Giustizia: sullo "svuota-carceri" una demagogia senza freni di Salvina Rissa Il Manifesto, 12 febbraio 2014 È stato approvato alla Camera il cosiddetto decreto "svuota-carceri". Se la componente simbolica ha una qualche rilevanza in politica, una prima riflessione va fatta sul linguaggio: il decreto, originariamente partito come il provvedimento contro il sovraffollamento carcerario, è stato ribattezzato dai media (tutti) "svuota-carceri" con evidente cambiamento di prospettiva e stravolgimento di significati. Si è appannata, fino quasi a scomparire, l’immagine di provvedimento umanitario, necessario per il rientro nella legalità dello stato italiano dopo la condanna della Corte Europea niente di meno che per "trattamento inumano e degradante" dei detenuti; per accendere i riflettori sulle celle "svuotate" dai "delinquenti in libertà". Il deputato che getta le manette in faccia alla ministra, rivendicando la sua idea (a senso unico) della legalità, ha recitato una squallida farsa che sta all’interno di questa costruzione simbolica. Sbaglieremmo a sottovalutare la questione. Se la dizione "svuota-carceri" ha avuto tanta risonanza, ciò significa che il "doppio binario" della legalità è idea radicata nel profondo delle pance di molti: "tolleranza zero" per il cittadino e la cittadina che infrangono la legge, ma quando a infrangere la legge è lo stato, allora è tutto un altro par di maniche: specialmente quando l’infrazione riguarda i diritti degli autori di reato (o presunti tali, per i tanti in custodia cautelare). Gratta il barile, viene fuori il fetore discriminatorio: ci sono categorie che non meritano di avere diritti, in barba alla legge. Se poi si considera che il carcere è gonfiato da soggetti per lo più autori di reati non violenti (immigrati clandestini, tossicodipendenti, piccoli spacciatori etc.), che in carcere proprio non dovrebbero stare, sovraffollamento o meno, il quadro si fa più chiaro: sono i diritti dei famosi "poveracci" (delle patrie galere) a pencolare. In quanto "poveracci" e in quanto frequentatori delle patrie galere, in un connubio accuratamente nascosto dall’invocazione alla "legge e ordine". Come scriveva uno dei fondatori della psicologia di comunità, William Ryan, nel lontano 1971: evviva "l’ordine illegale", evviva "l’amministrazione dell’ingiustizia". Il parlamento, di fronte a un decreto non certamente rivoluzionario, ma che per la prima volta poneva l’urgenza di incidere sugli effetti della legge Fini-Giovanardi sulle droghe ha preferito polemizzare sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata, che si riduce alla possibilità non automatica di un’uscita dal carcere anticipata di sei mesi. Quando invece sarebbe stato opportuno modificare la norma sui fatti di lieve entità per la detenzione di sostanze stupefacenti che nel decreto continua a prevedere una pena alta, da uno a cinque anni: in barba a quanto proposto dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Glauco Giostra, membro del Consiglio superiore della magistratura (la pena ben più lieve da sei mesi a tre anni). Allo stesso modo i deputati, accecati da un’orgia forcaiola, hanno perduto l’occasione di migliorare la norma che istituisce la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute che vede la luce in maniera non pienamente rispondente ai criteri internazionali di indipendenza e di autonomia. Quando la propaganda prende il posto della politica, le priorità vengono decise dalla demagogia. Oggi la Corte Costituzionale deciderà sull’incostituzionalità della legge sulla droga ideologicamente proibizionista e punitiva. Se sarà cancellata, sarà un segnale anche per la politica ignava e pavida. Giustizia: qualche riflessione sul 41-bis, ovvero sulle conseguenze dell’amoralità della pena di Luigi Manconi Il Foglio, 12 febbraio 2014 Che cosa è la privazione della libertà quando sia prevista dall’ordinamento di uno stato democratico e quando la sua applicazione risponda a criteri di legalità? È un dilemma di ordine giuridico e morale che non può essere ignorato, pur se ormai da tempo la riflessione sul significato della pena sembra scomparsa dal dibattito pubblico. Dietro tale rimozione, c’è l’idea che la sanzione penale risponda solo a una domanda di risarcimento sociale, come punizione del colpevole per il male provocato dalla sua azione illecita: e ciò anche quando se ne motivi l’utilizzo con argomenti tutti incentrati su finalità di prevenzione e di difesa della collettività. Si sfugge così alla domanda più radicale: qual è il senso morale della pena? Veniva da chiederselo sabato scorso quando, insieme a Miguel Gotor, ho visitato il reparto del carcere di Cuneo dove sono reclusi i detenuti sottoposti a regime di 41 bis. Il presupposto da cui muovo è che quelle persone siano responsabili dei reati loro attribuiti; e che il loro profilo criminale motivi il regime particolare al quale sono sottoposte. Se così è, ci si deve chiedere comunque in cosa debba consistere quel regime e quanto esso debba durare. Un detenuto dal nome spaventosamente evocativo ha sollevato una questione essenziale e inesorabile, così riassumibile: perché non posso toccare la mano di mia figlia? I colloqui con i familiari - un’ora al mese - avvengono, infatti, in uno spazio ristrettissimo diviso da un vetro e il detenuto e i familiari parlano attraverso un microfono. Dal momento che i colloqui sono interamente videoregistrati, la negazione di qualunque forma di contatto fisico (a esclusione di quello con un figlio minore di dodici anni) non sembra rispondere ad alcuna ragione di sicurezza. Se, infatti, il 41-bis si giustifica come strumento straordinario e temporaneo di prevenzione intra-muraria e non come pena di specie diversa (la pena dei mafiosi), una misura quale il divieto del contatto fisico sembra finalizzata esclusivamente ad aggiungere all’effetto primario della pena ulteriori effetti massimamente afflittivi. Qui siamo già su un terreno assai scivoloso, dal momento che la misura in questione non è in alcun modo prevista dal nostro ordinamento ed è il risultato di decisioni amministrative non giustificabili in alcun modo e, di conseguenza, arbitrarie. Perché mai, infatti, la negazione del contatto fisico e non, che so, il divieto di ricevere posta o di comunicare con altri detenuti o il lavoro forzato? Se una misura non risponde a un requisito di razionalità e a una esigenza di prevenzione, chi decide l’entità dell’afflizione? Un confine insuperabile potrebbe essere quello rappresentato dall’incolumità fisica e dall’integrità del corpo del recluso, che non deve subire danni dai provvedimenti imposti dal regime speciale. Ma anche questo è un discrimine labile: per persone affette da gravi patologie, la sola permanenza in quello stato può produrre danni irreversibili. E, poi, c’è la sfera altrettanto vulnerabile, e non meno concretamente danneggiabile, dell’identità psicologica: è qui che intervengono gli effetti nocivi di quella forma di privazione sensoriale che è, ad esempio, la negazione del contatto fisico. Le conseguenze sulla personalità del recluso possono essere davvero profonde. Come motivare tutto questo? Se non è una ragione che rimanda a esigenze di sicurezza, quel trattamento può spiegarsi solo come incentivo alla collaborazione con l’autorità giudiziaria; oppure come meccanismo "retributivo" per il male commesso. Sofferenza in cambio di sofferenza (e che cos’è il divieto di stringere la mano della figlia rispetto all’uccisione di un bambino?). In questo secondo caso, che pure risponde a una logica ferrea, la pena perde qualunque valore morale - ovvero qualunque capacità di emancipazione dal male - e si riduce alla dimensione primaria della rivalsa e della vendetta. Ecco: la moralità della pena può consistere nella liberazione dallo stato di iniquità che il reato ha prodotto: e ciò non può avvenire attraverso un nuovo stato di iniquità (un trattamento disumano). Quando ciò accade, la pena anche se legale corrisponde a una sorta di rappresaglia in quanto riproduce il male che si intenderebbe sanzionare, e lo allarga e lo moltiplica. E così quella pena dovrebbe trovare una sua diversa giustificazione proprio nell’afflizione che determina, ma questo conduce inevitabilmente a una conseguenza elementare. È la pena di morte quella più crudelmente afflittiva e non c’è ragione al mondo, se non appunto di natura morale, per rinunciarvi, se si considera l’afflittività uno scopo in sé. C’è, infine, un’altra questione: abbiamo incontrato, nel carcere di Cuneo, più detenuti che si trovano in 41 bis da due decenni e oltre. Un trattamento speciale diventa così ordinario e normale. Ma per quanto? Se pure diamo per accertata la persistente pericolosità di quei detenuti, è pensabile protrarne la permanenza in una condizione che corrisponde, fatalmente, a uno stato assai prossimo all’annichilimento? Dove sta una qualche qualità di vita? E perché l’esecuzione capitale dovrebbe risultare "meno morale" di quella forma di esistenza totalmente alienata? Giustizia: piano-carceri, c’è chi ci litiga… e chi ci guadagna di Silvia D’Onghia e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2014 Esplodono i veleni interni all’Amministrazione Penitenziaria. La procura di Roma investiga sugli appalti: nell’elenco società già finite sotto inchiesta. L’indagine è partita da una relazione inviata al capo del Dap. A spartirsi la torta sono soprattutto imprenditori romani e siciliani. Un giro d’affari di 470 milioni di euro quello che ruota intorno al piano carceri. Un torta gustosa a cui guardano tanti imprenditori italiani, aggiudicatari di una serie di appalti che riguardano ampliamenti di carceri e costruzioni di nuovi padiglioni. Adesso su quelle gare potrebbe indagare la Procura di Roma, che ha aperto un fascicolo - al momento senza reati né iscrizioni - di cui sono titolari i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi. L’indagine nasce da una relazione interna redatta, il 21 novembre scorso, dall’ex direttore generale Beni e servizi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Alfonso Sabella, oggi vice capo dell’organizzazione giudiziaria al ministero di via Arenula. Il documento era indirizzato a capo e vice capo del Dap, all’indomani dell’audizione in commissione Giustizia alla Camera del commissario straordinario per il Piano carceri, Angelo Sinesio. Questi, commissario straordinario per il Piano, è un prefetto fedelissimo al ministro Cancellieri, già a capo della sua segreteria tecnica al Viminale. Ieri Repubblica ha pubblicato la relazione di Alfonso Sabella che parla di una serie di appalti sospetti e consulenze d’oro. Il rapporto è centrato sul carcere di Arghillà, a Reggio Calabria, oggi fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria. Secondo Sabella, Sinesio rivendica come suoi lavori avviati prima del suo arrivo: oltre ad Arghillà, Modena, Cagliari e Sassari. Ma al di là della lotta interna, adesso sarà la magistratura a fare chiarezza. Il Fatto ha passato in rassegna tutti gli appalti degli ultimi anni, scoprendo anche alcune aziende, non tutte, finite nel mirino delle procure. Reggio Calabria (Arghillà) Il prefetto rivendica di aver ultimato i lavori in 90 giorni e con 10,7 milioni di euro, facendo quello che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti avrebbe fatto in 730 giorni e con 21,5 milioni di euro. L’accusa mossa da Sabella è quella di aver fatto una gara coinvolgendo dieci ditte, solo tre delle quali nella "white list" del Dap - in pratica un affidamento diretto - e di aver frazionato in due l’appalto. Il commissario ha in realtà diviso i lavori in opere interne ed esterne. A gestire l’appalto da 4 milioni di euro è stata la Appaltitalia srl, di proprietà di Giampaolo Patti, una società di Noto (Siracusa) molto attiva nell’ambito delle infrastrutture pubbliche. Appaltitalia si è aggiudicata anche i nuovi padiglioni penitenziari di Siracusa, della quinta sezione dell’Ucciardone a Palermo e del reparto lavorazioni della casa circondariale di Favignana. Milano Opera Uno degli appalti assegnati ad aprile 2013 è quello per la casa circondariale di Milano. Ad ampliare di un padiglione l’istituto per circa 400 posti, la Cgf Costruzioni Spa, società finita nel mirino della Guardia di finanza, nell’ambito di un filone dell’inchiesta sui "Grandi eventi". Secondo gli inquirenti, l’amministratore di fatto della società, negli anni in cui si svolgeva l’inchiesta, era l’imprenditore fiorentino Valerio Carducci, nella cui abitazione - durante una perquisizione - sono stati trovati e sequestrati 39 tra quadri e sculture di Chagall, Warhol e Schifano. Lo stesso Carducci era già stato indagato ma prosciolto, nell’inchiesta "Why Not" dell’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris. Sulmona Duecento posti in più sono stati appaltati alla Cifolelli Edilizia Srl, che in passato ha realizzato lavori di puntellamento all’Aquila per 750 mila euro. Dal Veneto al Lazio Ad aggiudicarsi invece l’appalto per l’ampliamento del carcere di Vicenza è stata la Enrico Pasqualucci Srl, ben nota a Roma, anche per aver finanziato il progetto di restauro dei Mercati di Traiano. Alla schiera degli imprenditori romani appartengono anche i Navarra di Italiana Costruzioni Spa. Questa società si è aggiudicata l’appalto di circa 13 milioni e mezzo di euro per il nuovo padiglione di Rebibbia per 400 posti. Ma è anche un’impresa accreditata Oltretevere tanto da aggiudicarsi negli anni scorsi dalla città del Vaticano la riqualificazione di piazza San Pietro. Una commessa di 20 milioni che prevede il restauro del colonnato del Bernini da ultimare entro il 2015. Come pure altri lavori importanti come la manutenzione del Campus Biomedico, il restauro di palazzo Ducale a Genova nel 2001 per ospitare il vertice del G8, la ristrutturazione della sede di Propaganda Fide in piazza di Spagna (valore 15 milioni). Solo più di recente la Italiana Costruzione Spa, in Ati con Consorzio Veneto, si è aggiudica l’appalto per la realizzazione di Palazzo Italia, sede del Padiglione italiano all’Expo 2015. Bologna Per ampliare di altri 200 posti il carcere, vince con una proposta al ribasso (6 milioni 255 mila euro rispetto ai 10 milioni e 385 mila di base d’asta) la Borchi Costruzioni Srl, costituita in un’Ati (Associazione Temporanea di Imprese). Paolo Borchi che detiene una quota di 25 mila euro nella società, è indagato della procura di Genova nell’ambito di un’inchiesta sulle tangenti per gli appalti dopo l’alluvione del 2012. Secondo l’accusa Borchi è uno degli imprenditori che avrebbe foraggiato alcuni funzionari in cambio di commesse pubbliche. Le indagini del pm Paola Calleri sono ancora in corso. Puglia e Sicilia A vincere le gare per le case circondariali di Taranto, Lecce e Trapani, ognuna delle quali prevede la realizzazione di 200 posti in più, è stata sempre la stessa società: La Devi Impianti Srl. che si aggiudica anche l’appalto del carcere di Parma. E così la ditta si è assicurata un giro di affari di circa 40 milioni di euro in totale. Giustizia: una storia di ladri, di pensionati derubati e di… convenienza politica di Sergio Carli www.blitzquotidiano.it, 12 febbraio 2014 Come sono collegati fra loro: un furto in casa di un contadino, l’irruzione in casa di un pensionato, i tagli alle pensioni d’oro, lo svuota carceri? Un anziano contadino martedì si allontana dalla sua casa tra gli ulivi sopra Santa Margherita Ligure per un’ora al bar e al ritorno trova una persiana divelta, una finestra sfondata, tutto a soqquadro. Non trovano nulla di asportabile, perché precedenti esperienze hanno insegnato al contadino di mettere i suoi contanti sul libretto. Ma lo choc è forte e lui singhiozza. I ladri sono stati in quasi tutte le case di quel tratto di uliveti, quelle abitate e anche quelle disabitate, una specie di rastrellamento che ha fruttato poco bottino, un po’ di disordine, finestre e porte forzate. Dato il territorio, dovendosi muovere a piedi nelle fasce dove il terreno è imbragato da muri di pietra millenari, i ladri cercavano oro e soldi, hanno snobbato anche i televisori. Ma il fastidio, l’impressione di avere subito un piccolo stupro sono innegabili. Il proprietario di una delle case "visitate" vive a Roma, è un pensionato (sempre meno) d’oro, pensa con fastidio a quel po’ di lavori di ripristino di porte e finestre, conclude che la prossima volta non girerà la chiave, così ci saranno meno danni e tra i ladri-ladri e i ladri del Governo che gli hanno rapinato una fetta di pensione illegalmente, perdona i ladri-ladri e non perdona i ladri del Governo. Il contadino è un uomo che fu forte, più forte del macellaio di Upton Sinclair, che al mercato di Chicago sollevava un quarto di bue da 140 chili così, senza sforzo apparente. Ora, fiaccato da una vita di lavoro iniziata a 6 anni e passata per l’edilizia, si trascina e piange. È il terzo furto che subisce in pochi anni. Il primo fu certamente un colpo di gente locale, frequentatori del bar con cui si vantava dei risparmi nel frigorifero, gli altri sono opera probabilmente di extra comunitari isolati o in bande. La crisi ha buttato molti immigrati nella zona fuori dal lavoro ma non dall’Italia e in qualche modo devono campare. Il contadino non ha inibizioni, è un uomo semplice, vive solo, un po’ orso. La sua storia lo qualifica di sinistra certo più di Flores d’Arcais, Barbara Spinelli o Ezio Mauro. L’unico viaggio della sua vita fu per i funerali di Enrico Berlinguer. Certo i suoi ragionamenti sono quelli di tanta gente, del popolo-popolo, quello che Garibaldi capiva e Mazzini no. I suoi ragionamenti non sono condizionati dall’ipocrisia e dall’opportunismo del politicamente corretto, è un uomo buono che non conosce però il buonismo. "Di sicuro sono extra comunitari. Comincio ad avere paura. Bisognerebbe far tacere il Papa che vuole svuotare le carceri". Su questa anima semplice, bestemmiatore ma devoto, le parole di Papa Francesco cadono con forza che nessun Napolitano può eguagliare, sarà per la chiarezza, sarà per l’eloquio. In realtà, più che il Papa, a volere svuotare le carceri sono quei disperati che cercano un modo per non farci andare Berlusconi. Sono i politici, in caccia di voti dove pensano ci siano ma anche oberati da quel disegno occulto, il salvacondotto a Berlusconi. Chi ci garantisce che l’ultima sparata di Berlusconi contro Napolitano sia solo una forzatura per ottenere qualcosa che non arriva? Chi può giurare che nei patti Renzi-Verdini non sia incluso qualcosa del genere? Le carceri peraltro si stanno già svuotando, senza legge ad hoc, perché altri pasticci di altre leggi hanno fatto un disastro. Il caso di Santa Margherita Ligure non è isolato, la cronaca dei giornali del Nord è una serie di bollettini di guerra. I politici affrontano il problema o con bieca demagogia razzista e forcaiola, o con buonismo stile Papa che porta poi all’effetto Svizzera. Il paradosso è che, come nella precedente edizione dell’indulto, Berlusconi ne beneficerà e il conto lo pagherà la sinistra. Ormai forte è la sensazione che i cittadini - sudditi e i loro governanti costituiscano due mondi impenetrabili, di qui noi, sotto, sopra loro, quel milione e mezzo di politici e portaborse, impiegati di aziende e amministrazioni pubbliche che vivono delle nostre tasse. Una parte, le forze dell’ordine, ci servono e come dimostra il caso di cui si racconta, troppo pochi. Il resto è una proiezione sempre più aggiornata, moderna, informatizzata anche, del pedaggio per passare il ponte o entrare in città. Signori, vassalli, valvassori, valvassini, soldati e noi, tutti gli altri, i sudditi. Il mondo è sempre stato diviso in classi, segmentato in gruppi più o meno impenetrabili. Oggi è cambiata la struttura, non più una piramide stratificata, gli strati della società stanno tutti sotto una cupola, ricchi e poveri, nobili e plebei, tutti là sotto. Sopra la cupola prosperano gli altri, i parassiti dell’apparato. Oggi però chi sta sotto la cupola ha una capacità di informazione e di mobilitazione che prima non c’era o era molto più difficile e complessa da conseguire. Ma chi sta sopra la cupola si ostina a non capire. La voce del nostro contadino non arriva lassù. Vivono blindati a spese nostre, hanno la scorta a spese nostre che estendono ai parenti, a spese nostre, non pagano i parcheggi a spese nostre anche perché spesso hanno le auto con autista a spese nostre, hanno le pensioni maggiorate a spese nostre. La litania è interminabile. Sembra di essere tra i bordelli e i bar di Saigon ormai sotto attacco dei Vietcong. Giustizia: Uil-Pa Penitenziari; valutare compatibilità della Cancellieri con incarico Ministro Ansa, 12 febbraio 2014 "Chiediamo al premier Letta di valutare con attenzione la compatibilità del Prefetto Cancellieri con l’incarico di Ministro della Giustizia e se non sia il caso di assicurare un netto di cambio di passo a Via Arenula per garantire al Paese un sistema penitenziario più efficiente ed un Ministro che di quell’efficienza ne faccia la pietra miliare del proprio impegno". Lo dichiara Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari che, commentando notizie di stampa che parlano di appalti sospetti e consulenze d’oro per il piano carceri, aggiunge: "il ministro Cancellieri facesse la spending review nel suo staff piuttosto che al Dap". "Noi riteniamo che la Cancellieri debba spiegare presto e bene le finalità del piano carceri e - prosegue segretario della Uilpa Penitenziari - se intende avvalersi della gratuita competenza del personale penitenziario che è in grado di fornire utili indicazioni di come spendere efficientemente i fondi destinati all’edilizia penitenziaria". Domani le rappresentative del personale del Ministero della Giustizia (polizia penitenziaria inclusa) saranno al ministero per parlare della bozza di riorganizzazione che prevede, tra l’altro, l’abolizione di 6 sedi di dirigenza generale al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. "Un progetto - dice il sindacalista - che non riorganizza ma destruttura un sistema, quello penitenziario, già in forte difficoltà. Ci sembrava di aver capito dalla parole del premier Letta, del Ministro Cancellieri e dalle sollecitazioni del Presidente Napolitano che l’Amministrazione Penitenziaria andasse accompagnata nello sforzo di raggiungere standard sostenibili di civiltà, dignità e legalità in materia di detenzione e di lavoro penitenziario. Ci troviamo, invece, questa bozza di riorganizzazione che amputa articolazioni vitali". "Abbiamo la sensazione - conclude Sarno - che al Ministro Cancellieri, al di la dei formalismi e delle apparenze, stiano davvero poco a cuore le sorti del sistema penitenziario italiano". Giustizia: ministro Cancellieri respinge istanza revoca del 41-bis a Bernardo Provenzano Ansa, 12 febbraio 2014 Il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ha respinto la richiesta di revoca del carcere duro al boss Bernardo Provenzano, detenuto a Parma, presentata dai suoi familiari attraverso l’avvocato Rosalba Di Gregorio. Il provvedimento di rigetto dell’istanza, motivata dal legale con i gravissimi problemi di salute del capomafia, dichiarato incapace di partecipare al processo sulla trattativa Stato-mafia proprio per le sue condizioni neurologiche, è stata notificata ai figli e alla moglie del padrino di Corleone. Provenzano è attualmente detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Parma. All’istanza dell’avvocato Di Gregorio, che contro il 41 bis a Provenzano ha fatto ricorso anche alla corte di Strasburgo, avevano dato parere favorevole le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze d’accordo sulla revoca del carcere duro. Giustizia: Bruno Contrada; l’Europa mi ha dato ragione, in carcere calpestati i miei diritti Il Tempo, 12 febbraio 2014 Lo hanno infangato, distrutto e poi condannato per mafia. Lo hanno buttato dentro un carcere dello Stato, prima e dopo la sentenza, dimenticandosi quanto avesse fatto, lui, per protegger quello stesso Stato. Ora, a 7 anni da una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa che la Storia si prenderà in carico, prima o poi, di sbugiardare, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo condanna l’Italia stabilendo che l’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, fra l’ottobre 2007 e il luglio 2008, non doveva rimanere in galera perché il suo stato di salute era "incompatibile" con il carcere. Per la Corte, l’Italia ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che così recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Ora lo Stato dovrà risarcirlo con 10mila euro per danni morali e 5mila per le spese processuali. Quindicimila euro che non valgono neanche un sua lacrima. Dottor Contrada, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo le ha dato ragione… È un fatto positivo, c’è stata una violazione dei diritti umani subita nonostante fosse stata dimostrata l’incompatibilità delle mie condizioni di salute, dovute all’età e alle mie molte patologie, con il rigore carcerario. Perché, nonostante il suo stato di salute fosse platealmente incompatibile col carcere, l’hanno tenuta dentro lo stesso con tale accanimento? È una domanda che andrebbe rivolta ad altri, e cioè al magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere e al Tribunale di sorveglianza di Napoli, che decisero di rigettare i miei numerosi ricorsi documentati e basati anche, e non solo, sulle relazioni della direzione sanitaria del carcere e divari policlinici. In uno dei provvedimenti di rigetto delle mie richieste lessi: "La sofferenza umana non ha raggiunto i limiti della insopportabilità". Poi nel 2008 lo stesso tribunale di sorveglianza, di fronte ad altre ponderose perizie sanitarie che stabilivano l’incompatibilità delle mie condizioni di salute con il carcere, accolse le mie richieste. Lei ha affermato più di una volta di essere stato vittima di "sciacalli". Chi l’ha scaraventata in questo incubo giudiziario e coloro che hanno voluto tenerla in galera nonostante il parere dei medici, sono gli stessi sciacalli? Io sono parte in causa, dovrebbero essere altri a trarne le conclusioni e rispondere a questa domanda. Tenga presente che ogni volta che le mie richieste di lasciare il carcere venivano respinte, il mio avvocato faceva ricorso al ministro della Giustizia, alla procura generale della Corte di Cassazione, al procuratore capo della Corte d’appello di Napoli, al procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, al ministero della Difesa, al Csm e a tutte le istituzioni e uomini che avevano il dovere, o perlomeno la facoltà, non dico di intervenire nel corso della giustizia, perché la magistratura è indipendente, ma quantomeno esprimere la loro opinione. Ma questa opinione, invece, l’ha espressa solo la Corte europea dei diritti umani, formata da giudici che portano sul petto bandiere di colore diverso da quella italiana. Davanti alla stessa Corte pende un suo secondo ricorso riguardante la violazione dell’articolo 7 della Convenzione dei diritti umani: nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato. Questo aspetto riguarda tutto lo svolgimento e la natura del processo e cioè la non possibilità di applicazione nei miei confronti dell’articolo 416bis del codice penale italiano, che è contrario ai prìncipi stabiliti dalla Corte Europea. Aspetto questa decisione che considero ancora più importante. Lei si è sempre dichiarato innocente, molti sono convinti della sua non colpevolezza e tanti funzionari dello Stato lo hanno giurato in tribunale. Eppure si e ritrovato in carcere "marchiato" come mafioso dopo aver combattuto Cosa nostra per 40 anni… Il processo non era basato su un mio atto, cioè un colpo di pistola o una coltellata, masti un comportamento che avrei tenuto per una ventina d’anni su 36 di servizio. Quando in un processo che ha per oggetto un mio comportamento non più al servizio dello Stato ma dell’antistato, cioè della mafia, vengono a deporre 142 testimoni fra cui capi della polizia, direttori del Sisde, Alti Commissari della lotta alla mafia, prefetti, questori, generali dei carabinieri, ufficiali della guardia di finanza e tantissimi altri funzionari delle forze dell’ordine, e quando queste testimonianze non a mio favore, ma in favore della verità, non vengono ritenute convincenti per l’accertamento della verità stessa, e quando le accuse provenienti da un nucleo di pendagli da forca e criminali efferati vengono, invece, ritenute attendibili, allora vuol dire solo una cosa: che non si è voluta accertare la verità dei fatti. Ed è per questo che mi sono trovato e mi trovo oggi in questa condizione. Bergamini (Fi): Strasburgo condanna sistema disumano "Nemmeno due settimane fa, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per l’elevato numero di cause pendenti in quelle sede: 14.400. E questo a causa di alcuni problemi cronici, come il sovraffollamento delle carceri e i tempi lunghissimi della giustizia. Ma c’è un altro lato oscuro del nostro sistema giudiziario: l’aspetto disumano. La sentenza di oggi della Corte di Strasburgo, che condanna l’Italia per violazione dei diritti umani, dando ragione a Bruno Contrada, è lì a dimostrarlo. Un uomo malato ha diritto ad essere curato, a prescindere da ogni altra valutazione. Qualunque sia il nuovo corso di questo governo e della legislatura, è indifferibile una riforma della giustizia che parta proprio dal rispetto della dignità umana". Lo dichiara, in una nota, la deputata di Forza Italia Deborah Bergamini, membro della delegazione parlamentare italiana al Consiglio d’Europa. Giustizia: per ex vicepresidente della Puglia Sandro Frisullo il carcere non era necessario di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2014 L’ex vicepresidente regionale pugliese scagionato dall’accusa di associazione per delinquere, resta la turbativa d’asta. Ho preferito non commentare prima, quando sono stato agli arresti, preferisco non commentare ora che le accuse, per cui ho subito la carcerazione preventiva, sono cadute in appello. Di certo, il carcere è una ferita difficile da rimarginare". Sandro Frisullo, l’ex vice presidente della giunta regionale pugliese, mantiene la linea del rispetto per la magistratura, che ha contraddistinto, sin dall’inizio, la sua disavventura giudiziaria. E il suo legale, Michele Laforgia, punta ora all’assoluzione piena in Cassazione. La corte d’Appello di Bari, infatti, una settimana fa ha assolto Frisullo dall’accusa di associazione per delinquere - con Gianpi Tarantini - perché il fatto non sussiste. E lo ha assolto dall’accusa di abuso d’ufficio perché il fatto, secondo i magistrati di secondo grado, non costituisce reato. Restano in piedi, dell’accusa originaria, formulata nel marzo 2010, due episodi di turbativa d’asta che riguardano gare per 370 mila euro. Parliamo di forniture sanitarie per l’ospedale Vito Fazzi di Lecce. E così la condanna iniziale, che, con il rito abbreviato, ammontava a due anni e otto mesi, in appello s’è ridotta della metà: un anno e quattro mesi più 400 euro di multa. Stessa pena anche per Tarantini che, di questo filone d’inchiesta sulla sanitopoli pugliese, resta il fulcro. L’inchiesta riguarda fatti che risalgono al biennio 2007-2009, quello in cui Gianpi presentava donne a Silvio Berlusconi e, come si scoprirà nel corso dell’indagine, anche a Frisullo. E non soltanto donne, secondo l’accusa, ma anche denaro e abiti griffati, inclusa auto con autista e buoni benzina. Era il cosiddetto "sistema Tarantini". Nel caso di Frisullo, però, il passaggio delle "utilità" iniziavano a scricchiolare - sotto il profilo della prova - già dal primo grado, nel giudizio abbreviato, poiché la sentenza scriveva che il "passaggio di denaro" non era "adeguatamente provato". Restano provate le relazioni con Terry De Nicolò, presentata a Frisullo da Tarantini, ma l’impianto accusatorio non ha retto l’impatto del secondo grado. L’accusa più grave, quella di associazione per delinquere, che costò a Frisullo la carcerazione preventiva, è infatti caduta con ben due ipotesi di abuso d’ufficio. E ora la difesa di Frisullo punta alla piena assoluzione in Cassazione, dove l’avvocato Michele Laforgia, tenterà di dimostrare che le due turbative d’asta - confermate in appello - sono insussistenti. "Siamo convinti che Frisullo risulterà estraneo da ogni contestazione - conclude Laforgia - ed è per questo che impugneremo la sentenza e poi ricorreremo in Cassazione". Nel frattempo, però, per Frisullo resta in vigore la pena accessoria: un anno di interdizione dai pubblici uffici. Lettere: la punizione può fare bene al colpevole… ma non c’è soltanto il carcere di Mario Madella Gazzetta di Mantova, 12 febbraio 2014 Una ragazzina di 15 anni prende a calci in testa una compagna di classe, la trascina per i capelli e poi se ne va indisturbata fra le frasi di approvazione di un nutrito gruppo di ragazzi che hanno assistito alla scena senza intervenire; quattro malviventi entrano di notte in una villetta, rapinano e feriscono gravemente gli abitanti e si allontanano come se nulla fosse; ladri vengono colti sul fatto, processati per direttissima, condannati ed immediatamente liberati. I commenti più preoccupati a questi fatti di cronaca sono: ne trarremo spunto per un dibattito in classe; ormai ci si deve abituare a queste reazioni, visto il periodo difficile; non è bello, ma era la prima volta che queste persone rubavano. Si dice che la nostra società ha perso i riferimenti di valore, che la crisi non è solo economica ma anche di ordine morale: i fatti ricordati ne sono esempi concreti e richiedono risposte non equivoche. Probabilmente il mio non è un discorso "politicamente corretto" ma credo che una maggiore severità nel sanzionare comportamenti non legittimi sia doverosa, credo che la punizione, quando è giustificata, sia utile anche al colpevole. Credo, viceversa, che la sottovalutazione, l’acquiescenza o il giustificazionismo servano solo ad incentivare la trasgressione. Si deve essere misurati ma franchi: investimenti nel settore "giustizia" vanno fatti e finalizzati ad accorciare i tempi dei processi; molti reati vanno puniti con forti sanzioni economiche, comminate dopo un solo grado di giudizio, invece che con la carcerazione (è il caso, ad esempio, secondo me, dell’evasione fiscale ,da sanzionare con multe multiple della quota evasa e con la perdita dei diritti di cittadinanza); il sovraffollamento delle carceri si combatte certo sostituendo pene pecuniarie alla carcerazione, ma anche con la costruzione, necessaria, di nuove carceri; va rivista, riducendola drasticamente, la legislazione premiale perché ogni cittadino, autore o vittima di delitti, deve sapere che la certezza della pena non è manifestazione di spirito di vendetta ma di giustizia. Si esce dalla crisi rimboccandosi le maniche, non scaricando comodamente le colpe sugli altri, riacquistando il senso di appartenenza ad una comunità che dipende anche dalla capacità delle Istituzioni di essere riferimenti certi per il cittadino. Sardegna: Sdr; appello a candidati Presidenti per garanzia dei diritti, anche nelle carceri Ristretti Orizzonti, 12 febbraio 2014 "I candidati alla Presidenza della Regione Sardegna non hanno speso una parola sul tema delle condizioni di vita e di lavoro nelle strutture penitenziarie isolane. Rivolgiamo loro un appello affinché le diverse problematiche siano presenti nei programmi di governo e si apra a livello regionale una stagione per garantire i diritti". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando la necessità di una maggiore attenzione da parte delle Istituzioni regionali della Sardegna verso la dignità dei ristretti e degli operatori penitenziari. "In questi ultimi anni - ricorda Caligaris - si sono acuite le questioni relative al sistema penitenziario. La situazione, soprattutto per quanto riguarda il diritto alla salute, ha fatto emergere nell’isola diverse criticità. È quindi indispensabile da un lato far rispettare tutte le clausole previste nel protocollo d’intesa sottoscritto con il Governo nel 2006 e dall’altro provvedere alla sua integrazione". "È evidente - afferma ancora la presidente di SdR - che le questioni riguardano l’intero sistema penitenziario. Occorre rivedere il ruolo, la funzione, le finalità delle Colonie Penali e verificare l’utilità delle nuove mega strutture detentive. Il principio dell’umanizzazione della pena deve davvero coincidere con la riabilitazione del detenuto in modo che anche le persone offese dai reati possano sentire il peso di una giustizia giusta". "Invitiamo infine i candidati Presidenti a prendere in considerazione il ruolo del volontariato carcerario affinché - conclude Caligaris - possa continuare a svolgere il compito di supplenza laddove Stato e Regione non sono in grado di intervenire". Marche: la Regione dice "no" all’accorpamento del Prap con quello di Abruzzo e Molise Ansa, 12 febbraio 2014 La Regione Marche dice no all’accorpamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria delle Marche nelle regioni Abruzzo e Molise, proposta dal capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È la posizione assunta dall’Assemblea legislativa marchigiana che ha votato all’unanimità una mozione presentata dal presidente Vittoriano Solazzi. Il documento impegna la Giunta regionale "ad attivare ogni iniziativa utile al fine di mantenere nelle Marche la governance del comparto penitenziario regionale, confermando la sede del provveditorato ad Ancona". Nella mozione si ricorda "l’esperienza virtuosa delle Marche per l’attenzione da sempre dedicata ai problemi degli istituti penitenziari e per le condizioni e la qualità della vita dei detenuti, che ha prodotto tanti proficui risultati negli ultimi anni". E vengono citati "i positivi, fruttuosi percorsi" aperti per risolvere i problemi "grazie alla collaborazione tra provveditorato regionale, Assemblea legislativa e Garante per i diritti dei detenuti". Firenze: l’Idv visita Sollicciano… questo carcere è una bomba pronta ad esplodere www.gonews.it, 12 febbraio 2014 "Sono presenti circa 920 detenuti a fronte di una capienza regolare che ne prevede 500, ed è sotto organico di ben 191 unità" " Sollicciano è una discarica umana. Un posto fatiscente e insalubre tanto per i detenuti quanto per il personale che lì lavora. Nel carcere fiorentino sono presenti circa 920 detenuti a fronte di una capienza regolare che ne prevede 500, ed è sotto organico di ben 191 unità. Una situazione al collasso ed una bomba pronta ad esplodere". Questo il commento dei consiglieri regionali dell’Italia dei Valori dopo il sopralluogo fatto pochi giorni fa a Sollicciano. "Non è pensabile - hanno spiegato - che la struttura accolga chi dovrebbe avere altra collocazione. Il caso tragico avvenuto al detenuto morto ieri per overdose durante un permesso premio deve far riflettere sull’inopportunità di tali scelte. Devono esistere percorsi alternativi alla pena perché chi ha problemi di tossicodipendenza non deve stare in carcere ma in comunità di recupero. A Sollicciano invece succede che sono tre i detenuti per cella, una cella per protocollo singola. Che quando piove, piove dentro. Che il rischio sanitario è forte e che le cucine sono usurate. Che sono presenti le deiezioni dei piccioni con tanto di nidi all’interno dei corridoi e che la caserma dove alloggia il personale cade a pezzi. Che nulla è stato fatto per impiegare i detenuti in attività socialmente utili e che l’incuria e l’indifferenza generale la fa da padrona". " In una situazione al collasso che registra un forte stress tra gli operatori ed un numero elevato di suicidi sventati (ben 45 nel 2013) non possiamo restare in silenzio. Serve una seria riflessione sul sistema carceri per garantire piena dignità al personale penitenziario ed ai detenuti stessi". Roma: due detenuti segano le sbarre e scappano dalla "Terza Casa" di Rebibbia Agi, 12 febbraio 2014 Nella tarda serata di ieri due detenuti romani sono evasi al carcere di Rebibbia, in particolare dalla cosiddetta Terza Casa dove si fa il trattamento avanzato per i tossicodipendenti e i detenuti sono a regime di custodia attenuata. Dalla Terza Casa di Rebibbia comunque - riferisce in una nota la Fns-Cisl Lazio - mai nessun detenuto era evaso prima. I due sono fuggiti dal terzo piano, attualmente dismesso, segando le sbarre. Immediate sono scattate le ricerche, che al momento non hanno dato alcun esito. Si tratta di due romani, Giampiero Cuttini di 41 anni e Sergio Di Palo di 39. L'allarme è scattato dopo un giro di ispezione degli agenti della polizia penitenziaria dell'istituto carcerario. La fuga, quella classica da film: prima i due hanno segato delle sbarre, poi si sono calati da un muro di cinta con delle lenzuola annodate. Per tutta la notte gli agenti della penitenziaria hanno controllato struttura l'intera carceraria nell'ipotesi che si fossero nascosti per poi allontanarsi in un secondo momento. Intanto posti di blocco sono stati istituiti dalle forze dell'ordine in tutta la città. Pagano (Dap): collaboriamo a ricerche evasi "Stiamo accertando la dinamica esatta dell’evasione e collaboriamo, anche attraverso il nostro nucleo investigativo, alle ricerche dei detenuti: è probabile che non abbiano sostegno all’esterno, e questo ci fa pensare che la loro cattura sia possibile in tempi brevi". Lo dice all’Adnkronos il vice capo del Dap, Luigi Pagano, in merito all’evasione di due detenuti italiani, avvenuta nella tarda serata di ieri dal carcere di Rebibbia, a Roma. "Vorrei comunque ricordare - prosegue Pagano - che la Terza Casa di Rebibbia da decenni ha un regime a trattamento avanzato, i cui risultati si sono visti sul campo in merito al reinserimento sociale dei detenuti. L’ultima evasione - ricorda - risale a oltre 20 anni fa. Questo episodio, pur nella sua serietà, è del tutto eccezionale, come dimostra proprio la storia degli ultimi anni". "Anche in questo caso - rimarca il vice capo del Dap - mi sentirei di dire, non bisogna troncare esperienze trattamentali di questo genere ma vedere cosa non ha funzionato e adottare le misure opportune affinché episodi simili non si ripetano, pur mantenendo il regime esistente". Venezia: a Mestre apre uno sportello che aiuterà gli ex detenuti a reinserirsi Gente Veneta, 12 febbraio 2014 Formazione, sviluppo delle capacità individuali, definizione di percorsi individuali a sostegno dell’autonomia della persona, inserimento lavorativo, affiancamento, lavoro in rete tra enti, istituzioni, privati e mondo cooperativo, per sostenere le persone proveniente da percorsi penali. Queste le parole, corrispondenti ad altrettante tappe, previste dallo sportello "Oltre il Carcere" presentato stamane a Cà Farsetti con una conferenza stampa. Sono intervenuti oltre al delegato del sindaco alle Politiche del Lavoro, Sebastiano Bonzio, il responsabile del Servizio Problemi del Lavoro, Maurizio Vezzà, Maria Teresa Menotto e Donatella Gibbin di Soggetto Venezia che gestiranno l’iniziativa, il garante dei detenuti a Venezia, Sergio Steffenoni, la direttrice del penitenziario di Santa Maria Maggiore, Immacolata Mannarella, Isabella Coniglio dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe), Anna Maria Marin della Camera Penale veneziana, e gli operatori comunali dell’area penitenziaria dei Servizi socio educativi. Lo sportello che inizierà l’attività il prossimo 17 febbraio, si trova in via Cardinal Massaia a Mestre (telefono 041.9655458 mail, oltreilcarcere@comune.venezia.it) e sarà aperto tutti i lunedì pomeriggio, dalle 15 alle 17, e i martedì dalle 9.30 alle 11.30. Lo scopo è quello di offrire a ex detenuti o a chi usufruisce di misure alternative alla condanna dei percorsi individuali sulla base delle proprie capacità e caratteristiche. Si parte dai colloqui individuali per la compilazione del curriculum vitae, agli incontri di orientamento in gruppo per "rieducare alle regole del lavoro", dall’affiancamento nella ricerca del lavoro all’accompagnamento per sostenere la continuità lavorativa. "Un’attività - ha sottolineato Bonzio - rivolta ad una fascia particolare di popolazione, ulteriormente penalizzata in questo momento di forte crisi economica. Per questo ritengo necessario promuovere una forte rete territoriale, composta da tanti soggetti, istituzionali, delle aziende private e del mondo cooperativo, per individuare le disponibilità di inserimento e ridurre così la frammentarietà degli interventi". Un progetto, secondo i dati forniti da Isabella Coniglio di Uepe Venezia, che in città potrebbe coinvolgere 45 persone in detenzione domiciliare, 65 affidate ai servizi sociali e 20 in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza. Agrigento: Progetto Spartacus, una nuova speranza per i detenuti di Contrada Petrusa www.agrigentoweb.it, 12 febbraio 2014 Da dietro le sbarre della loro finestra, guardano oltre, verso una nuova vita. Sono i detenuti della Casa Circondariale Petrusa che potrebbero diventare elettricisti, informatici o tecnici per la digitalizzazione di documenti o, ancora, prepararsi a tornare a scuola. Per le centinaia di detenuti della casa circondariale Petrusa di Agrigento, soprattutto per quelli più giovani, si aprono infatti, nuove prospettive di lavoro e di studio una volta che per loro, si apriranno i cancelli del carcere. Sta per compiere i due mesi di attività, il "Progetto Spartacus" avviato alla Casa circondariale Petrusa di Agrigento dagli operatori dello Sportello Ciapi, attualmente operativi all’interno degli uffici della Provincia regionale di Agrigento, e che offre a tutta la popolazione carceraria, un rinnovato servizio di orientamento unito al servizio delle politiche attive del lavoro come gli strumenti immediati di azioni per contrastare dinamicamente la sfiducia della popolazione attiva e in cerca di occupazione. "Come tutti i detenuti ristretti nelle carceri italiane e siciliane in particolare - spiegano gli operatori del Ciapi - anche quelli di Petrusa mostrano tutti i problemi legati alla mancanza di lavoro post detenzione. Nonostante le leggi promulgate, i progetti finanziati e i benefici fiscali rivolti alle aziende per questa fascia di utenza particolarmente disagiata, i risultati nono sono soddisfacenti sia per l’esiguità dei fondi ad essi destinati, che per la fase di grave profonda recessione economica che oggi annovera dati di profonda crisi in tutti i settori produttivi". Per i detenuti c’è infatti la possibilità di frequentare corsi di formazione di informatica di vario livello, di tecnico della digitalizzazione dei documento o di elettricista di impiantistica e fotovoltaico. Sarà inoltre possibile chiedere di partecipare alle selezioni per l’avviamento e l’inserimento nei percorsi di scuola elementare e media, di alfabetizzazione o di scuola alberghiera. Intanto, dall’attività del servizio, il 20 dicembre scorso, gli operatori hanno già realizzato servizi di colloqui di orientamento individuali, e per i più vicini alla scarcerazione, brevi cenni di formazione orientativa necessari per affrontare più concretamente il problema dell’occupazione su cosa fare e dove andare immediatamente dopo l’uscita dal carcere. "Per coloro i quali devono scontare ancora la pena - continuano gli operatori Ciapi - dopo un accurato colloquio di orientamento e valutazione delle conoscenze individuali, si è offerta loro la possibilità di migliorare le proprie capacità e competenze con la frequenza di corsi di formazione professionale proposti dagli enti regionali con finanziamenti della comunità europea e della Regione". Gli operatori impegnati nel progetto Spartacus sono Giovanna Giglione, Elena Petrotta, Maria Militello, Alessandra Alonge, Serafina Maggio, Liliana Tarallo, Salvatore Curto, Giuseppe Rappazzo e Calogero Cottone. Sassari: processo per morte in carcere di Marco Erittu, torna a vacillare l’ipotesi suicidio di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 12 febbraio 2014 I colpi di scena sembrano proprio non mancare nel processo in corte d’assise che cerca da mesi di far luce sulla misteriosa morte (suicidio o omicidio?) del detenuto Marco Erittu a San Sebastiano (il 18 novembre 2007). Il perito tessile. L’udienza di ieri era stata fissata per il conferimento dell’incarico al perito tessile Armando Badiani, di Prato. L’esperto nominato dalla corte d’assise di Sassari avrà il compito di stabilire se la striscia di tessuto che Marco Erittu avrebbe utilizzato per uccidersi provenga o meno dalla coperta sequestrata all’interno della sua cella. Ma le prime anticipazioni emerse ieri in maniera informale in aula potrebbero aprire nuovi scenari. Dando una prima occhiata alla striscia di lana e alla coperta sotto sequestro dalla quale sarebbe stata ricavata, Badiani ha subito detto: "Non mi pare proprio, così a occhio nudo, che siano dello stesso tipo". La striscia sembrerebbe troppo lunga rispetto alla coperta che si trovava nella cella di Erittu. Se così fosse significherebbe che qualcuno l’avrebbe portata da fuori. Ma è una considerazione assolutamente provvisoria che ha bisogno di un supporto tecnico scientifico per diventare definitiva. Il perito ha chiesto alla corte d’assise sessanta giorni di tempo per fare gli esami necessari e rispondere al quesito con sicurezza. Le due tesi. Da una parte quella del suicidio secondo cui il detenuto si sarebbe impiccato usando una striscia di coperta e legandola al letto della sua cella. Dall’altra quella sostenuta dalla Procura: Erittu sarebbe stato ucciso perché considerato un personaggio scomodo, in possesso di informazioni delicate su presunti traffici tra la malavita sassarese e quella nuorese. Sarebbe stato per questo motivo soffocato con un sacchetto di plastica e poi qualcuno avrebbe organizzato la messa in scena del suicidio. Due persone al momento stanno scontando la pena: Giuseppe Bigella, che si è autoaccusato dell’omicidio ed è in carcere, e Pino Vandi, indicato dal pentito come mandante del delitto, che da qualche giorno è ai domiciliari. I dubbi. Sono proprio quelli legati alla striscia di tessuto indicata come "mezzo" per il suicidio anche dal perito Avato nominato dalla corte. Il lembo fa realmente parte della coperta trovata nella cella della vittima? Il presidente della corte Pietro Fanile aveva deciso di disporre una nuova perizia tecnica - così come richiesto dal pubblico ministero Giovanni Porcheddu - nominando un perito industriale tessile. La difesa di Vandi. E se realmente dovesse essere dimostrato che quella striscia non appartiene alla coperta sequestrata in cella? Per i difensori di Pino Vandi - Pasqualino Federici e Patrizio Rovelli - in quel caso mancherebbe il riscontro oggettivo alla confessione di Bigella. Quindi sarebbe un punto a loro favore. Il supertestimone aveva infatti raccontato di aver soffocato Erittu - su ordine di Vandi - con un sacchetto e di aver poi incaricato un altro detenuto di inscenare il suicidio tagliando una striscia di coperta che era nella stessa cella della vittima. Ma se le anticipazioni espresse ieri da Badiani dovessero essere poi confermate significherebbe che Bigella non ha detto la verità. Tecnicamente, il pentito, autoaccusandosi del delitto, chiama in correità Vandi. E in questo caso il legislatore prevede che debbano esserci elementi di riscontro oggettivi rispetto alle dichiarazioni fornite dal "chiamante in correità". In sintesi: non basta che un uomo si autoaccusi di un omicidio per essere considerato credibile. Serve molto di più. E se la striscia di tessuto non dovesse provenire dalla coperta sotto sequestro verrebbe a mancare proprio l’elemento oggettivo. Perché significherebbe che Bigella ha mentito. Allo stesso tempo, aprirebbe altri scenari a sostegno della tesi accusatoria: Erittu non si sarebbe suicidato e sarebbe invece stato ucciso da qualcuno - la dinamica sarebbe tutta da chiarire - che portò dall’esterno la striscia di coperta. Sanremo: Sappe; una frana pericolosa di fronte alle carceri di Valle Armea www.sanremonews.it, 12 febbraio 2014 Il segretario del Sindacato di polizia penitenziaria Cosimo Galluzzo lancia un grido d’allarme affinché il sindaco e i competenti assessori intervengano a sanare la situazione. La segreteria regionale Sappe Liguria, attraverso il proprio vice regionale Cosimo Galluzzo informa di una frana formatasi nelle ultime 48 ore di fronte agli ingressi del penitenziario sanremese la quale crea situazioni di pericolo. "Abbiamo veramente da temere in quanto sia ieri che oggi ci siamo recati sul posto e abbiamo notato che in una parte della collina adiacente al lato Bussana Vecchia, si è venuta a creare a causa dello scivolo costante delle acque piovane, un solco di almeno una decina di metri ormai in continuo movimento da monte a valle e per fortuna che oggi nel pomeriggio la situazione meteo ha avuto ad attenuarsi. Siamo fortemente preoccupati e lanciamo un grido d’allarme affinché il sindaco e i competenti assessori al Comune possano porre in essere ogni tipo di intervento e monitoraggio delle attuali e prossime condizioni. Come sindacato autonomo e maggiormente rappresentativo, riteniamo che i soli 30 metri transennati per precauzione non siano sufficienti a scongiurare il peggio, visto e considerato che sulla strada che divide la collina e il penitenziario vi facciano sosta e passaggio personale penitenziario, civile, avvocati, magistrati, forze dell’ordine e vari detenuti che fanno uscita e rientro dall’istituto tutti i santi giorni, nonché i familiari di quest’ultimi per ragioni di colloqui visivi con i ristretti. Non da meno, tutto ciò sta avvenendo in una strada scarsamente illuminata da anni e dove registriamo anche altri punti a rischio di imminenti frane. Chiediamo che valle Armea non sia dimenticata e che si tenga in debito conto del persistente rischio che i poliziotti corrono 24 ore su 24 per raggiungere il posto di lavoro". Firenze: Fp-Cgil; due aggressioni in 24 ore nell’Opg di Montelupo, struttura da chiudere Ansa, 12 febbraio 2014 "Due aggressioni nelle ultime 24 ore all’Opg di Montelupo, domenica 9 febbraio e lunedì 10 febbraio 2014". A dirlo è Donato Petrizzo, responsabile giustizia della Funzione Pubblica Cgil di Firenze, in una nota stampa. "Questi fatti, gli ennesimi - commenta, rendono non più rinviabile decidere del destino dell’Opg: non è più possibile restare in mezzo al guado. Il Ministero della Giustizia e la Regione Toscana devono dirci cosa intendono fare. L’OPg doveva chiudere il primo aprile 2013, termine prorogato al primo aprile 2014 e ora ulteriormente prorogato di altri 3 anni. Questa incertezza sul futuro della struttura ha prodotto una situazione lavorativa non più sostenibile. Ai carichi di lavoro - prosegue, sempre più gravosi, a fronte di un personale insufficiente, si fa fronte solo grazie allo spirito di sacrifico e alla professionalità dei lavoratori del corpo di Polizia Penitenziaria. La Fp-Cgil esprime la propria solidarietà agli agenti aggrediti. È indispensabile garantire la sicurezza all’interno dell’Opg per permettere a tutti i lavoratori della Giustizia e della Sanità di poter operare al meglio e in sicurezza". Ascoli Piceno: Sappe; detenuto nigeriano ha aggredito un agente di Polizia penitenziaria www.viveresanbenedetto.it, 12 febbraio 2014 Episodio di violenza nel carcere di Ascoli Piceno, dove nella giornata di lunedì 10 febbraio un detenuto nigeriano ha aggredito un agente di Polizia Penitenziaria. "La situazione resta allarmante nelle nostre carceri. Il detenuto ha proditoriamente aggredito l’Agente di Polizia Penitenziaria impegnato in una perquisizione. Al collega, al quale va la nostra solidarietà e vicinanza, il Pronto Soccorso dell’Ospedale ha diagnosticato 5 giorni di prognosi. Queste aggressioni sono intollerabili, tanto più se messe in atto da chi già in passato si è distinto per episodi violenti. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite... Il numero delle aggressioni ai Baschi Azzurri, che prestano servizio nelle sezioni detentive e in carcere assolutamente disarmati e senza alcuna forma di difesa personale, è nell’ordine delle diverse centinaia ogni anno. Servono strumenti di tutela efficaci, come può essere proprio lo spray anti aggressione recentemente assegnato - in fase sperimentale - a Polizia di Stato e Carabinieri. Mi auguro che il Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri valuti positivamente questa nostra proposta e, quindi, assumi i provvedimenti conseguenti". La notizia arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, per voce del leader Donato Capece. "La situazione, ad Ascoli e nelle carceri italiane, resta grave: ma va detto che il Parlamento ignora colpevolmente il messaggio del Capo dello Stato dell’8 ottobre scorso, che chiedeva alle Camera riforme strutturali per il sistema penitenziario a fronte dell’endemica emergenza che tra l’altro determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria", tuona Capece, segretario generale Sappe. "Addirittura il Capo del Dap Tamburino, che nostro malgrado è anche Capo della Polizia Penitenziaria, ha avuto l’ardire di sostenere che l’Italia non sarà in grado di adottare entro il prossimo maggio 2014 quegli interventi chiesti dall’Unione Europea per rendere più umane le condizioni detentive in Italia. E le aggressioni ai poliziotti sono all’ordine del giorno, come dimostra quella nel carcere di Ascoli Piceno". Capece torna a sottolineare le criticità delle carceri italiane: "Nei 206 penitenziari del Paese il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici ma il Capo Dap Tamburino alza le mani di fronte alla sentenza Torreggiani. Il nostro organico è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno cancellato le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo". Bari: sit-in "Liberi Tutti" davanti al carcere, contro la legge Fini-Giovanardi sulle droghe www.go-bari.it, 12 febbraio 2014 Le carceri italiane esplodono e dei sessantaseimila detenuti in esubero, più di un terzo sono reclusi per reati connessi alla legge antidroga, che equipara le droghe leggere a quelle pesanti. Questo pomeriggio alle 15.30 i Giovani Democratici Bari Città e la Rete Universitaria Nazionale Bari promuovono in collaborazione con le associazioni "Antigone" e "Il Carcere Possibile", presso la Casa Circondariale di Bari in Via Papa Giovanni XXIII, il sit-in "libera Italia - Liberi tutti" per continuare la battaglia di sensibilizzazione per vedere affermata l’incostituzionalità della l. 49/2006 Fini-Giovanardi sulle droghe. Domani infatti la Corte Costituzionale deciderà per la prima delle molte eccezioni di costituzionalità che sono state sollevate dai giudici di merito e dalla Corte di Cassazione. "Una volta dichiarata incostituzionale la legge - spiegano le forze coinvolte nel sit-in - si dovrà modificare la normativa: era tra gli obiettivi della campagna referendaria "3 leggi per la giustizia e i diritti" che abbiamo sostenuto assieme all’associazione Antigone. Depenalizzando il consumo, riducendo l’impatto penale e destinando i tossicodipendenti a programmi alternativi. Il riconoscimento dell’illegittimità delle innovazioni introdotte dalla legge Fini - Giovanardi nel Testo unico sugli stupefacenti creerebbe le migliori condizioni per una revisione completa della legge e per una riforma della politica sulle droghe, come chiesto nell’appello dei giuristi lanciato dall’associazione La Società della Ragione". Roma: Progetto "L’Arte dentro", dal carcere di Rebibbia al Museo dell’Ara Pacis www.romadailynews.it, 12 febbraio 2014 Per la sesta edizione del progetto "L’Arte dentro" - ciclo di incontri e lezioni settimanali con i detenuti all’interno della struttura carceraria - il 14 febbraio alcuni detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia, potranno visitare il museo dell’Ara Pacis che hanno studiato durante il corso "La Bellezza a Rebibbia", tenuto da un’archeologa e un botanico con il supporto, oltre che di testi d’autore, anche di artisti, docenti universitari, personaggi pubblici. Nella mattinata sono previsti anche due flash mob: due corsisti, interpreti del film "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, tengono i loro monologhi, uno sul ruolo devastante della violenza (Cosimo Rega, l’interprete di Cassio) e l’altro sul tentativo di un giovane estremista di uccidere Pier Paolo Pasolini (Giovanni Arcuri, il Cesare del film). L’iniziativa è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura Creatività e Promozione Artistica, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con Zètema Progetto Cultura. Droghe: la legge Fini-Giovanardi alla sbarra di fronte a Consulta, oggi ci sarà la decisione di Eva Bosco Ansa, 12 febbraio 2014 La legge Fini-Giovanardi che ha equiparato droghe leggere e pesanti va alla sbarra di fronte alla Corte Costituzionale investita dalla Cassazione di una questione di legittimità che tocca l’iter della norma, ma che nei fatti potrebbe travolgerla e cancellarla. Gli effetti sarebbero pene più miti per migliaia di detenuti ma anche la possibilità per molti imputati di evitare il carcere: secondo Stefano Anastasia, ex presidente di Antigone e promotore di un appello contro la legge firmato da molti giuristi, sono circa diecimila i detenuti per reati connessi alle droghe leggere. Ma perché questa contestatissima norma vacilla? Il motivo è che la legge che a inizio 2006 convertì il cosiddetto decreto Olimpiadi, varato dal governo Berlusconi per i giochi olimpici invernali di Torino, divenne "un treno a cui agganciare un vagoncino, anzi un vagone bello grosso, pieno di misure che col testo iniziale c’entravano ben poco". La sintesi ha il copyright di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia. Flick, che concluse il suo mandato di giudice cinque anni fa e per la prima volta torna in Consulta nelle vesti di avvocato, è stato incaricato di rappresentare le istanze di illegittimità della Fini-Giovanardi. Al suo fianco l’avvocato Michela Porcile, che per conto di un suo assistito, V.M., condannato in primo e secondo grado per il trasporto di 3,8 chili di hashish, ha proposto ricorso in Cassazione. E da qui gli atti sono stati rimessi ai giudici costituzionali. Flick nella sua esposizione fissa un punto cardine: "La materia della droga non presentava interconnessione col decreto" e la legge di conversione ha "trasfigurato" il testo di partenza introducendo "previsioni eccentriche" e modificando "tabelle, reati e cornice delle pene". L’art. 77 della Costituzione, quindi è stato violato, mentre una sentenza del 2012 della stessa Consulta dice chiaramente che non si possono inserire nella legge di conversione emendamenti estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario. Il decreto Olimpiadi conteneva misure eterogenee: sicurezza dei giochi olimpici, prevenzione e lotta a criminalità organizzata e terrorismo, diritto di voto degli italiani all’estero e anche, all’art. 4, norme per il recupero dei tossicodipendenti. Ma in sede di conversione, proprio quell’articolo fu il gancio per inserire 23 articoli aggiuntivi che hanno ridisegnato il sistema delle pene in materia di droga, equiparando le leggere alle pesanti. Col risultato che le pene prima comprese tra i 2 e i 6 anni di carcere sono salite a minimo di 6 e massimo 20 anni. Se ora la legge saltasse a seguito del pronunciamento della Consulta - atteso per domani - "nessun vuoto normativo", sostiene Flick, perché rivivrebbe la precedente legge del ‘90. Questo avrebbe un impatto su chi ha processi pendenti, ma anche su chi ha sentenze passate in giudicato - spiega Porcile - che potrà presentare istanza per il ricalcolo della pena. Effetti importanti ci sarebbero anche sulla decongestione delle carceri. La Consulta, però, potrebbe anche accogliere la tesi sostenuta dell’avvocato dello Stato, Massimo Giannuzzi, per conto della Presidenza del Consiglio, che si è costituita in giudizio. Cioè, che il decreto Olimpiadi conteneva norme per contrastare tossicodipendenze e criminalità organizzata, che "la droga è il primo business delle mafie" e che quindi "la connessione tra decreto e legge di conversione c’è", perché le due misure avevano la stessa finalità. Una posizione che però non incontra grande favore. Il Pd trova addirittura "paradossale che il governo decida di difendere la Fini-Giovanardi, una pessima legge che andava superata con un nuovo provvedimento". E i giovani dem sono scesi in piazza in 50 città. La Corte deciderà domani. Nelle prossime settimane le motivazioni, affidate al giudice relatore, Marta Cartabia, spiegheranno il perché della sentenza. Anastasia (Antigone): con stop a Fini-Giovanardi benefici per 10mila detenuti L’eventuale bocciatura della legge Fini-Giovanardi avrebbe conseguenze pressoché immediate su circa 10mila detenuti. Questa la stima di Stefano Anastasia, presidente della "Società della Ragione", presente oggi all’udienza pubblica alla Corte Costituzionale. "Gli arrestati per droghe leggere sono il 40% degli arrestati per reati in materia di stupefacenti - rileva - dunque possiamo pensare che siano 10mila quelli che potrebbero beneficiare della bocciatura della legge. Tra questi, non solo chi è in custodia cautelare, ma anche i condannati in via definitiva, che potrebbero chiedere un incidente di esecuzione per la rideterminazione della pena". L’impatto di uno stop alla Fini-Giovanardi sarebbe notevole anche dal punto di vista processuale: in molti procedimenti scatterebbe la prescrizione, dato l’abbassamento delle pene, non sarebbe più possibile fare uso di alcuni strumenti di indagine, quali le intercettazioni, e le condanne sarebbero più basse anche nel caso di continuazione con altri reati. Il verdetto dei giudici della Consulta arriverà molto probabilmente domani, quando in camera di consiglio saranno trattate anche altre due cause sullo stesso argomento. La legge Fini-Giovanardi, varata nel 2006, ha parificato "ai fini sanzionatori" droghe pesanti e leggere, elevando così le pene - prima comprese tra 2 e 6 anni - per chi spaccia hashish prevedendo la reclusione da 6 a 20 anni e una multa compresa tra i 26mila e i 260mila euro. A sollevare la questione di legittimità era stata la terza sezione penale della Cassazione, che, lo scorso 11 giugno, aveva trasmesso gli atti a Palazzo della Consulta rilevando la violazione dell’articolo 77 della Costituzione e sottolineando "il profilo dell’estraneità delle norme" inserite nel decreto legge sulle Olimpiadi invernali di Torino. Anzaldi e Gelli (Pd): Palazzo Chigi chiarisca posizione su legge Fini-Giovanardi "È singolare che Palazzo Chigi abbia deciso di costituirsi in giudizio con l’avvocatura dello Stato per difendere la Fini-Giovanardi. È opportuno che la presidenza del Consiglio spieghi le motivazioni che stanno alla base di questa scelta". È quanto dichiarano i deputati del Partito democratico, Michele Anzaldi e Federico Gelli (componente della commissione Affari sociali della Camera). "Da mesi si discute dell’emergenza carceri - spiegano Anzaldi e Gelli - questione sottolineata più volte nei suoi interventi anche dal presidente Napolitano. Una delle cause che hanno portato al sovraffollamento carcerario è da individuare anche in una legge insensata come la Fini-Giovanardi, che ha cancellato la distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, portando al paradosso che si può rischiare anche 20 anni di carcere per possesso di hashish, mentre magari uno stupratore può scontare la sua pena ai domiciliari. Tra l’altro va ricordato che quella legge non nacque dall’iniziativa parlamentare, ma spuntò nel maxiemendamento di un decreto che parlava anche di tutt’altro, come Olimpiadi invernali e voto degli italiani all’estero". "Se risponde al vero che la presidenza del Consiglio - aggiungono i deputati Pd - ha deciso di difendere quella legge indifendibile e a rischio costituzionalità, è opportuno che venga fatta piena luce su chi ha preso questa decisione, con quale mandato e secondo quali valutazioni. Il superamento della Fini-Giovanardi è indicato come prioritario da diverse forze politiche". Droghe: Flick contro la Fini-Giovanardi "incostituzionale iter conversione in parlamento" di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 febbraio 2014 Quando, a sorpresa per i giornalisti presenti, l’avvocato Giovanni Maria Flick - ex ente della Corte costituzionale ed ex ministro di Giustizia nel primo governo Prodi - prende la parola di fronte ai giudici della Consulta per sostenere l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, l’atmosfera sonnolenta della "Sala delle udienze" svanisce di colpo. L’attenzione è massima, da parte degli ermellini che oggi emetteranno la loro sentenza, per ogni singolo passaggio del loro ex collega nella ricca trattazione giuridica davanti alla quale la difesa dell’avvocatura dello Stato non regge il confronto. Il tema è complesso, ma Flick individua il nodo centrale d’incostituzionalità nell’estraneità, rispetto alla materia originaria, delle norme introdotte dal legislatore nella legge dì conversione (art.4-bis e 4 vicies-ter) del decreto sulle Olimpiadi invernali che sì svolsero nel 2006 a Torino. Un provvedimento, quest’ultimo, varato in Consiglio dei ministri il 30 dicembre 2005, a un paio di mesi dalle elezioni, che fu il veicolo prima per riparare a un grave errore normativo appena commesso nella legge Cirielli (art.4) sulle misure alternative per i tossicodipendenti, e poi, in sede dì conversione, per far passare con il ricorso alla fiducia in zona Cesarini, quel disegno di legge targato Gianfranco Finì e Carlo Giovanardi che giaceva nel cassetto da anni. "La materia della droga non presentava interconnessione col decreto", argomenta Flick, Che aggiunge: "Sconvolgendo letteralmente la previgente disciplina penale sugli stupefacenti, il legislatore della fase di conversione non si è limitato a "ricomporre" ed eventualmente a "rimodulare" diversamente gli "oggetti" normativi iscritti nel corpo del decreto-legge ma ne ha completamente trasfigurato le sembianze. Ha introdotto - continua - un prodotto normativo completamente nuovo, al di fuori di qualsiasi rispetto dei limiti costituzionali del proprio compito". D’altronde, ricorda l’ex presidente della Consulta, nel 2012 e nel 2013 la Corte aveva già frenato certi "abusi" del legislatore sottolineando - con un’ordinanza e due sentenze - che "l’articolo 77 secondo comma della Costituzione" esclude la "possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto legge emendamenti del Ritto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario". "Ove così non fosse - argomenta ancora poco dopo Flick - maggioranza parlamentare e governo potrebbero utilizzare il veicolo rappresentato da qualsiasi situazione che presentasse i caratteri della straordinaria necessità ed urgenza (che comunque, all’evidenza non sono ravvisabili nel caso di specie), per aggiungervi un qualsiasi contenuto normativo". Una tesi confutata dall’avvocato di Stato, Massimo Giannuzzi, in rappresentanza del presidente del Consiglio, secondo il quale "decreto e legge di conversione avevano nel contrasto alle tossicodipendenze le medesime finalità". È vero, riconosce Giannuzzi, che "l’iter di conversione è sottoposto a vincoli, ed è giusto che la Corte eserciti un sindacato rigoroso su questo aspetto". Ma nel caso specifico, sostiene l’avvocatura dello Stato, visto che "nel di c’erano norme per il reinserimento dei detenuti tossicodipendenti", la "strategia di contrasto" del legislatore si è poi arricchita durante l’iter di conversione di misure sanzionatorie. E "il dosaggio tra la leva repressiva e quella educativa deriva solo da scelte politiche". Dunque, non giudicabili dalla Consulta, secondo la presidenza del Consiglio. Ma nell’arringa di Giannuzzi risuonano anche i tipici argomenti dell’ex ministro Giovanardi: "La necessità e l’urgenza erano giustificate dall’esigenza di contrasto alla criminalità organizzata". Cosa c’entra la tossicodipendenza? "Parliamo di condotte che costituiscono l’humus del crimine organizzato", puntualizza Giannuzzi. Che non riesce a non aggiungere: "Scelta discutibile, ma solo politicamente". Argomentazioni "non condivisibili" per l’avvocato Flick perché sì "confonde l’oggetto di diritto sostanziale" (le norme penali sugli stupefacenti) "con il "soggetto" (il condannato tossicodipendente in programma terapeutico)". Ad di là delle argomentazioni, la decisione del governo di difendere la Fini-Giovanardi davanti alla Consulta, proprio mentre è ormai riconosciuta come legge carcerogena alla base del sovraffollamento, ha generato "sconcerto" nelle comunità di accoglienza della Cnca. E perfino nel Pd: ì deputati Anzaldi e Celli (componente della commissione Affari sodali), hanno chiesto al premier Letta di riferire in Parlamento "le motivazioni della scelta". Droghe: parla Rudra Bianzino; mio padre Aldo è morto in carcere per una legge ingiusta di Anna Tarquini L’Unità, 12 febbraio 2014 Bianzino venne arrestato a casa sua. Coltivava cannabis. Morì nel carcere di Capanne a Perugia. Suo figlio Rudra:"Senza quella norma sarebbe vivo". Se penso che mio padre è morto per una legge ingiusta. Se vedo cosa sta accadendo adesso nel mondo a proposito della liberalizzazione delle droghe leggere e penso che noi stiamo con la Fini-Giovanardi. Beh, se penso a questo sì, mi sale la rabbia". Vi ricordate di Rudra Bianzino? Rudra era un ragazzo di 14 anni quando suo padre - e sua madre - vennero arrestati per una decina di piante di marijuana coltivate nel terreno davanti casa. Suo padre Aldo non tornò più, morì appena due giorni dopo in carcere in una vicenda nera e mai chiarita che ricorda molto quella di Cucchi e di Aldrovandi, ma che è anche conseguenza diretta di una normativa che allora, come oggi, prevedeva la galera per il consumo personale di droghe leggere. Sono passati sette anni da allora, era il 12 ottobre del 2007. Alla vigilia della sentenza della Consulta che dovrà dire se quelle norme sono incostituzionali Rudra (che per gli induisti significa colui che allontana dai dolori) aspetta la decisione con il disincanto di una persona che ha dovuto imparare in fretta. "Alla fine - dice - se dovessero dichiararla incostituzionale, non so se sarà peggio o meglio per me perché quella legge ha ammazzato mio padre". Il 21 febbraio si aprirà il secondo grado del processo per omissione di soccorso che vede imputata solo una guardia giurata per omissione di soccorso. Quello per omicidio colposo invece non ha avuto seguito. "Hanno coperto tutto - dice Rudra. Non è stato possibile in nessun modo accertare la verità. Pensi che le indagini sulla morte di mio padre sono state affidate alla polizia penitenziaria, cioè a quelli che dovrebbero essere potenzialmente imputati. Le sembra normale?". Accadeva sette anni fa, Rudra che parla senza commozione perché ha imparato a contenerla, ricorda tutto come fosse ieri. "Arrivarono a casa con modi spicci. Presero le piante, presero tutti quello che trovarono per fare peso...per dimostrare che era tanta. Mio padre si autoaccusò, ma presero subito anche mia madre. Io restai in casa con mia nonna che aveva 90 anni. Non hanno nemmeno avuto il riguardo di controllare se avevo bisogno di assistenza. O se mia nonna fosse autosufficiente. Per fortuna lo era. Due giorni dopo mia madre tornò a casa, mio padre no. La polizia si rifece viva quel giorno, con mia madre. Le fecero una serie di domande strane, volevano sapere se mio padre soffrisse di qualche malattia. Lui era già morto ma noi non lo sapevamo ancora. Non credo che dimenticherò mai come mia madre seppe della sua morte, quella frase. La stavano ancora interrogando sullo stato di salute di mio padre quando lei domandò: "Quando posso vederlo?". "Tra due giorni dopo l’autopsia… risposero". Aldo Bianzino aveva quarantaquattro anni, faceva il falegname e viveva a Pietralunga vicino Perugia. La cannabis che coltivava in giardino era per uso personale. Non si è mai saputo cosa accadde nelle 48 ore trascorse dietro le sbarre. Le perizie di parte parlarono di morte per aneurisma. Ma proprio l’autopsia e poi i rapporti del medico legale voluto dalla famiglia dissero invece che Aldo Bianzino aveva il fegato staccato e diverse costole rotte come se fosse stato picchiato. Il processo per omicidio colposo si chiuse con la conclusione che non erano state le botte a provocare quelle lesioni così violente, mail massaggio cardiaco per rianimarlo eseguito, tra l’altro, da due infermiere. "Me lo devono ancora spiegare - dice Rudra - come hanno fatto due infermiere professioniste a provocare il distacco del fegato con un massaggio cardiaco". Tant’è. Pochi mesi dopo morì anche la mamma di Rudra, Roberta Radici. Epatite C. E poi anche la nonna. Il suo caso finì su tutti i giornali, anche grazie a una sottoscrizione di Grillo. Poi più nulla. Il silenzio. I processi che si perdevano e l’unico appiglio su quel procedimento per omissione di soccorso che è ancora in corso ma che non può da solo ristabilire la verità. "Nell’ultima udienza del processo per omissione di soccorso è venuto un medico che si chiama Fineschi che ha fatto la differenza dimostrando addirittura che le foto dell’aneurisma era foto di repertorio". Rudra non si è mai arreso. Ha finito il liceo, ora ha un lavoretto, e il prossimo anno vorrebbe iscriversi a Scienze politiche, a Roma. Ha in testa di occuparsi di sociale. Di persone che hanno subito la malagiustizia come lui. "Certo che è una vicenda che mi ha rovinato la vita. Io ancora oggi sono Rudra Bianzino, quel Rudra Bianzino a cui sono accadute certe cose. Quella vicenda sono io. E questo non si può capire se non l’hai vissuto, per questo bisogna fare qualcosa di concreto per tutti quelli come me". "Ora, mio padre avrà anche avuto le sue colpe ma... si vede come sta andando il mondo. Le leggi sulla droga sono molto diverse in Spagna, in Germania, in Portogallo... Non serve nemmeno guardare all’America. Se sarà abrogata.... Certo, mio padre è stato ucciso per una legge che non esiste più... Per me forse è ancora peggio". Droghe: Giovani Democratici; no alla legge Fini-Giovanardi… il proibizionismo ha fallito www.catanzaroinforma.it, 12 febbraio 2014 "Ora più che mai noi Giovani Democratici della Federazione di Catanzaro ci sentiamo in dovere di dirlo a gran voce: il proibizionismo ha fallito. E non parliamo solo della Fini-Giovanardi, che pure tanti ha danni ha fatto. Parliamo di tutte le politiche in materia di stupefacenti dal 1990 ad oggi, che, con lo scopo (tutt’al più ideologico) di reprimere il consumo di droghe leggere, hanno avuto come effetto l’aumento della popolazione carceraria e l’aumento del consumo di cannabis (nel 2013 21,4% di consumo, in aumento rispetto agli altri anni). E se è possibile trascurare il dato sul consumo, non si può passare indifferenti di fronte alla drammatica situazione delle carceri: su un totale di 64mila soggetti, infatti, sono oltre 23000 i detenuti per reati in materia di stupefacenti. Oltre un terzo, quindi, di quelli totali. Come affermano i giudici di Magistratura Democratica "è un dato che registra in maniera incontrovertibile il fallimento delle politiche puramente repressive in materia di stupefacenti e che sono la causa principale, se non esclusiva, del sovraffollamento". Doveroso, a riguardo, è sottolineare in modo particolare la situazione riprovevole in cui desta il carcere di Catanzaro Siano, dove il tasso di sovraffollamento ammonta al 157%; per non parlare del fatto che l’Asp di Catanzaro ha sospeso tutti gli incarichi specialistici, lasciando quindi l’Istituto senza assistenza psichiatrica, cardiologica, neurologica, odontoiatrica, urologica e pneumologica. Un dramma, quindi, la cui portata è agli occhi di tutti e che ci fa sperare per le prossime ore ad una sentenza di incostituzionalità della Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale. Anche se, come è noto, ciò non basterebbe a sanare il problema dato che la sentenza non farebbe altro che introdurre una distinzione tra sanzione applicate per vendita e consumo di droghe leggere o pesanti, ma non graverebbe in maniera influente sull’attuale situazione carceraria. Ciò invece a cui noi auspichiamo è l’approvazione da parte del Parlamento del Dl Manconi, che mira alla completa cancellazione delle sanzioni amministrative per i consumatori dei marijuana e alla non punibilità della cessione di piccoli quantitativi dei derivati della cannabis finalizzata all’immediato consumo personale. Senza dimenticare che, in riferimento al dramma della carceri, è di fondamentale importanza la conversione in legge da parte del senato del Decreto Svuota Carceri, che prevede la revisione delle misure alternative di custodia anche per reati per i quali sino ad ora non erano previsti. Ciò detto i GD della Federazione di Catanzaro, soprattutto con riferimento alla situazione del carcere di Siano, si impegneranno nelle prossime settimane ad un monitoraggio costante dell’istituto penitenziario perché il principio di rieducazione della pena sancito nell’art. 27 della Costituzione venga finalmente fatto rispettare". Stati Uniti: l’ultima sfida di Obama, ridare il voto a milioni di detenuti ed ex detenuti Ansa, 12 febbraio 2014 Ridare il diritto di voto a milioni di detenuti e perfino ex detenuti americani. È l’ultima battaglia dell’amministrazione Obama sul fronte dei diritti civili e della difesa delle minoranze, soprattutto quella afroamericana. A lanciare la nuova sfida è stato il ministro della giustizia, Eric Holder, che ha fatto appello agli Stati Usa perché siano eliminate tutte quelle leggi che vietano a chi è stato condannato, e in alcuni casi anche a chi ha già scontato la pena, di votare come qualunque altro cittadino. Una materia che sfugge alle competenze federali, e su cui dunque il governo di Washington poco può fare. Ma la speranza della Casa Bianca è che attraverso un pressing sulle autorità statali si possa davvero raggiungere un risultato storico. "Tenere lontane dalle urne milioni di persone, la maggior parte delle quali fanno parte delle minoranze etniche, è poco saggio, ingiusto e contrario ai valori democratici del nostro Paesi", ha sottolineato Holder: "Per questo tali leggi non solo vanno riconsiderate, ma vanno abolite". Del resto, dati alla mano, gli afroamericani rappresentano più di un terzo dei 5,8 milioni di cittadini statunitensi a cui è proibito recarsi alle urne per avere o aver avuto problemi con la legge. E in Stati come Florida, Kentucky e Virginia circa un afroamericano su cinque ha perso il diritto di voto. Numeri inaccettabili per l’amministrazione Obama. Numeri che fanno degli Stati Uniti l’unico Paese democratico in cui il voto è negato a un così gran numero di persone. Non a caso - ha ricordato Holder - tali leggi risalgono all’800, quando anche con questo espediente si tentava di limitare il voto dei neri. Norme, dunque, che possono essere considerate anche come discriminatorie, se non razziste. "Sebbene sia passato oltre un secolo da quando queste norme sono state concepite per limitare l’esercizio dei diritti fondamentali agli afroamericani - ha proseguito Holder - nelle comunità moderne di afroamericani l’impatto di queste norme resta sproporzionato e inaccettabile". Questa battaglia dell’amministrazione Obama si affianca a quella sul diritto di voto delle minoranze, che tante polemiche ha scatenato e tante frizioni tra Casa Bianca e Corte Suprema. Quest’ultima infatti alcuni mesi fa ha bocciato lo storico Voting Rights Act, che vietava ad alcuni Stati del Sud - quelli con una storia di razzismo alle spalle - di ottenere l’autorizzazione federale per ogni cambiamento alla propria legge elettorale. Una norma che era stata pensata proprio per difendere il voto dei neri. Stati Uniti: l’ex direttore del Nyt fonda un giornale no-profit che si occuperà delle carceri di Mattia Ferraresi Il Foglio, 12 febbraio 2014 Il programma di Bill Keller è piuttosto vasto: sensibilizzare il mondo sulle nefandezze del sistema penale americano, con lo stesso furore civile con cui il giornalismo mainstream di cui Keller è campione ha rimodellato l’opinione pubblica sul matrimonio gay, tanto per fare un esempio. Dalle colonne del New York Times la missione non poteva che essere affrontata in modo episodico e sfilacciato, senza la forza persuasiva che deriva dalla vocazione monografica, quasi ossessiva, verso un tema specifico. Keller, che ha diretto il New York Times per otto anni ed è rimasto nel palazzo sull’Ottava avenue come columnist ad ampio raggio d’azione, ha incontrato sulla sua via Neil Barsky, figura eclettica di giornalista diventato analista finanziario, poi titolare di un hedge fund con portafogli da qualche miliardo di dollari, poi regista di un documentario su Ed Koch di cui va molto fiero, critico, finanziatore di imprese a vario titolo all’incrocio fra informazione, politica e finanza. È sua l’idea del Marshall Project, esperimento giornalistico non profit che si occuperà di raccontare il sistema criminale e la situazione delle carceri del paese che è largamente al primo posto nella classifica per il numero di prigionieri rispetto alla popolazione. Barsky la vive come una battaglia civile: "Dal giorno in cui sono nato sono consapevole che il sistema penale in America è orribile e stranamente è tollerato. Il motivo principale è che è stato così per così tanto tempo che non lo contestiamo più", ha detto. E dunque dal Marshall Project, che Keller dirigerà, ci si aspetta una ricognizione capillare delle prigioni e delle aule di tribunale, una dissezione del "prison-industrial complex" che negli ultimi decenni ha portato il tasso di incarcerazione a crescere a dismisura negli Stati Uniti, disamine storiche sulle leggi che hanno contribuito a tutto questo, innanzitutto le durissime misure antidroga introdotte da Nelson Rockefeller quand’era governatore dello stato di New York, e magari pure una ricognizione di quella che Conrad Black - uno che delle brutture del sistema penale americano se ne intende - chiama "prosecutocracy", la dittatura dei procuratori. Il nuovo progetto di Keller ha un piede nel giornalismo e uno nell’advocacy, è un osservatorio con finalità persuasive oltre che informative, è in quella zona grigia che separa il New York Times da Aclu. Il modello esiste già, ed è ProPublica, giornale di inchieste con forti dosi di coscienza civile da somministrare al pubblico che è già stato insignito del premio Pulitzer. Anche ProPublica è il prodotto di un ex manager di giornali alla ricerca di un nuovo format dell’informazione: Paul Steiger era stato vicedirettore del Wall Street Journal per oltre quindici anni. Sentimento diffuso nell’era in cui venerati maestri e giovani promesse lasciano la strada vecchia per quella nuova. La formula magica che Keller ripete nei giorni dell’annuncio è non profit, parola scivolosa in generale e specialmente se associata all’informazione, con il carico di pregiudizio positivo sulla bontà di scopi e metodi che inevitabilmente trasmette. Sarà non profit, certo, ma la macchina deve funzionare e un professionista della caratura di Keller non lascia il New York Times per fare beneficenza. Anche qui è tutta questione di trovare un modello di business, e Barsky è un ricercatore prolifico di soluzioni creative. Il Marshall Project punta forte sulla specializzazione tematica. L’idea - nelle intenzioni, almeno - è arrivare al punto in cui nessuno potrà dire qualcosa di sensato sulla giustizia americana senza consultare il loro sito, senza citare i loro dati, senza chiedere un commento ai loro esperti. Un po’ la stessa idea che il tycoon Pierre Omidyar e Glenn Greenwald avevano in mente quando hanno deciso di lanciare Intercept, ritrovo di attivisti che espongono in forma giornalistica le prevaricazioni delle agenzie di sicurezza. La tendenza che porta giornalisti di successo verso nuove creazioni e formati indipendenti è visibile da tempo. L’ultimo è Ezra Klein, che si sta portando via diversi plotoni di colleghi dal Washington Post per sviluppare un progetto di "explanatory journalism" sotto l’egida dell’editore Vox Media. Il maestro dei numeri Nate Silver, che durante la stagione elettorale faceva aumentare da solo il traffico sul sito del New York Times del 20 per cento, se n’è andato per seguire un progetto sportivo di Espn. Andrew Sullivan s’è messo in proprio da qualche tempo. Keller configura una fattispecie ancora diversa, quella del gran giornalista che si mette in proprio non per occuparsi di tutto forte dell’autorevolezza, dei Pulitzer, delle conoscenze, dell’esperienza ma per scavare in profondità in un punto soltanto dello scibile giornalistico. Il Marshall Project è un caso di specializzazione estrema in un mondo dell’informazione che procede per tentativi. Ucraina: ancora 6 giorni per sgombero edifici pubblici, oppure non ci sarà l’amnistia Ansa, 12 febbraio 2014 I manifestanti antigovernativi hanno tempo fino al 17 febbraio per sgomberare le strade e gli edifici pubblici occupati altrimenti la legge d’amnistia non sarà applicabile. Lo ha ricordato il procuratore regionale di Kiev, Mikhailo Vitiaz, sottolineando che "i reati di cui sono accusati (gli occupanti) sono seri e prevedono lunghi periodi in carcere". Consiglio Europa: sbagliato parlare di amnistia È sbagliato usare il termine "amnistia" per i manifestanti antigovernativi arrestati in Ucraina perché tra i fermati "molti erano dei semplici passanti" e "l’amnistia si rivolge a persone il cui coinvolgimento in certi reati è stato provato". Lo ha affermato il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, in una conferenza a Kiev. Il parlamento ucraino il 29 gennaio ha approvato un’amnistia per i manifestanti, ma a condizione che la protesta sgomberi entro 15 giorni i palazzi occupati. Romania: negli anni 50 guidò "campo di lavoro", denunciato per crimini contro l’umanità La Presse, 12 febbraio 2014 L’Istituto per le indagini sui crimini di guerra del comunismo, in Romania, ha presentato oggi ai procuratori dei documenti nei quali accusa l’ex comandante del campo di lavoro di Cernavoda di crimini contro l’umanità per l’uccisione di 115 prigionieri politici. Il capo dell’agenzia, Andrei Muraru, sostiene che ci siano "prove chiare" che Cormos "abbia imposto un regime di sterminio". Sotto il comando di Cormos, tra dicembre del 1952 e aprile del 1953, pare che i detenuti venissero uccisi con scariche elettriche e che sopra i prigionieri si facessero camminare i cavalli. Cormos, 87 anni, nega le accuse. È il terzo ex comandante di una prigione o un campo di lavoro comunista a essere accusato di uccisioni e torture sui prigionieri politici. Gli storici stimano che, tra gli anni 50 e 60, oltre 500mila prigionieri politici siano stati detenuti e oltre 100mila siano morti. Circa 3.500 degli ex prigionieri politici degli anni 50 e 60 sono ancora vivi, molto meno degli oltre 40mila che erano ancora vivi quando il comunismo fu rovesciato nel 1989. Stati Uniti: respinto appello contro l’alimentazione forzata per i detenuti di Guantánamo La Presse, 12 febbraio 2014 Tre giudici della Corte d’appello del circuito del District of Columbia hanno respinto il più recente tentativo di far interrompere l’alimentazione forzata ai detenuti di Guantánamo, ma due di loro hanno però lasciato aperta la porta a future iniziative legali in merito negli Usa. I due hanno infatti affermato che i detenuti hanno il diritto di opporsi all’alimentazione forzata, smentendo così le sentenze di due altre corti che in passato avevano affermato che gli organi giudiziari Usa non hanno giurisdizione nel caso. Jon B. Eisenberg, uno degli avvocati dei prigionieri, ha definito quest’ultimo sviluppo "una grande vittoria per noi", poiché permette ai detenuti di riportare il caso nelle corti distrettuali e fare nuove pressioni. "La decisione stabilisce che le corti federali hanno il potere di fermare i maltrattamenti dei detenuti a Guantánamo Bay", ha scritto Eisenberg in una e-mail. "La corte d’appello ci ha dato luce verde per continuare a sostenere che l’alimentazione forzata rappresenta, a livello costituzionale, un abuso. Intendiamo proseguire", ha aggiunto l’avvocato. Una portavoce del dipartimento di Giustizia ha affermato che l’ufficio sta analizzando la decisione della corte. Afghanistan: governo ordina scarcerazione di 65 degli 88 detenuti "pericolosi" di Bagram Adnkronos, 12 febbraio 2014 L’Afghanistan va avanti con il rilascio di detenuti nel carcere di Bagram segnalati come "pericolosi" dagli Stati Uniti. La Procura generale, come riferiscono i media afghani, ha ordinato la scarcerazione di 65 degli 88 detenuti "pericolosi" nell’ex prigione Usa di Bagram, circa 60 chilometri a nord di Kabul. Tuttavia non è stata ancora annunciata una data precisa per il rilascio dei 65 prigionieri.