, con regolare contratto a tempo indeterminato". Come fa ad essere informato su di loro anche a tirocinio concluso? "Sono persone che abitano nei centri vicini quindi, anche a distanza di mesi, riusciamo a mantenerci in contatto e loro vengono a trovarci: in tal modo riusciamo a sapere che cosa stanno facendo e ci possiamo aggiornare su come stanno. Noi siamo una cooperativa sociale, abbiamo un centro diurno per disabili, facciamo animazione nelle scuole, lavoriamo praticamente con tutti i Comuni salentini. Anche non volendo, riceviamo continue informazioni sulle persone con cui siamo venuti in contatto. E poi si crea un rapporto quasi familiare che ci spinge a seguirle indirettamente anche negli anni". Lei ha assistito ad un cambiamento nelle persone che hanno frequentato i tirocini nella sua struttura? "Certamente. Il centro diurno per disabili è un centro dove si vivono storie familiari e personali anche molto difficili. Per i tirocinanti, venire a contatto con esperienze di vita pesanti è un importante lezione di vita". Ci racconta la storia di Paolo? Come l’avete assunto? "L’abbiamo assunto come autista subito dopo il progetto, per due anni; poi per poterlo assumere come operatore sanitario, era necessario che avesse la qualifica di operatorio socio sanitario. Lui ha frequentato il corso - si tratta di un corso a pagamento - e tra il 2011 ed il 2012 le nostre strade si sono temporaneamente divise. Per poi ricongiungersi nuovamente, adesso, con un contratto a tempo indeterminato". Perché avete scelto lui? "Perché, a differenza di tanti candidati, si è dimostrato molto più vicino al quotidiano dei nostri ragazzi; per fare un lavoro come il nostro, bisogna avere una sensibilità spiccata, non è sufficiente un titolo di studio. Proprio in questo periodo stiamo facendo dei colloqui per una struttura che apriremo ad Alliste; su più di 50 candidati, nemmeno uno è stato all’altezza del compito. Servono attenzione, spirito di osservazione, senso di responsabilità. Paolo ha dimostrato impegno, ha voluto investire su se stesso frequentando il corso Oss, è educato ed ha un senso del lavoro che difficilmente si trova. Perché non avrei dovuto sceglierlo"? Vitali: il territorio non ha saputo sfruttare il Pit9 Il progettista capo del Pit9 analizza punti di forza e di criticità del progetto. Che considera ancora oggi eccellente. Umberto Vitali, progettista-capo del Pit9, a cinque anni dalla chiusura del Progetto, si dice mortificato. Perché il territorio non ha capito la portata dello strumento di sviluppo territoriale che aveva tra le mani, perché non l’ha saputa sfruttare, perché ha soffocato un processo di crescita che avrebbe potuto dare risultati importanti. Un’analisi fredda di ciò che il Pit9 è stato (una dotazione di di circa 62,5 milioni ed un territorio di 68 Comuni) e di ciò che avrebbe potuto essere, se sfruttato in tutte le sue potenzialità, probabilmente non è facile. Tuttavia basta pensare che il Pit Sud Salento è stato considerato un esempio di Pit eccellente in uno studio sui Pit pugliesi pubblicato nel 2011 dal Consorzio Metis del Politecnico di Milano. Nell’analisi, i ricercatori del Metis distinguono i Pit pugliesi in tre tipologie - quelli in emergenza, quelli in stand by e quelli d’eccellenza - inserendo il Pit9 tra questi. L’indagine si conclude con il 2009, anno in cui è stato eletto sindaco Ivan De Masi. Il cambio di Amministrazione avrebbe dunque determinato la perdita di interesse nei confronti dello strumento Pit. Stessa valutazione ne ha fatto il Ministero dello Sviluppo economico. Ed infatti il Pit9 resta ancora oggi, su 140 Pit in Italia, una delle poche esperienze concluse in maniera positiva. Senza ricorsi giudiziari, senza indagati, senza nemmeno un euro da spendere ancora. Segno che le idee erano buone ed anche i progetti per svilupparle. Forse, come dice Vitali, il territorio non era pronto. A cinque anni dalla conclusione del Pit9, che resoconto ne può tracciare? Si sarebbe potuto fare di più? "Si può sempre fare di più. La questione Pit è complessa perché al centro del dibattito vi è lo sviluppo del territorio, che è riconducibile a tantissime variabili. Tuttavia, la necessità di avere dei piani di sviluppo ormai è fuori di dubbio tant’è che la Comunità europea da decenni ormai spinge sugli strumenti di programmazione integrata. E in Europa intere regioni e città importanti hanno cambiato il proprio volto grazie a questi piani. L’Irlanda, la Spagna ed anche altre città italiane come Jesi, Torino e Venezia hanno radicalmente mutato aspetto. Questi piani servono soprattutto come strumento negoziale: cioè offrono ad un territorio la possibilità di negoziare risorse con gli enti competenti oltre a fungere da acceleratore di spesa. Faccio un esempio: la nuova programmazione 2014/2020 per l’Italia difficilmente finanzierà infrastrutture, con danno gravissimo per l’Italia, che invece ha bisogno di infrastrutture. Perché? Perché ritiene l’Europa l’Italia non in grado di spendere le risorse che intervengano sulle infrastrutture. Il successo o l’insuccesso del Pit9 va letto in quest’ottica. Come, cioè, un’esperienza che ha speso tutto, che ha speso nei termini, senza incappare in nemmeno un ostacolo giudiziario, a differenza di quasi tutti gli altri Pit. Questo significa che c’è stato il rispetto delle regole da parte di un gruppo competente. Soprattutto, si sono realizzati tutti gli obiettivi che singolarmente il progetto si proponeva". Perché allora il Pit9 non ha avuto continuazione? "Con qualche anno di ritardo mi rendo conto che il Salento, ma credo anche l’intero Paese, ha una classe dirigente inidonea a gestire strumenti come il Pit. Intendo in primis gli amministratori locali, ai quali rispetto al passato è stato concesso un ruolo di attore nel processi di sviluppo. Col senno di poi la mia esperienza mi porta a dire che processi così complessi per ottenere risultati positivi devono nascere sotto congiunzioni astrali che mettano assieme in maniera fortunosa l’elemento tecnico, l’elemento amministrativo e l’elemento politico. Ma se la classe dirigente - intendo associazioni datoriali, associazioni sindacali, Camere - non ne coglie la portata, il processo si blocca. Tant’è vero che quelle che sarebbero dovute essere la naturale evoluzione del Pit, le Aree vaste, sono invece fallite. Ma non perché la Regione o la Comunità europea nel frattempo abbiano cambiato idea di sviluppo, ma perché i territori hanno fallito. Ricondurre lo sviluppo del territorio ad una logica politica, di campanile, non è il modo giusto di affrontare processi complicati come questo". Non ha la sensazione che il Pit9 non sia stato capito dal territorio, mentre è stato elogiato da soggetti "estranei" come le Università, il ministero? "Il Pit9 è stata un’esperienza riconosciuta da soggetti terzi, centri di ricerca, università, ministeri, come un’esperienza eccellente. I Pit in Italia sono stati circa 140; le risorse destinate sono state miliardi di euro; la maggior parte sono state esperienze fallimentari. In questo scenario mortificante, l’esperienza di Casarano è stata vincente". Quali sono state le criticità del Pit9? "Qualcuno ha detto che il Pit9 non è stato comunicato abbastanza e che non ha coinvolto a sufficienza il territorio. Ma non è così. L’unico errore è stato proporlo ad un territorio che ancora non era pronto mentalmente e culturalmente ad affrontare questi processi, per cui all’inizio se ne è disinteressato. Poi, solo in un secondo momento, ha rivendicato un ruolo di portatore di interessi anche con una scarsa informazione. I processi avviati dal Pit9 non sono stati seguiti e completati dalle Amministrazioni successive. La piattaforma intermodale è un esempio di questo. È stata realizzata sia perché inserita nel Pano regionale dei trasporti, sia perché le aziende intervistate, circa 100, hanno ritenuto quell’opera strategica. Con l’Amministrazione Venuti l’opera è stata realizzata; con le successive, che avrebbero dovuto creare il modello di gestione, si è tutto bloccato. Il Polo tecnologico creato dall’Amministrazione che ha gestito il Pit9, non è stato concretizzato dalle classi dirigenti successive, dagli amministratori che hanno seguito Venuti e dalle associazioni di categoria che sarebbero dovute entrare nel capitale sociale del Polo". Che cosa prova a vedere arenato un progetto di sviluppo lungimirante e visionario? "Sono profondamente mortificato. I Piani di zona oggi, per certi aspetti, non fanno altro che replicare esperienze del Pit9. Purtroppo oggi con la crisi che il nostro comprensorio vive, non riusciamo a sfruttare strumenti che noi stessi abbiamo creato. È paradossale. Ed è un vero peccato aver distrutto Area Sistema". La considera un’occasione persa per sempre? "Non vedo segnali che mi facciano pensare che è in moto un’azione da parte delle Amministrazioni competenti volta a sollecitare la Regione. Purtroppo non è la Regione a dover indicare ai sindaci progetti di sviluppo dei loro territori, ma il contrario. I programmi di sviluppo devono partire dal basso, ma credo che ciò non stia accadendo". Venuti: il Pit9, un inizio senza finale Secondo l’ex sindaco di Casarano, il Pit9 non è stato portato avanti in quanto identificato con i sindaci del momento. Il Pit9 lo sente come una sua creatura. Ed in effetti lo è: è sua la firma, accanto a quella del presidente della Regione Nichi Vendola, in calce all’accordo che sancisce il via ufficiale del Progetto. Era il 29 giugno 2005. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Ha portato onori ma anche uno strano effetto, ad alcuni anni dalla naturale chiusura del progetto. L’attività del Pit9 probabilmente non è stata completamente capita dal territorio. In molti l’hanno sentita come lontana o forse non si sono sforzati più di tanto per capirne appieno le potenzialità. Eppure il Pit9, che ha riunito l’idea di sviluppo di 68 Comuni del basso Salento, è stato un progetto dalla portata eccezionale. Riconosciuta, tra l’altro, come tale anche dai tecnici che l’hanno studiata. Remigio Venuti, sindaco di Casarano ai tempi dell’avvio del Pit9, lo difende con le unghie come un progetto troppo moderno per i tempi in cui è nato. Al territorio rimprovera di non averne colto la strategicità e di non aver saputo portarlo avanti, una volta concluso, tramite Area Vasta. Ancora una volta, i banchi della politica hanno contato più dell’esigenza di sviluppo del Salento. Che invece avrebbe portato frutti prelibati per tutti. Dott. Venuti, è di recente pubblicazione il report di Annatonia Margiotta sul progetto di re inclusione sociale di ex detenuti e minori disagiati "Senza scarti". L’autrice sostiene che si sarebbe potuto fare di più. Lei condivide questo punto di vista? "Il mio giudizio sul progetto ‘Senza scarti’ è assolutamente positivo. Per la prima vota le istituzioni hanno legato a un progetto di sviluppo territoriale, un obiettivo di coesione sociale e lo hanno fatto cercando di coinvolgere in una logica di sviluppo le parti più deboli della società. Quelle parti che in una fase particolare della propria vita hanno fatto degli errori, delle esperienze negative e che però, finito di regolare il proprio conto con la giustizia, hanno il diritto di reinserimento. Io credo che la lezione che ne ricaviamo è che noi facciamo leva anche su quelle figure per cercare la strada dello sviluppo. Il Pit per la prima volta ha rappresentato un progetto di sviluppo territoriale su base sovra comunale e avere inserito ‘Senza scarti’ all’interno di questo progetto ha rappresentato lo sforzo da parte delle istituzioni di fare leva anche su categorie svantaggiate per cercare di delineare un nuovo modello di sviluppo". Tutti i progetti del Pit9 si proponevano di delineare uno sviluppo condiviso sovra territoriale. Quali crede siano stati i più efficaci? "‘Senza scarti’ era l’unico che guardasse all’inclusione sociale. Gli altri hanno riguardato, di volta in volta, l’innovazione all’interno della pubblica amministrazione, l’innovazione all’interno delle iniziative imprenditoriali. Ricordo che importanti iniziative imprenditoriali si sono collocate all’interno del territorio del basso Salento e di Casarano in particolare, come la Sparkle e la Memar, Mediatica a Sannicola; erano 15 o 16 i progetti innovativi che si sono realizzati nell’ambito del Pit. Ovviamente nessuno si illudeva che quel progetto potesse essere esaustivo, ma doveva rappresentare l’inizio di un percorso che purtroppo si è interrotto bruscamente". Quando lei difende il Pit9, pensa anche ad un’occasione sprecata da parte del territorio? "Non c’è dubbio. Quello del Pit9 rappresentava un tentativo avanzato, non del Comune di Casarano ma di tanti Comuni messi assieme, a cui ha dato il consenso tutto il partenariato economico e sociale. Ovviamente a nessuno sfugge che un progetto che miri a delineare un nuovo modello di sviluppo passa anche attraverso incomprensioni, che mal si conciliavano con i tempi scanditi dalla logica della rendicontazione, dal momento che alcuni percorsi hanno bisogno di più tempo per essere metabolizzati. Il piano strategico di Area Vasta avrebbe dovuto rappresentare la continuazione di questo percorso intrapreso, ma così non è stato". Considerando tutti i progetti messi in campo dal Pit9 di quale è più orgoglioso? "Di quelli che hanno permesso l’attrazione di investimenti e quindi l’innovazione all’interno degli enti locali. Vorrei ricordare che quando siamo partiti con il Pit molti Comuni non avevano nemmeno i computer, non avevano la rete interna, non avevano il protocollo informatico". Come sono andate a finire queste esperienza di innovazione negli enti locali? "Non hanno avuto continuità. È come se si fosse interrotto un percorso. Questo è il cruccio: un progetto di sviluppo territoriale non può essere legato solo alla figura dei sindaci del momento, ma deve diventare un processo di cui si impossessa la stessa comunità, che col tempo diventa in grado di farlo proprio e di proseguire autonomamente il percorso. Questo purtroppo non è successo". Perché non è successo? "Perché il Pit9 e lo sviluppo intrapreso sono stati identificati con alcuni sindaci, diventando qualcosa da contrastare invece che da portare avanti". Trento: Sinappe; carenza organico della Polizia penitenziaria causa rischi per la sicurezza Ansa, 15 febbraio 2014 "Un’emergenza di carenza d’organico" della Polizia penitenziaria per il carcere di Trento viene segnalata dal Sinappe. Il sindacato di categoria degli agenti penitenziari parla in una nota a firma del segretario provinciale, Andrea Mazzarese, di "rischi sia di incolumità per i poliziotti penitenziari che lavorano sotto organico, sia per i cittadini", in riferimento alle evasioni avvenute di recente a Varese e a Rebibbia a Roma. Il Sinappe riferisce di avere inviato in merito una lettera al direttore dell’istituto circondariale e alla segreteria nazionale del Sinappe stesso, in cui spiega come l’organico stabilito prima dell’apertura, a gennaio 2011, era stato di 360 unità, successivamente riviste a 280, poi a 182 e che a ciò si somma il non avere mai sostituito le venti persone andate intanto in pensione. Prato: Sappe; evasione detenuto domiciliare non deve inficiare "braccialetto elettronico" Adnkronos, 15 febbraio 2014 "Il braccialetto elettronico per controllare i detenuti in misura alternativa e ai domiciliari è sicuramente una soluzione valida e da potenziare quanto più possibile. E i fatti di Prato, con il detenuto che è evaso rompendo il braccialetto, sono da ricondurre a un caso limite, con un supporto peraltro superato dalla tecnologia". È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). "Oggi - sottolinea il Sappe - più di 21mila detenuti sono imputati: bisognerebbe allora dare corso al decreto interministeriale per la Polizia Penitenziaria negli uffici esecuzione penale esterna. Bisogna favorire maggiormente l’implementazione di misure alternative alla detenzione ricorrendo al braccialetto elettronico per i detenuti che potrebbe essere usato anche per altri casi penali di minore allarme sociale". Per Capece, occorre "avere il coraggio di puntare maggiormente sulle misure alternative alla detenzione, ridisegnando un nuovo ruolo operativo al Corpo di Polizia Penitenziaria al di fuori delle mura perimetrali delle carceri". Ravenna: lunedì iniziativa pubblica su carceri, presenti Provveditore e Garante regionale Ansa, 15 febbraio 2014 Una iniziativa pubblica sulle condizioni delle carceri è annunciata per lunedì a Ravenna con Carmela de Lorenzo, direttrice della locale casa circondariale, Pietro Buffa, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Garante regionale dei detenuti Desi Bruno e l’assessore comunale Giovanna Piaia. L’appuntamento è alle 16.30 nella sala del Consiglio comunale, dopo una visita della Garante regionale nel carcere di Ravenna, un istituto che, con un indice di sovraffollamento del 198,30%, superiore alla media regionale (144,84%), è comunque considerato tra i più vivibili in Emilia-Romagna per una buona manutenzione delle celle e degli spazi comuni, e le buone relazioni con il personale, con sinergia tra carcere e città. L’avvocato Desi Bruno ha fatto sapere che intende verificare con quali modalità siano state applicate le indicazioni per l’umanizzazione della pena date dal Provveditorato regionale con una nota nel luglio scorso, anche a seguito della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per le condizioni di detenzione. Nella nota, tra l’altro, si prevede per i detenuti "non pericolosi" un ampliamento degli orari di apertura delle celle fino a 8 ore e più, con un corrispondente aumento delle attività, la separazione degli imputati dai condannati in via definitiva e una sezione per detenuti prossimi alla scarcerazione. Previsti anche colloqui della Garante con i detenuti che li hanno richiesti. Ragusa: aggressione all’interno della Casa Circondariale, la condanna dei Sindacati www.radiortm.it, 15 febbraio 2014 Ieri, presso la Casa Circondariale di Ragusa, un detenuto è andato in escandescenze ed ha aggredito il personale di Polizia Penitenziaria in servizio di vigilanza. Si è reso necessario immobilizzarlo, ma nella fase concitata dell’azione, 3 Agenti hanno riportato lesioni. Due di essi (un Ispettore ed un Assistente) hanno dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso dell’Ospedale Civile di Ragusa, e sono stati dichiarati guaribili in 20 giorni. Ancora una volta, a causa del notevole e denunciato deficit di organico di agenti di polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Ragusa, ha causato difficoltà nel gestire, contenere ed immobilizzare un detenuto dal comportamento tempestoso. Se nel turno di servizio fossero state presenti il numero previsto di agenti, l’azione si sarebbe conclusa in maniera positiva e senza che TRE agenti avessero riportato lesioni personali. "L’estate non è ancora arrivata - denunciano Cisl, Osapp, Uil, Sinappe, Cnpp e Ugl - tuttavia per i poliziotti che operano nella casa circondariale di Ragusa, si prevedono dei periodi piuttosto roventi, dovuti non solo al sovraffollamento ma principalmente alla carenza di organico. Nonostante tutte le OO.SS. hanno più volte sollecitato e rappresentato la grave carenza di personale e il sovraffollamento dell’Istituto penitenziario di Ragusa, sia a livello locale che Regionale, e il tutto non ha dato esiti positivi, le stesse si riservano di attivare ogni forma di protesta per far sì che siano poste in essere tutte le condizioni per operare in un contesto dignitoso ed in sicurezza. Nonostante l’Amministrazione abbia contribuito alla chiusura della Sezione A.S., per recuperare unità, la situazione è rimasta insostenibile. L’organico previsto dal D.M. del 2001 è di 117 unità, allo stato si registra un organico amministrato di n. 108 unità. In atto vengono disconosciute tutte le regole normativamente previsti dall’A.N.Q., ad incominciare dei turni di servizio che invece delle 6 ore previste vengono organizzati turni di 8 ore, con personale al di sotto dei livelli minimi di sicurezza, con aggravio sul lavoro straordinario che anch’esso è un problema in quanto i fondi non coprono il fabbisogno". Non ci fu aggressione al carcere di Ragusa, da Avv. Dario Fina Vi informo che per l’ipotesi di aggressione da parte di un detenuto nei confronti di personale della Polizia Penitenziaria in servizio presso il Carcere di Ragusa datata 09.05.2010, comunico che all’esito dell’istruttoria dibattimentale tenutasi innanzi al Tribunale di Ragusa, l’imputato Carmine Lima, il 13 febbraio u.s. è stato assolto dal Giudice Infarinato perché il fatto non sussiste. Invero, è stato dimostrato che l’imputato non ha posto in essere alcuna resistenza attiva e men che meno abbia provocato lesioni ad alcuno degli agenti, ma il tutto è degenerato a seguito di eccesso di zelo da parte di questi ultimi che non avevano compreso lo stato di malessere dell’allora detenuto, il quale aveva denunciato poco settimane prima la violazione dei diritti dei detenuti per essere collocato in una cella di modestissime dimensioni e senza prese d’aria. Catania: i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Acireale donano opere al Carnevale www.si24.it, 15 febbraio 2014 I ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Acireale (Catania) hanno consegnato questa mattina nel municipio della cittadina jonica al sindaco Nino Garozzo due mongolfiere che hanno realizzato con l’aiuto dei maestri del Carnevale di Acireale, che saranno apposte sulla facciata dal palazzo di città per tutta la durata dei festeggiamenti, che cominceranno domani. La manifestazione é stata organizzata a chiusura di un progetto del Rotary Club che si ripete da qualche anno con protagonisti i detenuti del carcere minorile. Alla consegna hanno preso parte la direttrice del carcere minorile Carmela Leo e l’assessore comunale al Turismo Nives Leonardi e il presidente del Rotary Club di Acireale Giuseppe Licciardello. "Un segno di partecipazione al Carnevale - ha detto Leo - un motivo di impegno per i nostri ragazzi, un progetto che è stato accolto con interesse da chi in questo modo desidera partecipare alla gioiosa festa" augurano più roseo. "Per noi - ha detto Licciardello - è motivo di soddisfazione proseguire questo connubio che nasce per integrare e che tutta Acireale ha già ben integrato. Adesso non ci resta che ammirarle, colorite e frizzanti sulla bianca pietra del Palazzo di città". "Ci siamo abituati ormai - ha detto Leonardi- a queste forse piccole, ma significative innovazioni, certamente visibili e apprezzate dal grande pubblico del Carnevale di Acireale". "Opere che faranno bella mostra di sé, certamente - ha detto Garozzo - ma sono opere che danno segnali di speranza perché nascono da un percorso educativo svolto attraverso il Carnevale. Il diritto minorile consente ai ragazzi dell’Istituto di vivere un momento che tutti vorremmo sia solo di passaggio verso una vita nuova che riscatti dagli errori del passato e, anche attraverso il sorriso del Carnevale, renda intenso il futuro di ciascuno di loro". Libri: "Urla a bassa voce", di Francesca De Carolis… quelli che il "Fine pena mai" Recensione di Fabio Marcelli Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014 Sto leggendo un bel libro curato dalla giornalista Francesca De Carolis, dal titolo "Urla a bassa voce", che contiene interventi di trentasei ergastolani assoggettati al regime di eccezione previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, da cui deriva la negazione dei benefici previsti dalla Legge Gozzini. Si tratta in pratica di persone sepolte vive. Ritenute colpevoli di gravissimi reati contro la persona e spesso di appartenenza alle organizzazioni criminali che controllano tuttora parte non indifferente del territorio nazionale, come la mafia, la camorra, la ndrangheta, la sacra corona unita e simili. Quindi i nemici pubblici numero uno cui va immediatamente il pensiero dei bravi cittadini non appena sentono parlare di amnistia o indulto. Eppure, per quanto siano o possano essere criminali, sono pur sempre persone. Il merito del libro di Francesca De Carolis è quindi innanzitutto quello di metterci in contatto diretto con queste persone, dando anche a loro la possibilità di una testimonianza. Un’esistenza sociale, determinata dalla presa di parola in pubblico per dire la loro. Nella prefazione al libro Don Luigi Ciotti fa riferimento alla giurisprudenza costituzionale in materia di ergastolo. Al riguardo va osservato che in realtà la Corte costituzionale ha ritenuto di giustificare il carcere a vita adducendo le presunte finalità di prevenzione generale di tale pena. Al tempo stesso però la Corte, in particolare nella sua sentenza 264 del 1974, ha ritenuto che le finalità di riadattamento sociale sarebbero comunque salvaguardate dalla possibilità di liberazione condizionale. Possibilità peraltro appunto esclusa dagli articoli precedentemente citati. Ci troviamo insomma di fronte a un grave caso di conflitto tra finalità apparentemente divergenti. L’ergastolo cosiddetto ostativo cui sono condannati i protagonisti del libro, non prevede infatti nessuna possibilità di liberazione condizionale. Ciò suscita ulteriori riflessioni su di un piano ancora più generale. La criminalità organizzata deve essere sconfitta con strategie di ampio respiro politico e sociale. La liquidazione della legge Fini-Giovanardi operata qualche giorno fa dalla Corte costituzionale costituisce per le cosche un colpo ben più grave e forte di cento ergastoli ostativi, dato che il potere del narcotraffico, che costituisce una delle attività principali della criminalità organizzata è fondato sul proibizionismo. Come ben ci insegna la storia della criminalità statunitense negli anni Venti. Per non parlare dei nessi evidenti fra criminalità e politica. Che coerenza può vantare un sistema politico che oggi ricicla, ad opera del suo astro nascente Matteo Renzi, un personaggio come Berlusconi, di cui è noto il rapporto di stretta collaborazione con Dell’Utri, che ha dichiarato che il boss conclamato Vittorio Mangano è stato un eroe "per non aver parlato", osservando così in modo secondo lui ammirevole uno dei comandamenti centrali del codice mafioso? Questi, e molti altri, come l’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, le mille facce della corruzione, il traffico dei rifiuti pericolosi che ha condannato a morte intere regioni in cui sono implicati non solo i mafiosi ma gli industriali che li hanno utilizzati e che oggi non vengono adeguatamente perseguiti, sono i veri motivi del potere persistente delle organizzazioni mafiose nel nostro Paese. Per non parlare dell’indebolimento dell’azione preventiva e repressiva che scaturisce dai tagli alla spesa pubblica. A fronte di questo potere e delle sue cause reali, gli ergastoli ostativi costituiscono solo una foglia di fico. Ovvero l’altra faccia della medaglia. Se in casi precisi e circostanziati l’uso di una determinata strategia giudiziaria può essere utile ad acquisire informazioni e indebolire l’organizzazione criminale, non bisogna perdere di vista la necessità di una risposta sociale, politica e culturale alla criminalità. In tale ottica, ha senso occuparsi anche dei diritti dei condannati. Dando loro una possibilità di riadattamento sociale. Perché la sconfitta del sistema culturale su cui si regge oggi in Italia il potere della criminalità deve necessariamente passare per l’affermazione dei valori costituzionali fra i quali assume rilievo centrale quello affermato dall’art. 27, secondo il quale "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Immigrazione: rimpatriati due marocchini che si cucirono bocca nel Cie di Roma Adnkronos, 15 febbraio 2014 Sono stati rimpatriati due dei tredici nordafricani che, nei giorni scorsi, si erano resi protagonisti della protesta delle "bocche cucite" nel Cie di Ponte Galeria a Roma. Il timore, si apprende all’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio, è che presto anche gli altri undici vengano rimpatriati. "La cosa non è illegale - commenta il Garante Angiolo Marroni - ma dal punto di vista umano, si poteva tentare di dare un permesso di soggiorno a queste persone che non hanno commesso reati". Gli stranieri, tutti marocchini, erano arrivati, dopo un lungo viaggio della speranza dal Marocco alla Libia, sull’isola di Lampedusa. "Sembra una vendetta punitiva per aver creato molto scalpore con la protesta delle bocche cucite", aggiunge Marroni, il cui presentimento è che anche gli altri verranno presto rimpatriati. "È un dramma autentico, umano e politico", conclude. Espulsi avevano richiesto asilo politico Sono due gli immigrati che parteciparono alla protesta delle "bocche cucite", che sono stati espulsi questa mattina dal Cie di Ponte Galeria, a Roma. Entrambi - fa sapere il Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni - avevano fatto richiesta di asilo politico. I due, marocchini, di 22 e 28 anni, erano arrivati al Centro di Identificazione ed Espulsione più di due mesi fa da Lampedusa. Questa mattina alla notizia del rimpatrio dei due ospiti, si sono registrati momenti di tensione nella struttura senza però proteste di particolare rilievo da parte degli immigrati. L’attenzione resta comunque alta in vista della manifestazione di domani, con il corteo dei movimenti "No Cie" che arriverà fino all’ingresso della struttura di Ponte Galeria. Bonafoni: Centri sono "carceri abusive" "La notizia del rimpatrio nel loro paese per i 15 cittadini nordafricani, che a dicembre si cucirono le bocche in segno di protesta contro le condizioni in cui erano costretti a vivere, segna un’evoluzione tutta in negativo della questione Cie, sulla quale esprimo tutto il mio disaccordo e biasimo". Lo afferma in una nota la consigliera regionale del Gruppo "Per il Lazio", Marta Bonafoni. "I protagonisti di quella dolorosa ed estrema protesta messa in atto per attirare l’attenzione del mondo al di là delle porte ingiustamente serrate del Centro - continua, non solo non sono stati ascoltati, non solo non hanno ricevuto risposte concrete, ma vengono oggi rimpatriati senza nessuna considerazione del viaggio di dolore, sacrifici e pericoli che hanno dovuto affrontare per arrivare in Europa. Neppure il gran clamore suscitato dal loro appello al Papa, neppure la considerazione in cui il Presidente della Repubblica Napolitano ha tenuto la loro lettera, sono riusciti a bloccare un tritacarne burocratico-legalitario, che incurante delle drammatiche storie personali di questi uomini e donne ingiustamente reclusi nei Cie, continua a trattarli alla stregua di pacchi postali da rispedire al mittente". Immigrazione: nel Cie di Ponte Galeria a Roma 42 immigrati in sciopero della fame Ansa, 15 febbraio 2014 Quarantadue dei 78 immigrati che si trovano nel Cie di Ponte Galeria a Roma hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il rimpatrio di due marocchini. È quanto riferisce il Garante dei detenuti nel Lazio. I due nordafricani sono stati due mesi fa tra i promotori dell’iniziativa delle "bocche cucite". Non si esclude che un analogo provvedimento venga emesso anche nei confronti degli altri immigrati che parteciparono a quella protesta. Droghe: la "riduzione del danno" torni a far parte delle politiche sociali di Irene Leonardi Redattore Sociale, 15 febbraio 2014 La Rete italiana riduzione del danno con una lettera chiede alle istituzioni un dibattito politico "ispirato alle linee guida europee, libero da tensioni moraliste o ideologiche". Adesioni da tutta Italia. La Rete Itardd (Rete italiana riduzione del danno) invia una lettera alle istituzioni per chiedere una nuova politica sulle droghe che sia "ispirata alle linee guida europee, libera da tensioni moraliste o ideologiche" e che, soprattutto, tenga conto dei principi della riduzione del danno. Alla lettera, indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai capigruppo della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, ai Presidenti delle Regioni, al presidente dell’Anci, ai sindaci e, per conoscenza, anche al Dipartimento politiche antidroga, hanno aderito già in molti e da tutta Italia, da Torino a Bologna, da Roma a Firenze, passando da Venezia, Genova e Napoli. "La riduzione del danno è utile a tutta la collettività per una molteplicità di fattori - si legge nella lettera: avvicinare le persone che usano sostanze al sistema dei servizi, e viceversa; conoscere il fenomeno e contattare il sommerso; prevenire la diffusione di malattie infettive; ridurre le morti per overdose; facilitare l’accesso ai servizi di assistenza e cura e migliorare la capacità del sistema di governare il fenomeno; rompere l’isolamento sociale delle persone tossicodipendenti che vivono in strada; garantire l’inclusione e la cittadinanza dei consumatori e delle persone dipendenti". Nella lettera anche toni duri contro il Dipartimento politiche antidroga per "gli evidenti fallimenti e i danni inflitti dall’approccio del Dpa, ai soggetti consumatori di sostanze, alle loro famiglie, ai detenuti, al sistema dei servizi, alle politiche delle città, agli operatori" ed è per questo che chiedono anche le dimissioni di Giovanni Serpelloni, capo del dipartimento. Critiche alle campagne pubblicitarie piene di "messaggi autoreferenziali, moralizzanti e paternalistici, inefficaci, retorici e centrati sulla stigmatizzazione del consumatori, e che hanno il solo effetto di aumentare il fenomeno del "sommerso". Itardd chiede anche che la competenza torni ai ministeri del Welfare e della Salute e che venga sempre presa in considerazione la riduzione del danno che ha come obiettivo "la limitazione dei rischi e il contenimento dei danni droga correlati piuttosto che la prevenzione del consumo in sé". Spazio anche a una nota sulla illegittimità della Legge Fini-Giovanardi e della Bossi-Fini sull’immigrazione, colpevoli di aver "riempito le carceri italiane al punto da richiedere un intervento dell’Unione europea per sanzionare l’Italia a causa del sovraffollamento e della violazione dei diritti nelle carceri. Questo perché - spiegano - la legge persegue e penalizza i comportamenti che sono la quotidianità dei consumatori, come il possesso di sostanze, e così in carcere ci finiscono consumatori o piccoli spacciatori, magari migranti". Itardd è una rete di operatori, operatrici, consumatori, associazioni ed enti locali che promuove, sostiene e difende la riduzione del danno in Italia ed aderisce alla rete europea della riduzione del danno, Euro Hrn. Droghe: la prima ora d’aria del Dottor Cannabis… io spacciatore di cure di Mario Neri Il Tirreno, 15 febbraio 2014 "Facevo le chemio, poi ho scoperto le proprietà della canapa e la mia vita è cambiata. Sono agli arresti ma continuo a lottare" La sua prima uscita pubblica. L’ora d’aria per lui arriva pochi giorni dopo la ventata d’aria fresca con cui la Consulta, insieme alla Giovanardi-Fini, "ha spazzato via dieci anni di scorie e veleni moralistici, dieci anni di un potere piegato alle lobby farmaceutiche". Non ha nessuna intenzione di abbandonare la sua battaglia per i diritti del malato, il Dottor Cannabis. "Farò appello, chiederò una revisione della pena, credo di poter passare da 6 a 2 anni di condanna". Che poi a Fabrizio Cinquini, 51 anni, di Pietrasanta, quella definizione, Dottor Cannabis, non piace per niente. Non lo dice, è troppo colto e ironico per una caduta di stile, il medico più famoso di Italia per essersi ritagliato una vita controcorrente a favore dell’utilizzo terapeutico della marijuana e per questo esserci pure finito in carcere. Il 19 dicembre, per il chirurgo vascolare di Pietrasanta, era arrivata la condanna in primo grado. Reati: coltivazione, produzione e detenzione ai fini di spaccio di 277 piante. "Le cronache locali mi hanno sempre dipinto come uno spacciatore". E in effetti quella formuletta strizza l’occhio, allude, sottintende. "Lo ammetta doc, un po’ le piace stonarsi". Certo lui arriva in Consiglio regionale fumandosi una canna. Ma ascoltatelo bene il Dottor Cannabis: "Non sono un amante dello sballo. Mi piace molto la mia lucidità. Amo la disciplina morale, il controllo del mio io. Sono contrario a qualsiasi forma di sbronza, io mi ubriaco di creatività artistica, scientifica e tecnica. Amo affinarmi verso l’alto nei livelli di consapevolezza, non verso il basso. Questi sono i miei sballi". Anche perché, assicura "questa non sballa - dice fumando - viene da un seme ibridato a cui ho abbassato i livelli di Thc, la famosa molecola tanto demonizzata perché stordisce. Serve per tenere a freno i miei dolori, la mia nausea, la mia epatite C". Ha chiesto il permesso al giudice, "a mezzanotte devo riessere a casa. Ho l’obbligo di dimora, ma a Forte dei Marmi, non a Strettoia, pensano che se vivo troppo vicino alla serra possa ricominciare, si rende conto". Arriva con la moglie Lucia Pescaglini. Elegante, abito nero, cravatta con una fantasia floreale indiana. L’ha invitato Enzo Brogi, consigliere del Pd, l’autore della legge regionale che dal maggio 2012 prevede la somministrazione legale dei farmaci cannabinoidi in Toscana. Ore 17, Sala Affreschi. È qui per la presentazione del libro "Canapa medica" del giornalista Fabrizio Dentini. C’era finito il 22 luglio 2013 in carcere. S’è fatto cinque mesi dietro le sbarre. Prima tappa a Lucca. Dalì il direttore lo aveva inviato all’ospedale psichiatrico di Montelupo. "Avevo iniziato lo sciopero della fame, in segno di protesta. Lo denuncerò alla Corte di Strasburgo". Ora però è molto più rilassato. Tira tutta un’altra aria. "La bocciatura della Giovanardi-Fini è un primo passo. In America molti stati, il ventesimo è la Florida, sono arrivati alla legalizzazione dei cannabinoidi per scopi terapeutici e voluttuari. E se una cosa la fa l’America prima o poi la fa anche l’Europa". Cinquini qui sembra una star. Tutti conoscono la sua storia. "Ciao doc, ti volevo stringere la mano, sei un grande", dice una ragazza. Ci sono i malati che hanno avuto accesso alla terapia legale, e ci sono quelli che no, sono costretti a rivolgersi agli spacciatori. "Ho studiato la legge toscana, mi dispiace - dice Cinquini - ma non è perfetta, molte patologie sono escluse. Brogi aveva fatto un buon lavoro, ma il regolamento attuativo ha rovinato tutto". Lo sa bene Nicola De Benedetto, 41 anni, affetto da artrite remautoide. È venuto da Arezzo per ascoltarlo: "Vengo da 25 anni di cortisone, chemio, morfina. Ho vissuto tutto quel tempo con la sensazione di avere delle lame piantate nelle ossa. Da tre anni, con la cannabis sono rinato, ma per convincere i medici è servito che arrivassi a un passo da lasciarci la pelle". "Nemmeno io ci rientro", dice Cinquini. Sì perché la sfida di questo dottore coltissimo e sarcastico è partita con la sua malattia. "In realtà ho cominciato ad avvicinarmi allo studio della canapa a Cagliari, da medico militare, nel 1992. Ma poi l’ho ripresa nel 2000". Cinquini è un dottore normale, anzi parecchio di più. Chirurgo vascolare, omeopata, sa operare in ipnosi, non smette mai di specializzarsi. Ma nel 1998, mentre è in ambulanza, si prende l’epatite C. "Inserivo la cannula al paziente e mi sono tagliato. Dopo tre mesi è cominciato l’inferno. Mi sono sottoposto a due cicli di chemio. Ribavirina e interferone. Ho perso 15 chili. Poi due mie colleghe di Pisa mi parlano della molecola della cannabis. Sono rinato, ho ripreso tutti gli appetiti che la chemio mi aveva rubato". Così comincia con le ricerche, nella casa di Strettoia, in Versilia. Coltiva, sperimenta, ibrida piante, cerca di abbassare i livelli della Thc. Ci riesce, mai vicini di casa lo denunciano. "Sai, i carabinieri sapevano, figuriamoci se pensavano spacciassi. Ma se per vicino hai un nazista è un po’ difficile convincerlo che sei un medico e fai ricerca". Così cominciano i sequestri. L’ultimo gli costa il carcere. Poi la condanna: 6 anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici, sospensione da medico, 30 mila euro di multa. "Se rimpiango qualcosa? Sono in bancarotta. Ho fatto passare brutti momenti a mia moglie e mia figlia. E rimpiango il mio pacifismo, la mia convinzione per un mondo migliore. Ora vorrei solo che il giudice mi accordasse di scontare il resto della pena in Puglia. Mi hanno chiamato da un istituto di ricerca per lavorare su nuovi semi". Pensatela come volete, il Dottor Cannabis non si arrende. India: caso marò; passati due anni da uccisione pescatori, pressing dell’Italia su Ue e Onu Adnkronos, 15 febbraio 2014 Domani saranno passati esattamente due anni da quando ha avuto inizio il "caso marò". Accusati di aver ucciso due pescatori indiani, Valentine Jalstine e Ajesh Binki, mentre erano in servizio antipirateria sulla petroliera Enrica Lexie nell’Oceano Indiano, i due militari italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono ancora in India. Tra processi, rinvii, polemiche e due permessi per rientrare in Italia, martedì prossimo la Corte Suprema dovrebbe decidere se applicare ai due fucilieri di Marina il Sua Act, la legge antipirateria e terrorismo che può prevedere la pena di morte ma che ora è stata esclusa. I due pescatori indiani furono uccisi da colpi di arma da fuoco sulla loro barca a largo delle coste del Kerala la sera del 15 febbraio 2012. Il giorno seguente, su sollecitazione della guardia costiera indiana, il comandante della petroliera italiana entra nel porto di Kochi. Qui i due marò vengono accusati di avere ucciso i pescatori, un’accusa che viene subito respinta affermando che sono stati sparati solo colpi d’avvertimento. Il 19 febbraio le autorità del Kerala prelevano dalla petroliera Latorre e Girone, che vengono fermati, interrogati e fatti alloggiare in una guest house della polizia. Per il governo italiano, comunque, l’India non ha giurisdizione sul caso perché la nave operava in acque internazionali. Il 5 marzo il giudice della corte di Kollam stabilisce che i due marò vengano trasferiti in custodia giudiziaria nel carcere di Trivandrum, capitale dello Stato federale del Kerala. Su intervento dell’allora sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, attuale inviato speciale del governo italiano, i due italiani vengono rinchiusi in una struttura separata dagli altri detenuti. Il 25 maggio i due marò lasciano il carcere di Trivandrum e vengono trasferiti in una struttura preparata per loro a Kochi, la Borstal School, e 5 giorni dopo ottengono la libertà su cauzione, con il divieto di lasciare Kochi. Il 14 dicembre Latorre e Girone chiedono di potersi recare in Italia per le festività natalizie. Pochi giorni dopo, il 20 dicembre, arriva la concessione da parte della Corte del Kerala di un permesso speciale per trascorrere Natale in famiglia. Latorre e Girone hanno l’obbligo di rientrare entro il 10 gennaio in India e il giudice dispone il deposito di una cauzione di 60mila rupie, pari a 826mila euro. I due militari dovranno inoltre fornire alla polizia di Kochi i loro indirizzi, telefoni cellulari e un resoconto dettagliato dei loro spostamenti durante la permanenza in Italia. Dopo dieci mesi trascorsi agli arresti in India i due marò tornano quindi in Italia il 22 dicembre 2012, per ripartire il 3 gennaio. Il 18 gennaio la Corte Suprema indiana stabilisce che il governo del Kerala non ha giurisdizione per intervenire nel caso concernente i due fucilieri di Marina e dispone che il processo venga affidato ad un tribunale speciale che sarà costituito a Nuova Delhi. Il 22 febbraio la Corte Suprema dell’India autorizza il ritorno in Italia dei due fucilieri di Marina per un periodo di quattro settimane per consentire loro l’esercizio del diritto di voto alle elezioni del 25 febbraio e Latorre e Girone atterrano in Italia il giorno dopo. Ma, l’11 marzo arriva il colpo di scena: i marò non torneranno in India alla scadenza del permesso. Mentre inizialmente il ministero degli Esteri di Nuova Delhi riferisce che la comunicazione italiana verrà esaminata con attenzione, due giorni dopo il premier indiano Manmohan Singh avverte che se l’Italia non manterrà l’impegno preso di far rientrare in India i due marò ci saranno conseguenze nei rapporti bilaterali. Il 22 marzo, tra le polemiche, i marò torneranno in India dopo che "il governo italiano ha richiesto e ottenuto dalle autorità indiane l’assicurazione scritta riguardo al trattamento che sarà riservato ai fucilieri di Marina e alla tutela dei loro diritti fondamentali". A tranquillizzare i militari interviene anche de Mistura, affermando che Latorre e Girone non rischiano la pena di morte in India perché il governo di Nuova Delhi ha fornito al riguardo una "assicurazione scritta" al governo italiano. A livello interno esplodono le divisioni sulla gestione del caso, con le dimissioni plateali in Parlamento, il 26 marzo dello scorso anno, del ministro degli Esteri Giulio Terzi. Pochi giorni dopo l’India deciderà di affidare alla Nia, la polizia investigativa indiana l’incarico di svolgere nuove indagini nella vicenda. Negli ultimi mesi si è passati da un rinvio all’altro delle decisioni della Corte suprema, mentre ministero degli Interni e degli Esteri - quest’ultimo sempre pronto a rassicurare che non sarebbero stati condannati a morte - litigavano sui capi di imputazione nei confronti dei due marò. L’ultimo rinvio è del 10 febbraio scorso, quando la Corte suprema di Nuova Delhi - dove, in un gesto di sostegno e solidarierà a Latorre e Girone, si è presentato anche il ministro della Difesa Mario Mauro - ha rinviato a martedì prossimo una decisione sui capi di imputazione. E questo dopo che il procuratore generale ha informato i giudici che il governo ha modificato la propria posizione, derubricando il reato da omicidio a violenza e dunque escludendo la pena di morte. Negli ultimi giorni, il governo italiano ha aumentato il pressing sull’Ue e sull’Onu, mentre anche la Nato ha espresso la propria preoccupazione. Bruxelles ha paventato una sospensione dei negoziati per un accordo di libero scambio tra i 28 e l’India, mentre l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune europea, Catherine Ashton, ha definito "inaccettabile" l’applicazione del Sua Act, prospettando "serie ripercussioni" sulle missioni internazionali antipirateria. E "sorpreso" della decisione indiana di ricorrere alla legge antiterrorismo si è detto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, dopo le polemiche sollevate nei giorni scorsi dalle sue dichiarazioni, secondo cui la questione riguarderebbe i rapporti bilaterali Italia-India. Oggi del caso Ban parlerà con la Ashton a New York, mentre per i prossimi giorni il ministro degli Esteri Emma Bonino ha annunciato un incontro con l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Navy Pillay. Intanto, questa mattina, il premier dimissionario Enrico Letta ha presieduto la sua ultima riunione del gruppo marò, ribadendo "i sentimenti di vicinanza a Salvatore Girone e Massimiliano Latorre e alle loro famiglie". "Sono certo - ha detto - che l’impegno delle istituzioni italiane e dell’Italia intera continuerà con determinazione fino alla soluzione della vicenda". Serbia: nelle carceri un progetto, unico nel suo genere in Europa, di "teatro legislativo" di Nicola Dotto www.west-info.eu, 15 febbraio 2014 Ai detenuti delle prigioni serbe viene in aiuto il teatro. Un progetto, unico nel suo genere in Europa, di "teatro legislativo" permetterà infatti agli stessi carcerati di proporre diverse e nuove misure volte ad alleggerire il carico complessivo del sistema penale e la lunghezza dei periodi di detenzione. Dopo i primi 3 mesi di workshop che hanno visto coinvolti detenuti ed ex-detenuti, sono state individuate le criticità della legge e discussi i problemi più urgenti e le difficoltà maggiori da affrontare nelle strutture detentive. Il materiale raccolto, è stato oggi, riformulato anche grazie all’aiuto di alcuni attori professionisti in modalità di teatro interattivo e viene presentato in molti spazi pubblici della Serbia. Ed è così che nel corso dello spettacolo il pubblico è invitato a intervenire, discutere e proporre le proprie idee e le possibili soluzioni ai problemi. Alla fine del tour verranno sottoposte alla supervisione finale di 4000 detenuti le tre proposte indicate più urgenti e importanti. Che verranno messe nelle mani di alcuni avvocati per diventare delle proposte di modifica della normativa in vigore. Ultima tappa si consumerà in Parlamento che sarà chiamato a discutere sugli emendamenti ed eventualmente intervenire per modificare la legge sulle carceri. Yemen: caccia all’uomo dopo l’evasione di 19 terroristi di Al Qaeda dal carcere di Sanàa Adnkronos, 15 febbraio 2014 È caccia all’uomo in Yemen, dove ieri 29 detenuti, tra i quali 19 membri di al-Qaeda, sono evasi dal carcere della capitale Sanàa, dopo che un’esplosione provocata da un’autobomba ha fatto franare un muro dell’edificio. Subito dopo, un gruppo di uomini armati ha attaccato le guardie dell’edificio, consentendo a 29 detenuti, sui circa 5.000 che si trovano nella struttura, di darsi alla fuga. "Diciannove degli evasi sono accusati di aver commesso azioni terroristiche", ha detto un portavoce del governo all’agenzia ufficiale Saba, aggiungendo che è in corso una vera a propria caccia all’uomo per catturare i fuggiaschi. Il portavoce ha poi incolpato dell’assalto al carcere i terroristi di al-Qaeda nella penisola araba, che durante l’operazione hanno ucciso sette guardie e ne hanno ferite altre quattro. Anche tre degli assalitori sono morti. Ucraina: rilasciati manifestanti detenuti. Opposizione: molti ai domiciliari, non è amnistia Ansa, 15 febbraio 2014 Giornata concitata a Kiev. Secondo il procuratore generale d’Ucraina Viktor Phsonka tutti i 234 manifestanti antigovernativi ucraini detenuti dopo i disordini del 2014 sono stati rilasciati. Ma l’opposizione ha replicato: "Molti sono ancora ai domiciliari". Il magistrato ha detto che "nessuna delle persone in carcere è in custodia". Secondo Rostislav Pavlenko, un deputato del partito d’opposizione Udar, aver cambiato la dicitura del fermo per gli attivisti antigovernativi non implica però la soddisfazione delle richieste della piazza. "È stata cambiata la misura restrittiva, le persone sono state scarcerate, ma sono agli arresti domiciliari, e questo significa", ha spiegato il parlamentare, "che i loro diritti sono limitati e che le inchieste penali continuano a pendere sopra le loro teste". Pavlenko ha ribadito che "questa non è una amnistia, questa non è la risposta alle richieste dell’opposizione". Il procuratore generale, da parte sua, ha detto che "non ci sono ostacoli allo sgombero delle strade e dei palazzi" occupati dai manifestanti entro lunedì 17 gennaio. Questa sarebbe la condizione per l’applicazione di una legge d’amnistia per i dimostranti approvata dal parlamento il 31 gennaio, ma aspramente criticata dall’opposizione, che la considera una sorta di ultimatum. Intanto però l’opposizione ucraina si sta organizzando per nuove dimostrazioni. I gruppi antagonisti avrebbero infatti in programma un’altra manifestazione di massa in piazza Maidan a Kiev. L’ex premier Yulia Timoshenko, condannata a sette anni di reclusione in un processo che molti osservatori ritengono di matrice politica, ha annunciato in una nota una "offensiva pacifica dei militanti perché siano soddisfatte le richieste dei manifestanti". Libia: 92 detenuti evadono da carcere di Zliten, solo 4 guardie per sorvegliare 220 persone La Presse, 15 febbraio 2014 In Libia 92 detenuti sono evasi da un carcere nella città di Zliten, a causa della scarsa sicurezza. Lo ha reso noto Hasslibya an bin Sophia, portavoce del consiglio comunale del centro abitato, aggiungendo che ieri c’erano solo quattro guardie e sorvegliare 220 detenuti comuni e politici. Secondo il racconto del funzionario i detenuti hanno chiesto un medico e quando poi il cancello del penitenziario è stato aperto hanno attaccato le guardie e sono riusciti ad evadere. Diciannove fuggitivi sono stati subito catturati. Due di loro sono rimasti feriti dopo che gli agenti hanno aperto il fuoco. I funzionari locali stanno contattando le famiglie degli evasi affinché li convincano ad arrendersi. Turkmenistan: il Presidente Berdymukhamedov firma un’amnistia per 800 detenuti Tm News, 15 febbraio 2014 Il presidente turkmeno Gurbanguly Berdymukhamedov ha amnistiato 859 prigionieri in occasione della Festa della Bandiera, il 19 febbraio prossimo: lo ha reso noto il giornale ufficiale Neutralny Turkmenistan. La misura riguarda coloro "che hanno violato la legge ma si sono pentiti in maniera sincera" ha spiegato il Presidente ai suoi Ministri, intendendo in tal modo "dare la possibilità a queste persone di tornare ad una vita normale e di espiare le loro colpe per mezzo di un lavoro onesto e una partecipazione attiva allo sviluppo del Paese". L’amnistia è una misura abituale in occasione delle principali feste nazionali o islamiche, ma secondo le Ong per la difesa dei diritti umani nel Paese rimangono in carcere migliaia di detenuti. Berdymukhamedov, pur non alieno dalle comparsate televisive chitarra in mano, si è strenuamente opposto al culto della personalità del suo predecessore (nonché "Padre di tutti i turkmeni") Saparmurat Niyazov. Il che peraltro non gli ha impedito nell’agosto scorso di inaugurare una statua di bronzo alta cinque metri raffigurante il padre - nonché ex Ministro degli Interni e felicemente in pensione - Myalikoguly.