Giustizia: il magistrato "condanna" il carcere a dare ai detenuti sette metri di spazio di Sabrina Tomè La Nuova Venezia, 13 febbraio 2014 Innovativa ordinanza della Sorveglianza di Venezia. "Celle più ampie o risarcimento di 100 euro a recluso". Il carcere di Venezia Santa Maria Maggiore "condannato" a trovare celle più ampie, assicurando a ciascun detenuto almeno 7 metri quadri di spazio vitale. E, se non lo farà, dovrà risarcire i carcerati con 100 euro al giorno. È quanto stabilito dalle ordinanze emesse lo scorso 6 febbraio dai magistrati degli uffici di sorveglianza di Venezia, in parziale accoglimento dei reclami giurisdizionali presentati da una quindicina di detenuti veneziani (all’esame c’è anche quello di un trevigiano). Si tratta di un pronunciamento innovativo che dà applicazione a quanto previsto dal "decreto svuota-carceri", il 146 del dicembre 2013, appena approvato dalla Camera. "Queste ordinanze sono tra le prime in Italia in materia", affermano i dirigenti del tribunale di Sorveglianza. Un precedente destinato a fare scuola. Il reclamo può essere presentato quando inosservanze dell’amministrazione comportano "attuale e grave pregiudizio" ai diritti dei detenuti. Primo fra tutti il pregiudizio derivante dal sovraffollamento delle carceri, riconosciuto dalla Corte europea e dalla Corte Costituzionale. Il reclamo mette in moto una sorta di "processo" davanti al magistrato di sorveglianza, con la convocazione delle parti. Così è avvenuto quando sul tavolo degli uffici di sorveglianza del Veneto sono arrivate le istanze di 15 detenuti, per la quasi totalità reclusi a Santa Maria Maggiore, con la sola eccezione di un trevigiano di Santa Bona. Che cosa lamentavano i carcerati? Sostanzialmente una condizione di disagio nelle celle a cominciare dallo spazio a disposizione, inferiore a quei 7 metri per persona che il Consiglio d’Europa ha prescritto come superficie minima in una cella. Ma non basta, i detenuti hanno avanzato altre richieste: illuminazione naturale, bagno chiuso, possibilità di trascorrere otto ore fuori dalla cella. Contro i reclami si è costituito il ministero di Giustizia, chiedendo il rigetto degli stessi. Il 6 febbraio si sono tenute a Venezia le udienze alle quali hanno partecipato i carcerati. I magistrati si sono pronunciati respingendo i ricorsi con riferimento a bagni, illuminazione e orario fuori dalla cella perché l’amministrazione penitenziaria ha dimostrato di aver già risolto i problemi relativi. La Sorveglianza ha invece dato ragione ai detenuti, accogliendone i reclami, relativamente allo "spazio vitale" e ordinato conseguentemente all’amministrazione penitenziaria di garantire ai ricorrenti celle con almeno 7 metri quadri a disposizione per persona. Cosa succederà ora? Il ministero - spiegano al tribunale di Sorveglianza- può impugnare le ordinanze tramite l’Avvocatura dello Stato, entro il termine di 15 giorni. Se non lo farà la decisione "passerà in giudicato" e a questo punto all’amministrazione non resterà che conformarsi alla decisione della Sorveglianza. Se non adempirà, allora, andrà incontro alle sanzioni previste dal decreto 146/2013: un risarcimento di 100 euro al giorno per il detenuto trattato in modo inumano a causa del sovraffollamento delle celle. Ma una precisazione va fatta: il decreto è senza soldi. E quindi la sanzione rischia di restare sulla carta. Padova, Vicenza e Verona: quasi il doppio dei detenuti Il fallimento della politica carceraria italiana è sotto gli occhi di tutti. A partire dallo spazio minimo vitale, stabilito dal ministero della sanità nel lontano 1975, che definisce in nove metri quadrati lo spazio dignitoso per un detenuto. Non è così da molto tempo: ogni detenuto vive in spazi di tre metri quadrati ciascuno. Così il carcere, nato per riabilitare il detenuto e restituirlo "sano" alla società, è in realtà uno dei luoghi più pericolosi e insalubri del nostro tempo. Condizioni carcerarie certamente non degne di una società civile, secondo la denuncia di tutte le principali associazione impegnate nella difesa dei diritti universali. Ma la battaglia è impopolare e pochi i testimoni che denunciano la situazione delle carceri italiane, le più affollate d’Europa. In Italia la capienza delle carceri è di poco più di 47 mila unità, ma la popolazione di detenuti è superiore ai 65 mila: il 40 per cento in più. Circa un terzo gli stranieri: 23 mila. Quarantamila sono i condannati definitivi, dodicimila in attesa del primo giudizio, seimila gli appellanti, poco più di quattromila i ricorrenti. Dei 65 mila detenuti la maggior parte - 34mila - è in carcere per reati contro il patrimonio; ma la molteplicità dei reati porta anche 27 mila detenuti per reati legati al traffico di droga, 23 mila per reati contro la persona, diecimila per reati legati alla legge sulle armi, ottomila contro la pubblica amministrazione, seimila per associazione di stampo mafioso, seimila contro l’amministrazione della giustizia. Nel Veneto la situazione del sovraffollamento è in linea con la media italiana. Secondo una ricerca della Fondazione Moressa, al Due Palazzi di Padova ci sono 892 detenuti per una capienza di 439, al Montorio di Verona 829 detenuti in 594 posti, al Santa Maria Maggiore di Venezia 253 per 168 posti, a Vicenza 307 in 146 posti. Poco diversa la situazione a Treviso. Giustizia: lunedì il decreto-carceri in Aula al Senato, dalla Lega 275 emendamenti Ansa, 13 febbraio 2014 Il decreto carceri sarà all’esame dell’Aula del Senato lunedì 17 febbraio nel pomeriggio. Lo ha stabilito la Conferenza dei Capigruppo di Palazzo Madama. L’esame del testo però non si annuncia facile visto che Forza Italia vuol cambiare alcune parti del testo, soprattutto le norme che riguardano gli stupefacenti, e la Lega ha già presentato 275 emendamenti. In tutto sono circa 500 gli emendamenti presentati in commissione Giustizia al Senato al decreto Carceri. Lo riferisce il relatore del provvedimento Enrico Buemi (Psi). Giustizia: martedì prossimo alla Camera il dibattito sul messaggio di Napolitano di Dimitri Buffa www.italia-24news.it, 13 febbraio 2014 La contabilità nuda e cruda l’ha data ieri sera dalla rubrica "Radio Carcere" su Radio Radicale il conduttore Riccardo Arena: "Da quando Giorgio Napolitano ha fatto lo scorso 7 ottobre il messaggio alle Camere su giustizia e carceri invivibili nelle prigioni italiane sono morte altre 32 persone, sedici delle quali per suicidio". Mentre da quando l’Europa ci ha messo in mora mediante la Corte Europea dei diritti dell’uomo, Cedu, cioè da gennaio 2013 a oggi, i morti sono stati oltre 130, 54 dei quali per suicidio. Queste aride e macabre cifre danno da sole la risposta a una politica insensibile e insofferente alla questione delle carceri italiane e alla loro invivibilità. Ma qualora non fossero bastate, si sappia che anche le condanne da Strasburgo continuano a ritmo incessante, mentre i parlamentari cercano di non parlare, come invece la Costituzione loro imporrebbe, dello scomodo messaggio di Napolitano. Che dopo quattro o cinque rinvii sembra sia stato calendarizzato per mercoledì 18 febbraio. Sempre che non si inventino qualche altro pretesto per rimandare ancora alle calende greche. E sempre che il dibattito non sia confinato in un’aula semivuota mentre tutti i protagonisti sono in tutte altre faccende affaccendati, in pendenza di staffette di governo tra Renzi e Letta con tutti gli annessi e connessi del toto ministri e dei giochetti di poltrone ministeriali e sotto governative. Uno spettacolo indecente. E a questa maniera di fare politica sul versante giustizia ieri è arrivato l’ennesimo schiaffo dall’Europa, dalla Corte di Strasburgo, che ha condannato lo stato italiano a risarcire Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, condannato a dieci anni, da probabile innocente, per concorso esterno in associazione mafiosa esclusivamente sulla parola dei pentiti che proprio lui a suo tempo fece incastrare, come Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia. Secondo la Cedu "Tra il 2007 e il 2008 le sue condizioni di salute erano incompatibili con la detenzione". Lo Stato italiano, se non ci saranno ricorsi, dovrà pagargli 15mila euro. La memoria riporta alle infinite istanze di differimento pena presentate dal suo difensore corredate con decine di certificati medici. Niente. Tutto inutile. La burocrazia con Contrada fu più spietata e inesorabile di quegli stessi magistrati che lo inquisirono e di quelli che lo condannarono senza uno straccio di riscontro alle parole dei pentiti. In Europa però le cose funzionano diversamente. E non a caso il suo avvocato Giuseppe Lipera ha commentato così: "C’è un giudice a Strasburgo e ora speriamo di trovarne presto un altro. È la prima parziale vittoria, ma noi continueremo a lavorare, giorno e notte, fino ad ottenere giustizia con la revisione del processo. Io prego affinché questo avvenga". Già perché l’anziano, ultra ottantenne, "servitore dello stato" Bruno Contrada, come lui stesso si è sempre definito, adesso deve combattere un’altra battaglia per riprendersi l’onore perduto. E visti i tempi della giustizia italiana, rischia di essere la più lunga e la più difficile. Giustizia: svuotiamo le carceri… ma diamo anche ascolto ai cittadini di Paolo Padoin www.firenzepost.it , 13 febbraio 2014 Da quando il Presidente della Repubblica ha richiamato l’attenzione di tutti sul problema delle carceri, le luci dei riflettori si sono accese sulla vergogna del trattamento inflitto ai detenuti. Molti, e in primis il ministro della Giustizia, sottolineano la necessità d’impedire che scatti la "mannaia" della sentenza emessa nel gennaio 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, sospesa fino a maggio 2014 per consentirci di rimediare al sovraffollamento nelle carceri. La Corte però ci impone comportamenti civili ma non ci obbliga a far uscire dal carcere una massa di delinquenti. Come ha rilevato giustamente anche l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, se siamo arrivati a questo drammatico punto di non ritorno è perché è mancato un progetto globale che preveda, tra l’altro, un’effettiva separazione fra imputati e condannati, concrete misure di risocializzazione, il rilancio delle misure alternative, l’estensione del lavoro penitenziario da poche realtà (tipo Milano-Opera e Padova) alle altre carceri. Nel periodo in cui sono stato prefetto di Padova ho conosciuto molto bene quel penitenziario, che è sicuramente all’avanguardia. E non sono neppure molto fondate le solite storielle sulla penuria di locali e di effettivi di polizia penitenziaria che ci hanno propinato finora. Caselli ricorda che il rapporto numerico fra detenuti e popolazione del nostro Paese non si discosta molto dalla media della Ue. Abbiamo il miglior rapporto europeo fra detenuti e poliziotti penitenziari. Ottimo è anche il rapporto fra cubatura totale degli edifici penitenziari e metratura che conseguentemente potrebbe essere destinata ai detenuti. Francamente, a fronte di questi dati, è paradossale che si parli ciclicamente di insufficienza degli organici della polizia penitenziaria chiedendo sempre nuove assunzioni (si noti che l’88% delle spese dell’amministrazione penitenziaria è assorbito dal personale), fino al caso dei 120 neo vicecommissari da un anno pagati ma rimasti senza incarico. Così come è paradossale che possa verificarsi un sovraffollamento di dimensioni tali da causare la pesante condanna europea. Manca ed è mancato anche in passato un progetto globale d’intervento che è l’esatto contrario delle misure ispirate a logiche emergenziali, come il decreto svuota carceri. Il testo è stato approvato adesso dalla Camera perché il governo ha posto la fiducia, superando così la tenace opposizione dei parlamentari del Movimento 5 Stelle e della lega Nord. Il ministero della Giustizia e i sostenitori del decreto citato affermano che esso non mette a rischio la sicurezza dei cittadini. Di diversa opinione credo che siano i tanti italiani che hanno trovato le case svaligiate (ben 140.000 denunce in un anno). Molti ritengono che, com’è avvenuto in passato, la maggior parte dei rilasciati torneranno a delinquere e che anche i costosi braccialetti elettronici della Telecom e altri espedienti dissuasivi non eviteranno questa triste realtà. Aggiungiamo inoltre che buona parte dei misfatti, dai furti agli omicidi, restano impuniti. Il rimedio potrebbe trovarsi con l’approvazione di riforme strutturali, con una giustizia più veloce che riduca il cospicuo numero di detenuti in attesa di giudizio. Dovremo pur trovare soluzioni che ci consentano, come negli altri paesi civili, di uscire dall’emergenza senza spalancare sempre le porte delle prigioni. Non è accettabile che siano trattati in modo disumano i detenuti, ma è necessario tutelare anche i diritti dei cittadini che subiscono gli effetti negativi delle politiche buoniste e di liberazioni e permessi concessi con manica larga. Ne abbiamo avuto esempi eclatanti anche negli ultimi tempi. Il governo Letta è in carica da quasi un anno, la Guardasigilli parla continuamente di riforme e preannuncia soluzioni dei problemi che affliggono la giustizia. È ora di passare dalle chiacchiere alle realizzazioni concrete. Si dibatte sul futuro dell’esecutivo, su rimpasti, su un Letta-bis o su un nuovo governo guidato da Matteo Renzi. Sembra che si voglia porre fine all’attuale situazione di stallo politico. Si legge che dalla compagine governativa potrebbero sparire i ministri chiacchierati e i tecnici superstiti. Oppure che sarà un governo nuovo di zecca con uomini e donne di fiducia del segretario Pd. Tutte buone intenzioni, per carità, ma sbrighiamoci a porre mano alle riforme utili e necessarie. Fate presto, l’Italia non può e non vuole attendere oltre. Giustizia: legge Fini-Giovanardi incostituzionale, pene da ricalcolare per 10 mila detenuti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 febbraio 2014 Tre articoli bocciati non per il contenuto ma per come furono approvati. Aperta la strada ad altri ricorsi e annullamenti. Il primo effetto sui processi in corso: rinvii in attesa delle motivazioni. "Qualcuno sa dire se la sentenza è già pubblicata o lo sarà a breve?", chiedeva ieri pomeriggio un giudice ai suoi colleghi, via posta elettronica, Voleva informazioni perché "domani devo concludere un processo e tra le varie imputazioni ve ne è una che riguarda solo hashish. E dunque la sentenza cambia radicalmente la cornice edittale di riferimento". La risposta è che al momento non cambia nulla: il verdetto che ha mutilato di tre articoli la legge Fini-Giovanardi è stato annunciato da un comunicato della Corte costituzionale ma non è ancora stato depositato con la sua motivazione, e dunque non è ancora efficace. È allora è probabile che oggi quel giudice rinvierà la conclusione del processo in attesa che dal palazzo della Consulta venga pubblicata la sentenza. All’incirca tra un mese, secondo consuetudine. Ma al di là della data in cui le norme bocciate saranno effettivamente abrogate, la "rivoluzione" è ormai decisa. L’articolo 73 della legge in materia di stupefacenti, insieme agli articoli 13 e 14 a esso collegati, che parificava la detenzione e lo spaccio di droghe leggere e droghe pesanti, è stato dichiarato incostituzionale. Non per il suo contenuto, ma per come è stato approvato; fu infilato con molti altri in un maxiemendamento (peraltro blindato dall’allora governo Berlusconi, che pose la questione di fiducia) durante la conversione di un decreto legge che riguardava tutt’altra materia, le Olimpiadi invernali di Torino. Una procedura inammissibile, ribadisce ora la Consulta richiamando una sua consolidata giurisprudenza, che porta necessariamente all’abolizione delle norme introdotte con quel sistema. L’effetto è che le riforme varate con la nuova formulazione dell’articolo 73 saranno cancellate, e tornerà ad avere efficacia la vecchia normativa del 1990 varata con la legge chiamata Jervolino-Vassalli (governo pentapartito da Prima Repubblica, guidato da Giulio Andreotti). Lì si faceva una netta distinzione tra il commercio di droghe leggere e pesanti, e per quanto riguarda la prima categoria (hashish e marijuana) la pena prevista variava da due a sei anni di carcere. La Fini-Giovanardi, invece, non faceva distinzioni tra derivati della cannabis, eroina o cocaina: "Chiunque coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa 0 spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 (un altro di quelli dichiarati illegittimi dalla Corte, ndr), è punito con la reclusione da sei a venti anni". Inasprimento durissimo: per gli spacciatori di droghe leggere il massimo della pena precedente diventava il minimo. L’unica attenuante che poteva portare a condanne più contenute era quella dei "fatti di lieve entità" prevista dal comma 5 dell’articolo 73; in quei casi la pena andava da uno a sei anni di carcere, ma era comunque un aumento rispetto alla Iervolino-Vassalli che, per lo spaccio di piccole dosi, prevedeva da sei mesi a quattro anni di galera. Ora si torna a quel regime, e questo crea un problema al decreto cosiddetto "svuota-carceri" varato a dicembre dal governo Letta, e che il Parlamento deve approvare entro il 21 febbraio; lì il comma 5 è stato modificato abbassando il massimo della pena della Fini-Giovanardi da sei a cinque anni. Non appena tornerà in vigore la legge precedente, dove il massimo è quattro anni, bisognerà reintervenire per adeguare la riforma alla norma generale. Ma come si traduce tutto questo in termini pratici, per imputati e detenuti? Cifre precise non ce ne sono, la stima di 10.000 persone attualmente in cella per reati connessi alle droghe leggere è approssimativa, ed è difficile dire adesso quanti e quando usciranno di galera. Per chi è ancora sotto processo (in Primo grado, Appello o Cassazione), si applicheranno le vecchie norme reintrodotte dalla Corte costituzionale, e in attesa che ciò possa avvenire dopo la pubblicazione della sentenza della Consulta è verosimile che i giudizi vengano sospesi. Più complicata è la situazione di chi ha già avuto una condanna definitiva sulla base della Fini-Giovanardi e la sta ancora scontando, in carcere o con qualche misura alternativa. Per loro bisognerà avviare, caso per caso, un "incidente di esecuzione" che ridetermini la pena in base alle vecchie norme ora ripristinate. Solo quando si avrà un quadro chiaro di queste posizioni si potrà capire l’incidenza della decisione di ieri sulla popolazione carceraria. Tuttavia gli effetti della sentenza potrebbero non fermarsi ai tre articoli della Fini-Giovanardi bocciati dalla Corte. Proprio perché il motivo non riguarda il merito delle norme, bensì il metodo con cui sono state introdotte. In pratica la Consulta ha sanzionato un eccesso di potere che governo e Parlamento si attribuirono nel 2006 quando, convertendo in legge il decreto Olimpiadi (che pure conteneva un aggiustamento della legge antidroga per agevolare "il recupero dei tossicodipendenti recidivi"), hanno riscritto la normativa quasi per intero, inserendo nel maxiemendamento ben 23 nuovi articoli. Andando a incidere su materie che non avevano nulla a che vedere con l’oggetto originario del decreto. E questo non si può fare perché - come aveva già sancito la Corte in una decisione del 2012 - va salvaguardata "l’omogeneità di fondo della normativa urgente". Ora sono stati cancellati i tre articoli segnalati dai giudici che, chiamati ad applicarli, si sono fermati e si sono rivolti ai giudici costituzionali; ma se e quando altri magistrati dovessero inviare alla Consulta altri articoli approvati con quello stesso maxiemendamento dichiarato illegittimo, è prevedibile che saranno ugualmente abrogati. Giustizia: Fini-Giovanardi, il flop di una legge sbagliata; 25mila detenuti, solo 250 i boss di Vladimiro Polchi La Repubblica, 13 febbraio 2014 Carceri piene, boom del consumo di cannabis, flop dei programmi terapeutici. Che la macchina non funzionava si sapeva. I numeri sono lì a dimostrarlo: la storia della Fini-Giovanardi è una catena di insuccessi. Non solo. Le sue norme si sono rivelate dure coi deboli (consumatori), deboli coi forti (grandi spacciatori). Se l’obiettivo del legislatore del 2006 era il contenimento del consumo delle droghe attraverso l’inasprimento delle pene, questo non sembra essere stato raggiunto. "Da allora, decine di migliaia di persone sono state punite con una severità illegittima a causa di una normativa illiberale". Tuona il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani. In effetti, stando al 4° Libro bianco sulla Fini-Giovanardi (basato su dati del ministero della Giustizia), un detenuto su tre entra in carcere ogni anno per violazione dell’articolo 73 (spaccio e detenzione di droghe): nel 2012 sono stati 20.465 (su un totale di 63.020 ingressi). L’aumento in percentuale è costante dal 2006 in poi: 28,03% quell’anno, 31,11% nel 2008, 30,87% nel 2010 e nel 2012 si registra il picco del 32,45% del totale delle persone entrate in carcere per violazione dell’art.73 della legge antidroga. Quanto alle presenze dietro le sbarre, oggi quattro detenuti su dieci sono ristretti per droga. Al 31 dicembre 2012 erano 25.269, pari al 38,4%, i reclusi in violazione dell’art.73 e in aumento costante (nel 2006 erano poco più di 14mila). L’enorme divario fra i reati dell’articolo 73 (spaccio e detenzione) e quelli del 74 (relativi al grande traffico) rende evidente che la legge è applicata per colpire più i "pesci piccoli" e i semplici consumatori che i grandi padroni del mercato dello spaccio. Basta vedere che nel 2012 gli ingressi per semplice detenzione sono stati oltre 19mila, mentre quelli colpiti dal ben più grave articolo 74 si sono limitati a 250. I dati del 2012 segnano una leggera flessione rispetto al picco 2008, ma nell’insieme si riconferma il dato di fondo: ogni tre persone entrate in carcere, una è tossicodipendente. Contemporaneamente, crollano le richieste di programma terapeutico. È una discesa ripida: dalle 6713 nel 2006, alle 340 richieste nel 2012. Sulla caduta dei programmi terapeutici ha influito proprio la Fini-Giovanardi: "Il programma terapeutico - si legge nel Libro bianco - non sospende più l’erogazione della sanzione, come avveniva nella normativa del 1990. Dunque, il programma si presenta agli occhi del consumatore come un "onere", se non una punizione, "in aggiunta" a quelle già pesanti comminate". Nonostante le pene severe, secondo l’ultima relazione al Parlamento del Dipartimento politiche antidroga, cresce tra i giovani il consumo di cannabis, passato dal 19,4% del 2011 al 21,43 dello scorso anno. E ancora: stando alle segnalazioni delle forze dell’ordine alle prefetture, la percentuale di segnalazioni per cannabis è in costante ascesa: dal 73% del 2009, al 78,56% del 2012. "Ora si tornerà alla Jervolino-Vassalli - spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - una legge con trattamento penale differenziato tra droghe leggere e pesanti, che prevede in generale pene minori e politiche di riduzione del danno, cancellate dalla Fini-Giovanardi". Nella comunità di San Patrignano la bocciatura della Fini-Giovanardi desta, invece, una certa "preoccupazione per la cancellazione di norme che facilitano il ricorso a misure alternative al carcere, che oggi saranno possibili solo per condanne sotto i 4 anni, contro i 6 della Fini-Giovanardi". A giudizio della comunità, "il recupero, quindi, diventerà più difficile. Oltre a questo viene esclusa la possibilità di vedersi riconosciuta l’applicazione del reato continuato in ragione del proprio stato di tossicodipendenza o l’eventualità di vedersi cancellata la multa accessoria alla condanna in caso di esito positivo dell’affidamento in prova ai servizi sociali". Giustizia: così la politica inetta e inconcludente si è fatta scavalcare dalla giurisdizione di Luigi Saraceni Il Manifesto, 13 febbraio 2014 I giudici della Corte Costituzionale, raccogliendo la denuncia dei giudici della Corte di cassazione, hanno cancellato una legge illegittima e ingiusta - la Fini-Giovanardi - che da otto anni imperversava nei nostri tribunali, comminando per i derivati della cannabis le stesse pene previste per il commercio di eroina e cocaina. Conosceremo fra qualche settimana le motivate ragioni per le quali la Consulta ha riconosciuto la iniqua illegittimità di questa legge, responsabile non solo di tante sofferenze per chi è finito dietro le sbarre delle nostre sovraffollate carceri, ma anche della ottusa resistenza all’impiego dei derivati della cannabis a fini terapeutici e di sollievo, ormai accertati in sede scientifica. Intanto una cosa va detta. La politica si fa ancora una volta sorprendere e scavalcare dalla giurisdizione, che deve intervenire per supplire alla sua inerzia su una questione di grande rilevanza sociale. Non sono bastati, in questi anni, iniziative, appelli, denunce, di associazioni, gruppi sociali, qualificate personalità del mondo scientifico, tutti consapevoli della necessità di rimuovere il pregiudizio che tiene in vita una legislazione ottusamente proibizionista, incapace di capire, distinguere, razionalizzare. La politica è rimasta sorda, quando non ostile, a questi richiami, e comunque, anche a sinistra, ha mostrato tutta la sua inettitudine e inconcludenza. Ancora oggi, nel cosiddetto decreto svuota carceri, in via di definitiva approvazione al senato, non si è andati oltre una norma che, pur apportando qualche attenuazione del trattamento penale dello spaccio di "lieve entità", lascia intatta la equiparazione della cannabis alle "droghe pesanti". Anzi, un emendamento che distingueva tra i due tipi di droghe, proposto in Commissione Giustizia dallo stesso relatore, è stato poi ritirato. Era un’occasione per prevenire, almeno su questo punto, la decisione de giudici costituzionali. Ora invece si dovrà affannosamente inseguirla, per riportare la legge al dettato costituzionale. La Consulta, nella sua decisione di ieri, non ha bocciato solo la Fini-Giovanardi, ma anche il presidente del consiglio, che nel giudizio si era costituito in sua difesa. Sarebbe saggio - chiunque siederà a palazzo Chigi nelle prossime settimane - trarne un’adeguata lezione, per impostare un razionale intervento riformatore dell’intera disciplina legislativa degli stupefacenti, che vada anche oltre il vecchio testo unico del 1990, cui ora si dovrà necessariamente tornare dopo la decisione della Consulta. I tempi sono maturi - se la politica avrà orecchie per sentire le voci più consapevoli impegnate sulla questione droga - per riconoscere che l’impianto puramente repressivo della legislazione vigente ha mostrato nei fatti il suo fallimento. Metà della popolazione carceraria sta dietro le sbarre per problemi legati alla droga, il narcotraffico prospera, migliaia di giovani sono alle prese con le burocrazie repressive, penali e amministrative, del consumo di cannabis. Sarebbe ora di voltare pagina. La decisione della Consulta ha annullato, per ragioni tecniche, soltanto i due articoli della Fini-Giovanardi riguardanti la unificazione sotto la stessa pena di tutti i tipi di droga. Ma la ragione dell’annullamento - la violazione dell’articolo 77 della Costituzione - riguarda l’intera legge. Il legislatore non può ignorarlo, per rispetto della legittimità costituzionale ha il dovere di eliminarla dall’ordinamento giuridico. È l’occasione buona per riscrivere dalle fondamenta una legislazione che non abbia il suo centro nella repressione - da dislocare, nei limi in cui è necessaria, nel codice penale - ma la considerazione delle implicazioni sociali, umane, politiche della questione droga. Intanto sarebbe necessario rimediare, in via di urgenza, alle più vistose storture della legislazione vigente, cui la Consulta non ha potuto porre rimedio. È assurdo, per esempio, che si continui a essere puniti con il carcere per la coltivazione in terrazzo di una piantina di marijuana o si debba ricorrere al mercato clandestino per procurarsi il Thc di sperimentata efficacia terapeutica. Simili efferatezze deturpano le sembianze di un ordinamento civile, non sono tollerabili per qualunque coscienza non ottenebrata dal pregiudizio. Giustizia: intervista a Giovanni Maria Flick; da questa sentenza effetti benefici, ora l’indulto di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 febbraio 2014 Intervista a Giovanni Maria Flick, ex presidente della Consulta, che si è opposto alla legge. "Rivive la pre-esistente Jervolino-Vassalli, emendata dal referendum del 1993. Torna in vigore per il futuro e per i processi ancora in corso". Il colpo di genio della parte che ha sostenuto l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi davanti ai giudici della Consulta ha un nome: Giovanni Maria Flick, l’avvocato che dal 1996 al 1998 fu ministro di Grazia e Giustizia e soprattutto che fu, subito dopo, presidente della Corte costituzionale. La ricca trattazione giuridica con cui ha difeso durante l’udienza pubblica, affiancando l’avvocata Michela Porcile, la questione di costituzionalità sollevata dalla Cassazione sulla vigente normativa delle droghe ha evidentemente convinto pienamente gli ermellini. Che l’hanno spazzata via. Professor Flick, cosa l’ha convinta ad accettare la parte dell’accusa contro la Fini-Giovanardi? La questione di principio è molto interessante anche perché uno dei miei primi studi è stato nel 1979 un libro dal titolo Droga e legge penale, miti e realtà di una contraddizione. Ora l’oggetto di discussione, ossia la sostituzione della Jervolino-Vassalli con un’altra legge molto più rigorosa che abolisce la distinzione tra droghe leggere e pesanti, tra sostanze diverse con grado di pericolosità e implicazioni sociali diverse, punendo tutti i reati a loro connessi allo stesso modo, pone a mio avviso il problema della proporzionalità. L’uso di droghe può giustificare un intervento dello Stato, ma sono perplesso sull’intervento repressivo molto forte, soprattutto per le droghe leggere. Ma qui affrontiamo un discorso di merito che in udienza non è stato toccato. Davanti alla Consulta abbiamo trattato solo la questione di legittimità. Professore, ma lei è un’antiproibizionista? No, io non sono né proibizionista né antiproibizionista. Ho cominciato a occuparmi di droga dopo essermi occupato di plagio, delitto che commetteva chi annullava la personalità altrui e che è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte per genericità nella sua formulazione. Nel 1972 scrissi un libro sul caso Braibanti, che trattava la tutela della personalità di fronte all’ipotesi di plagio sottolineando il diritto di ciascuno a vivere condizionato da tutti gli altri e non da uno solo. Un diritto a cui si affianca anche il dovere di solidarietà, di coesione sociale, di responsabilità previsto dalla Costituzione, di vivere condizionato. Cioè non posso, attraverso l’uso di sostanze, fuggire dalla realtà. Lo Stato può chiedermi di non fuggire dalla realtà, ma lo può fare con molta cautela, perché qui entra in gioco il diritto alla diversità, all’identità di ciascuno. Per esempio, l’articolo 32 della Costituzione vieta i provvedimenti coattivi. Le imposizioni costrittive da parte dello Stato anche per il bene della persona vanno trattate con molta attenzione. In questo quadro l’assimilazione droghe leggere e pesanti va al di là dei limiti della proporzionalità. Lei però ha centrato la sua difesa sulla legge di conversione… Giustamente la Cassazione non ha sollevato problemi di merito, ma di metodo. Il decreto legge sulle Olimpiadi invernali affrontava un problema urgentissimo, quello di riparare a un errore commesso con la Cirielli e che poteva ostacolare il trattamento dei tossicodipendenti. Ma secondo un’abitudine sempre più frequente, governo e parlamento hanno caricato il treno del decreto legge di una serie di vagoni completamente estranei, per approfittare dell’iter di conversione molto più rapido di quello ordinario. È capitato anche con il decreto Milleproroghe o con il "Salva Roma" che infatti è stato ritirato. La Corte da qualche anno ha sottolineato che questo non è accettabile, e ha consolidato il principio che nella conversione - una procedura eccezionale - non si possono introdurre norme che non siano omogenee con quelle del decreto legge. La corte di Cassazione ritiene, e io ho argomentato, che una cosa è occuparsi del trattamento del tossicodipendente e una cosa è riorganizzare ex novo la disciplina degli stupefacenti, tra l’altro aumentando le pene e assimilando droghe leggere e pesanti. La Consulta ha accettato questa sua tesi? Dal comunicato stampa ritengo di sì, perché si parla di violazione dell’articolo 77, secondo comma, cioè della procedura di conversione del decreto legge. Quali sono gli effetti della sentenza? Bisognerà leggere la motivazione della sentenza, ma come ho detto in udienza in questo caso rivive la pre-esistente legge Jervolino-Vassalli, emendata dal referendum del ‘93. Torna in vigore per il futuro e per i processi ancora in corso, ma non credo che possa applicarsi quando la sentenza è già definitiva. Chi è stato condannato con la Fini-Giovanardi può chiedere il ricalcolo della pena? No, se la sentenza è definitiva. Secondo un principio generale del codice, nel caso che una nuova disciplina legislativa subentri a cancellare un reato, allora l’esecuzione della condanna cessa anche se la sentenza è definitiva. Ma se la nuova norma - che in questo caso è la vecchia legge Jervolino - si limita a modificare il quadro ma senza eliminare il reato, allora lo sbarramento è dato dal passaggio in giudicato. Mi domando se tutto questo non dovrà portare a pensare a provvedimenti di clemenza specifici su questo punto. La mia però è una valutazione politica. Credo che, ma non ho elementi per dire in quale misura, comunque questa sentenza avrà un qualche effetto positivo sul sovraffollamento carcerario. Giustizia: e ora il prossimo passo è legalizzare la cannabis di Luigi Cancrini L’Unità, 13 febbraio 2014 Sono passati otto anni dall’approvazione della legge 49 del 2006 (la cosiddetta Fini Giovanardi) che con un colpo di mano di evidente illegittimità costituzionale portò indietro le lancette dell’orologio. Cancellando, di fatto, l’esito del referendum del 1993 che aveva sancito la depenalizzazione della detenzione di stupefacenti per uso personale. Introducendo la tabella unica delle sostanze e quindi la parificazione delle pene per tutte le droghe, leggere e pesanti. Sanzionando pesantemente (da sei a venti anni di carcere) la detenzione (non lo spaccio) di tutte le sostanze stupefacenti in quantità superiore ad una soglia al di sopra della quale sarebbe valsa la presunzione di spaccio e incriminando così i consumatori per il semplice possesso anche di una quantità minima in eccedenza rispetto a quanto fissato da un decreto del Ministero della Sanità. Aggravando e burocratizzando pesantemente, infine, le sanzioni amministrative per l’uso personale fino al determinarsi di una commistione ricattatoria tra cura e pena. Il clima in cui questa legge fu approvata va ricordato. Il governo Berlusconi e la sua maggioranza parlamentare avevano perso il consenso del paese e le elezioni ormai vicine (maggio del 1996) erano quelle che sarebbero state vinte dall’Unione di Prodi. Porcellum e Fini-Giovanardi, due leggi ambedue oggi cancellate dalla Corte Costituzionale, furono allora scelte portate avanti a colpi di maggioranza senza che di questi problemi si potesse discutere nel Parlamento o nel Paese per motivi dettati dalla disperazione di chi stava per perdere e voleva creare problemi alla nuova maggioranza (il Porcellum) o tentare una manovra propagandistica utile a catturare, sulla pelle di tanti ragazzi normali e di tanti tossicodipendenti, il voto dei "benpensanti" (la legge sulla droga): utilizzando una maggioranza parlamentare che fra poco non ci sarebbe stata più. Senza seguire l’iter normale di una legge, la Fini-Giovanardi, in particolare, fu proposta (ed è questa oggi la ragione del suo annullamento) in forma di emendamento aggiuntivo di una legge che riguardava le Olimpiadi di Torino. Con che risultati? Drammatici. Come ben documentato dal 4° Libro Bianco sulla legge Fini- Giovanardi presentato dalla Società della ragione e dal Forum Droghe nel 2013. È sulla base di quel famigerato articolo 73 della legge sulle Olimpiadi, infatti, che sono entrati in carcere, dal 2006 al 2012 percentuali sempre superiori al 30% (nel 2012 il 34,47%) di tutti i nuovi detenuti ed è per colpa dello stesso articolo 73 che risultavano detenuti in carcere, al 31 dicembre del 2012, il 38,46% di tutti i detenuti. Nuovi e vecchi. Trafficanti? No. L’articolo di legge che punisce il traffico "vero" è un altro e ha portato in carcere una percentuale almeno 4 volte inferiore di soggetti che, spesso, non sono tossicodipendenti. I ministri della Giustizia e i partiti politici non hanno riflettuto abbastanza in questi anni su questi dati. Si sarebbero resi conto, se lo avessero fatto, del fatto per cui una percentuale importante (fra 1/3 ed 1/4) della popolazione carceraria è costituita da persone che andrebbero curate e non recluse. Ma si sarebbero resi conto, soprattutto, del fatto per cui la stragrande maggioranza di queste persone è stata incarcerato non perché spacciava ma perché deteneva quantitativi di droghe, spesso leggere, di poco superiori a quelle previste dalle tabelle ministeriali: di persone, cioè, che detenevano le sostanze per uso personale e la cui attività di spaccio era presunta sulla base dell’idea folle ma radicata nella mente fantasiosa di Fini, di Giovanardi e dei loro obbedienti colleghi per cui il tossicodipendente che ha bisogno o desiderio della sua droga ma che per poterla usare deve comunque comprarla e dunque detenerla viene considerato per legge, per principio, come una persona che la detiene per venderla o darla ad altri: cosa che il tossicodipendente vero, in realtà, non farebbe mai o quasi mai. Che fare adesso? Quello che vorrei dire con forza al governo che verrà è che partendo da questa sentenza è possibile e necessario oggi andare oltre la legge Iervolino-Vassalli modificata dal referendum del 1993 che annullava l’articolo (voluto, allora, soprattutto da Craxi) che trasformava in un reato il semplice atto di drogarsi. C’è in atto nel mondo, oggi, infatti, dopo il documento dei saggi nominati dall’Onu nel 2010 sulla necessità di cambiare regime a proposito delle droghe leggere, una rivoluzione sempre più ampia e convinta degli atteggiamenti da tenere nei confronti dello spinello che è stato legalizzato, come sostanza da assumere per ragioni mediche e per ragioni di puro e semplice piacere o divertimento, in un numero crescente di paesi e in quasi tutti gli Stati Uniti d’America. Usati in modo moderato e ragionevole gli spinelli sono molto meno pericolosi per la salute degli esseri umani dell’alcool e delle sigarette. Commercializzarli legalmente significa da una parte difendere la salute dei consumatori controllando la quantità di principio attivo che contengono e dall’altra togliere all’economia criminale una delle sue fonti di reddito fra le più importanti. Ci riusciremo anche in Italia? Dimenticheremo finalmente anche da noi le farneticazioni dei Giovanardi, dei Muccioli e dei Serpelloni? Riusciremo sul serio e finalmente ad evitare l’alleanza perversa che da decenni si è stabilità nei fatti fra l’avidità dei trafficanti di droga e la crudeltà dei politicanti travestiti da tutori di una ipocrita morale degli altri? Giustizia: la proposta per abolire l’ergastolo, firmata anche dai parlamentari del M5S di Stefania Carboni www.blitzquotidiano.com, 13 febbraio 2014 Parte una raccolta firme bipartisan per eliminare quello ostativo. Tra i firmatari anche il deputato Alessandro Di Battista. Nonostante a lanciarla sia parte del Pd. Stefano Rodotà, Don Luigi Ciotti, Massimo D’Alema, Alfonso Papa e perfino Alessandro Di Battista deputato del Movimento 5 Stelle. Ieri è stata presentata alla Camera una proposta di iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo. Una iniziativa che parte su più fronti. E che trova l’ok anche di qualche parlamentare pentastellato. Ieri a presentarlo c’era una schiera di democratici: Roberto Speranza, capogruppo del Partito Democratico alla Camera, Laura Coccia (Pd) e Fausto Raciti (Deputato Pd e segretario dei Giovani Democratici). Cosa si chiede? In sostanza l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Quanti sono i detenuti in regime di ergastolo? Secondo i dati del Ministero della Giustizia a dicembre 2013 si parlava di 1.583 persone, quattro volte in più di quanti non fossero vent’anni fa. Nel 1992, infatti, la cifra si fermava sui circa 250. In Italia l’ergastolo ha, per così dire, due strade: una che potremmo definire di normale detenzione e l’altra, stabilita dall’ordinamento penitenziario, di ergastolo ostativo. Si recupera dietro le sbarre? Non proprio. Spesso una persona risulta "pericolosa" anche dopo decenni dalla fine della sua attività criminale. Attualmente è difficile individuare la cifra esatta delle persone in regime ostativo. Certo è che almeno i 2/3 degli ergastolani condannati per 416 bis scontano questa tipologia di pena. In base alle firme raccolte si andrebbe ad agire sul regime ostativo. Si tratta di una pena senza fine, stabilita dall’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, mod con Legge 356/92. Con l’ergastolo ostativo si nega ogni misura alternativa al carcere e ogni beneficio penitenziario. Per quali reati vale? Il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extra murario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia. Il provvedimento nasce dal 1992 e la pena è data a chi fa parte di un’associazione a delinquere e che ha partecipato a vario titolo a un omicidio (sia esso esecutore materiale o favoreggiatore). Ricordiamo però perché. L’ostativo era una sorta di risposta dello Stato alla guerra di Cosa nostra. L’unico modo al tempo di condannare per stragi come Capaci e Via d’Amelio. Tocca i condannati per associazione mafiosa o per reati assimilabili, ovvero favoriti dall’ambiente mafioso. Ma sono tutti mafiosi? Non proprio. Come riporta l’Avvenire ci sono alcune deformazioni: "Un rapinatore preso in flagrante a Scampia viene giudicato secondo criteri di contiguità ambientale alla camorra osserva Carlo Fiorio, docente di Procedura penale all’Università di Perugia , mentre lo stesso reato commesso a Trento viene inquadrato in modo differente e meno rigido". Per effetto di alcune norme anche ammettere la propria colpa, ma tacere le responsabilità altrui, è causa di ergastolo perenne. "Il dettato costituzionale è chiaro, quindi se l’ordinamento non prevede la possibilità di uscire dal carcere a condizioni raggiungibili, la pena dell’ergastolo va contro l’articolo 27 della Costituzione", ha detto Valerio Onida, presidente della Corte Costituzionale dal 1996 al 2005, in una riflessione apparsa sull’ultimo numero della rivista del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria "Le due città". L’ostativo non è previsto per i reati di stupro, pedofilia e tutti coloro che ledono una persona fino ad ucciderla. Con questa misura non sono previsti premio, semilibertà, liberazione condizionale, eccetto che per i collaboratori di giustizia. Tra le firme compare non solo Di Battista, ma anche il senatore Girotto ed il deputato Emanuele Cozzolino. Figurano tra le prime 100 firme. Un "indulto mascherato" no una abolizione sì. Ognuno a suo modo. Giustizia: Casson (Pd); verificare connivenze politiche su appalti legati al "piano carceri" Il Velino, 13 febbraio 2014 "C’è molto da chiarire sugli appalti pubblici legati al "piano carceri" perché stanno emergendo ipotesi di reato molto gravi". Lo chiedono il vicepresidente Pd della commissione Giustizia sen. Felice Casson insieme ad altri cinque senatori con un’interrogazione al presidente del Consiglio. "Da notizie di stampa si apprende che vi sarebbero casi di corruzione, abuso, turbativa d’asta, falsi in atto pubblico in riferimento alla gestione e/o vendita di vecchie carceri, oltre che alla costruzione per centinaia di milioni di euro di nuove carceri. La denuncia sarebbe stata presentata dal dottor Alfonso Sabella, attualmente vice-capo dell’organizzazione giudiziaria presso il ministero della giustizia, e coinvolgerebbe il prefetto Angelo Sinesio, attuale commissario e gestore del fantomatico "piano carceri". Data la delicatezza della vicenda e la sconsiderata gestione in tutti questi anni del settore carcerario è necessario che il governo faccia chiarezza e attui una trasparenza assoluta, anche al fine di accertare, oltre che la verità giudiziaria di competenza della magistratura, eventuali responsabilità e connivenze di natura politica nella denunciata situazione di illiceità nella gestione di appalti vecchi e nuovi". Giustizia: Cnoas; quale ruolo per il Servizio Sociale ed il ricorso alle misure alternative? Vita, 13 febbraio 2014 Il decreto-carceri, approvato alla Camera e in arrivo ora al Senato, ha introdotto un emendamento che mette a capo degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna - dove viene realizzato il progetto di riabilitazione del condannato - i direttori degli Istituti penitenziari. Prima il compito era affidato alle professionalità del Servizio sociale. Il Decreto, approvato alla Camera e in arrivo ora al Senato, ha introdotto un emendamento che consente agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), che sono i luoghi dove viene realizzato il progetto di riabilitazione del condannato, di essere diretti dai direttori degli Istituti penitenziari temporaneamente (3 anni) fino all’espletamento dei concorsi per dirigenti Uepe e ne riduce l’organico. In una nota il Cnoas - Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti sociali scrive che questo ovviamente andrà a svilire la professionalità del Servizio Sociale che fin dalla riforma penitenziaria ha caratterizzato questi Uffici ed ha reso possibile, tra mille difficoltà, l’affermazione del sistema delle misure alternative. Tra le altre misure del Decreto è prevista un’ulteriore riduzione degli organici degli assistenti sociali fino ad avere personale in esubero, anche se lo stesso decreto aumenta l’affidamento da 3 a 4 anni e sta per essere approvato il dl che istituisce "la messa alla prova" anche per gli adulti. Questo aspetto desta non poca preoccupazione in quanto sembra non tenere nella debita considerazione gli scenari futuri e fra tutti la necessità più volte ribadita di porre in essere reali cambiamenti normativi. Più nello specifico, rispetto alla pianta organica del 2006, gli assistenti sociali vengono falcidiati più di tutte le altre qualifiche (meno 35% - 567 su 1.621). E tutto ciò mentre le misure alternative registrano un notevole aumento, e le possibilità di accesso potrebbero anche aumentare con adeguate risorse (umane e non). Nella nota anche un intervento di Silvana Mordeglia, Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine: "Con l’approvazione del Ddl 1921 dovrebbe aumentare il ricorso alle misure alternative, e come Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti sociali non possiamo che esprimere la nostra soddisfazione visto che tali misure rappresentano lo strumento di massima efficacia ai fini del reinserimento sociale dei soggetti carcerati. Ma come sarà possibile far fronte alle crescenti necessità degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), se contemporaneamente il Decreto prevede ulteriori tagli di personale? È evidente come la situazione che si sta delineando rischia di far saltare il sistema delle misure alternative che paradossalmente è quello che invece si vorrebbe e si deve potenziare". "Come Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti sociali - continua Mordeglia - abbiamo più volte sollecitato nelle sede istituzionali la necessità di colmare la costante carenza di organico di cui soffrono gli Uepe per rendere le condizioni organizzative più rispondenti alle necessità degli interventi. Esprimiamo quindi le nostre forti perplessità sul fatto che si considerino le attuali disponibilità di personale ed economiche sufficienti a garantire alle persone dimesse dall’istituzione carceraria un supporto adeguato". Il Consiglio nazionale - conclude la nota - ricordando come le misure alternative contribuiscono concretamente alla costruzione di una società più sicura e come l’affidamento al servizio sociale ha, tra l’altro, un costo enormemente inferiore e neppure minimamente paragonabile a quello della detenzione, chiede al Governo e al Ministro della Giustizia in particolare, di mettere mano a questo provvedimento per dare strumenti, risorse e sostanza al settore dell’esecuzione penale esterna. Lettere: carceri… i guai e le soluzioni di Tatiana Basilio (Deputata Movimento 5 Stelle) Brescia Oggi, 13 febbraio 2014 In merito alla discussione del decreto legge così detto "svuota carceri", qualche mese fa, ho visitato insieme al consigliere comunale di Gussago Mara Rolfi, la casa circondariale di Brescia, Canton Mombello, e abbiamo potuto constatare con i nostri occhi in che condizioni disagiate versano le persone detenute. L’aria era irrespirabile, l’ambiente fatiscente, in ogni cella piccolissima, c’erano fino a 11 detenuti tutti ammucchiati insieme, svolgevano tutte le loro funzioni vitali in pochissimi metri quadrati di spazio, compreso il lavare e stendere i panni. La struttura risale alla fine dell’Ottocento, sicuramente non idonea e non organizzata in maniera adeguata a contenere tutta la popolazione carceraria che ora detiene. Ci tengo a sottolineare che la colpa non si può addossare né al direttore dell’Istituto penitenziario, né tantomeno alla polizia penitenziaria e a tutti gli altri addetti che vi operano all’interno, anzi loro stessi si trovano a gestire situazioni complicate e spesso drammatiche, sono obbligati a lavorare in condizioni pesanti e a gestire situazioni di non facile soluzione a causa di un sistema carcerario inutile e improduttivo. Il grave disagio che vivono i detenuti, i poliziotti penitenziari e tutti gli altri operatori, non fa altro che creare un clima di astio e inasprimento verso la società e il risultato prioritario che doveva esprimersi in termini di rieducazione e riabilitazione risulta essere decisamente fallimentare perché passato in secondo ordine. La soluzione a ogni problema non può essere rinchiudere chiunque vìola la legge, se poi coloro che ci entrano escono persone peggiori di quando ci sono entrate. Il carcere deve essere previsto solo per quei criminali che costituiscono realmente un pericolo per la società. La popolazione carceraria non può essere composta da quei detenuti che hanno pochi anni di pena da scontare, da chi ha problemi di droga o da chi sta male per altri motivi e avrebbe bisogno di essere curato attraverso delle cure e non solo punito attraverso una pena detentiva. Oggi non solo è stata superata la capienza regolamentare delle carceri ma anche quella ritenuta dal Ministero della Giustizia "tollerabile". Purtroppo il sovraffollamento nelle carceri non può essere risolto liberando i peggiori delinquenti. Nessuna delle soluzioni proposte dal governo in questo decreto, purtroppo, sarebbe idonea a risolvere il così detto problema del sovraffollamento delle carceri, il quale è diventato ormai un alibi strumentale a tutta l’inefficienza ed il fallimento dell’attuale Amministrazione. Il problema va affrontato alla radice, ossia alla previsione dell’art. 27 della Costituzione, che al secondo comma, recita: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La pena dunque deve avere assolutamente una funzione rieducativa, ripudiando ogni trattamento contrario al senso di umanità. Come stabilito dalla Costituzione europea deve essere garantito il diritto di ogni individuo a non essere sottoposto né a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti a tutela della dignità umana e del diritto all’integrità della persona. Forse nessuno si è accorto che questa previsione, nella sostanza è pressoché inattuata e la cosa ancora più paradossale è che abbiamo un ordinamento penitenziario (quello previsto dalla legge nr. 354 del 1975) che è tra i più avanzati e civili al mondo. Purtroppo anche questo è mal applicato nella sua parte fondamentale che costituisce il cuore della legge medesima, ossia il trattamento penitenziario finalizzato alla rieducazione. Tutto questo cosa comporta? Semplice, non si rieduca nessuno, per cui quasi tutti i condannati ricadono nella recidiva e come conseguenza le carceri si riempiono. Tale decreto legge prevede dunque di risolvere uno dei più gravosi problemi che affligge la giustizia italiana ormai da svariati decenni, ossia il sovraffollamento della popolazione carceraria, ricorrendo allo strumento della liberazione anticipata speciale senza prevedere però nessun sistema adeguato a garanzia del corretto uso dello strumento stesso ma al solo e unico scopo di far evitare allo Stato le gravose ripercussioni economiche derivanti l’applicazione della sentenza Torreggiani, quantificabile in almeno 15.000 euro per ciascuno dei già tremila detenuti che dal maggio 2008 potranno nuovamente essere ammessi e adire alla Corte europea dei diritti dell’uomo per farsi risarcire dallo Stato le inumane condizioni detentive cui sono sottoposti. Tra le modifiche inserite in questo provvedimento rientra: la prescrizione da parte del giudice, nell’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, del cosiddetto braccialetto elettronico; strumento previsto anche nell’applicazione della detenzione domiciliare, fatto senza una previsione di spesa e se pure ci fosse, bisognerebbe verificare il concreto e reale vantaggio in termini di sfoltimento proporzionato ad essa, o se serve invece a mettere nelle mani di chissà chi molti denari con un effetto minimo in termini di alleggerimento della popolazione carceraria. Il braccialetto elettronico inoltre non ha nessuna utilità se il condannato non viene reinserito adeguatamente nella società, considerando che nella quasi totalità dei casi questi soggetti, oltre a non avere né arte e né parte, non hanno neanche una sana famiglia alle spalle che possa mantenerli, considerato altresì che oggi anche i liberi cittadini, privi dell’etichetta di delinquente, difficilmente riescono a trovare una sistemazione dignitosa, per forza di cose i detenuti, in genere caratterizzati dalla loro debolezza di carattere e senza avere un adeguato autocontrollo, non riescono a fare altro che tornare a delinquere. Quanto al garante dei diritti dei detenuti, occorre evidenziare che attualmente esiste già il garante regionale e in molte città anche il garante comunale, i quali spendono notevoli finanziamenti pubblici. In ogni caso occorre evidenziare che esistono già gli ordinari strumenti previsti dalla legge a garanzia dei diritti dei detenuti. Tra questi si ricorda la Magistratura di sorveglianza, oltre alle varie magistrature europee ed internazionali dei diritti dell’uomo. Per risolvere il problema del sovraffollamento bisogna fare leva su un punto nello specifico: sulla rieducazione dei condannati, evitando in tal modo che quelli che escano tornino a delinquere nuovamente. Bisogna inoltre abbandonare il sistema monarchico del Direttore di carcere che deve fare tutto in modo incontrastato e riequilibrare i poteri all’interno degli istituti, togliendo la dipendenza gerarchica della polizia penitenziaria dallo stesso direttore e lasciare solo la dipendenza funzionale, in modo da poter alleggerire il Direttore di molte competenze che non sono funzionali alla buona gestione del trattamento penitenziario dei detenuti. Siamo molto lontani dal poter dire che questo decreto così come è stato pensato possa risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, c’è molta strada da fare, il sistema giudiziario va ancora riformato, come allo stesso modo, vanno prontamente accelerati i tempi biblici dei processi. Altrimenti non meravigliamoci se leggendo nei giornali dei vari casi di cronaca ci rendiamo conto che la maggior parte dei detenuti sono recidivi e continuano puntualmente a ricadere negli stessi errori. Lettere: ancora fango sul Corpo di Polizia penitenziaria di Cesare Cantelli www.poliziapenitenziaria.it, 13 febbraio 2014 Il Corriere della Sera pubblica un video che sembra una fiction (con tanto di sceneggiatura e colonna sonora). Il cane che morde l’uomo non fa certo notizia e allora tutti alla ricerca dell’uomo che morde il cane! Certi giornalisti, che fanno certo giornalismo (?), non ce la fanno proprio a percorrere la faticosa strada dell’inchiesta, quella lunga e scrupolosa che porta alla verità, e preferiscono percorrere quella più facile e veloce che porta a far parlare "testimoni", ma solo quelli che dicono quello che si vuole sentir dire. Nel caso di Crispino (che abbiamo già avuto modo di conoscere in uno spiacevole episodio in quel di Poggioreale) più che di giornalismo potremmo parlare di fiction. Il tizio, infatti, si è cimentato in una sorta di video (con tanto di sceneggiatura e colonna sonora) spacciandolo per un documentario giornalistico ma che, a mio avviso, è un vero e proprio Mockumentary. Infatti, il Mockumentary, parola inglese nata dalla fusione dai vocaboli mock, che significa fare il verso e documentary, che significa documentario, indica quel genere cinematografico o televisivo nel quale eventi fittizi appositamente realizzati per la trama sono presentati come reali o comunque creati a scopo narrativo. Un Mockumentary si presenta come un documentario, come se riprendesse aspetti della realtà, ma è in realtà un prodotto di fiction. Nel Mockumentary del signor Crispino sono presenti, ovviamente, personaggi ed interpreti ingaggiati all’uopo con l’aggiunta di filmati realizzati con telecamere nascoste a danno di ignari interlocutori, ovviamente tagliati e assemblati in fase di montaggio al fine di ottenere un risultato coerente con la sceneggiatura della fiction. Uno dei personaggi principali del Mockumentary di Crispino è un tizio qualificato come ex-poliziotto penitenziario (per renderlo più credibile) salvo, però, evitare accuratamente di specificare che si tratta di "ex" perchè decaduto dal Corpo per assenza ingiustificata e di pregiudicato condannato per gravi reati e interdetto dai pubblici uffici. Gli altri personaggi, perlopiù videocamuffati e coperti da anonimato, sono in gran parte ex-detenuti o parenti di detenuti. Il giornalismo, in particolare quello di inchiesta, è davvero un’altra cosa. Se il signor Crispino avesse voluto davvero raccontare la verità, invece di nascondere telecamerine davanti ad ignari interlocutori, avrebbe dovuto mettere davvero i panni (divisa) di poliziotto penitenziario, prestare davvero servizio per almeno un mese dentro una sezione di poggioreale e - poi - raccontare davvero quello che succede là dentro. Qualcuno molto più intelligente di me disse, una volta, che "Esistono solo tre verità: la mia, la tua e la verità". Io ho tutto il diritto di dire la mia perché sono parte in causa e perché parliamo di me, il giornalista (quello vero) dovrebbe raccontare solo "la verità", perché quello è il suo mestiere, o tutt’al più le dovrebbe raccontare tutte e tre. Alla fine, insomma, ancora fango sul Corpo: il Corriere della Sera ha messo in scena una vera e propria fiction contro la Polizia Penitenziaria, con tanto di sceneggiatura e colonna sonora. Se questo è giornalismo. Lazio: l’esperienza di Maria Laura Annibali, volontaria e attivista, nelle carceri femminili di Lidia Borghi Tempi di Fraternità, 13 febbraio 2014 Durante il mese di febbraio del 2012 a Roma venne firmato un protocollo d’intesa che, di lì a poco più di un anno, avrebbe consentito alla documentarista Maria Laura Annibali di far circolare nelle carceri femminili del Lazio i video a tematica lesbica intitolati "L’altra metà del cielo" e "L’altra metà del cielo... continua" da lei prodotti. Un traguardo assai importante - per la carriera di volontaria ed attivista dei diritti umani cominciata ormai molti anni fa da Annibali - oltre che un avvenimento unico nel suo genere, che sta permettendo a molte donne recluse di conoscere quei pezzi di lesbicità che così bene l’autrice è riuscita a far emergere ed approfondire intervistando alcune donne, assai diverse per età e ceto sociale, che hanno in comune l’orientamento affettivo e sessuale lesbico. Quella che segue è l’intervista che Annibali mi ha concesso a dicembre del 2013. Qual è lo scopo del "Protocollo d’intesa tra il Dipartimento per le Pari opportunità del Consiglio dei Ministri e il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e il Garante dei Detenuti del Lazio"? La parte più importante del testo di quel documento ufficiale, in cui gli obiettivi di questa nostra attività nuova sono esposti in modo chiaro: "Considerato che la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di violenza e discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nell’ambito penitenziario richiedono la cooperazione di tutti i soggetti istituzionali interessati, ravvisata l’opportunità di attivare una collaborazione tra il Dipartimento per le Pari opportunità e il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e il Garante dei Detenuti del Lazio (...) per la realizzazione del comune interesse relativo alla prevenzione e contrasto della violenza e discriminazione nei confronti delle persone LGBT in regime di detenzione e del proseguimento delle comuni finalità istituzionali (...)" Eccetera. Un traguardo davvero importante, a livello civile. Val la pena di ricordare alle lettrici ed ai lettori di Tempi di fraternità a chi dobbiamo la firma del protocollo. Certo. La dobbiamo all’allora direttrice di dipartimento dell’ormai scomparso Ministero per le Pari opportunità, la consigliera Patrizia De Rose, al direttore generale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino e al garante dei detenuti del Lazio, l’avvocato Angiolo Marroni. Che cosa ti sta permettendo di fare questo protocollo d’intesa senza precedenti, per il nostro Paese? Mi sta dando un’opportunità più unica che rara ovvero quella di entrare con i miei docu-film nelle carceri femminili del Lazio - insieme alla psicologa e psicoterapeuta Antonella Montano, direttrice dell’Istituto Beck di Roma - con lo scopo di stimolare le detenute a rivolgerci domande inerenti la lesbicità, subito dopo la proiezione dei video. Questo è il mio modo di pormi al loro servizio, in quanto autrice del documentario, per indurle ad aprirsi e a parlare di sé. Il compito mio e della dottora Montano è quello di chiarire, su richiesta delle dirette interessate, le eventuali problematiche inerenti l’orientamento omosessuale e l’omogenitorialità. Chi meglio di lei avrebbe potuto svolgere questo ruolo, alla luce della sua pluriennale competenza in merito? Hai all’attivo già due incontri, nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, a Roma. Il primo si è svolto il 7 novembre 2013. Le tue impressioni dopo quel giorno? Sai, allora mi accompagnava Edda Billi, la storica femminista separatista del Collettivo Pompeo Magno di Roma, per non parlare di Angiolo Marroni e di Imma Battaglia. Ho provato una grande emozione, di sicuro... Avevo le lacrime agli occhi... Una delle detenute, inoltre, mi aveva anticipato che di lì a pochi giorni sarebbe uscita e mi avrebbe contattata presto. Così è stato ed è iniziato uno scambio profondo di idee. A livello emotivo quello è stato di sicuro il più bell’incontro di tutti gli oltre cinquanta che fino ad oggi ho fatto. Un insieme davvero notevole di emozioni e di sensazioni. Il fatto di potermi mettere al servizio delle detenute mi ha permesso di provare qualcosa di diverso, di più intimo. Mi sono sentita in pace con me stessa con la convinzione, in quanto credente, di essere lì per un motivo che va oltre... Di esserci perché Qualcuno aveva voluto che io facessi ciò che ho fatto. Ho ritenuto che entrare nelle carceri fosse un mio dovere di fedele. Il mio cuore si è colmato di gratitudine per Chi ha permesso tutto questo. Dal buon Dio alle persone che hanno firmato il protocollo. Tutti individui che hanno fortemente voluto quel progetto, con tutte le difficoltà del caso. Ti assicuro che sono state tante. La mia gratitudine è immensa. Alla fine dell’incontro ero in un vero e proprio stato di grazia. Subito dopo ho chiamato tutte le persone a me care, per dire loro che avrei voluto fossero state lì con me. Veniamo al secondo evento: Rebibbia, 3 dicembre 2013. Il secondo evento mi ha offerto emozioni più temperate, anche se il piacere è stato lo stesso, poiché si sono presentate persone che già la prima volta erano intervenute e ciò mi ha dato la conferma che l’interesse c’era ed era autentico, da parte delle recluse. C’erano anche persone nuove ed è grazie a loro che è stato possibile tirar fuori argomenti nuovi. Un bellissimo evento in ogni caso. Il prossimo convegno collegato al progetto delle carceri? Durante i primi mesi del 2014, all’interno di uno degli istituti femminili di pena del Lazio, forse a Civitavecchia, anche se non c’è ancora la conferma. Poi andremo a Latina e Viterbo. So che l’incontro con queste donne ti ha permesso di scoprire che non tutte si definiscono lesbiche. Infatti. Alcune di esse si sono dichiarate fin dal primo incontro, altre ci hanno fatto capire che avevano dei dubbi in merito a questa faccenda dell’omoaffettività, perché ritenevano che la loro condizione omosessuale fosse temporanea, in quanto dovuta all’obbligo della detenzione. Come a dire che, per carenza di affetto eterosessuale, erano diventate omosessuali in attesa di tornare a casa dai rispettivi mariti o compagni. Gli approfonditi studi di Antonella Montano in merito hanno evidenziato che ciò è del tutto possibile. Inoltre, durante il secondo incontro, il dibattito cui hanno dato vita le persone presenti è stato più articolato e, a tratti, acceso, grazie agli interrogativi specifici proposti, come per esempio quello relativo all’omogenitorialità. Un tema alquanto scottante e di difficile soluzione, nel nostro Paese, a causa dei forti pregiudizi che lo circondano. So che il tuo appuntamento seguente, in ordine di tempo, è stato speciale... Sì, il 12 gennaio 2014, presso il Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli di Roma. Un onore grandissimo per me, che mi ha riempito il cuore di gioia. Dopo diversi anni tornare lì, in questo momento politico e culturale, mi ha resa davvero orgogliosa. Con l’attuale presidente, Andrea Maccarrone, si è creata una bellissima sinergia che ci sta dando la possibilità di lavorare insieme in armonia. Sono felicissima di aver portato anche lì la mia seconda figlia al completo ovvero video e libro de "L’altra metà del cielo... continua". Basilicata: Ugl; no a chiusura Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria Ansa, 13 febbraio 2014 Alla fine di febbraio sono in programma alcuni incontri per discutere della possibile chiusura del Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria per la Basilicata: lo ha reso noto, in un comunicato, Vito Messina, dell’Ugl Polizia Penitenziaria. "Ancora una volta - ha aggiunto - l’amministrazione penitenziaria Centrale ha dimostrato la propria scarsa sensibilità nei confronti dei dipendenti di questa regione, avviando le pratiche di chiusura del nostro provveditorato. Noi chiediamo - ha concluso Messina - che almeno rimanga la sede del Provveditorato, senza avere il dirigente generale, così si potrà gestire al meglio la situazione". Umbria: il Garante non è stato ancora eletto, i Radicali stringono i tempi sulla nomina di Alessia Chiriatti www.tuttoggi.info, 13 febbraio 2014 Un’elezione non c’è ancora stata, nonostante l’abbassamento del quorum: l’Umbria perciò non ha ancora il suo garante dei detenuti, ossia l’autorità terza di nomina politico-ragionale che fa da raccordo tra le istituzioni tutte e i detenuti. In Umbria sono dieci i candidati, di cui uno è il Professor Stefano Anastasia, anche osservatore dell’Associazione Antigone, e l’altro il Professor Fiorio, il quale ha ottenuto più voti nell’ultima votazione. Tra critiche, tra cui quella del consigliere regionale Nevi (Fi) che aveva parlato di cambiamento nell’elezione attraverso l’abbassamento del quorum utile alla Regione solo a "spartirsi le poltrone a spese della collettività", e la proposta di Stufara (Prc-FdS), Locchi (Pd), Dottorini (Idv) e Mariotti (Pd), alla fine l’assemblea regionale aveva votato il 30 gennaio la modifica della proposta della legge, contro cui avevano votato Forza Italia, Nuovo Centrodestra, Fratelli d’Italia e Unione di centro. L’idea è quella di mirare ad "evitare una situazione di stallo che provocherebbe l’inefficacia della legge stessa, con la presente proposta di legge regionale si intende prevedere che, nel caso dopo la terza votazione non si sia raggiunta la maggioranza dei 2/3 richiesta, la designazione possa avvenire anche con la maggioranza assoluta dei Consiglieri regionali assegnati, a partire dalla quarta votazione". La maggioranza qualificata prevista dalla legge del 2006, infatti, "se da un lato garantisce la massima condivisione nell’individuazione del Garante, potrebbe comportare la difficoltà di pervenire alla designazione, nel caso risultasse impossibile addivenire ad un accordo". L’assemblea - Così i radicali si sono incontrati oggi nella Sala Fiume per cercare di fare pressing riguardo all’aelezione. Dei dieci invitati però erano presenti solo in quattro, tra cui appunto Anastasia e Fiorio. Nel pubblico, anche il consigliere Orfeo Goracci, il quale ha in parte portato la sua esperienza quando, il giorno di San Valentino di due anni fa, fu condotto nel carcere di Capanne. Le carceri - Dall’incontro è anche emersa la situazione della Casa Circondariale del Carcere di Capanne, "caratterizzato, per quanto riguarda le sezioni maschili, da un elevato numero di uscite e di ingressi dallo stesso, il che comporta notevoli difficoltà organizzative a causa del notevole turn over che caratterizza l’istituto (nell’ultimo anno 1353 ingressi e 1300 uscite). All’interno sia delle sezioni maschili che di quella femminile sono presenti circa 14 diverse etnie, con notevoli problemi di gestione. Gli ingressi si aggirano tra le 70 donne e 540 uomini, a fronte di una capienza regolamentare di 450. Sono presenti sia detenuti in attesa di giudizio che imputati, appellanti e ricorrenti, che definitivi con condanne di medio-breve periodo. Nella sezione femminile vi sono detenute con condanne medio-lunghe. Gli stranieri sono il 70% dei detenuti, sia tra le donne che tra gli uomini. Legge Fini-Giovanardi - Anastasia ha poi accennato, data la contingenza della notizia, all’incostituzionalità della Fini-Giovanardi: a livello nazionale l’incidenza sarebbe di 10mila detenuti che si vedrebbero aprire le sbarre del carcere, con un’incidenza in Umbria di alcune centinaia di persone. Velletri (Rm): detenuto dà fuoco al materasso della cella, panico nella Casa circondariale Il Messaggero, 13 febbraio 2014 Detenuto appicca il fuoco al materasso. In pieno giorno nella Casa circondariale veliterna, un uomo, in carcere per reati sessuali nel reparto protetto, ha dato fuoco al suo letto. Subito una nube di fumo nero ha riempito la cella rendendo l’aria irrespirabile. L’agente di polizia penitenziaria di turno, allertato dal cattivo odore, è intervenuto immediatamente. Spento l’incendio con l’estintore in dotazione, l’agente ha portato fuori dalla cella il detenuto. L’uomo, che ha ancora diversi anni da scontare, è stato curato per un principio di intossicazione e gli è stata assegnata un’altra cella. La prontezza di intervento ha evitato che le fiamme arrivassero ai mobili. Ma per far tornare il reparto alla normalità ci è voluto del tempo, visto che gli altri detenuti erano nel panico. "I 14 istituti penitenziari del Lazio stanno scoppiando" dichiara il dirigente sindacale del Si.P.Pe. Carmine Olanda che aggiunge: "Nel carcere di Velletri il detenuto ha messo in serio pericolo la vita degli altri detenuti e quella degli agenti. Questi eventi dovrebbero far riflettere le alte cariche in quanto è inammissibile che a fronte di un esercito di circa 7 mila detenuti dislocati nei penitenziari del Lazio, siano previsti solo 4052 poliziotti". Il rapporto a Velletri è, in media, di un agente per 52 reclusi e più volte il sindacato ha lamentato alla direzione del carcere il sovraccarico di lavoro. Inoltre il poco personale impedisce che a Velletri sia applicata la direttiva europea di servizio dinamico, che consente ai detenuti meno pericolosi di passare otto ore al giorno negli spazi comuni invece che in cella. Essere costretti in ambienti di tre metri per due, tutto il giorno, fomenta, secondo l’Ue, comportamenti pericolosi come dare fuoco alla cella. Livorno: al carcere delle Sughere undici metri quadrati da dividere in quattro… Maria Giorgia Corolini Il Tirreno, 13 febbraio 2014 Undici metri quadrati da dividere in quattro, dove se stai in piedi in due gli altri non possono starci. Il pranzo, un piatto di insalata e wurstel, su un tavolino a 30 centimetri dal wc. Niente acqua calda, la muffa che copre ogni lembo di intonaco e un’unica doccia da dividere in 40. Si chiamerebbero "camere di pernottamento" perché è solo a questo che dovrebbero servire, e invece sono oltre 160 quelli che ci vivono. Quasi 24 ore su 24, chiusi in un incubo che più che di detenzione puzza d’inferno. È la drammatica situazione del carcere di Livorno che il garante dei detenuti, Marco Solimano non esita a definire "discarica sociale". Perché oltre alle condizioni fatiscenti degli spazi, non si può non tener conto dell’emarginazione sociale della sua popolazione, di cui oltre il 57% è extracomunitario e più del 40% è tossicodipendente: "Molti di loro non dovrebbero neppure essere lì - spiegano Solimano e gli avvocati Vinicio Vannucci e Marco Talini che, in rappresentanza della Camera Penale di Livorno erano ieri mattina in visita al carcere - perché parliamo di reati minori, come quelli legati all’abuso di sostanze". È un problema enorme quello del sovraffollamento delle carceri, causato in larga parte, spiegano, dall’abuso della strumento della custodia cautelare, per cui sono molti i detenuti chiusi in carcere che non sono ancora stati condannati (e che costano allo Stato circa 160 euro al giorno). Nel caso di Livorno, oltre al danno c’è la beffa, se di beffa si può parlare: un padiglione nuovissimo con acqua calda, docce e giusta separazione tra gli spazi che è ultimato ma non viene aperto e non si capisce il perché. "Il padiglione sarebbe fondamentale per avere quegli spazi di socialità - continua Solimano - che permetterebbero il recupero dei detenuti attraverso lo studio e il lavoro". Recupero che, nei rari casi in cui viene effettuato, garantisce l’abbassamento delle probabilità della recidiva. "È importante capire che garantire il rispetto dei diritti della persona in carcere e sostenerne il recupero rappresenta il miglior strumento per garantire la sicurezza di tutti i cittadini - ci tiene a sottolineare Vannucci - perché in queste condizioni chi entra in carcere, è impossibile che esca migliorato". Intanto qualcosa sembra muoversi: sarebbe già assegnata la gara d’appalto per la ristrutturazione dei due padiglioni carcerari chiusi dal 2011, i cui lavori dovrebbero partire a giugno Udine: detenuto s’ammala in carcere, duello sulle regole per curarsi a casa Messaggero Veneto, 13 febbraio 2014 Possono le forze dell’ordine imporre prescrizioni, ad integrazione di quelle stabilite da un giudice nei confronti di una persona sottoposta a una misura cautelare? É quanto dovrà stabilire il magistrato di sorveglianza di Udine per un caso sottopostogli dall’avvocato Alessandro Magaraci per conto di un suo assistito. La vicenda riguarda Oscar Tosoni, 35 anni, di Maniago. Dal 17 maggio 2012 deve scontare un anno e quattro mesi di reclusione. É detenuto in carcere per cessione di stupefacenti a Pordenone, dopo avere subito un intervento chirurgico al Santa Maria degli Angeli per problemi cardiologici. Poi viene trasferito nella casa circondariale di Padova, per sei mesi. All’improvviso, la febbre sale, fino a quasi 41 gradi, viene nuovamente ricoverato. L’uomo ha contratto una grave infezione, che comporta il trattamento di dialisi permanente. Il medico del carcere non firma la dichiarazione di incompatibilità tra la malattia e la detenzione. L’avvocato ricorre al tribunale di sorveglianza di Venezia, che accoglie l’istanza e sospende l’esecuzione della pena. Tosoni torna a casa. Per un anno, al 28 gennaio 2013, le udienze del suo processo sono sospese per gravi condizioni di salute. L’11 dicembre 2013 il tribunale di sorveglianza, a causa del quadro clinico e per consentire il trattamento di dialisi, aveva concesso i domiciliari al 35enne. L’uomo torna quindi a Maniago. Il giudice, nell’ordinanza, stabilisce i termini della detenzione domiciliare: Tosoni può uscire tra le 10 e le 12 per motivi di salute e per esigenze di vita. I carabinieri, ai quali è stata notificata l’ordinanza, a loro volta il 2 febbraio integrano il documento "al fine di vigilare correttamente sull’osservanza delle prescrizioni impongono quanto segue: prima di uscire dalla propria abitazione dovrà avvertire questo comando circa le motivazioni che comportano il suo allontanamento; portarsi presso questi uffici per apporre la firma sul registro permessi; ad incombenze ultimate, tornare al comando dimostrando di avere effettivamente soddisfatto alle indispensabili esigenze di vita o di essere uscito di casa per motivi sanitari; contattare telefonicamente questo comando non appena rientrato in casa". La difesa non ci sta. "Sono state modificate le disposizioni, prevedendo maggiori prescrizioni senza l’avvallo del giudice", spiega Alessandro Magaraci. Che ricorre al magistrato di sorveglianza di Udine. "La vita del signor Tosoni è appesa a un filo, ma ogni giorno resa sempre più complicata dagli agenti che devono effettuare i controlli. Si evidenzia che vengono effettuati controlli in orari notturni sebbene il signor Tosoni abbia spiegato le proprie difficoltà a staccarsi dall’apparecchio per la dialisi". Ora la parola torna al tribunale di sorveglianza di Udine, che dovrà esprimersi sul ricorso del difensore. Lucca: Ucpi; straniero un detenuto su due, struttura al collasso, ma il personale è super… La Nazione, 13 febbraio 2014 "Un quattro alla struttura, oggettivamente vecchia e superata, ma un nove al direttore e a tutto il personale che ci lavora, dato che riescono comunque a fare piccoli grandi miracoli". Questa la pagella degli avvocati dell’Unione Camere Penali che ieri mattina hanno visitato il carcere di "San Giorgio" per valutare da vicino questa realtà. Una realtà fatta di 151 detenuti su una capienza di 113 (85 gli stranieri, in maggior parte nord africani, rumeni e albanesi) e di 98 unità di polizia penitenziaria su un organico teorico di 125. La delegazione, formata dal presidente della Camera penale di Lucca, avvocato Riccardo Carloni, dall’avvocato Stefano Sambugaro osservatore nazionale dell’Ucp e dagli avvocati Francesco Spina, Chiara Bimbi, Micaela Bosi Picchiotti e Laura Maria Bitonte, è stata accolta dal direttore della Casa circondariale Francesco Ruello e anche dal vice comandante della polizia penitenziaria, l’ispettore capo Pasquale Di Gennaro. Il sopralluogo nelle celle e negli altri locali del carcere ha fatto emergere un quadro che secondo gli avvocati penalisti è in miglioramento. "La situazione - hanno sottolineato gli avvocati Sambugaro e Carloni - presenta criticità di sovraffollamento tipico di molte altre strutture carcerarie, ma i problemi sono soprattutto legati alla mancanza di sufficienti spazi comuni per le attività socializzanti. Ringraziamo il direttore che ci ha dato una disponibilità totale, facendoci verificare anche le celle. Abbiamo notato una gestione quasi familiare che mira a creare un clima di collaborazione, finalizzato alla rieducazione dei detenuti". "Molti di questi - hanno evidenziato gli avvocati penalisti - sono detenuti di passaggio e non è facile avviare una programmazione più duratura. Comunque il San Giorgio sta effettuando con successo corsi di cucina, di foto, giardinaggio, musica, informatica e collaborazioni con il volontariato e le scuole. Ora c’è l’apertura al mondo del lavoro con il supporto del Comune. Certo che andrebbero ristrutturati alcuni spazi interni e rinforzato il personale". Cagliari: Sdr; slitta ancora apertura del nuovo carcere Uta, probabilmente a dopo l’estate Ristretti Orizzonti, 13 febbraio 2014 "L’apertura del Villaggio Penitenziario di Uta, la desolata area in cui sta sorgendo il nuovo carcere di Cagliari, è destinata ancora una volta a slittare. L’inaugurazione della mega struttura, articolata su più edifici a cinque piani, non avverrà prima di agosto/settembre". Lo ha annunciato la presidente di Socialismo Diritti Riforme Maria Grazia Caligaris nel corso dell’assemblea ordinaria dei soci che ha celebrato il quinto anno di attività. "Sembra impossibile - ha detto - ma dopo quasi otto anni dall’avvio dei lavori la storia infinita di Uta entrerà nei misteri italiani per l’incredibile lungaggine nella realizzazione dei lavori. Abbiamo chiesto più volte un’indagine parlamentare ma la proposta è caduta nel vuoto e adesso che gli edifici sono stati consegnati al Ministero della Giustizia stanno emergendo le criticità con l’acqua nei sotterranei, i muri scrostati negli edifici costruiti per primi, l’inadeguatezza dei locali riservati agli amministrativi e agli educatori ed è stato perfino necessario modificare la Cappella del carcere perché mancavano i sedili avendo predisposto solo una gradinata in pietra. È certo quindi che buona parte del 2014 trascorrerà - ha precisato la presidente di SdR - senza che si possa pronunciare la parola fine anche se attualmente alcune squadre di detenuti sono impegnate nell’allestimento degli ambienti e gli Agenti di Polizia Penitenziaria effettuano i turni per la sicurezza. Nonostante l’alleggerimento di Buoncammino, in cui si trovano reclusi 357 detenuti, dopo il trasferimento di una fetta consistente dei ristretti in regime di Alta Sicurezza parte dei quali sono stati collocati in altre strutture regionali, l’attuazione del trasloco avverrà solo quando il Dipartimento avrà garantito l’agibilità di tutti gli edifici". Riferendosi poi ai colloqui con i cittadini privati della libertà di Buoncammino, effettuati con il contributo del segretario Gianni Massa e della vice Presidente Elisa Montanari, ha messo l’accento sulle difficoltà del trasferimento a Uta. "Anche quest’anno abbiamo garantito una presenza costante con appuntamenti bisettimanali che ci hanno permesso di effettuare circa 500 contatti e raggiungere schede operative per 400 reclusi. Ovviamente l’accesso al carcere di Uta, così dispersivo oltre che distante, limiterà notevolmente la presenza e costringerà i soci di SdR a un tour de force soprattutto per coloro che si occupano dei familiari. Disagi che ricadranno anche sull’attività delle associazioni di volontariato come Caritas e Orsac". Roma: poliziotto penitenziario di Rebibbia morì travolto dal cancello, otto a giudizio Il Messaggero, 13 febbraio 2014 Ha perso la vita sul luogo di lavoro, Salvatore Corrias, 46 anni, Assistente capo della Polizia penitenziaria di Rebibbia: travolto dall'anta in ferro di un cancello rimasto bloccato, che impediva il passaggio di un'ambulanza che trasportava un detenuto all'uscita del reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini. Una morte che, forse, poteva essere evitata: otto persone non avrebbero rispettato una sfilza di norme di sicurezza e ora, con l'accusa di omicidio colposo, sono state rinviate a giudizio dal gip Giuseppina Guglielmi. Secondo il pm Vittoria Bonfanti, il decesso di Corrias, avvenuto il 19 ottobre del 2011, sarebbe stato causato da una serie di errori, a partire da quello commesso dai legali rappresentanti delle ditte che hanno costruito il cancello e che avrebbero realizzato l'opera senza certificazione, fino alla possibile mancanza di collaudo. Sul banco degli imputati sono finiti anche il direttore del carcere di Rebibbia, Carmelo Cantone, datore di lavoro di Corrias, e Vittorio Bonavita, direttore generale della Asl Rm B. Cantone avrebbe omesso di valutare il pericolo. Bonavita, invece, non avrebbe predisposto un documento di valutazione dei rischi, soprattutto in relazione all'utilizzo manuale della struttura che non era dotata di un fermo sul binario di scorrimento. Genova: Sappe; in poche ore a Marassi un poliziotto aggredito e due sventati suicidi Ristretti Orizzonti, 13 febbraio 2014 "Storie di ordinaria follia": così il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe commenta i tre gravi episodi accaduti in pche ore all’interno del carcere di Genova Marassi. "In poche ore i nostri Agenti hanno salvato la vita a due detenuti che hanno tentato il suicidio mentre un Basco Azzurro del Corpo è stato proditoriamente aggredito da un ristretto. Tutti i detenuti sono stranieri, che a Marassi rappresentano la stragrande maggioranza dei presenti, il 65% circa. Al collega va la nostra solidarietà e vicinanza ma queste aggressioni sono intollerabili. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite. Il numero delle aggressioni ai Baschi Azzurri, che prestano servizio nelle sezioni detentive e in carcere assolutamente disarmati e senza alcuna forma di difesa personale, è nell’ordine delle diverse centinaia ogni anno. Servono strumenti di tutela efficaci, come può essere proprio lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri valuti positivamente questa nostra proposta e, quindi, assumi i provvedimenti conseguenti", commenta il segretario generale aggiunto Roberto Martinelli. E non è una buona notizia l’annunciata chiusura del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Genova, che verrebbe accorpato con quello di Torino: "È impensabile che, soprattutto il personale di Polizia Penitenziaria, si trovi costretto - sia per ragioni di servizio che per ragioni personali - a fare riferimento ad uffici posti fino a trecento chilometri di distanza. Con questo provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri di concerto con il Ministero della Giustizia si destabilizza un sistema della sicurezza a livello regionale e territoriale costruito dopo tanti e tanti anni di esperienza, di cui fanno parte le carceri, i Nuclei delle Traduzioni e dei Piantonamenti e le Centrali Operative Regionali della Polizia Penitenziaria". Bologna: Garante regionale in visita al Pratello "evidente miglioramento delle condizioni" Ristretti Orizzonti, 13 febbraio 2014 La Garante regionale delle persone private della libertà, Desi Bruno, lunedì scorso si è recata in visita alla all’Istituto penale minorile regionale in via del Pratello (Bo). Nella visita è stata accompagnata dal direttore dell’istituto, Alfonso Paggiarino, e dal comandante della polizia penitenziaria, riscontrando "un evidente miglioramento delle condizioni dei ragazzi e della struttura, rispetto a quanto rilevato nelle precedenti visite". Alla data del 10 febbraio risultano 18 ragazzi ristretti, tutti stranieri, in lieve aumento rispetto al dato del dicembre scorso, comunque al di sotto della capienza dell’istituto. Dei ragazzi, solo uno si trovava in camera perché influenzato, gli altri erano occupati in attività sia scolastiche che professionali. Ambienti e celle sono state trovati in buone condizioni igieniche, ben riscaldati; la palestra dispone di vari materiali per l’attività sportiva (rete da pallavolo, materassini e palloni), le aule scolastiche sono state completamente ripulite e imbiancate, con nuove suppellettili e materiali utili all’attività della scuola. Proseguono le attività trattamentali, con particolare riguardo alla frequenza scolastica dell’obbligo e della scuola alberghiera, oltre al corso professionalizzante per la ristorazione, condotto da Fomal. La direzione anticipa che il Dipartimento giustizia minorile ha finalmente autorizzato gli annosi lavori di pulizia e adeguamento dell’area cortiliva (che a questo punto si spera possa essere utilizzata dai ragazzi entro la fine dell’anno), oltre a quelli di messa in sicurezza del sottotetto lesionato in occasione del terremoto del maggio 2012. L’organico del personale - sia civile che di polizia penitenziaria - inizia ad avere numeri adeguati, ma rimane l’annoso problema del vicario del comandante non ancora assegnato. In caso di urgenze e necessità di assentarsi da parte del comandante, al momento, viene distaccato dalla Dozza. Il referente medico, incontrato in ambulatorio, ha riferito non esserci al momento ragazzi tossicodipendenti nell’istituto (solo qualche caso di infettivi, sotto controllo e in terapia). Il caso già segnalato per problemi psichiatrici è rientrato in struttura e posto in graduale riduzione di terapia che pare stia dando discreti risultati: è importante che il ragazzo possa essere avviato ad un progetto di accompagnamento per la sua prossima definitiva uscita per fine pena. Lo sportello di informazione giuridica e consulenza extragiudiziale, frutto del protocollo sottoscritto dall’Ufficio del Garante e il Centro di Giustizia minorile, sta dando i suoi primi frutti, positivo è il riscontro da parte della direzione e dei servizi. Sollecitata dalle numerose domande dei ragazzi incontrati, la Garante si è resa disponibile a un incontro collettivo per illustrare loro le principali modifiche che verranno apportate dalla conversione in legge del d.l. 146 del dicembre 2013. Lecce: Progetto "70volte7", detenuti collaborano con la Caritas al servizio dei bisognosi www.leccenews.it, 13 febbraio 2014 Al via il progetto che rientra tra quelli della Caritas. Questa mattina in Episcopio la firma dell’accordo tra la Caritas diocesana e le Istituzioni giudiziarie per aiutare gli ultimi e gli emarginati. "70volte7": si chiama così il progetto siglato questa mattina dall’Arcivescovo di Lecce e Presidente della Caritas Diocesana, Mons. Domenico Umberto D’Ambrosio, il Direttore della Casa Circondariale di Lecce, dott. Antonio Fullone, il Presidente della Fondazione Madonna di Roca, Don Elvino De Magistris, il Direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Lecce, dott.ssa Patrizia Calabrese, il Presidente di Sorveglianza di Lecce, dott.ssa Silvia Maria Dominioni. Presenti all’incontro anche il Direttore della Caritas Diocesana, don Attilio Mesagne, il cappellano don Sandro D’Elia e numerosi collaboratori delle diverse Istituzioni coinvolte. Tra gli obiettivi del progetto c’è l’inserimento socio-lavorativo di un gruppo di detenuti che si metteranno a disposizione dei più bisognosi nell’ambito dei progetti caritativi e sociali della Caritas Diocesana e della Fondazione Madonna di Roca. In particolare saranno garantiti formazione, accoglienza e accompagnamento dei detenuti, favorendo il percorso rieducativo a favore degli ultimi. A regime, dopo un periodo sperimentale, "70volte7" prevede la progettazione esecutiva (tramite una prima esperienza pilota), l’avvio e conseguente gestione di un "Centro Sociale Rieducativo per detenuti", dunque detenuti definitivi "a cui venga consentito di trascorrere parte del giorno fuori dall’Istituto di pena, per partecipare ad attività lavorative, istruttive e comunque utili al reinserimento sociale". Il Centro si propone, in particolare, di realizzare un percorso per i detenuti inspirato ai principi della valenza rieducativa e di promozione sociale del volontariato, rielaborazione dei vissuti personali al fine di costruire nuovi percorsi valoriali, promozione della crescita culturale, sviluppo del senso e della cultura della legalità, accompagnamento/assistenza delle famiglie e delle corrette dinamiche interne. Roma: evasione da film, segano sbarre, giù con lenzuolo. Indagine del Dap sull’episodio di Lorenzo Attianese Ansa, 13 febbraio 2014 Una fuga progettata probabilmente da tempo e ottenuta grazie ad un limetta che ha tagliato il "ferro dolce" delle sbarre di una finestra del carcere di Rebibbia. Stavano scontando da circa un anno la loro pena i due detenuti scappati ieri sera dalla casa circondariale della Capitale. Giampiero Cattini, di 41 anni e Sergio Di Palo di 35, si sono calati da un muro di cinta del carcere con delle lenzuola annodate. I due avrebbero dovuto restare in carcere fino al 2018. Sulla vicenda il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha disposto un’indagine interna, per verificare eventuali responsabilità. E da ore è scattata la caccia ai ricercati in tutta Italia. Nella Capitale, in particolare, sono stati attivati diversi posti di blocco e sono al vaglio le telecamere di alcune strade per ricostruire i primi spostamenti. Controlli a tappeto anche nelle stazioni e nei principali punti di snodo della città. Gli evasi avevano alle spalle diversi reati: Di Palo era stato condannato per rapina, furto e droga ed era evaso dagli arresti domiciliari 15 anni fa. Cattini era in carcere per reati di rapina e furto. Ma altri quattro anni da scontare in cella sembravano ancora troppo distanti, per questo è stata progettata la fuga. I due detenuti si trovavano ieri sera intorno alle 22 in uno spazio condiviso all’interno della "terza casa", una zona per il recupero dei tossicodipendenti. Qui, allo scopo di "sviluppare l’autodeterminazione del detenuto", le misure di ristrettezza sono più lievi: all’interno ci sono 47 detenuti e 39 agenti in tutto che coprono tre turni quotidiani. Di Palo e Cattini, che si erano conosciuti all’interno dello stesso carcere, sarebbero saliti all’ultimo piano dove hanno segato le sbarre di "ferro dolce" di una finestra per calarsi, attraverso delle lenzuola annodate, in uno spazio dell’intracinta. Infine, hanno scavalcato l’ultimo muro di cinta, in quel punto alto circa tre metri, che li separava dall’esterno. Non è ancora chiaro come i due possano essere riusciti a procurarsi la lima o qualche altro oggetto per segare le sbarre. Qualcuno, al Dap, ricorda altre evasioni clamorose avvenute in Italia in passato, dove seghetti o i cosiddetti "riccioli d’oro", dei fili di ferro molto taglienti, venivano nascosti nelle copertine rigide dei libri, nelle scarpe o nel cibo. Per questo le misure di controllo, da anni, sono aumentate. La moglie di Sergio Di Palo, in lacrime, ha lanciato un appello al marito affinché si costituisca. "Mio marito è scappato sicuramente perché gli manca la famiglia. Ma io gli chiedo di tornare in carcere, spero che non abbia problemi con gli agenti quando lo ritroveranno - spiega la donna - sperava nell’amnistia, l’ho visto ieri al colloquio ed era tranquillo. Mi spiace che mio figlio di nove anni, ha dovuto vedere la foto del padre alla tv. Ma mio marito non è una persona pericolosa". Il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece, punta il dito contro i sistemi di sicurezza in carcere, che considera inefficaci. "Questo è il risultato della fallimentare vigilanza dinamica, che azzera la sicurezza nelle carceri". Capece si augura che si possano "catturare quanto prima i due evasi, ma anche questo episodio conferma le criticità del sistema penitenziario". Catturato uno dei detenuti evasi dal carcere romano di Rebibbia Torna in cella Giampiero Cattini. Ancora latitante l’ex compagno di cella Di Paolo. I due avevano lasciato un biglietto di scuse. È stato arrestato uno dei due detenuti evasi martedì notte dal carcere di Rebibbia a Roma. Giampiero Cattini, 42 anni, è stato rintracciato e ammanettato da agenti della Polizia di Stato e da due sottufficiali della Polizia penitenziaria. Rimane latitante l’altro detenuto fuggito dall’istituto di pena romano, Sergio Di Paolo. I due - in cella per reati legati alla droga, erano evasi calandosi con delle lenzuola oltre il muro di cinta dopo aver segato (forse con un seghetto del tipo "capelli d’angelo") le sbarre della propria cella. Nella cella avevano lasciato un biglietto di scuse alla direttrice del carcere romano. L’arresto è avvenuto a meno di 48 ore dalla fuga. Prato: tunisino agli arresti domiciliari si toglie "braccialetto elettronico" ed evade Ansa, 13 febbraio 2014 Un tunisino di 43 anni, a cui era stato applicato il braccialetto elettronico a Prato, se lo è strappato e si è allontanato dall'abitazione dove era agli arresti domiciliari. Questo quanto si apprende dai carabinieri che lo stanno ricercando. Il tunisino è stato uno dei primi in Italia al quale è stato applicato il dispositivo per il controllo a distanza. Se il detenuto danneggia il braccialetto o la centralina a cui è collegato, scatta subito l'allarme alla centrale operativa delle forze dell'ordine. L'allarme nel caso del detenuto a Prato, secondo quanto si è appreso, è scattato oggi nella tarda mattinata ma quando i carabinieri sono arrivati sul posto del detenuto non c'era più traccia. Libri: "Ricette al fresco. 85 modi per cucinare nel carcere di Pisa", di Giovanna Baldini www.gonews.it, 13 febbraio 2014 La libreria "Il Barbagianni" di San Miniato inaugura il suo calendario di eventi. Il locale, rinnovato da poco e reinventato dal connubio fra cibo e letteratura, non poteva non optare, come primo libro presentato, per un ricettario. La scelta non è ricaduta su una raccolta di piatti casalinghi, o su consigli di chef famosi che si sono fatti un nome nel mondo dello spettacolo o nella tradizione culinaria, ma su una serie di modi per cucinare proposti e descritti da esperti assai particolari. La cucina può essere caratterizzata, infatti, dalla passione, dalla pratica, dal metodo; ma può altresì diventare anche una via di fuga, un modo per affinare la pazienza, una forma di conoscenza che resiste oltre la quotidianità alterata. Ce lo raccontano i detenuti del Carcere Don Bosco di Pisa attraverso il libro "Ricette al fresco. Gli 85 modi per cucinare nel carcere di Pisa". curato dalla professoressa Giovanna Baldini ed edito da ETS edizioni. Non ci viene spiegato il "come", inteso come esperienza all’interno di una casa di detenzione; queste pagine ci parlano di quantità, di tempi di cottura, di tutto ciò che è proprio di un libro di ricette canonico. L’incontro avrà luogo sabato 15 Febbraio alle ore 17,30; sarà presente la curatrice del libro, introdotta da Cristiana Vettori, che risponderà a domande e curiosità sulla genesi e suggestioni derivanti dalla pubblicazione. Al termine un aperitivo dolce ispirato ad una delle ricette. Tutte le notizie di San Miniato. Droghe: Consulta; la legge Fini-Giovanardi è incostituzionale, effetti su 10mila detenuti Agi, 13 febbraio 2014 Viola la Costituzione la legge Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti, con la quale sono state equiparate le droghe pesanti e quelle leggere. Lo ha sancito la Corte Costituzionale, dichiarando l’illegittimità della norma per violazione dell’articolo 77 della Costituzione, che regola la procedura di conversione dei decreti legge. Le nuove norme in materia di droga, infatti, erano state inserite con un emendamento, in fase di conversione, nel decreto legge sulle Olimpiadi invernali di Torino del 2006. A sollevare la questione di legittimità era stata la terza sezione penale della Cassazione. Viene così cancellata la norma con cui si erano parificate "ai fini sanzionatori" droghe pesanti e leggere: con la Fini-Giovanardi erano infatti state elevate le pene, prima comprese tra due e sei anni, per chi spaccia hashish, prevedendo la reclusione da sei a venti anni con una multa compresa tra i 26mila e i 260mila euro. Le motivazioni della Corte saranno rese note nelle prossime settimane: la bocciatura della Fini-Giovanardi dovrebbe far rivivere automaticamente la precedente normativa Iervolino-Vassalli, varata nel ‘90. Di certo, la pronuncia della Consulta avrà notevoli ripercussioni sia sul numero degli attuali detenuti arrestati per reati legati agli stupefacenti, sia sui procedimenti in corso per questi stessi reati. Da sentenza Consulta impatto su 10mila detenuti Sono circa 10mila i detenuti su avrà un decisivo impatto la bocciatura, sancita oggi dalla Consulta, della legge Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti. Questa la previsione ribadita oggi dal presidente della "società della ragione", Stefano Anastasia, che già ieri, al termine dell’udienza pubblica alla Corte, aveva rilevato che la platea di detenuti interessati era di circa 10mila persone, tra detenuti in attesa di giudizio e condannati in via definitiva. Questi ultimi, in particolare, potranno chiedere un incidente di esecuzione per la rideterminazione della pena. Su chi è ancora in custodia cautelare, sarà il giudice di sorveglianza a valutare caso per caso la situazione. "Questo raggiunto oggi è un ottimo risultato - rileva Anastasia - perché da la possibilità di dare una prospettiva diversa a chi attualmente è imputato o condannato per fatti legati alle droghe leggere, anche con qualche sollievo alla situazione penitenziaria italiana. Finisce il proibizionismo della Fini-Giovanardi e questo ci consente di poter raggiungere gli altri Stati che stanno discutendo su una nuova politica in materia di droghe". Effetti della pronuncia della Consulta, che porterà a rivivere la legge Iervolino-Vassalli, che prevedeva pene comprese tra due e sei anni per reati legati alle droghe leggere, si faranno sentire anche sui procedimenti penali pendenti: i termini di prescrizione, infatti, saranno più brevi, e più ridotti anche gli strumenti investigativi, quali le intercettazioni, cui sarà possibile far ricorso in fase di indagini. Droghe: la legge Fini-Giovanardi è incostituzionale… commenti di giuristi e politici Ristretti Orizzonti, 13 febbraio 2014 Gonnella (Antigone): si torna a Jervolino-Vassalli "Con la decisione della corte Costituzionale si torna ad una legislazione normale sulla droga, alla legge Jervolino-Vassalli". Lo dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carceri. "La corte Costituzionale è riuscita - nota Gonnella - laddove le forze politiche non erano arrivate per veti incrociati". "Ora si torna alla Jervolino-Vassalli, una legge con trattamento penale differenziato tra droghe leggere e pesanti, che prevede in generale pene minori e politiche di riduzione del danno, completamente cancellate dalla Fini-Giovanardi". Secondo Gonnella la decisione della corte influirà in modo drastico anche sul sovraffollamento carcerario, "circa il 40% dei detenuti, 24 mila persone, é in cella, infatti - sottolinea - per imputazioni che riguardano la legge dichiarata illegittima". "A chi è in custodia cautelare in base alle norme della Fini-Giovanardi - sostiene Gonnella - si applicheranno le misure previste dalla Jervolino-Vassalli. I condannati definitivi invece potranno chiedere il ricalcolo della pena per incidente di esecuzione. Ci si attrezzi per dare a tutti questa chance". Poi, conclude Gonnella "ci si prenda tutto il tempo necessario per fare una nuova legislatura che non sia ideologica e punitiva. E per fare ciò si ascoltino le famiglie, gli operatori, le comunità. Si dia voce a chi da tempo ricorda il contributo negativo dato dalla Fini-Giovanardi al sovraffollamento carcerario". Bernardini (Radicali): e ora… legalizzazione! Dichiarazione di Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani: "Fini-Giovanardi, con la loro legge, hanno imposto otto anni di sofferenze a decine di migliaia di persone che hanno affollato le patrie galere. Lo hanno fatto subdolamente con un decreto-legge su tutt’altra materia e superando ogni limite di decenza in sede di conversione del medesimo. Il centro-sinistra in tutti questi anni è stato a guardare; non posso dimenticare, infatti, quando nella passata legislatura qualsiasi proposta radicale in materia, anche la più moderata come l’equiparazione della coltivazione di marijuana alla detenzione per uso personale, veniva respinta in accordo con la parte più proibizionista del centro-destra. Così come non posso dimenticare il mancato sostegno al referendum che tentammo di indire la scorsa estate. Da pluripregiudicata (come Pannella e altri radicali) per le mie disobbedienze civili sulla legalizzazione della cannabis, chiedo agli esponenti moderati e ragionevoli presenti in tutti gli schieramenti politici, di attivarsi subito per la legalizzazione/regolamentazione della marijuana e, in primo luogo - e immediatamente - per consentire ai malati che ne possono trarre beneficio di poter accedere effettivamente ai farmaci cannabinoidi. Per quanto mi riguarda proseguirò a disobbedire fino a che i malati e i consumatori saranno costretti dalla legge a rifornirsi al mercato criminale al quale il nostro Stato ha appaltato la gestione di un fenomeno sociale che coinvolge milioni di persone. Non essendo stata arrestata a Foggia il 30 gennaio scorso quando mi sono autodenunciata per aver ceduto ai malati del Cannabis Social Club di Racale 120 grammi di marijuana coltivata sul mio terrazzo, mi ritengo autorizzata alla coltivazione fino a che non sarò trattata come i tanti che sono arrestati per coltivazione o fino a che la legge non sarà cambiata in senso antiproibizionista. Infine, ai tanti media che scrivono che, dopo la sentenza della Consulta, torna in vigore la legge Jervolino-Vassalli come modificata dal referendum del 1993, ricordo che quella consultazione popolare vincente si tenne per volontà e determinazione radicale, mentre tanti (troppi) ci spiegavano che il popolo italiano non avrebbe capito. Capì, dimostrando ancora una volta di essere molto più avanti dei suoi governanti e rappresentanti in Parlamento". Manconi (Pd): la Fini-Giovanardi illiberale, fu abuso potere "La decisione della Corte Costituzionale fa giustizia di un abuso di potere, consumato nel 2006 dal governo Berlusconi e dal sottosegretario Carlo Giovanardi ai danni del Parlamento. Da allora, decine di migliaia di persone sono state punite con una severità illegittima a causa di una normativa illiberale e antiscientifica". Lo dice in una nota il senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione Diritti umani. "Vedremo gli effetti di questa sentenza sulle carceri, dove i detenuti per detenzione di droghe cosiddette leggere sono stimati in molte migliaia di unità. Certo è che, rimossa la legge Fini-Giovanardi, anche in Italia si potrà tornare a discutere di una politica delle droghe più aperta e intelligente, più saggia e razionale, fino a forme di regolamentazione legale della loro circolazione. Come sta accadendo in gran parte del mondo", conclude. Anastasia (Antigone): decisione Consulta fa storia "È una notizia eccezionale che fa storia rispetto alle politiche sulle droghe in Italia. Con questa pronuncia si chiude una fase storica che è quella della Fini-Giovanardi, delle scelte repressive degli ultimi 8 anni, attraverso le quali si è usata la legislazione sulle droghe per criminalizzare e controllare ampie fasce di popolazione, in particolare giovani e immigrati". Questo il commento alla sentenza della Corte Costituzionale sulla Fini-Giovanardi di Stefano Anastasia, ex presidente dell’associazione Antigone sui diritti dei detenuti che nei giorni scorsi ha lanciato un appello alla Consulta contro la Fini-Giovanardi firmato da numerosi giuristi e operatori del settore. "Questo - aggiunge Anastasia - consente al Paese di rimettersi in pari con chi ha avviato politiche di de-criminalizzazione delle droghe leggere. Dall’anno scorso in Uruguay c’è una politica di regolamentazione legale della cannabis, che tra poco ci sarà anche in Colorado e nello stato di Washington". A chi teme che questa decisione, abbassando le pene previste per i reati connessi alla droghe leggere, possa trasformarsi in un indulto mascherato, Anastasia risponde che l’effetto "non sarà una riduzione di pena giustificata da un atto di clemenza, il rispetto della Costituzione contro una legge illegittima nel suo procedimento di adozione. Il che non vuol dire che si passa all’impunità, ma alle previsione penali previste prima della Fini-Giovanardi e che erano state adottate legittimamente. Penso che nessuno possa dire che è giusto tenere in carcere le persone in virtù di legge illegittima. Ora la detenzione dei condannati per droghe leggere, al di là dei casi di piccola entità, non potrà essere superiore a 6 anni, mentre fino a ieri le pena massima era di 20 anni". Flick: sentenza non riguarda condannati definitivi La bocciatura della legge Fini-Giovanardi avrà effetti "solo sui procedimenti in corso e non per chi è stato già condannato in via definitiva". Questo il parere del presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, che ieri è intervenuto in udienza alla Consulta per sostenere l’illegittimità della norma che equiparava droghe pesanti e leggere. L’opinione di Flick diverge da quella di altri giuristi, secondo cui, invece, per i condannati in via definitiva per reati connessi alle droghe leggere sarà possibile chiedere la rideterminazione della pena con un incidente di esecuzione. Per avere maggiore chiarezza sul punto bisognerà attendere le motivazioni della Corte, che saranno scritte dal giudice Marta Cartabia. Flick, dopo la sentenza, ha ribadito che con questa bocciatura non si creerà "alcun vuoto normativo", ma che tornerà in vigore la legge Jervolino-Vassalli: "quella norma è stata abrogata con una legge che oggi è stata dichiarata illegittima, dunque torna a rivivere", spiega il presidente emerito della Consulta. Con la pronuncia di oggi, la Corte, ha concluso Flick, "ha sancito che non c’era alcuna omogeneità tra le norme del decreto e la vagonata di cose nuove in materia di stupefacenti che vennero inserite in sede di conversione: il fatto che il decreto contenesse modifiche inerenti il trattamento dei tossicodipendenti recidivi non giustificava l’introduzione di una vera e propria rivoluzione in materia". Binetti (Pi): sentenza Consulta è svuota-carceri bis di breve respiro La deputata dei Popolari: "Cassata la norma su un’emergenza sociale per ragioni di sottilissima scienza giuridica". "Per un verso sembra una sentenza a orologeria, che arriva al momento giusto per dare una mano al governo nello svuotare le carceri. Dall’altro lato fa pensare il fatto che si sia potuta cancellare una normativa così importante in base ad un ricorso in punta di diritto, basato su una violazione tutta giuridica delle norme costituzionali sulla decretazione d’urgenza. In mezzo c’è invece la domanda molto concreta che io mi pongo non solo come parlamentare, ma anche come medico neuropsichiatra: la droga fa male o no? È o no uno strumento con cui tante persone rovinano loro stesse e distruggono intere famiglie?". Paola Binetti , deputata dei Popolari per l’Italia, commenta così a caldo la sentenza della Consulta che ha di fatto abrogato la legge Fini-Giovanardi che in sostanza equiparava dal punto di vista penale il consumo di droghe leggere e pesanti. "So benissimo - continua Binetti - che non tutti coloro che usano le prime poi passano alle seconde ma a queste ultime ci si arriva sempre passando attraverso quelle. Le faccio un esempio sulla base del lavoro sulla mia proposta di legge sulle ludopatie, di cui sono anche relatrice. Chi finisce vittima del gioco d’azzardo non comincia forse con piccole scommesse?". Binetti dubita peraltro che nel medio termine l’alleggerimento della popolazione carceraria sarà reale. "Forse adesso molti giovani usciranno di prigione e tanti altri non ci entreranno, ma se poi questa liberalizzazione implicita gli farà fare il salto di livello, finiranno in galera con pene ben più pesanti e devastanti". "Se si ascoltano le varie comunità di recupero - continua Binetti - , si percepisce la grande preoccupazione per una decisione che può aggravare il problema della tossicodipendenza". La deputata centrista torna poi sull’aspetto, per così dire, leguleio della decisione della Suprema Corte. "Non so quanto i media, tutti proiettati sulle conseguenze di tipo carcerario della sentenza, rifletteranno sul fatto che la Giovanardi-Fini in fondo salta perché uno spacciatore ha fatto ricorso e ora ha vinto sostenendo che un decreto legge, nato per fronteggiare il rischio circostanziato di un incremento del traffico di stupefacenti in occasione delle olimpiadi invernali di Torino, abbia poi prodotto una norma permanente e stabile per fronteggiare un’emergenza sociale". Scalfarotto (Pd): Parlamento ora vari legge moderna "Con la sentenza della Corte Costituzionale sparisce finalmente dal nostro ordinamento una legge oscurantista, irrazionale, illogica e punitiva". Lo afferma Ivan Scalfarotto, parlamentare del PD e primo firmatario di una proposta di legge per la depenalizzazione del consumo delle droghe leggere, alla sentenza della Consulta che oggi ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi. "La Fini-Giovanardi ha irrazionalmente equiparato droghe leggere e droghe pesanti e ha introdotto sanzioni irragionevolmente elevate che hanno contribuito al sovraffollamento disumano delle nostre carceri. Bisogna ora completare il cammino e rivedere alla radice un approccio proibizionistico che ha dimostrato di essere completamente inefficace. Il parlamento raccolga il testimone della Consulta e approvi al più presto una nuova legge moderna, ragionevole ed efficace", ha concluso Scalfarotto. Comunità Accoglienza: soddisfazione per sentenza Consulta Il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza (Cnca) esprime la propria piena soddisfazione per la sentenza della Corte Costituzionale in cui si dichiara illegittima la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. "L’unica cosa che sorprende nella decisione della Consulta è che ci sia voluto così tanto tempo per arrivarci", dichiara Riccardo De Facci, vicepresidente del Cnca. "La gran parte degli operatori - prosegue De Facci - ha denunciato l’illegittimità della legge fin dalla sua approvazione, avvenuta per pure ragioni ideologiche ed elettorali. Chi ha voluto speculare su una questione così sentita dall’opinione pubblica, mandando in carcere decine di migliaia di persone ingiustamente, ora dovrebbe chiedere scusa. Sono diecimila solo quelli attualmente detenuti che potranno chiedere di uscire di prigione. Ma se, con questa sentenza, gli aspetti peggiori della normativa sulle droghe sono stati cancellati - continua De Facci - è ormai ineludibile una radicale ridefinizione delle politiche sulle droghe attuate nel nostro paese, che tenga conto della realtà del fenomeno, delle evidenze scientifiche e degli indirizzi internazionali più avanzati". "Chiediamo al Governo, che ha sconsideratamente deciso di sostenere una legge illegittima davanti alla Corte Costituzionale, di aprire un confronto franco e aperto con gli addetti ai lavori per elaborare una nuova legislazione e di promuovere un cambiamento negli orientamenti e nella direzione del Dipartimento Politiche Antidroga, allineato a un approccio ormai superato. Insieme a tante altre organizzazioni che, in questi anni, hanno lottato con noi contro la legge Fini-Giovanardi, abbiamo organizzato a Genova, dal 28 febbraio all’1 marzo - annuncia De Facci - una conferenza nazionale per una nuova politica sulle droghe, dedicata a don Andrea Gallo. Può essere una prima occasione per un pubblico dibattito". Serpelloni (Dpa): rispettiamo Consulta ma ridefinire norme "Rispettiamo la decisione della Corte costituzionale, ma bisognerà anche comprendere quali saranno le ricadute in termini di programmazione e gli impatti sanitari sulla salute pubblica di un ritorno al passato di questo tipo". Lo dice Giovanni Serpelloni, Capo Dipartimento politiche antidroga della Presidenza del Consiglio, in merito alla pronuncia della Consulta Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi. "La legge Iervolino-Vassalli - spiega Serpelloni - è stata fatta in un periodo in cui c’erano certi tipi di droga che non esistono praticamente più, in cui la percentuale di Thc nella cannabis era del 5%, mentre ora siamo arrivati fino al 55%. Andranno ridefinite le norme -rimarca- sulle base di una realtà profondamente cambiata anche per l’arrivo di nuove sostanze sintetiche spacciate sul web. Sarà il Parlamento a decidere la nuova regolamentazione, a cui tutti ci atterremo. Resta il fatto -conclude Serpelloni - che i consumatori di sostanze stupefacenti in Italia non devono essere inseriti in un circuito penale, ma gli spacciatori sicuramente si"‘. Droghe: con il ritorno alla legge Jervolino-Vassalli, arriva un nuovo svuota carceri? di Dimitri Buffa www.clandestinoweb.com, 13 febbraio 2014 Con la decisione, non inattesa, con cui la Consulta oggi ha dichiarato incostituzionale tutta la legge Fini-Giovanardi (in realtà semplicemente non la considera convertita in legge), le conseguenze nel medio e nel lungo periodo potrebbe essere un mega "svuota carceri". Cosa che per certi versi potrebbe dare una mano a questo governo un pochino inconcludente per non doversi trovare a mal partito il prossimo 24 maggio quando la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) presenterà il conto al nostro paese in materia di stato di diritto e di condizioni disumane in cui i carcerati sono costretti a vivere. Il perché è presto detto: siccome da quel che si legge nel comunicato della Corte (presto si leggeranno anche le motivazioni) a essere stata dichiarata incostituzionale non è questa o quella norma dell’impianto forcaiolo della Fini-Giovanardi, ma la legge in se, che non si considera convertita in virtù del fatto che non si può mettere una cosa come questa nel decreto per le Olimpiadi invernali di Torino, sottoporre il tutto a voto di fiducia e bypassare così il Parlamento, rivivrà già da domani la vecchia normativa del 1990, cioè la legge Jervolino Vassalli. Che però a sua volta era stata emendata dal referendum promosso dal Cora, Coordinamento radicale anti proibizionista, all’epoca presieduto da Marco Taradash. Uno degli ultimi referendum promossi e vinti dai radicali di Pannella e dai movimenti della loro galassia. E quel referendum abolì la presunzione di colpevolezza per il possesso a uso personale anche di quantità non indifferenti di sostanze stupefacenti. Leggere e pesanti. Lo spaccio va sempre provato. Ergo, in nome del sacrosanto principio costituzionale del "favor rei", non solo tutti i consumatori che negli ultimi otto anni hanno conosciuto il carcere perché trovati in possesso di qualche grammo di droga leggera o pesante chiederanno la revisione delle loro condanne e l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa, nonché la ripulitura della fedina penale, ma anche i piccoli, medi e anche grandi trafficanti potranno chiedere tramite i loro avvocati un incidente di esecuzione della pena, si chiama così tecnicamente, per ricalcolare la condanna secondo la legge loro più favorevole. Il che significa che una persona condannata ad esempio a dieci anni con la Fini Giovanardi può vedersi diminuire di molto la pena con la vecchia Jervolino Vassalli, anche in caso di spaccio provato, e siccome nel 2006 è anche passato un indulto molti potrebbero usufruire di questa via di uscita dal carcere. Inoltre da oggi la custodia cautelare per piccoli reati "border line" tra possesso e piccolo spaccio di droga, di ogni droga, sarà molto più difficile. E anche questo aiuterà a tenere le carceri con un numero accettabile di ospiti. Infine, in un’ottica mondiale che sembra andare verso la legalizzazione quantomeno delle droghe leggere, o cosiddette tali, questo "step" potrebbe diventare molto utile per armonizzare la legislazione italiana con quelle europee tutte molto meno proibizioniste. Oggi la Consulta ha messo la parola fine a una legge nata dal sogno ideologico di Gianfranco Fini, poi trasformatosi in incubo, e sopravvissuta alla triste parabola del suo declino politico. Tutti i problemi di sovraffollamento carcerario degli ultimi anni si devono almeno al 50 per cento a questa legge e per un altro 20 per cento a un’altra legge, quella sull’immigrazione, che sempre il nome dell’ex leader di An porta. L’incubo ideologico è durato esattamente per due Olimpiadi invernali, da Torino a Sochi. Chissà che anche questo non sia un segno del fato. Guinea Equatoriale: detenuto italiano Roberto Berardi visitato dal console spagnolo Ansa, 13 febbraio 2014 Roberto Berardi, l’imprenditore edile di Latina detenuto in Guinea Equatoriale dopo un contrasto con il figlio del dittatore locale, l’8 febbraio scorso è stato visitato in carcere a Bata dal console generale spagnolo del paese, su richiesta delle autorità diplomatiche italiane (l’Italia non ha una ambasciata in Guinea Equatoriale). Secondo quanto riferito dalla Farnesina, il diplomatico spagnolo non ha notato infermità o danni fisici apparenti. Il console ha chiesto di poter fare una nuova visita, questa volta senza testimoni. Berardi, 49 anni, aveva formato una società di costruzioni con Teodoro Obiang Nguema Mangue (detto Teodorin), figlio del presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo. Ma dopo la scoperta di alcune strane operazioni sul conto corrente dell’impresa, aveva chiesto spiegazioni. Per tutta risposta, il 19 gennaio del 2013 era stato arrestato, accusato di frode fiscale e condannato a luglio a due anni e quattro mesi di carcere. Con una drammatica registrazione audio e alcune foto, fatte arrivare al Tg1 ai primi di febbraio, Berardi ha denunciato di venire sistematicamente picchiato e bastonato e di essere tenuto in isolamento. Il suo accusatore Teodorin è ricercato dalla giustizia francese e sotto in processo negli Stati Uniti. Secondo la magistratura americana, sarebbe stato il figlio del dittatore ad intascare i soldi della ditta con Berardi, per comprare fra le altre cose un guanto di Michael Jackson. Per i giudici della Guinea tuttavia, anche Berardi sarebbe sotto inchiesta in Camerun, paese confinante. Il caso dell’imprenditore di Latina è seguito dall’inizio dal nostro Ministero degli Esteri, che ha percorso tutti i canali diplomatici per aiutarlo e cercare di riportarlo in Italia. È stato convocato alla Farnesina l’ambasciatore guineano a Roma, è stata anche inviata una lettera a Teodorin Obiang. Il nunzio apostolico a Yaoundé (Camerun) è intervenuto presso il presidente ed è stata coinvolta anche la rappresentanza diplomatica della Ue. Il viceministro Lapo Pistelli ha parlato del caso ad Addis Abeba con il ministro degli esteri guineano, Agapito Mba Mokuy. Berardi è stato visitato in carcere a dicembre da un rappresentante dell’ambasciata italiana a Yaoundè. In seguito ai nostri diplomatici è stato impedito di vedere di nuovo il connazionale, ma questi sono comunque riusciti a fargli avere cibo e medicinali. Stati Uniti: ricerca psicologia; sensi di colpa dei detenuti diminuiscono recidive reato Agi, 13 febbraio 2014 Se un detenuto, una volta uscito di prigione, sarà incline a commettere nuovamente o meno un crimine è possibile determinarlo in anticipo valutando attentamente cosa prova nei confronti dei reati commessi. Lo ha dimostrato un nuovo studio pubblicato sulla rivista Psychological Science che ha scoperto che colpa e vergogna sono forti fattori predittivi della propensione alle recidive dei detenuti messi in libertà. Elementi che potrebbero, quindi, aiutare a comprendere quali soggetti continueranno a costituire un potenziale pericolo per la società fuori dalle carceri. La ricerca condotta dalla George Mason University (Usa) sostiene che i detenuti che mostrano sensi di colpa verso il proprio reato sono quelli meno vulnerabili alla reiterazione dello stesso mentre quelli che sostengono di sentire principalmente vergogna verso le proprie azioni sono quelli maggiormente inclini a violare ancora la legge. Siria: qaedisti uccidono i detenuti di Dayr az Zor, prima di ritirarsi dalla città Ansa, 13 febbraio 2014 Miliziani qaedisti hanno giustiziato sommariamente nelle ultime ore un numero imprecisato di civili e uomini armati nella regione orientale di Dayr az Zor. Lo riferiscono fonti presenti nel capoluogo dei territori confinanti con l’Iraq. Le fonti precisano che durante il loro ritiro dalla città avvenuto nelle ultime 48 ore, i miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) hanno ucciso sul posto un numero imprecisato di detenuti delle loro carceri di Dayr az Zor, controllate dallo stesso Isis. I qaedisti dell’Isis, per lo più stranieri, hanno anche dato alle fiamme ad un antica rocca sull’Eufrate nei pressi del villaggio di Halabiya, e distrutto il vicino ponte di legno che collega Halabiya e Zalabiya. L’Isis si è ritirato lunedì scorso da Dayr az Zor in seguito a scontri armati con miliziani siriani qaedisti rivali della Jabhat an Nusra. Afghanistan: militari Usa criticano rilascio detenuti Bagram, tribunali devono decidere Ansa, 13 febbraio 2014 Il comando delle forze americane in Afghanistan ha nuovamente espresso oggi "forte preoccupazione" per il fatto che il governo afghano stia continuando le operazioni volte a rimettere in libertà domani "65 individui pericolosi" attualmente rinchiusi nel carcere afghano di Parwan (fino a qualche tempo fa prigione militare statunitense). "Le Forze Usa in Afghanistan (Usfor-A) - si legge in un comunicato - hanno ripetutamente espresso forte preoccupazione per le potenziali minacce che questi detenuti pongono alle forze della Coalizione, alle forze di sicurezza afghane e ai civili". detenuti di questo gruppo di 65, si dice ancora, "sono direttamente coinvolti in attacchi che hanno ucciso o ferito 32 uomini della Coalizione o statunitensi e 23 fra membri delle forze di sicurezza afghane e civili". Confermiamo la posizione dell’Usfor-A, dice ancora il documento, secondo cui "violenti criminali che mettono in pericolo gli afghani e minacciano la pace e la sicurezza dell’Afghanistan dovrebbero essere processati da tribunali afghani, dove un processo giusto e trasparente dovrebbe determinare la loro innocenza o colpevolezza". La liberazione di questo gruppo di persone, decisa da una Commissione di giuristi ed esperti afghani e convalidata dal presidente Hamid Karzai, ha fortemente teso le relazioni afghano-americane. Ucraina: amnistia applicata per quasi tutti i manifestanti, ma l’opposizione non si fida Ansa, 13 febbraio 2014 La prima amnistia per i manifestanti antigovernativi in Ucraina, quella approvata dal Parlamento il 19 dicembre scorso e firmata dal presidente Viktor Ianukovich quattro giorni dopo, è già stata applicata per quasi tutti i presunti partecipanti alle proteste dal 21 novembre al 26 dicembre. Per ora ne sono rimaste escluse solo tre persone che si trovano ancora nella lista dei ricercati. Tra loro c’è il leader del partito ucraino di estrema destra Bratstvo (Fratellanza), Dmitro Korcinski, accusato di avere organizzato gli scontri con la polizia del primo dicembre, quando alcune migliaia di manifestanti cercarono di irrompere nel palazzo presidenziale. Nelle violenze rimasero ferite più di 300 persone e circa 40 giornalisti. Lo fa sapere la procura di Kiev, citata dall’agenzia Interfax. Opposizione: governo prepara prova di forza "Il potere sta preparando una prova di forza" contro i manifestanti antigovernativi in Ucraina. È questa la conclusione del Partito Patria della leader dell’opposizione ucraina, Iulia Timoshenko, per la chiusura delle inchieste - dovuta alla legge d’amnistia - contro l’ex capo dell’amministrazione comunale di Kiev e facente funzione di sindaco, Oleksandr Popov, e l’ex vice capo del Consiglio nazionale di Sicurezza e Difesa, Volodimir Sivkovich. Entrambi erano accusati di aver ordinato alla polizia di far sgomberare con la forza i dimostranti da piazza Maidan, a Kiev, nella notte tra il 29 e il 30 novembre, e sono stati per questo silurati dal presidente Viktor Ianukovich. "Il potere - sostiene il partito d’opposizione in una nota - dimostra così ai rappresentanti delle forze dell’ordine che non li abbandona se violano la legge obbedendo agli ordini". Da parte sua, il Partito Udar dell’ex pugile Vitali Klitschko ha chiesto la liberazione immediata dei manifestanti "vittime di giustizia arbitraria". Udar ha denunciato che "la procura ha chiesto 15 anni di reclusione per un uomo che trasportava pneumatici nel bagagliaio della sua auto, mentre Popov e Sivkovich sono amnistiati". I manifestanti antigovernativi a fine gennaio bruciavano pneumatici per creare una cortina di fuoco e fumo tra loro e gli agenti in assetto antisommossa. Turchia: usarono slogan contro il premier Erdogan, 17 condannati al carcere Aki, 13 febbraio 2014 Un tribunale di Eskisehir, nel nord-ovest del paese, ha condannato a pene che vanno da uno a due anni di carcere 17 persone che nel 2012 scandirono uno slogan contro il premier Recep Tayyip Erdogan. In particolare, 14 persone sono state condannate a due anni e le altre tre a un anno per aver scandito due anni fa "Tayyip Erdogan, il servo dei padroni e del Fondo monetario internazionale" di fronte alla sede dell’ente per la sicurezza sociale di Eskisehir. Il reato contestato è quello di offesa a un rappresentante dello stato. Gli avvocati dei 17 condannati avevano contestato le accuse sulla base della libertà di espressione e obiettando che, trattandosi di una manifestazione politica, i presenti avevano il diritto di criticare l’operato del governo. Ma il giudice è stato irremovibile e ha riconosciuto per 14 degli imputati l’aggravante del mancato pentimento. Tutti i condannati non potranno inoltre iscriversi a un’associazione, a un partito, a una Ong o a un Sindacato, né potranno più essere impiegati presso istituzioni pubbliche.