Giustizia: le minacce della "mafia silente" e il nodo giuridico del 416-bis di Nino Amadore Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2014 Parla il giurista Costantino Visconti: "Un'interpretazione corretta del 416-bis. Siamo di fronte a un'applicazione pressoché standard del modello di associazione mafiosa, conforme ai più accreditati orientamenti della Corte di cassazione". A parlare è Costantino Visconti, docente di Diritto penale all'Università di Palermo e autore di un lungo saggio sulla materia del 416 bis recentemente pubblicato sulla rivista Diritto penale contemporaneo. Visconti spiega come l'inchiesta della Procura di Roma sveli la forza intimidatrice della "mafia silente" ma per nulla assente. "Ci sono due livelli e in ambedue i livelli c'è l'intimidazione. C'è il livello del "Mondo di sotto" in cui il clima minaccioso e violento è più evidente. E c'è il Mondo di sopra in cui sono evidenti rapporti corruttivi ma non manca l'impiego dell'intimidazione quando è necessario. Premessa necessaria per far comprendere la portata di questa inchiesta ai fini di una valutazione sul 416 bis, ovvero sul reato di associazione mafiosa". A parlare è Costantino Visconti, docente di diritto penale all'Università di Palermo e autore recentemente di un lungo saggio sul tema pubblicato sulla rivista Diritto penale contemporaneo. "Sul piano socio-criminologico la novità risiede nel fatto che a mia memoria mai in un'inchiesta con così tanti indagati per mafia non ve ne siano neanche uno napoletano, calabrese o siciliano - spiega Visconti -. Mentre sul piano giuridico non parlerei di novità significative: piuttosto siamo di fronte a un'applicazione pressoché standard del modello di associazione mafiosa, conforme cioè ai più accreditati orientamenti della Corte di cassazione in materia". Una interpretazione, quella della Corte di cassazione, che ovviamente ha un peso rilevante ai fini della valutazione degli atti in sede di merito. Cosa che è accaduta con riferimento alle inchieste e ai processi riguardanti l'insediamento di organizzazioni ‘ndranghetiste al Nord: "Casi in cui - dice Visconti - si sono profilati due diversi orientamenti, uno più incline a dilatare l'altro a restringere l'ambito applicativo del reato di associazione mafiosa in aree del paese considerate storicamente "refrattarie" al radicamento mafioso, ossia da Napoli in su". Secondo un approccio considerato meno restrittivo, il reato è applicabile anche a formazioni criminali che non hanno "esteriorizzato", nel contesto ambientale ove operano, il metodo mafioso prescritto dal terzo comma dell'articolo 416 bis del codice penale: "In alcuni procedimenti torinesi e genovesi, ad esempio, l'accusa e parte della giurisprudenza ha ritenuto sufficiente l'accertamento di una capacità intimidatrice del sodalizio meramente potenziale, predicando la punibilità della cosiddetta "mafia silente". La Cassazione, però, anche recentemente ha ribadito che occorre sempre e comunque dimostrare che il sodalizio disponga di una capacità "effettiva" di incutere timore e soggezione attorno a sé, che in altre parole i criminali si siano realmente avvalsi della forza di intimidazione che costruisce il connotato tipizzante del reato associativo". Ed è questo il punto: l'inchiesta romana ha queste caratteristiche? Per Visconti "questa inchiesta sembra ispirata proprio da questo modello ricostruttivo più garantista del reato, laddove non trascura di fornire elementi di fatto idonei a tratteggiare la fisionomia di un'associazione impegnata a mantenere con gli interlocutori del "mondo di sotto" un clima minaccioso e violento, e con quelli del "mondo di sopra" rapporti corruttivi e di cointeressenza, salvo sempre l'impiego anche in quest'ultimo caso del metodo mafioso ove necessario". Giustizia: facciamo come in Usa, dove è previsto il "dark money", legalizziamo le tangenti di Piero Sansonetti Il Garantista, 9 dicembre 2014 A chiunque chiediate qual è il principale problema politico in Italia, vi risponderà che questo problema è la corruzione. Vi dirà che non esiste nessun altro paese al mondo corrotto come il nostro, o almeno nessun altro paese in Occidente. Vi esibirà le statistiche - quelle, ad esempio, pubblicate ancora recentemente dal "Corriere della Sera" e dal "Fatto" - le quali dimostrano che l'Italia, prima ancora dello scandalo "mafia capitale", aveva raggiunto la Grecia e dunque aveva conquistato il primo posto tra i paesi più corrotti d'Europa. Su cosa si fondano queste statistiche? Sui sondaggi, che ormai hanno sostituito ogni altro strumento di analisi e di valutazione politica (così come le intercettazioni e i pentiti hanno sostituito qualunque altro strumento di indagine giudiziaria...). Cioè, in realtà, stiamo parlando non esattamente di "livello della corruzione" ma di "livello della corruzione percepita". E un po' come l'insicurezza percepita, che permette di considerare molto più insicure di dieci anni fa città dove avvengono circa il 30 per cento dei crimini violenti di dieci ani fa. Naturalmente non voglio dire che non esiste in Italia la corruzione politica. Voglio dire - appena un po' provocatoriamente - che è inferiore a quella di molti altri paesi potenti dell'Occidente. Però è percepita in modo diverso. Anche perché qui da noi la magistratura si occupa quasi esclusivamente di corruzione politica, mentre in altri paesi spesso è impegnata a indagare anche su altri reati. E soprattutto perché in alcuni paesi occidentali la corruzione politica è tollerata dalie leggi e scandalizza poco. Prendiamo i mitici Stati Uniti, regno non solo della democrazia ma della legalità-legalità, tanto che nelle prigioni vive l'1 per cento della popolazione (cioè tre milioni di persone) contro lo 0,1% che è la media dei carcerati (in rapporto alla popolazione) nel nostro paese. Bene, vi racconto un paio di storielle che ho appreso leggendo in questi giorni il New York Times, e che non sono state degnate neppure di uno sguardo dai giornali italiani. La prima riguarda le compagnie che estraggono il gas, la seconda il finanziamento della campagna elettorale che ì è conclusa a novembre. I giornalisti del New York Times (che curiosamente intendono il giornalismo investigativo non come la pubblicazione di veline passategli dal prosecutor, o della trascrizione di intercettazioni, anche perché lì di intercettazioni ne fanno davvero pochine, ma intendono il giornalismo investigativo come inchiesta, ricerca, riscontro) hanno scoperto che il ministro della Giustizia dello Stato dell'Oklahoma, il repubblicano Scott Pruit, ha spedito alle autorità federali che hanno il potere di controllo dell'inquinamento, una lettera di proteste molto aspre perchè, a suo giudizio, esistono studi che dimostrano che le compagnie che estraggono il gas inquinano molto meno da quanto stabilito dall'autorità federale, e questo è ingiusto e danneggia l'Oklahoma. Ragion per cui saranno autorizzate a inquinare di più. Niente di strano, direte. Già, ma i giornalisti dei New York Times hanno trovato l'originale della lettera, e hanno scoperto che era stata scritta (e protocollata) dal capo delle relazioni esterne della Devon Energy (cioè della più importante compagnia di estrazione di gas di tutto l'Oklahoma) e poi spedita al ministro, che l'ha fatta copiare, ha cambiato due parole (due di numero) e l'ha inviata come sua lettera ufficiale all'autorità. Dopodiché il Times non s'è fermato. Ha indagato ancora, e ha scoperto che il ministro Pruit non lavora da solo, ma ha costituito una associazione "riservata" (qui da noi avrebbero detto una P3 o P4, o una associazione mafiosa, e avrebbero fatto scattare il 416 bis...) nientemeno che con altri 11 ministri della Giustizia, tutti repubblicani, di altri 11 Stati meridionali degli Usa. E che insieme a questi 11 "frescteggia" con le compagnie del gas, e del petrolio, e con altre multinazionali, che si sono anche occupate di finanziare le loro campagne elettorali. Solo in quest'ultimo anno - ha scritto il New York Times - ai ministri in questione sono stati versati dalle compagnie almeno 16 milioni di dollari. E dopo il versamento risulta che gli Stati hanno cambiato le loro politiche energetiche. Nessuno dì questi 11 ministri è stato arrestato. Né inquisito. Neppure Scott Pruit io è stato. La loro attività viene considerata dalla legge americana una normale relazione tra la politica e le lobby. Se non c'è un reato specifico, dimostrato -sostengono gli Americani - non c'è niente di male. È reato farsi scrivere una lettera da un signore che lavora per la Devon Energy? Non è reato. È reato accettare finanziamenti alla campagna elettorale? No. È reato cambiare la propria politica energetica? No, è libera scelta. E negli Stati Uniti non esiste il reato associativo (esiste solo in Italia). A proposito di finanziamento di campagne elettorali, sempre il New York Times ha tirato fuori qualche giorno fa i dati relativi al dark money, prima di riferirvi di questi dati proviamo a spiegare cos'è il dark money. Negli Stati Uniti esistono tre modi per finanziare le campagne elettorali, e dunque la politica. C'è il finanziamento pubblico (si, sì: in uno paese liberale come gli Usa esiste il finanziamento pubblico...,). Chi però accetta il finanziamento pubblico poi non dovrà superare un tetto, piuttosto basso, di finanziamento privato. Pochi accettano, perché negli Stati Uniti - chissà come mai - sono moltissimi i privati che hanno una gran voglia di finanziare i politici. Solo gli sfigati accettano il finanziamento pubblico, poi però, solitamente, non vengono eletti. Il finanziamento privato può essere di due tipi: quello in chiaro, dichiarato e registrato, e quello "dark" che resta oscuro, segreto, ma che non è fuorilegge. Purché, venga registrato anche quello, seppure in forma anonima. Cioè si fa così: si crea un fondo, al quale si può dare il nome che si vuole (anche Santa Teresa di Calcutta) e in questo fondo si fanno affluire donazioni anonime. Il candidato che riceve conosce i nomi dei donatori e le cifre, ma alla legge basta sapere che il fondo che ha raccolto i denaro è il Santa Caterina. Contro il dark money spesso sono state presentate proposte di legge (John McCain, il candidato repubblicano alla presidenza che fu sconfitto da Obama nel 2008, si è battuto fino allo stremo, e inutilmente, per proibire il dark money), ma nessuna è stata mai approvata. Il New York Times racconta come il dark money sia in vertiginosa ascesa, nonostante la crisi. Nella campagna elettorale parlamentare del 2010 toccò i 161 milioni di dollari. Nell'ultima campagna elettorale è quasi raddoppiato e ora sfiora i 300 milioni. Distribuiti in parti non proprio uguali: 70 per cento ai repubblicani e 30 per cento ai democratici. In Kentuky il repubblicano Mitchel McConnel, che sarà da gennaio il leader della maggioranza in Senato, ha ottenuto 23 milioni di finanziamenti segreti, contro gli 800 mila dollari del suo oppositore, il democratico Alison Lundergan Grimes. Naturalmente ha vinto. Ed è probabile che si occuperà di politica senza dispiacere eccessivamente a coloro che hanno finanziato la sua campagna. E dei quali noi non conosciamo i nomi ma lui si. Poi, per la verità qualche nome si conosce anche, perché finanzia apertamente. Ad esempio la National Rifle Association, cioè lobby delle armi, che gli ha versato svariati milioni. Voi pensate che McConnel, in Senato, favorirà leggi per il controllo sulla vendita delle armi? Ecco vi ho raccontato questa storia per fare la seguente domanda: ma perché in Italia tutto ciò è corruzione e negli Stati Uniti è lobbing? Perché in Italia consideriamo una gran vergogna i finanziamenti all'assessore alla casa - se ci sono stati - e negli Stati Uniti sono legali i finanziamenti -possiamo chiamarle tangenti? - al capo della maggioranza in Senato? Lo chiedo senza polemica, per carità. Solo per provare a ricostruire - o a mettere in dubbio - la particolarità italiana. Giustizia: la storia di Dino Budroni, ucciso dalla polizia perché "se l'è cercata" di Mario Di Vito Il Garantista, 9 dicembre 2014 Il poliziotto che gli ha sparato è stato assolto, ma troppe cose non tornano, qui ve le raccontiamo. Bernardino Budroni è morto la mattina di sabato 30 luglio del 2011, freddato da un colpo di calibro 9 sparato mentre lui era in macchina, sul Grande Raccordo Anulare, all'altezza dell'uscita Nomentana, dopo che polizia e carabinieri lo avevano inseguito per chilometri. Il colpo, secondo le perizie balistiche, è stato esploso da due, massimo tre metri di distanza, e lo ha trafitto al fianco destro. Inutile la corsa verso l'ospedale Pertini. Per lui, che tutti chiamavano Dino, la morte è arrivata a 40 anni, qualche ora dopo aver litigato con la sua fidanzata. E neanche lei, che pure lo aveva denunciato per stalking e che quella stessa notte se l'era ritrovato completamente fuori di testa davanti casa, avrebbe voluto che andasse a finire così. La sentenza per quei fatti sarebbe arrivata esattamente tre anni dopo, con l'assoluzione piena del poliziotto Michele Paone, che lo aveva colpito a morte: "Il fatto non costituisce reato", l'uso della pistola era da considerare legittimo, e lo stesso Budroni, d'altra parte, non aveva dimostrato "rispetto per la vita umana", cioè per la sua, visto che aveva imboccato il raccordo a 220 all'ora con la sua Ford Focus. Che non ci sarebbe mai stata giustizia, ad ogni buon conto, si ora già capito dalle fasi iniziali dell'inchiesta, quando l'agente Paone si ritrovò accusato di "eccesso colposo in uso legittimo delle armi", ovvero era stato troppo zelante nello svolgere il suo lavoro: una leggerezza, poco più, non un omicidio. Il magistrato, per lui, aveva chiesto una condanna a due anni e sei mesi. A nulla sono valse le considerazioni dell'avvocato della famiglia Budroni, Fabio Anselmo: il colpo era stato sparato da vicino, ad altezza d'uomo, a inseguimento finito, quando Budroni era fermo in macchina con le mani alzate sopra il volante. Niente di niente, assoluzione con formula piena per il poliziotto: Budroni è morto sostanzialmente per colpa sua. Almeno così si sono espressi, "nel nome del popolo italiano", i giudici nell'aula 18 della palazzina B della sezione penale del Tribunale di Roma, lo scorso 21 luglio. Ma la storia non è tutta qui, dall'ultima notte di Dino al giorno dell'assoluzione dell'agente che lo freddò, di cose ne sono successe, e pure parecchie. È l'ennesimo capitolo del grande romanzo dell'orrore della mala-polizia italiana. La tomba di Budroni, negli anni, è stata profanata cinque volte, tra danneggiamenti vari alla lapide e il furto reiterato degli oggetti che i suoi cari gli lasciavano lì: fiori, lumini, piccoli ricordi. Una volta sua sorella ha ritrovato davanti alla tomba pure un pizzino: "Se era bravo non gli succedeva", c'era scritto su un lato. E sull'altro: "Non era uno stinco di santo, rompeva i coglioni alle donne". Prosa da giustizieri della notte, particolari minori di una storia che dimostra soltanto quanto la legge sia incapace di fare giustizia. Come se non bastasse, lo scorso marzo Budroni è stato condannato a una multa da 150 euro per detenzione di una carabina ad aria compressa e di una balestra non denunciate. Stessa cosa era successa un anno prima, con Dino condannato a due anni e un mese di reclusione per rapina: nel 2010 aveva sottratto alla sua fidanzata la borsa nel tentativo di convincerla a tornare a casa. All'emissione di entrambe le sentenze, però, Dino Budroni era già morto da un pezzo, in spregio all'articolo 150 del Codice penale, in base al quale la morte del reo estingue il reato. Alla taccia delle lamentele che spesso arrivano dalle procure per l'eccessiva mole di casi da esaminare: a volte si processano anche i morti. La fama di "cattivo ragazzo" per Dino è stata un macigno che ha pesato su tutta l'inchiesta: succede spesso in casi del genere, è un particolare che accomuna le vittime di mala-polizia con quelle di stupro. La prima operazione consiste nel cercare di demonizzare la vittima, creare i presupposti perché alla fine risulti logico pensare che "so l'era andata a cercare". Subito dopo i fatti, si provò a sostenere che Budroni stava perseguitando la sua ex fidanzata, ma ci sono riscontri che i due abbiano dormito insieme almeno fino a tre giorni dalla morte di lui. Poi, è evidente, qualcosa deve essere andato storto e la coppia avrebbe litigato violentemente. Per la sorella della vittima, quel sabato 30 luglio lui aveva scoperto che lei lo tradiva e avrebbe dato in escandescenze, andandola a cercare fino a casa sua, urlando e battendo i pugni sulla porta. Lei avrebbe così chiamato i carabinieri per farlo allontanare. Uno stalker, uno che perseguita le donne, un cattivo, uno che avrebbe dovuto mettere in conto che poteva fare una brutta fine. Ed è stato proprio questo enorme pregiudizio che, anche a parere dell'avvocato Anselmo, ha portato all'assoluzione dell'agente che quell'alba rosso sangue di luglio sparò e uccise Budroni. D'altra parte, a rileggere ancora oggi le carte, l'inchiesta fa acqua da tutte le parti. Incongruenze e assurdità, salti logici e veri e propri pasticci inspiegabili. A partire dagli orari. In molti, quella mattina, rimasero imbottigliati sul Gra. Tra questi c'era Franco Casalinno, che ha un banco al mercato di Val Melaina. Lui quel sabato 30 luglio se lo ricorda bene e sostiene di aver visto chiaramente il corpo di Budroni riverso dentro la macchina, proprio mentre l'ambulanza lo stava portando via. Che ora era? Sicuramente prima delle 5 perché "io per quell'ora devo già essere al lavoro e invece ero in ritardo". Nell'inchiesta condotta dai carabinieri, però, si sostiene che la sparatoria sia avvenuta dopo le 5 del mattino, anche perché alle 4 e 45, secondo quanto ha dichiarato l'ispettore Marco Stabile, la volante 10 - quella su cui viaggiava l'agente Paone - era in via Quintilio Varo, sotto casa della fidanzata di Dino. Il signor Casalino - pronto a giurare che a quell'ora Budroni era già morto ad almeno venti chilometri di distanza - però non sarebbe mai stato chiamato a testimoniare al processo. A rafforzare la sua versione, tuttavia, c'è un pezzo di carta: uno scontrino emesso alle 4 e 14 da un bar sulla Nomentana per una bottiglia di birra Ceres. L'autopsia avrebbe trovato nel corpo della vittima una concentrazione di 2.23 grammi/litro di alcol. In buona sostanza, a parere degli investigatori, Dino Budroni, ubriaco, avrebbe avuto il potere di apparire e scomparire in posti lontanissimi tra di loro a distanza di pochissimi minuti. Un vero e proprio miracolo. Poi c'è la contraddizione più grande: la polizia ha detto che l'inseguimento andato in scena in piena notte, anche se quella mattina il sole sorgeva alle 4 e 30 e la sparatoria sarebbe avvenuta dopo le 5. E ancora: l'agente Paone ha dichiarato di aver sparato durante la folle corsa notturna, eppure la Focus di Budroni è stata ritrovata parcheggiata a un lato della strada, con la prima inserita e il freno a mano tirato. Quando è morto, dunque, Dino Budroni? Al sorgere del sole o in piena notte? Come ha fatto da ubriaco a schizzare a tutta velocità per le vie di Roma, resistendo ai tentativi di speronamento delle volanti che lo inseguivano? E, soprattutto, come ha fatto, già colpito da un colpo di pistola, a scalare le marce e parcheggiare? Mistero senza soluzione. Nella Focus, infine, è stata ritrovata anche una pistola scacciacani, che però non risulta appartenesse a Budroni e non venne repertata né inserita nell'elenco degli oggetti personali della vittima. Tra l'altro, nella conversazione intercorsa tra le volanti della polizia e la centrale operativa, nessuno parla di sparatoria. Ma allora Dino è stato freddato mentre era fermo in macchina oppure gli hanno sparato mentre cercava di fuggire dagli uomini in divisa? In aula tutti questi particolari sono diventati irrilevanti. Dino Budroni è morto sparato un sabato mattina di luglio sul Grande Raccordo Anulare, quando Roma è afosa e inospitale e ogni cosa ha i contorni sfumati dell'estate di città. Chi ha premuto il grilletto è stato assolto perché l'uso della pistola rientrava nei limiti del legittimo intervento. Dino Budroni è morto sparato perché "se l'era andata a cercare". Giustizia: "quando i violentatori sono soldati Usa niente carcere" di Alessio Schiesari Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2014 La rabbia dei legali delle vittime dopo che il militare, già accusato di stupro, è fuggito dalla base Nato e ha aggredito altre due donne. Orlando: "il processo si farà in Italia". "Questa volta il processo si farà in Italia". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando torna sull'ennesimo episodio di violenza di genere che vede coinvolto un militare americano della base Del Din (conosciuta come Dal Molin) a Vicenza. A differenza di quanto accaduto tante altre volte in passato, il guardasigilli promette che l'Italia stavolta non rinuncerà al processo. Resta il fatto che a compiere la violenza (un'aggressione che non è però sfociata in uno stupro) è, per la terza volta, lo stesso militare: Jerelle Lamarcus Gray di 22 anni. E che, nonostante le due violenze sessuali per le quali è indagato, Lamarcus non si trovasse in carcere, ma agli arresti domiciliari dentro la base, dalla quale è riuscito a fuggire. Il suo nome compare la prima volta sulle cronache locali nel novembre 2013 quando una minorenne lo accusa di averla stuprata all'uscita da una discoteca. Nel luglio scorso il secondo episodio: una prostituta di 27 anni accusa lui e un suo commilitone di violenza sessuale e del successivo pestaggio di cui è vittima. La donna era incinta di sei mesi: il figlio è nato con malformazioni neurologiche e all'apparato respiratorio (gli accertamenti medici in corso dovranno stabilire se c'è una correlazione tra le violenze e i problemi del bebè). Nella notte tra venerdì e sabato, il terzo episodio. Lamarcus Gray si trovava all'interno della Del Din: non in una cella di sicurezza, ma in un normale dormitorio. Questo perché, appena una settimana dopo il secondo stupro di cui Lamarcus è accusato, la Procura ha disposto gli arresti domiciliari, invece della custodia in carcere. La dinamica della fuga è da film: il militare ha eluso la sorveglianza della base di sicurezza formando un fantoccio di vestiti sotto le coperte ed è scappato dalla finestra. Dopo un'abbondante bevuta, ha raggiunto un residence dove "esercitano" molte prostitute. Ne ha avvicinata una e - stando alle ricostruzioni degli inquirenti - l'ha aggredita, senza però ottenere una prestazione sessuale. Anche questa donna, come la vittima della violenza di luglio, era incinta. Dopo la prima aggressione si è rivolto a un'altra donna. Di fronte al suo rifiuto, avrebbe colpito al volto anche lei. Si è scatenata una rissa che, grazie alle telecamere di sorveglianza, ha permesso alla polizia di intervenire rapidamente. L'uomo è stato arrestato per l'evasione e denunciato per le lesioni. "È incredibile che non fosse in una cella di sicurezza. A Vicenza quando un procedimento riguarda i militari Usa spesso si applicano premure poco comprensibili", commenta Alessandra Bocchi, legale della donna aggredita a luglio. Stessa lettura per Anna Zanini, che assiste la minorenne violentata un anno fa: "Se si fosse trattato di un immigrato di altra nazionalità, vista la gravità dei reati e la loro reiterazione, il trattamento sarebbe stato diverso". Ancora più diretta la candidata Pd alla Regione Veneto, Alessandra Moretti: "È sconcertante che di fronte a un reato così grave e reiterato non si siano decise misure cautelari che avrebbero scongiurato la fuga. E, stavolta, il processo si deve celebrare in Italia". Preoccupazione comprensibile: per una singolare interpretazione dei trattati Nato il 90% dei reati compiuti dai militari americani in Italia vengono giudicati oltreoceano. Orlando però promette: "Dopo i reati sessuali raccontati dalla stampa nei mesi scorsi, abbiamo deciso che tutte le violazioni di una certa gravità saranno giudicate in Italia". Una promessa già annunciata su Twitter dopo il secondo stupro. "Da allora però - racconta la legale che segue il caso - il ministero non ha mai confermato dove si terrà il processo". Giustizia: quell'antipatico di Fabrizio Corona si merita la Grazia di Valter Vecellio Il Garantista, 9 dicembre 2014 L'ex paparazzo spera nell'annullamento dei cinque anni "ostativi" dovuti alla condanna per il caso Trezeguet. Non sfuggo alla condanna, chiedo di essere rieducato", dice in sostanza Fabrizio Corona, l'ex paparazzo che sconta nel carcere di Opera una pesantissima condanna: quattordici anni e due mesi (poi ridotti a nove anni e otto mesi), colpevole di una serie di reati a cui è stato condannato. Corona, in buona sostanza, ha firmato una domanda di clemenza parziale, e si è rivolto, come legge prescrive, direttamente al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Cosa c'entra il presidente, si chiederà qualcuno. I fatti sono questi: al Quirinale si chiede un intervento per rimuovere dal cumulo delle condanne, i cinque anni "ostativi", legati all'estorsione aggravata ai danni del calciatore David Trezeguet; e si potrebbe obiettare: perché concedere questo trattamento di favore a Corona? Basta il fatto che lo stesso Trezeguet abbia negato di aver mai ricevuto minacce da Corona? Ora l'ex paparazzo può essere certamente un personaggio, agli occhi di tanti, sgradevole e sgradito. Non c'è dubbio che molti suoi comportamenti e affermazioni sono e sono stati non solo discutibili, ma anche censurabili; ma se tutte le persone sgradevoli e sgradite dovessero marcire in galera, chi più chi meno, tutti noi si correrebbe il rischio di finire in cella; e per quanto riguarda i comportamenti censurabili e discutibili, questo appartiene al gusto (buon gusto, o cattivo che sia) di ognuno di noi; e nessuno è obbligato ad andare a pranzo o a cena con Corona. Quello che allo Stato deve importare è se il comportamento in questione sia punibile sotto il profilo penale o meno, non se sia "censurabile" o "discutibile"; e se questo comportamento sia dal punto di vista penale punibile e sanzionabile (e come). Dunque, mettiamo da parte i comportamenti definiti "esibizionistici", e a volte "arroganti". Quello che ci deve interessare è se la richiesta di Corona si fondata dal punto di vista del diritto; e pragmaticamente se sia utile (più utile) che Corona stia 24 ore su 24 nel chiuso di un carcere; o se lo sia nel regime di semi-libertà, e possa seguire così un percorso rieducativo e terapeutico. Partiamo dalla condanna: qualcuno può seriamente sostenere che Corona sia pericoloso come un mafioso o un affiliato a qualche clan malavitoso? Non è sostenibile e non è credibile, evidentemente. E utile, per la società, ma anche per lui, che Corona continui a restare chiuso in una cella? Lo si può lecitamente dubitare. Corona, si dice, con il suo comportamento costituisce un "esempio negativo per i giovani", ed è stato sprezzante verso i giudici. Che si debba patire una lunga carcerazione perché si costituisce un "esempio negativo" (e chi decide se sia un esempio negativo o positivo?) è perlomeno discutibile. Si spalanchino comunque i portoni delle galere, che di esempi negativi ce ne sono a iosa. Quanto all'atteggiamento "sprezzante" se ne potrebbe discutere; e i magistrati per primi dovrebbero guardarsi allo specchio. Non è questo comunque l'oggetto della riflessione che ci dovrebbe vedere impegnati (e anche mobilitati per cercare di assicurare un minimo di conoscenza decente). Viviamo in un paese, è bene ricordarcelo e saperlo, dove solo Marco Pannella, Rita Bernardini e i radicali sollevano una questione "estrema": chiama Bernardo Provenzano. Si tratta di un capomafia, certamente responsabile di crimini orribili; ma oggi si trova in una condizione certificata di incapacità patente di intendere e volere. Sta solo attendendo di morire. Nessuno chiede di scarcerarlo, ma non c'è ragione di sottoporre quello che è poco più di un vegetale al regime del 41 bis: una condizione in cui continua pervicacemente a essere lasciato, e nonostante tre procure, quelle di Caltanissetta, Firenze e Palermo, abbiano acclarato che non può fare male a una mosca. Viviamo in un paese dove le carceri sono quelle che sono, con i detenuti trattati peggio di bestie; con lo stato delle nostre carceri e di detenzione condannato da tutte le corti di giustizia europee e perfino dall'Onu; condizioni che sono state oggetto del primo e unico messaggio al Parlamento da parte del presidente della Repubblica, messaggio che il Parlamento, con questa sì, arroganza, non si è neppure degnato di discutere; e poi le prese di posizione, anche queste clandestinizzate, di Papa Francesco su carcere ed ergastolo. Ecco, in questo Stato e paese può accadere che un colpevole di mezza tacca come Corona si veda respinta la domanda di potersi riabilitare; e sarebbe una nuova, ennesima vergogna. Dare una possibilità all'antipatico, arrogante, esibizionista Corona sarebbe per questo Stato, per questo paese un titolo di merito. Il presidente Napolitano saprà certamente prendere la decisione giusta. Calabria: Satyagraha di Natale dei Radicali per chiedere il Garante dei diritti dei detenuti www.radicali.it, 9 dicembre 2014 Nella melma partitocratica del malaffare che emerge dalle indagini su Mafia Capitale, ultime dopo quelle di Expò e del Mose, c'è un'altra politica. Una politica altra da questa miseria che ci propone la cronaca. Durante il mese di agosto siamo stati al carcere di Palmi per fare un sit-in a sostegno del Satyagraha di Rita Bernardini (che era in sciopero della fame dal 30 giugno) e Marco Pannella (in sciopero anche della sete) per chiedere allo stato, di garantire nelle carceri il diritto alla salute, fermare la mattanza dei suicidi che nelle carceri avveniva e ancora avviene anche per la mancanza di cure psichiatriche adeguate, e fermare la tortura del 41 bis inflitta anche a pazienti come Bernardo Provenzano, incapace di intendere e di volere, indipendentemente dalle condizioni di salute. Mentre la direzione nazionale antimafia dà il suo parere negativo affinché al mafioso Bernardo Provenzano sia tolto dal regime del 41bis, come ricordava Domenico Letizia, segretario dell'associazione Radicale di Caserta "Legalità e Trasparenza", dal 3 dicembre è nuovamente in corso (in realtà non è mai smesso) il Satyagraha, proposta nonviolenta mossa dall'amore e dalla forza della verità, della segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, di Marco Pannella e decine di altri radicali, tra cui anche chi scrive, con obiettivi ancora più precisi: Sanità in carcere: garantire le cure ai detenuti; Immediata revoca del 41bis a Bernardo Provenzano; Introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura; Abolizione dell'ergastolo a sostegno della campagna di Nessuno Tocchi Caino; No alle deportazioni in corso dei detenuti dell'alta sicurezza; Diritto alla conoscenza: 1) conoscibilità e costante aggiornamento dei dati riguardanti le carceri 2) conoscibilità dei dati riguardanti i procedimenti penali pendenti; Rendere effettivi i risarcimenti ai detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti; Abolire la detenzione arbitraria e illegale del 41-bis; Nomina immediata del Garante Nazionale dei Detenuti; Per gli Stati Generali delle Carceri, preannunciati dal ministro della Giustizia, prevedere la presenza anche dei detenuti. I Radicali, pochissimi che siamo, ci facciamo però forza dalla verità e cerchiamo di dare, come si dice, "anima e corpo" a una lotta per una giustizia giusta e per un carcere che non violi i diritti umani. Ci facciamo forza di ciò che ha scritto il Presidente Napolitano col suo messaggio alle Camere, e di ciò che ha detto Papa Francesco lo scorso 23 Ottobre all'Associazione Internazionale di diritto penale. E per questo non molliamo. Chi scrive, militante del partito della nonviolenza che c'ha insegnato a praticare Marco, sin da questa estate, aveva aderito alla mobilitazione e, anche in questa fase di "rilancio" dell'iniziativa, ne sostiene "simbolicamente", ma altrettanto convintamente le motivazioni facendo un giorno alla settimana di digiuno totale (il venerdì digiuno e autoriduco l'insulina perché diabetico); e continuerò a farlo, ad oltranza, fino a quando questa battaglia di civiltà non sarà stata portata, dai grandi media televisivi, alla conoscenza dei cittadini italiani come è giusto che avvenga in una democrazia. Ieri, a questa staffetta calabrese in sostegno del Satyagraha di Pannella, Bernardini e Radicali, si sono uniti i compagni calabresi Rocco Ruffa (il mercoledì) ed Ernesto Biondi (la domenica). Speriamo anche altri se ne aggiungano. Questa è una lotta giusta, cui pure Papa Francesco ha dato coraggio riconoscendo a Pannella il suo impegno verso gli ultimi, dopo quel messaggio, quasi un saggio di diritto, inviato alle Camere da Napolitano secondo Costituzione. Anche la regione Calabria vede la presenza di strutture penitenziarie rovinose, spesso fatiscenti, al collasso, con carenze di organico e dove, come hanno dimostrato le numerose visite ispettive fatte in questi anni con Rita Bernardini, le condizioni spesso rasentano la tortura e il disumano senso. Basti ricordare ciò che, questa estate, l'on. Enza Bruno Bossio ha scoperto al carcere di Rossano, per capire che - anche in questa regione culla della civiltà della Magna Grecia - sarebbe necessario e urgente istituire il Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà. "Una situazione incredibile, drammatica, che" - disse in quell'occasione la deputata del Pd Enza Bruno Bossio uscendo dal carcere di Rossano - "non pensavo esistesse in un carcere italiano". Invece come quelle ne esistono diverse, e spesso le condizioni inumane sono anche per chi nelle carceri ci lavora e cerca di rendere più giusta la pena. Penso al carcere nuovo di Arghillà a Reggio Calabria dove il 4 settembre abbiamo fatto una visita con Marco Pannella: nonostante la buona volontà della direttrice, e nonostante la ‘capienza regolamentarè non superata sulla carta, in realtà presentava problemi di sovraffollamento in quanto un intero piano non veniva utilizzato per mancanza di organico. Per questo, in attesa che sia nominato quello Nazionale, anche dalla Calabria, chiediamo l'aiuto di tutti i Giornali calabresi, affinché al neo Presidente della Regione Mario Oliverio arrivi un messaggio semplice e diretto: i Radicali, anche in Calabria, chiedono d'istituire subito il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà. Richiesta che, contemporaneamente, estendiamo a tutti i Sindaci dei comuni calabresi sede di istituti penitenziari: anche loro possono istituire il Garante come del resto ha già fatto Reggio Calabria. Caserta: Radicali; Garante dei detenuti e adesione al Satyagraha di Pannella e Bernardini www.radicali.it, 9 dicembre 2014 L'Associazione Radicale "Legalità e Trasparenza" di Caserta nel confermare l'adesione al Satyagraha in corso di Marco Pannella e Rita Bernardini per affermare la legalità nell'amministrazione della Giustizia e per fermare le cause strutturali che fanno delle nostre carceri luoghi di trattamenti inumani e degradanti ribadisce attraverso il quotidiano nazionale "Cronache de Il Garantista" la gravosa problematica della giustizia nella provincia casertana. Nella giornata del 6 Dicembre è stato pubblicato presso il quotidiano diretto da Piero Sansonetti un appello/comunicato firmato da Domenico Letizia, attuale segretario dell'Associazione Radicale "Legalità e Trasparenza" e iscritto alla Lega Italiana per i Diritti dell'Uomo, in cui si ribadisce l'adesione al Satyagraha radicale in corso e in cui si lancia anche la proposta di costituire il Garante Provinciale dei detenuti di Caserta. La redazione del quotidiano garantista ha ribadito di sottoscrivere pubblicamente l'appello. Attraverso il Garante provinciale dei detenuti si potrà promuovere l'esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi provinciali per le persone private della libertà personale nella provincia di Caserta. L'appello pubblicato per "Cronache de Il Garantista" è rivolto a tutte le personalità dell'associazionismo, del mondo accademico, della politica e dell'informazione casertana. Nell'aderire al Satyagraha radicale i componenti dell'associazione radicale casertana inizieranno uno sciopero della fame a staffetta. Mercoledì 10 Dicembre sarà in sciopero della fame per 24 ore Domenico Letizia e l'iscritta Carmela Esposito responsabile della Pastorale Carceraria della parrocchia di San Giorgio a Cremano, Giovedì 11 sarà in sciopero della fame Giuseppe Ferraro, iscritto all' Associazione Radicale "Certi Diritti", Venerdì 12 sarà in sciopero della fame Domenico De Lucia, iscritto all' associazione radicale di Caserta e Presidente dell'Associazione di volontariato "Saxa Cuntaria", Sabato 13 sarà in sciopero della fame il senatore del gruppo Gal Vincenzo D'Anna, Lunedì 15 sarà in sciopero della fame l'avvocato Alfonso Quarto Vicepresidente dell'Associazione dei Giovani Avvocati, Martedì 16 sarà in sciopero della fame il giornalista, iscritto ai Radicali Caserta, Fabrizio Ferrante, Mercoledì 16 sarà in sciopero della fame l'avvocato penalista Gennaro Iannotti, Venerdì 19 sarà in sciopero della fame Mario Roberto Borrello della Federazione dei Giovani Socialisti di Napoli, mentre Luca Bove, componente del Comitato Nazionale di Radicali Italiani è in sciopero della fame dal 4 Dicembre. Letizia invita tutte le forze politiche del casertano a farsi portatori di dibattito e di speranza, per la giustizia giusta e per i diritti umani ribadendo la urgenza dell'iscrizione al Partito Radicale Transazionale e Transpartito per evitare la "chiusura" della casa dei libertari nonviolenti per la tutela mondiale dei diritti umani. Varese: arrestati cinque agenti di Polizia penitenziaria, accusati di complicità in evasione di Simona Carnaghi La Provincia di Varese, 9 dicembre 2014 All'alba scatta l'operazione: gli agenti finiti in manette sono accusati di aver aiutato dei detenuti ad evadere dal carcere nel 2013. Terremoto al carcere dei Miogni: arrestati cinque agenti della Polizia penitenziaria alcuni dei quali in servizio anche a Bollate. L'operazione è scattata alle 5.30 di questa mattina. I cinque, colpiti da ordinanza di custodia cautelare, sono accusati di aver favoreggiato, in cambio di soldi e favori, la rocambolesca evasione di tre detenuti avvenuta il 21 febbraio 2013. I tre evasi, Mikea Victor Sorin, 29 anni, che stava scontando una condanna definitiva per sfruttamento della prostituzione e sarebbe tornato in libertà a giugno, Daniel Parpalia e Marius Georgie Bunoro, 28 e 23 anni, che erano ancora in attesa di giudizio per furto aggravato, condividevano la stessa cella e insieme avrebbero pianificato la fuga. Dopo aver segato le sbarre di un bagno adiacente la stanza hanno raggiunto il cortile, avevano impilato i cassonetti per salire sul muro di cinta e si sono calati all'esterno utilizzando le lenzuola. Tutti e tre erano stati fermati entro 72 ore dalla fuga. Da subito gli inquirenti avevano sospettato un coinvolgimento interno nel piano di fuga. Le indagini coordinate dal pubblico ministero Annalisa Palomba, hanno confermato i sospetti. Stando alle prime informazioni nel carcere sarebbero entrati una lima, usata per segare le sbarre, e un cellulare nascosto nella cavità vaginale di una delle compagne dei tre evasi. Questa mattina un coordinamento interforze ha visto carabinieri del nucleo operativo radiomobile di Luino e Varese, polizia penitenziaria, polizia di Stato e guardia di finanza far scattare manette e nove perquisizioni sempre a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria. Parte degli arresti è avvenuta all'interno del carcere: alcuni degli agenti erano infatti stati messi in servizio notturno per agevolarne la cattura. Parma: detenuto incendia la cella, cinque agenti ricoverati per intossicazione da fumo La Repubblica, 9 dicembre 2014 Un detenuto domenica sera ha dato fuoco al suo materasso, ma i poliziotti l'hanno messo in salvo. La denuncia del Sappe: inesistenti misure di sicurezza, chiederemo un incontro con la direzione. Cinque agenti della polizia penitenziaria del carcere di Parma domenica sera sono stati ricoverati al pronto soccorso a causa di una intossicazione da fumo. Lo comunica con una nota il sindacato Sappe. L'incidente è stato provocato da un detenuto italiano 50enne, che ha incendiato il proprio materasso (che avrebbe dovuto essere ignifugo): il rogo "ha sprigionato talmente tanto fumo da rendere il reparto inagibile e completamente buio per oltre un'ora", si legge nel comunicato, che continua: "Pronto è stato l'intervento dei poliziotti penitenziari, che a discapito della loro salute hanno tratto in salvo lo stesso detenuto e altri due ospiti del reparto". "Questa - denuncia il Sappe - è la palese dimostrazione delle inesistenti misure di sicurezza per il regolare svolgimento dei compiti istituzionali della polizia penitenziaria. Non sono presenti coperte ignifughe per eventuali incendi, non sono presenti maschere antigas per intervenire in queste situazioni, non sono presenti nemmeno le minime condizioni di sicurezza a tutela della nostra salute. Chiederemo oltre alla lode ai colleghi interessati, un incontro con la direzione per analizzare le pietose condizioni di lavoro del personale penitenziario". Pescara: mostra fotografica "Il mondo a quadretti", realizzata dai detenuti di San Donato www.newsabruzzo.it, 9 dicembre 2014 Inaugurata l'altro ieri "Il mondo a quadretti", la mostra degli scatti realizzati dai detenuti del carcere di Pescara nell'ambito del corso di fotografia tenutosi all'interno della Casa circondariale. "Questa mostra ci offre l'occasione particolarmente felice di presentare il garante dei detenuti che opera anche per conto del Comune di Pescara nella Casa Circondariale di San Donato - così il Presidente del Consiglio Comunale Antonio Blasioli. Una figura che nasce dal difensore civico svedese nel 1800 e che doveva vigilare sulle misure restrittive del carcere, nel carcere. Ora 23 nazione europee hanno il garante solo l'Italia non ne ha uno nazionale, ma le Regioni, le Province e Comuni se ne sono dotate, perché questo veicolo con il mondo esterno offra a tutti occasioni di conoscenza e incontro, riscontrando il valore educativo e riabilitativo della detenzione". L'esposizione sarà visitabile fino al 10 dicembre presso la Sala D'Annunzio dell'Aurum, in largo Gardone Riviera. "La vigilanza è sotto un altro profilo e taglio - spiega il garante Fabio Nieddu - la rieducazione c'entra con la dignità personale del detenuto che non può essere entità della pena. Il sovraffollamento con gli ultimi provvedimenti nazionali si è attenuato, ma ci sono tanti strumenti per creare delle occasioni per conoscere e agire. Nasce così questa esperienza che ha trovato nella fotografia un linguaggio, un mezzo per raccontare. Se la fotografia non può uscire dal carcere, ci entra: ed è successo fisicamente con la persona per diverse settimane ha tenuto il corso insieme a dei tutor esterni che racconteranno il carcere attraverso i loro occhi nell'evento del 7 dicembre "Il mostro ha paura", un video racconto dell'esperienza". Il corso è stato promosso dal Garante per i Diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Pescara, Fabio Nieddu, unitamente al fotografo di Pescara Stefano lista e con la collaborazione del gruppo carcere della Croce Rossa Italiana. "Abbiamo frequentato i carcerati - dice Stefano Lista, fotografo - vissuto la loro visuale e offerto loro un'altra e alla fine abbiamo celebrato il corso con una mostra. Due le sezioni, il mondo a quadretti, fotografato da dentro e da loro, nella seconda il racconto del carcere. Il ricordo più bello, l'uscita con i detenuti per fare una foto al tramonto, ma senza sbarre, siamo andati alla Torre di Cerrano, fra i detenuti, c'erano alcuni che non uscivano da quasi dieci anni". Monza: rap dietro le sbarre, le rime come sfogo della rabbia dei detenuti di Mario Catania Il fatto Quotidiano, 9 dicembre 2014 "Il rap può aiutare un ragazzo detenuto proiettandolo sul foglio e dandogli un mezzo e un metodo con cui sfogarsi". Kiave, rapper di origine cosentine, protagonista di un workshop sulla cultura hip hop coi ragazzi della casa circondariale San Quirico di Monza, spiega così il progetto "Potere alle parole lab", nato in collaborazione coi ragazzi dell'associazione "Il razzismo è una brutta storia". Dagli incontri, nei quali partendo dalla storia del genere si è arrivati fino a vere e proprie lezioni di scrittura in rima, è nato un album con 8 tracce in italiano, francese e spagnolo. Sono 5 i ragazzi che hanno preso parte al progetto dedicandosi con tutte le proprie energie alla scrittura. Come raccontato a ilfattoquotidiano.it l'idea di Kiave è quella di "Cercare di proporre una seconda edizione al carcere di Monza e proporlo anche in altri carceri, magari minorili, dove i ragazzi più giovani posso sicuramente dare il loro contributo. Inoltre stiamo cercando di coronare un sogno e cioè quello di avere i permessi per poter far esibire i ragazzi in un concerto live. Noi ci crediamo molto e speriamo che tutto vada nel verso giusto". Napoli: "Voci di stanze", a Secondigliano detenuti in scena con la regia di Enzo Liguori Ansa, 9 dicembre 2014 Il teatro entra nel carcere di massima sicurezza di Secondigliano, a Napoli, protagonisti i detenuti divenuti attori, ed anche autori, al termine di un percorso sostenuto dalla Regione Campania: il 10 dicembre all'interno dell'Istituto Penitenziario andrà in scena "Voci di stanze", regia di Enzo Liguori. Gli allievi del corso (realizzato da Scep in collaborazione con il Teatro Totò) hanno seguito lezioni di Liguori e dell'attore Luca Bruno, apprendendo recitazione, dizione, storia del teatro, canto (con il maestro Daniele Palladino) e infine scrittura teatrale con Tommaso Scarpato. Dal lavoro di squadra è nato così il testo, la storia di un gruppo di detenuti che decide di organizzare uno spettacolo per rendere omaggio alla città di Napoli e ai suoi artisti, attraverso canzoni, monologhi e sketch. Gli aspiranti attori spinti dalla voglia di mettersi in gioco, decideranno di fare richiesta al direttore del penitenziario di poter utilizzare il teatro che al termine della performance, nonostante il successo, dovrebbe essere dismesso e fare posto ad altre celle. Alla fine il direttore sceglierà di salvare il teatro, convinto che c'è bisogno molto più di cultura e istruzione che di altre "stanze". Napoli: il Papa il 21 marzo a Scampia e poi a pranzo con i detenuti di Poggioreale La Repubblica, 9 dicembre 2014 Papa Francesco in visita a Napoli, il prossimo 21 marzo, dovrebbe varcare i cancelli del carcere di Poggioreale. Dopo l'arrivo in elicottero a Scampia alle 9.30 in piazza Giovanni Paolo II, dove incontrerà alcuni rappresentanti istituzionali e del mondo del lavoro e l'incontro in Duomo con i sacerdoti della diocesi e i vescovi della regione, il Pontefice dovrebbe spostarsi a Poggioreale e pranzare all'interno del carcere insieme ai detenuti. Nel pomeriggio poi è previsto l'incontro a piazza del Plebiscito con i giovani e infine, alle 17, dovrebbe celebrare la messa alla rotonda Diaz, come già anticipato dal cardinale arcivescovo Crescenzio Sepe al momento dell'annuncio. Gli appuntamenti, anticipati nei giorni scorsi dai media locali, sono oggi sul sito "Il Sismografo", informato in tempo reale sull'attività del Papa e della Santa Sede. Il 30 dicembre dell'anno scorso, commentando nell'omelia pronunciata proprio a Poggioreale la volontà di Bergoglio di compiere una visita pastorale a Napoli, lo stesso Sepe disse: "Francesco a Napoli vorrà incontrare i detenuti o gli ammalati". "Sicuramente - erano state le sue parole - oltre le istituzioni vorrà un contatto con realtà concrete che potrebbero certamente essere un carcere e un ospedale". "Conoscendo Papa Francesco - erano state le sue parole - credo che certamente la visita a un carcere o un ospedale non la mancherà. Se dovesse venire qui naturalmente questi detenuti gli parleranno, perchè oltre le istituzioni ci vuole un contatto diretto e credo che la stessa cosa potrebbe esserci anche per un ospedale. Dipende poi da quante ore lui riesce a fermarsi, visto che avrà certamente anche un incontro con i sacerdoti". Stati Uniti: torture della Cia, il rapporto che fa paura di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 9 dicembre 2014 Oggi il dossier sugli interrogatori dei terroristi di Al Qaeda. Bush si schiera con gli 007. Allerta del Pentagono per possibili attentati. Mobilitati 6 mila marines, anche a Sigonella. Sedi diplomatiche e unità militari americane messe in stato di massima allerta in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più esposti al terrorismo (6.000 i marines mobilitati, anche Sigonella in allarme), alla vigilia della pubblicazione del rapporto del Senato sull'uso di metodi non convenzionali (cioè forme di tortura) in alcuni interrogatori della Cia dopo le stragi dell'11 settembre 2001. Una volta insediatosi alla Casa Bianca, Barack Obama chiese all'intelligence di non usare più il water-boarding (annegamento simulato) e altre tecniche proibite per estorcere confessioni nell'interrogatorio di sospetti terroristi. Ma non denunciò l'operato del suo predecessore né aprì inchieste. Un'indagine è stata però condotta dalla Commissione di controllo dei servizi segreti del Senato che ha redatto già da mesi un rapporto segreto assai voluminoso: ben 6.300 pagine. Una sintesi di 480 pagine dovrebbe essere resa nota oggi, ma ieri sono state esercitate forti pressione sul presidente del comitato, la senatrice democratica Diane Feinstein, per un ulteriore rinvio della pubblicazione. Un atto che, secondo i repubblicani e anche molti esperti militari, verrà usato da gruppi estremisti per incitare alla violenza contro bersagli americani nel mondo. Il rapporto - sottoscritto solo dalla maggioranza democratica uscente del Senato dove tra 20 giorni si insedierà la nuova assemblea a maggioranza repubblicana - contiene una critica serrata delle tecniche di interrogatori "non convenzionali" usate prima del 2009. Secondo numerose indiscrezioni che hanno cominciato a circolare fin dal marzo scorso, nei suoi interrogatori la Cia avrebbe usato sistemi che sconfinano nella tortura più spesso di quanto fin qui ammesso e senza ottenere risultati significativi dal punto di vista dell'acquisizione di informazioni davvero essenziali per l'attività di intelligence. E avrebbe anche "depistato" il potere politico minimizzando il peso di questi interventi nelle informative fornite al governo e al Parlamento. Il risultato è mettere con le spalle al muro un'Agenzia federale di spionaggio che si è sempre difesa sostenendo di aver informato l'autorità politica e di aver usato tecniche "non convenzionali" solo quando indispensabili per ottenere informazioni che, secondo la Cia, hanno consentito di salvare migliaia di vite umane. Il documento nega che le cose siano andate in questo modo. Ma per i repubblicani, che al Senato si preparerebbero a divulgare un contro-rapporto di minoranza, renderlo noto nel clima attuale è versare benzina sul fuoco. Mike Rogers, presidente della Commissione Intelligence della Camera, ha detto che la sua pubblicazione "porterà violenze e morte". La situazione è tesa e confusa anche perché il tentativo di mettere la presidenza Bush al riparo dalle conseguenze del rapporto, dando tutte le responsabilità alla Cia, è fallito per iniziativa dello stesso ex presidente: messo a conoscenza dei contenuti del documento, George Bush ha detto di condividere tutto quello che è stato fatto dagli uomini del servizio segreto (definiti campioni di patriottismo) per difendere l'America. Obama sembra aver dato comunque via libera alla pubblicazione del rapporto, anche se dal governo potrebbero essere venute indicazioni contrastanti: ieri il suo portavoce Josh Earnest ha detto che da mesi militari e ambasciate si preparano all'evenienza di attacchi dopo la pubblicazione del documento che, evidentemente, viene considerato un atto di trasparenza non più rinviabile. Ma solo venerdì scorso il Segretario di Stato John Kerry avrebbe avvertito la Feinstein che con la sua decisione esporrà a rappresaglie molti americani in giro per il mondo. Ora la senatrice è sola con la sua coscienza. Stati Uniti: Guantánamo orrore senza fine, ospita 142 detenuti in condizioni disumane di Elisabetta Gardini (Presidente del Gruppo Forza Italia al Parlamento Europeo) Il Tempo, 9 dicembre 2014 Questa è la cronaca di un viaggio all'inferno che ho appena concluso con una delegazione del Parlamento Europeo per ispezionare il carcere di Guantánamo, a Cuba, prigione simbolo nella lotta al terrorismo. È quasi l'alba: una violenta pioggia mi cade addosso e io, assieme a quattro colleghi, mi avvio verso la Base di Andrews dell'Aeronautica militare degli Usa. Il "dress code" fornitoci è chiaro: scarpe basse, abiti accollati e braccia coperte. Le donne a cipolla: sotto piumini, sciarpe e berretti sbucano abiti di lino e cotone. Partiamo nell'inverno di Washington ma atterreremo nel clima cubano della baia di Guantánamo: 30 gradi, nonostante anche lì sia inverno. Stiamo per varcare le porte della base navale di Guantánamo, una struttura detentiva di massima sicurezza attiva dall'11 gennaio 2002, quando i primi venti detenuti vi arrivarono con l'accusa di terrorismo. È situata sulla cocente isola di Cuba, alla quale l'America dovrebbe pagare 4 mila dollari l'anno per il territorio occupato; Fidel Castro, però, ha incassato solo il primo "affitto", perché ricevere quel denaro significherebbe sposare l'ideologia Usa e con essa le condizioni disastrose dei detenuti. Fin dalla sua fondazione, Guantánamo è il simbolo della politica estera di George W. Bush e del poco rispetto dei diritti dei prigionieri. Di Guantánamo si parla a intermittenza da allora: su spinta di molte organizzazioni umanitarie, Obama fece della sua chiusura uno dei punti cardine della campagna elettorale del 2008. Tra i primi atti da Presidente ci fu un ordine esecutivo di chiusura del carcere, ma la proposta venne bocciata dal Congresso: Guantánamo restò aperta. E lo è tutt'oggi. Ad attenderci c'è un aereo, con la scritta "United States of America", sul quale ci imbarchiamo consapevoli che, giunti a destinazione, la copertura dei nostri cellulari svanirà. Sull'aereo, una piantina della base navale domina la scena: ci sediamo intorno a essa per ricevere le informazioni necessarie: 3 ore e 15 minuti di volo, alle quali seguirà un tragitto su imbarcazioni generalmente utilizzate con finalità di controllo. Giunti a destinazione, apprendiamo che ci è consentito visitare sia il Campo 5, aperto nel maggio 2004, sia il 6, sorto nel dicembre 2006. A oggi, ci sono 142 carcerati e ognuno di loro costa al governo Usa 3 milioni di euro l'anno. Molti di loro potrebbero essere rilasciati da anni. Nel Campo 5, i detenuti sopravvivono in situazioni difficilissime, smistati in celle singole, con improponibili condizioni igienico-sanitarie: le loro ore d'aria sono proporzionate alla condotta. Nel Campo 6, le condizioni migliorano solo per l'introduzione di un'area cosiddetta "comune", ma la differenza è minima. Tutto è peggiorato negli anni, soprattutto a causa dei frequenti scioperi della fame, dell'alimentazione forzata e dei soprusi, tra i quali la decisione delle autorità di dare, ai detenuti in sciopero, solo acqua non potabile per farli desistere. A Guantanámo ci sarebbe anche un altro Campo, il 7: il Campo fantasma in cui probabilmente sono rinchiusi, sembra addirittura dentro delle gabbie, i responsabili dell'attentato alle Torri gemelle e di quello di Boston del 2013; il Campo 7 è assente anche dalla piantina, l'area è considerata top secret. Quando ne chiediamo notizie, i funzionari non rispondono o si limitano a commenti vaghi. In un'epoca così distratta e distorta, è inevitabile abbandonarmi a constatazioni sulle torture subìte dai detenuti, colpevoli o innocenti, costretti a vivere in celle così piccole, vuote, in cui diventa impossibile mantenere un equilibrio mentale solido. Può un essere umano restare lì dentro? Giorno dopo giorno? Anno dopo anno anche se invece potrebbe essere da tempo rilasciato? Ma sono esseri umani quelli che stanno lì dentro? Possiamo avere pietà? Quella pietas che ci induce a rispettare il nostro prossimo se non proprio ad amarlo? Penso a Oriana Fallaci. Mi manca. Siamo codardi? Deboli? Meglio subire e non rinunciare ai nostri punti fermi? O reagire e stravolgere? Finita la visita ci ritroviamo in un salone coi responsabili militari risoluti a soddisfare tutte le nostre curiosità, o quasi, per poi visitare la sala che ospita la corte per processi e udienze. Una tenda si innalza a muro divisorio tra la sala delle udienze e lo spazio riservato ai familiari delle vittime e in me si susseguono interrogativi senza risposta: è giusto rinchiudere i carcerati in questo luogo abbandonato da Dio? Non si tratta, forse, di boia? Non sono gli stessi uomini che lapidano incolpevoli donne? Che pietà possiamo avere noi, allora? E se alcuni fossero innocenti? Con l'animo stordito, siamo pronti a ripartire. E l'Europa: come risponde alle sfide del terrorismo? Incontrerò nei prossimi giorni le Ong e Mr Clifford Sloan, che nel Dipartimento di Stato si occupa di Guantanámo, per discutere della posizione di 73 detenuti che in teoria potrebbero essere scarcerati da anni ma che in realtà nessun Paese vuole accogliere. E, soprattutto, per capire quanto occorra attendere ancora per la fine all'orrore. Ma purtroppo, la data di chiusura non la conosce neppure Obama. P.S. Un piccolo miracolo è avvenuto: sei detenuti, poche ore dopo la nostra partenza, sono stati rilasciati e si trovano ora in Uruguay. Per chi come noi guarda con orrore al terrorismo ma è da sempre garantista è un piccolo passo avanti. Stati Uniti: liberati sei detenuti di Guantánamo, sono accolti come rifugiati in Uruguay di Geraldina Colotti Il Manifesto, 9 dicembre 2014 Quattro siriani, un tunisino e un palestinese. Sei prigionieri di Guantánamo sono in Uruguay da domenica scorsa come rifugiati. Hanno vissuto nel campo di concentramento statunitense da dodici anni, dal 2002. Una prigione di "Massima sicurezza" - a solo un anno dall'attentato alle Torri gemelle per il quale scattò la guerra di vendetta all'Afghanistan - aperta l'11 gennaio di quell'anno dall'amministrazione Bush all'interno della base navale che si trova sull'isola di Cuba, finalizzata a rinchiudere i "combattenti nemici" catturati in Afghanistan e sospettati di attività eversive. I sei sono stati arrestati come appartenenti alla galassia di al-Qaeda, ma non hanno subìto condanne: "Liberabili perché non ad alto rischio", questo ora il responso sui sei prigionieri secondo le agenzie di intelligence Usa. Per i primi tempi, il governo uruguayano darà loro sostegno economico e li aiuterà a trovare una casa e un lavoro. Ora sono ricoverati in ospedale a causa delle cattive condizioni di salute, dovute ai maltrattamenti e anche al lungo sciopero della fame intrapreso nel campo di prigionia. Ora, l'Uruguay è il primo paese sudamericano, e il secondo in tutta l'America latina, ad aver accolto prigionieri di Guantánamo, dopo la promessa di Obama di chiudere la prigione di Massima sicurezza (ma non la base militare), una promessa mai realizzata. Nel 2012, il Salvador ha ospitato per quasi due anni due musulmani cinesi di etnia uigura, provenienti da Guantánamo. In Uruguay vi sono attualmente tra i 250 e i 300 rifugiati, in maggioranza provenienti dalla Colombia. Secondo un'inchiesta dell'istituto Cifra, il 58% dei cittadini si dichiara contrario a ospitare i detenuti di Guantánamo, mentre il 40% ritiene che la decisione spetti al Parlamento e non al presidente. "Non siamo una succursale di Guantánamo", ha dichiarato Alberto Heber, senatore del Partido Nacional. L'ex tupamaro presidente Pepe Mujica, che a breve passerà il testimone al vincitore delle ultime presidenziali, Tabaré Vazquez, ha annunciato la decisione "umanitaria" nel marzo scorso. E venerdì ha indirizzato una lettera a Barack Obama e al popolo uruguayano. Ha ricordato che il paese è diventato quel che è oggi anche per aver dato asilo "agli anarchici perseguitati ed espulsi da altri paesi che li consideravano terribili terroristi" e ha ribadito la vocazione umanitaria del suo paese, sancita dalla Costituzione: "Abbiamo offerto ospitalità ad alcuni esseri umani che subivano un atroce sequestro a Guantánamo", ha affermato, precisando nuovamente che, avendo conosciuto cosa significa stare dietro le sbarre per 14 anni, non avrebbe imposto la galera ai rifugiati: "Per me - ha detto - se vogliono, possono andarsene anche da domani". Col linguaggio diretto che lo caratterizza, Mujica ha poi precisato: "Abbiamo aiutato Obama a chiudere la vergogna di Guantánamo non perché l'imperialismo yankee sia diventato improvvisamente nostro amico, né in cambio di denaro o vantaggi. Tuttavia - ha aggiunto - non lo abbiamo fatto per niente. In contropartita, chiediamo la fine dell'ingiusto e ingiustificabile blocco contro la nostra repubblica sorella di Cuba, la liberazione dei tre patrioti cubani prigionieri negli Usa da 16 anni e quella di Oscar Lopez Rivera, il settantenne combattente indipendentista portoricano, prigioniero negli Stati uniti da oltre un trentennio". Anche uno dei rifugiati, il trentanovenne siriano Abdelhadi Omar Faraj, fino a ieri il prigioniero 329 di Guantánamo, ha indirizzato una lettera di ringraziamento a Mujica e "al popolo uruguayano" anche a nome degli altri ex detenuti: per spiegare la sua storia e le traversie che lo hanno condotto nel campo di concentramento, l'ultima delle quali quella di essere venduto dai soldati pachistani agli Stati uniti, dietro ricompensa. Tra i prigionieri, c'è anche Mustafa Diyab, che ha denunciato le autorità Usa per aver alimentato a forza i prigionieri di Guantánamo durante il loro lungo sciopero della fame.