L'amore entra dentro l'Assassino dei Sogni. Terza parte di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2014 Testimonianza di un Uomo Ombra al seminario di Ristretti Orizzonti sugli affetti in carcere del primo dicembre 2014. "È un periodo che sto sveglio di notte e dormo di giorno perché in carcere quando si è tristi si ama più la notte che il giorno". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). I lavori del seminario iniziano. Apre i lavori il Direttore del carcere Salvatore Pirruccio. Uomo illuminato e intelligente che mi ha fatto sotterrare l'ascia di guerra contro l'amministrazione penitenziaria senza che me ne accorgessi. E che mi ha fatto cambiare idea su tante cose. All'inizio, quando ero arrivato in questo istituto, ce l'avevo messa tutta a bisticciare con lui. E c'ero riuscito bene. L'indomani del mio arrivo avevo subito preso un rapporto disciplinare e quindici giorni di isolamento. In seguito ho preso altri due rapporti disciplinari e altri giorni di punizione. Le punizioni in carcere, e ne ho prese tante, mi hanno reso sempre più cattivo. E mi hanno sempre dimostrato di essere migliore dei miei guardiani. Poi questo direttore mi ha dimostrato che anche fra le istituzioni ci sono persone sensibili e umane. E adesso, non è mai accaduto nella mia lunga carcerazione, sono due anni che non prendo un rapporto disciplinare e che non vengo punito. Forse anche perché mi sono un po' rincoglionito. Addirittura sono stato declassificato dal circuito di alta sicurezza e sono stato allocato in media sicurezza in una sezione di studenti detenuti universitari. Il direttore inizia il suo intervento: "L'argomento dell'affettività, comunque dei rapporti dei detenuti con i familiari è importante … Bisogna tenere conto che la sofferenza del detenuto in carcere è assolutamente aggravato sapendo che i familiari hanno dei grossi problemi fuori … Ci si mette anche l'amministrazione che magari lo trasferisce da Reggio Calabria a Torino e allora i parenti non possono raggiungerlo … Qui a Padova per quanto riguarda il numero di telefonate previste dalla legge ne vengano aggiunte due al mese che il detenuto può scegliere di effettuare quando meglio crede (…)". Poi interviene Ornella Favero, direttore responsabile di Ristretti Orizzonti e introduce gli argomenti e i relatori. Ornella è la persona che ha lottato e ha avuto il coraggio, per la prima volta, di fare uscire dalla sezione ghetto dell'Alta Sicurezza, un uomo ombra, cattivo, maledetto e colpevole per sempre tirandolo fuori dalla solitudine della sua tomba per portarlo nella Redazione di "Ristretti Orizzonti". Ed in questo modo mi si è aperto un mondo che non conoscevo più e di cui pensavo di non fare più parte. All'inizio non è stato facile parlare e confrontarmi con le persone che non fanno parte del mondo dei morti viventi. E tante volte avevo la tentazione di scappare per ritornare di nuovo nella mia tomba, ma Ornella mi ha sempre sostenuto e fatto coraggio. E pian pianino sono ritornato di nuovo a vivere. Ornella è anche l'ideatrice del progetto, che io chiamo di "affettività sociale", di portare dei ragazzi delle scuole in carcere ad ascoltare le storie dei cattivi. E questo fa molto bene sia a loro che a noi. Vengono intere classi di scuola superiore (a volte più di una classe) e ascoltano tre storie di detenuti con dentro la situazione familiare, sociale e ambientale di dove è nato e maturato il reato. Poi tutto il gruppo dei detenuti della Redazione di "Ristretti Orizzonti", risponde alle domande degli studenti. Non è per nulla facile per i detenuti raccontare il peggio della loro vita, ma penso anche che sia un modo terapeutico per prendere le distanze dal proprio passato e riconciliarsi con se stessi. Penso che parlare a dei ragazzi, aiuti a formarsi una coscienza di sé e del significato del male fatto agli altri. E guardare gli sguardi e gli occhi innocenti dei ragazzi aiuta molto ciascuno di noi a capire quali sono state le ragioni dell'odio, della rabbia, della violenza dei nostri reati più di tanti inutili anni di carcere senza fare nulla. Penso che non sia neppure facile per i ragazzi ascoltare le nostre brutte storie dal vivo invece che sentirle alla televisione o leggerle sommariamente nei giornali. Credo che in questo modo percepiscono meglio che molte volte dietro certi reati non ci sono dei mostri, ma ci sono solo delle persone umane che hanno sbagliato. Poi dalle nostre risposte alle loro domande scoprono anche che il carcere rappresenta spesso un inutile strumento d'ingiustizia. Un luogo di esclusione e di annullamento della persona dove nella maggioranza dei casi si vive una vita non degna di essere vissuta. Ornella inizia a parlare. E con la coda dell'occhio vedo che mia figlia l'ascolta attentamente. "Ho chiesto di dire al Direttore le piccole cose in più che ci sono a Padova che negli altri carceri non sono possibili. Delle cose minime per le quali non serve cambiare la legge che però possono cambiare la qualità della vita delle persone. Le due telefonate in più possono essere una boccata di ossigeno. Io credo che l'ordinamento penitenziario sul tema degli affetti è arretrato ed è una miseria quello che consente al detenuto e alla sua famiglia. L'altro giorno leggevo sulla nostra Rassegna Stampa che l'Algeria sta introducendo i colloqui intimi. E l'Algeria è l'ultimo dei paesi arabi perché tutti gli altri ce l'hanno da anni o da decenni come l'Arabia Saudita. E noi che ci vantiamo della nostra democrazia su queste questione ci possiamo nascondere (…)". Nel frattempo che ascolto Ornella penso che inevitabilmente durante la detenzione gli affetti col tempo si perdono, anche perché abbiamo poche ore di colloqui. E inevitabilmente si sfasciano le famiglie. Non sarebbe più semplice per tutti modificare queste restrizioni incivili e controproducenti ed allinearci col resto del mondo? Il carcere è il luogo dove hai più bisogno d'amore, ma sembra che i nostri governanti siano gelosi dell'amore. In carcere si vede così poco amore che quando uno ne ha un poco te lo vogliono persino portare via. Quei pochi detenuti che sono amati spesso vengono trasferiti in carceri lontani e nei colloqui ti mettono i vetri per impedirti di dare e ricevere baci e carezze ai e dai propri figli. Molti detenuti preferirebbero più amore che la libertà ed io sono uno di quelli. Quello che rimpiango non è la libertà che mi manca da ventitré anni, ma le carezze e i baci che il Ministero di giustizia mi ha rubato e negato tenendomi detenuto sempre in carceri lontane da casa e nell'isola del diavolo dell'Asinara sottoposto al regime di tortura del 41 bis. Proibire o rendere difficili i rapporti affettivi in carcere è un crimine contro l'amore e contro l'umanità. Da qualche parte ho letto che un profeta proclamava il primato dell'amore sulla legge, spero che i nostri governanti la smettano di rubare amore ai detenuti. Continua... Se in carcere entra più amore, escono persone meno pericolose Il Mattino di Padova, 8 dicembre 2014 Che tante persone detenute abbiano fatto dei percorsi di vita, delle scelte a volte terribilmente sbagliate non deve però in alcun modo pesare sulle famiglie. È da qui che è partito il seminario dedicato agli affetti, "Per qualche metro e un po' di amore in più", che si è svolto lunedì scorso nella Casa di reclusione di Padova. E che ha coinvolto tanti detenuti, e per la prima volta tanti famigliari. Figlie che hanno detto "Mio padre per me è la persona più importante, e io voglio poterlo vedere e sentire al telefono di più". Ed è giusto che dicano così, perché, pur con tutte le difficoltà e gli errori, tanti detenuti tentano di costruire un rapporto importante con i loro figli. Figli che però in questo Paese purtroppo è quasi inevitabile che si vergognino di raccontare di avere un genitore in carcere, perché il peso del giudizio delle persone fuori è veramente insopportabile a volte. Dovrebbero tutti smetterla di giudicare e cercare di capire che comunque, al di là delle responsabilità delle persone che sono qui in carcere, i loro figli, le loro famiglie di responsabilità invece non ne hanno, e hanno diritto a più spazio e più tempo per curare i loro affetti, perché "per un abbraccio in più non è mai morto nessuno". Come spiegano le testimonianze di due figlie, Suela e Stephanie. La mia paura era di diventare un'ombra anch'io Io entro nelle carceri da quando avevo sei anni perché vado a fare i colloqui a mio papà. Ecco ne ho girati tanti, perché quando hai un genitore che è in carcere è come se lo fossi un po' anche tu, sei costretto comunque ad entrare dentro, a girare tutti gli istituti che gira lui. Oltre ad essere difficile per una bambina entrare all'interno di un carcere, essere perquisita, ti capitano anche tante piccole cose sgradevoli, ricordo una volta che addirittura mi hanno fatto sputare la gomma da masticare, mi hanno fatto togliere la cintura e dovevo tirare i pantaloni perché non stavano su, è stato abbastanza umiliante e brutto, davvero pesante. Quello è il minimo comunque, perché crescere senza un genitore non è facile, non è facile perché io avevo bisogno di mio papà a casa, ero piccola, ma questo non vuol dire che non ne abbia bisogno ancora adesso di lui. Oltre ad avere bisogno della sua presenza, però anche quando potevo vederlo e andavo ai colloqui non era molto facile, perché prima, ma ancora adesso in alcune carceri, c'era un muro, c'era anche un vetro e io avevo sei anni, incontravo mio papà ed eravamo praticamente divisi da questo muro, dovevo scavalcare per incontrarlo, per salutarlo e non si poteva, infatti le guardie, gli agenti ogni volta ci riprendevano, ed era un po' brutto, un po' pesante. Adesso io lo racconto così però viverlo non è bello. Altre sofferenze le vivevo anche fuori nella mia vita normale. Ecco io ho sempre tenuto nascosto che mio padre fosse un detenuto perché la mia paura era di diventare un'ombra anch'io. Temevo che gli amici e le amiche non mi accettassero, perché quando una persona non ti conosce e tu ti presenti come la figlia di un detenuto, viene d'istinto di giudicare anche te, e invece non è così perché io conduco una vita normale, studio, non faccio niente di illegale. E nonostante ciò l'ho sempre nascosto a tutti, finché mi hanno aiutato a capire che io non ho fatto niente, non ha senso che mi vergogni ed è ovvio che le persone che stanno vicino a me, che mi vogliono bene e a cui io voglio bene devono sapere. Ecco perché ringrazio chi mi ha spinto a parlarne tranquillamente senza mettere la testa sotto la sabbia. Grazie. Suela, figlia di Dritan Non bastano le poche ore che abbiamo di colloquio, in cui siamo limitati e controllati Io sono qui per raccontarvi la mia esperienza come figlia di un detenuto. Penso che a differenza di chi vive al di fuori di questa realtà, noi non giudichiamo le persone da quello che fanno o dai propri errori, ma da come si pongono con gli altri. La mia storia inizia tre anni e mezzo fa quando mio padre venne arrestato e mia mamma venne coinvolta in questa vicenda, io ero a mala pena maggiorenne e quindi mi ritrovai da un giorno all'altro senza la terra sotto i piedi, qui in Italia da sola senza la mia famiglia, senza i nonni, senza fratelli perché sono figlia unica. Posso dire che mi venne negato il diritto agli affetti, perché? Perché io per tre mesi non ebbi nessun contatto con i miei genitori, non mi vennero concesse le lettere, non ebbi permessi per fare colloqui e la mia più grande ansia non ero io che stavo male, perché io stavo bene, non mi mancava niente, era la preoccupazione dei miei genitori perché io comunque sono sempre stata una cocca di mamma, nel senso che non mi veniva bene neanche un uovo fritto se me lo facevo da sola. Di colpo ha dovuto mettermi nei panni dei miei genitori, che si chiedevano come stavo sopravvivendo, cosa mangiavo, cosa facevo. La prima settimana sono andata avanti a pizza, poi comunque ti rendi conto che da sola non ce la fai, io mi sono dovuta tirare su le maniche non per me ma per loro, per dimostrare a loro che stavo bene e non dovevano preoccuparsi. Sentivo una sorta di rabbia quando la gente mi chiedeva: ma tu vai a vederli? Tu gli stai accanto? E io rispondevo: ma che domande fate? come fai a lasciare tuo padre, i tuoi genitori da soli, sono comunque le persone che ti hanno portato al mondo, sono comunque le persone che ti hanno fatto diventare ciò che sei. Quello che è certo è che il diritto agli affetti a me è stato negato, posso capire che era un discorso di indagini aperte e tutto il resto, ma penso che il giudice in quel momento non si sia posto la questione che io ero appena diciottenne, la risposta del giudice all'avvocato di mio padre fu che ero maggiorenne e che potevo benissimo cavarmela, ma io fino a quel giorno ero una di quelle ragazze che non aveva neanche dormito mai fuori casa. Quindi a ritrovarmi in quella situazione veramente mi è mancata la terra sotto i piedi. Io non mancavo mai a un colloquio e la cosa brutta è che i miei genitori non erano vicini, perché io sono di Milano, mia mamma era a Trento, mio papà era a Venezia, quindi una settimana andavo da una parte e una settimana dall'altra. Ero molto stanca e iniziai a risentirne, ma rivivevo tutte le volte che li vedevo. Però che pena quando arriva il momento che sei lì e non puoi abbracciare tuo padre, non puoi farti magari due passi insieme, non puoi raccontargli le tue giornate. Perché noi nel momento del colloquio non diciamo quanto stiamo male, io non ho mai detto a mio papà "papà sto male perché mi manchi, non ce la faccio più, sto crollando", perché comunque io sapevo come stavano loro e raccontargli il mio dolore penso che sarebbe stato un peso in più che si sarebbero portati appresso. Quindi cercavo di portarmi il mio "zainetto" da sola finché piano piano riuscii a superarlo e ad abituarmici, anche se però la quotidianità come figlia di un detenuto io l'ho vissuta pesantemente perfino nelle piccole cose come portare il pacco, io soffrivo quando magari mio padre mi chiedeva qualcosa e io non la trovavo, a me mi cadeva il mondo addosso, perché era l'unico modo che avevo per essere presente per lui. Mia mamma ora è tornata a casa, però questa vicenda ci ha cambiato un po' tutti, perché io comunque ero una di quelle figlie che appena faceva 18 anni non vedeva l'ora di andarsene di casa, adesso posso dire veramente di saper apprezzare la presenza dei miei genitori, cosa che prima non facevo assolutamente. Ma nel momento in cui io sono rimasta da sola mi sono resa conto di quanto i genitori, la loro presenza, semplicemente il loro contatto fisico siano una cosa essenziale, ed è un diritto avere con loro un rapporto profondo. Ma non bastano le poche ore che abbiamo di colloquio in cui non possiamo rapportarci come vorremmo, perché siamo limitati e controllati, e ancora meno basta la telefonata che dura dieci minuti, e ci ritroviamo io e mia mamma a dividercela, e io non posso raccontargli neppure "papà ho preso un bel voto", perché mia mamma comunque ha diritto a quel poco di intimità che le rimane, e se io devo stare lì a dirle "passamelo che gli racconto come è andata l'università", mi sembra di privarla di qualcosa, cioè o mi privo io o ti privi tu, è un po' un tiro alla fune. E ormai sappiamo tutti che invece in altri Paesi hanno molte più opportunità di noi. Stephanie, figlia di Victor Giustizia: il primato dell'etica pubblica di Stefano Rodotà La Repubblica, 8 dicembre 2014 Di fronte alla realtà del comune di Roma posseduto da una organizzazione criminale si può essere scandalizzati e indignati, ma non sorpresi. Questa non è una novità imprevedibile, ma la manifestazione ulteriore (estrema?) di una patologia che dovevamo aver imparato a conoscere, che s'era diffusa da tempo nel sistema politico e nel tessuto sociale. Che cosa ci racconta da anni Roberto Saviano, che cosa ci hanno mostrato le inchieste inascoltate, i casi di politici condannati per i loro legami con gruppi criminali o salvati da generosi e inquietanti rifiuti di autorizzazioni a procedere? Sapevamo di vivere in una perversa normalità, dalla quale si è troppe volte distolto lo sguardo o con la quale ci si è abituati a convivere, anche perché sono venuti inviti perentori a non farsi possedere da reazioni moralistiche. Ora, per l'ennesima volta, la vicenda romana induce molti ad affermare che questa dev'essere l'ultima volta. Sarà vero, si può essere fiduciosi? La verità è che, malgrado le molte parole, in cima all'agenda politica non vi è mai stata la questione della legalità, intesa nel suo significato più ampio, come obbligo delle istituzioni pubbliche di spezzare i tanti "mostruosi connubi" che via via si manifestavano davanti ai nostri occhi, in una inarrestabile deriva: tra politica e amministrazione e poi tra politica e criminalità, cementati da una corruzione divenuta capillare, regola non scritta sull'uso delle risorse pubbliche, di cui troppi ritenevano ormai di potersi impunemente appropriare. Tra le istituzioni solo la magistratura ha preso sul serio l'adempimento di quell'obbligo, e l'inchiesta sul Comune di Roma lo conferma una volta di più. Anche qui non siamo di fronte ad una novità inattesa, se appena si va alle cronache più recenti, al Mose di Venezia e all'Expo di Milano. Ma questa memoria è accompagnata dal ricordo della insofferenza di troppa parte di un ceto politico che ha giudicato illegittima interferenza molti, sacrosanti interventi dei giudici a tutela della legalità. È giusto individuare le competenze proprie della politica e quelle della magistratura. E la strada è segnata dall'articolo 54 della Costituzione, al quale sarebbe il caso di dare un'occhiata proprio in questo momento. All'inizio di questo articolo si stabilisce l'obbligo dei cittadini di rispettare la Costituzione e le leggi. Subito dopo si aggiunge che "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore". L'indicazione non potrebbe essere più chiara. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono limitarsi al rispetto formale della legalità. Ad essi è richiesto qualcosa di più - il rispetto dell'etica pubblica. Un principio che in questi anni è stato sostanzialmente cancellato. Di fronte a comportamenti anche gravemente censurabili si è rifiutato ogni intervento dicendo "non vi è reato". E, quando si era di fronte ad indagini, rinvii a giudizio, addirittura a condanne in primo grado, si è rifiutato di prendere atto che si era in presenza di violazioni della legge penale e si è rinviata qualsiasi sanzione politica al momento, lontano anni, della sentenza definitiva passata in giudicato. Così la politica ha azzerato la propria responsabilità, usando anche le lentezze della magistratura per legittimare questo suo abbandono. I risultati sono davanti ai nostri occhi. Matteo Renzi, segretario del Pd, ha fatto una mossa apprezzabile azzerando la situazione romana senza trincerarsi dietro l'attesa di future decisioni giudiziarie e correndo anche il rischio di veder attribuito al suo partito responsabilità generali che non gli spettano Ora, però, non può fermarsi qui, considerando la vicenda romana come una eccezione, mentre sono note altre compromissioni locali, e non solo. E non può avallare i rifiuti compiacenti di autorizzazioni a procedere, com'è ancora avvenuto al Senato proprio in questi giorni. Matteo Renzi, presidente del Consiglio, non può continuare a rimanere impigliato in una rete che impedisce il rispetto e la ricostruzione della stessa legalità formale. Assistiamo ad una continua guerriglia parlamentare contro la magistratura, con il pretesto di voler accrescere le garanzie delle persone e con l'obiettivo di limitarne l'autonomia, con strumenti che rivelano soltanto l'abissale assenza di una vera cultura della giurisdizione. Ai provvedimenti contro la corruzione non si dà la priorità aggressiva riconosciuta ad altre leggi con voti di fiducia e vincolanti "cronoprogrammi". Situazione ormai intollerabile e pericolosa, poiché la realtà conclamata dai casi di Venezia, Milano e Roma, per tacer d'altro, testimonia di una drammatica distruzione della moralità pubblica e di pesanti danni alla stessa economia. Lo "schifo" manifestato da Renzi imporrebbe che questi temi siano seriamente collocati in cima all'agenda politica. Parlando di responsabilità dei politici, non possiamo riferirci soltanto a chi ha commesso reati o ha violato il principio della "disciplina ed onore" nell'esercizio delle sue funzioni. Oggi la vera responsabilità politica riguarda persone e partiti che sono di fronte all'obbligo di sciogliere i nodi che, negli anni, sono divenuti sempre più stringenti e che nascono dall'obbedienza alla logica della clientela e dell'affarismo, dalla permeabilità di strutture chiuse e oligarchiche rispetto alle organizzazioni criminali. Da anni sappiamo che vi sono poteri criminali che governano territori estesi quanto regioni e che, come dimostra l'ultima inchiesta milanese di Ilda Bocassini, si impadroniscono di aree sempre più larghe. Ma non sono soltanto i territori fisici ad essere occupati. Proprio il caso romano è la conferma eclatante dell'occupazione del territorio istituzionale. Stiamo davvero correndo il rischio che la presenza pubblica e la legalità vengano ricacciate in territori sempre più ristretti. Non trascuriamo il fatto che le nuove regole sul lavoro, dov'è evidente una cessione di sovranità a favore dell'impresa, non siano state accompagnate da alcuna attenzione concreta per le nuove schiavitù di chi raccoglie arance o pomodori. Capisco che la volontà di promuovere un ottimismo forzato portino il presidente del Consiglio a frequentare solo quelle che gli appaiono, e sono, allettanti vetrine. Ma ogni tanto si conceda una deviazione e, magari con il ministro del Lavoro, vada con seguito di telecamere e alluvione di tweet a Castel Volturno o a Rosarno, e manifesti schifo per gli abusi sessuali di cui sono vittime le lavoratrici rumene a Ragusa. Anche questa è legalità, anche questa è lotta alla corruzione, anche queste sono mosse indispensabili per ricostruire una moralità civile che ha bisogno di tornare a fondarsi su dignità e solidarietà. È un'amara consolazione il poter constatare che le vicende che oggi indignano appartengono a un già detto, ad analisi di cause note accompagnate da indicazioni dei possibili rimedi. A tutto questo non si è dato ascolto, dicendo che bisogna rifuggire dal moralismo e che la politica è un'altra cosa. Davvero un'altra cosa - quella che oggi viene drammaticamente rivelata. Giustizia: la "mafia capitale" e il populismo penale dalla Giunta dell'Unione delle Camere Penali www.camerepenali.it, 8 dicembre 2014 Nell'ambito della travolgente rappresentazione di un vero e proprio populismo penale, tutti i cittadini hanno potuto vedere l'esecuzione delle misure cautelari con indagati in vincoli ed ascoltare un'accurata selezione di materiale audio messo a disposizione dalla Procura della Repubblica in una conferenza stampa di grande impatto mediatico. Il caso di Mafia Capitale dimostra in modo plastico come l'immagine dell'indagine, la sua rappresentazione sociale operata attraverso l'esibizione della sua funzionalità mediatica, abbia oramai preso l'avvento sostituendosi del tutto all'indagine reale, a quell'umile, discreto e silenzioso lavorio di raccolta degli elementi di prova, così come una visone seria e laica del processo vorrebbe. I questa ottica di rappresentazione mediatica, e di vero e proprio populismo penale, tutti i cittadini il giorno dell'esecuzione delle misure cautelari, prima ancora che gli atti posti a fondamento dei provvedimenti venissero depositati ai difensori, probabilmente non ancora nominati, hanno potuto ascoltare, vedere e leggere un'accurata selezione di materiale audio video messo a disposizione dalla Procura in una conferenza stampa di grande impatto mediatico. Sul web, dall'altro ieri, alla portata di chiunque scorrono video riportanti il logo degli investigatori di turno, con il nome in codice dell'operazione investigativa, con accanto quello dell'ufficio stampa prescelto per lo Scoop, mentre sui giornali, quasi tutti, appare la fotografia di uno dei principali indagati, al momento dell'arresto, con una risibile quanto ipocrita sfumatura sulle manette che gli stringono i polsi, alla faccia del divieto di divulgazione di simili immagini, imposto per legge. La logica del populismo processuale spazza via ogni legaccio formale, ogni garanzia ed ogni inutile baluardo di civiltà. Se così fosse, ancor di più dovremmo riflettere sul fatto che l'esondazione massmediatica del processo costituisce oggi, nel nostro paese, quanto di più nocivo ci possa essere per una giustizia giusta, per la terzietà del giudice, per la stessa indipendenza della magistratura, e ciò al di là di ogni valutazione sulla effettiva consistenza delle accuse a carico degli indagati. Allorché un processo diventa mediatico, e la notizia della sua esistenza investe in maniera così violenta l'opinione pubblica, l'onda d'urto refluisce immediatamente e lo sommerge, travolgendo ogni precauzione ogni cautela e, di conseguenza, le regole poste a tutela della stessa funzione della giustizia e del processo. Si tratta spesso di un'onda anomala che travolge soprattutto quelle garanzie così vere da divenire irrinunciabili, come il vaglio di legittimità sui provvedimenti che autorizzano gli inquirenti ad ascoltare le nostre conversazioni telefoniche. Insomma, quel controllo giurisdizionale che rappresenta l'unico elemento di salvaguardia della libertà e che distingue ogni moderna democrazia. Poco importa infatti che i risultati delle captazioni telefoniche possano essere inutilizzabili processualmente, nel momento in cui, prima di qualsiasi contraddittorio o verifica difensiva, vengono distribuiti integralmente al pubblico che oltre che leggere può addirittura ascoltare la viva voce degli spiati, senza bisogno alcuno di fare istanze di accesso al flusso telematico. Queste, non a caso, sono alcune delle riflessioni che pochi giorni fa la Giunta ha condiviso durante la bella interlocuzione avuta con il consigliere Ernesto Lupo, durante il ricevimento tenutosi presso il Quirinale a seguito dell'invito del Presidente della Repubblica Italiana, Napolitano. Riflessioni che sono state accompagnate da un impegno formale di svolgere fino in fondo il nostro dovere di avvocati, sorvegliando e difendendo il processo da simili aberranti deragliamenti populistici e demagogici e tutelando la Legalità a tutela e a difesa di ogni cittadino, in ogni circostanza. Giustizia: "mafia capitale", ancora una volta la magistratura commissaria la politica di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 8 dicembre 2014 Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito dell'ordinanza "Mafia Capitale" che ha letteralmente sconquassato la vita politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie dell'associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti, indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di opinione da una parte o dall'altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare - come ha già scritto il direttore di questo giornale - che i pubblici ministeri e il procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero provocando. Quale valanga politica. Non solo l'evidente questione se il Comune di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è "quasi giurisprudenza" - quanto meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio l'ultimo in merito - che basti anche solo la "infiltrazione mafiosa" di un assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe godere di uno statuto privilegiato. E l'altro versante, quello che lambisce il ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c'è alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la politica. D'altronde, ci si obietterà, non ci più sono "santuari" inaccessibili e il tribunale di Roma, come altri, non è più un "porto delle nebbie" dove tutto si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l'indagine "Mafia Capitale", al di là degli aspetti folcloristici sul "Pirata o "er Cecato" Carminati e su tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel mondo dell'amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una "cosa politica". L'indagine "Mafia Capitale" è una questione squisitamente politica. Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire. Era l'inizio di Tangentopoli. Il "mariuolo" - come lo definì Bettino Craxi - Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l'impianto politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 - poco dopo l'arresto di Chiesa, perciò - votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l'87,35 per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l'86,80 per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la Camera in 41 milioni 546.290, cioè l'85,83 per cento; e per il Senato, votarono in 35 milioni 873.375, cioè l'85,83 per cento. Sono dati dell'archivio del ministero dell'Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della politica che non esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l'anno prima ne aveva un milione 264.790 e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino e c'è sconcerto, ma il "partito comunista più forte dell'occidente" tiene ancora botta. Se li confrontiamo, questi numeri - tratti dalle ricerche dell'istituto Cattaneo - con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano un milione 390.918, mentre l'anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la differenza evidente tra l'indagine "Mafia Capitale" con altri episodi di corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il "caso Fiorito" che pure portò alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere di "sistema": mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha aspetti erratici e casuali - e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie di discrezionalità che la legge offriva loro -, quello che risulta e risalta dall'indagine della procura di Roma è un "sistema" di gestione di flussi finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una Tangentopoli che a una Parentopoli. L'anomalia, insomma, è quel signore che teneva in casa centinaia di migliaia di euro "bloccati": gli altri spendevano, compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano il Pil della città, con l'economia criminale. Certo, Tangentopoli era il "sistema Italia" e qui parliamo di un "sistema Roma". Però, la valenza politica di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l'astensionismo ormai dilagante. Paragonate l'affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando. Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del declino dei "corpi intermedi" - della politica, delle istituzioni - e della fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non sostituibile con il verticismo e l'avocazione verso il centro che il presidente del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire il vuoto della partecipazione politica, anzi all'opposto sembra incassarne gli effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse, in un certo senso l'indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una mano al renzismo. È un'indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l'opposto di Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno. Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese. Giustizia: Cantone "la gente mi chiede di mandarli tutti in carcere, la politica faccia pulizia" di Liana Milella La Repubblica, 8 dicembre 2014 Parla il presidente dell'Anticorruzione: "Sembra di essere tornati a Mani Pulite, i cittadini sono indignati, ma non possiamo farci prendere dall'emotività". Cantone? Poltrona scomoda la sua in queste ore... "Non me ne parli... la gente mi ferma per strada e mi dice: arrestateli tutti". E lei si meraviglia? "La cosa mi preoccupa molto perché mi ricorda la voglia di forca e le monetine del 1993". Ci racconta della gente che la ferma, dov'è successo? "Dovunque, a Roma, a Napoli, e in tutti i luoghi in cui mi sono recato in questi giorni". E lei come si sente da uomo delle istituzioni, che risponde? "Sono preoccupato della generalizzazione nel considerare tutta la politica corrotta. Ho provato a spiegare che noi dell'Anac non arrestiamo nessuno e che il nostro compito è molto meno evidente nei risultati, ma ha un obiettivo più ambizioso, provare a prevenire la corruzione". La gente vuole risultati immediati? "La gente, in questa fase, fatica a ragionare. In un Paese in crisi, vedere chi ruba indigna ancora di più e quindi è difficile far ragionare la pancia delle persone. Ma il nostro compito è ragionare e non farci prendere dall'emotività". Come dar torto a chi è indignato contro chi ruba, quando, come dimostra il caso di Roma, ci sono politici del Pd a libro paga di un fascista? "Vorrei che l'indignazione di un giorno delle persone e della politica fosse sostituita da un impegno duraturo. La corruzione non è un male che si vince urlando due giorni, c'è bisogno di cambiamenti radicali da parte della politica e dei cittadini". La politica deve cambiare. Si dice a ogni inchiesta. Anziché fare il commissario anti-corruzione, non sarebbe meglio che lei fosse il commissario che seleziona gli uomini politici? "Malgrado la difficoltà del periodo, io vedo segnali positivi...". Eh lo so, mi sta per parlare bene di Renzi... "Sto per citare fatti, e non persone. Ricordo la nomina all'unanimità del presidente dell'Anac, l'approvazione di una legge che ci ha consentito di commissariare gli appalti dell'Expo e il consorzio Mose. Si può dire che non basta, ma certamente è un segnale positivo. E poi non me la sentirei mai di fare il selezionatore della politica". Forse perché sa già che sarebbe una sconfitta? "Io, al massimo, posso essere bravo ad applicare le norme, ma non certo a selezionare gli uomini politici. E poi la selezione lasciata a una persona rischia di essere un pericolo. Qui c'è bisogno di un gruppo di persone per bene in grado di allontanare le mele marce". In questo clima non è grottesco che nell'Italicum si parli di capilista bloccati e non scelti dalla gente? "Ma l'indagine di Roma non ha dimostrato che i soldi servivano per comprare voti in qualche caso destinati perfino alle primarie? Non è la prova che forse le preferenze rischiano di peggiorare la situazione?". La tabella dei pagamenti di Carminati ai politici rivela che il problema della corruzione è lì, in chi si fa pagare... "L'indagine va molto oltre la politica, coinvolge pezzi significativi del ceto amministrativo, dei portaborse dei politici, degli amministratori delle società miste e mette in rilievo negativo perfino uno dei vanti della nostra società, il mondo cooperativo". Lei è al vertice dell'Anac dal 28 aprile. Ma Roma è scoppiata lo stesso. Poteva fare di più? "Ho fatto tutto quello che umanamente era possibile fare. In questi mesi, io e gli altri 4 quattro colleghi al vertice dell'Anac, siamo entrati in santuari intoccabili, di Expo e del Mose già si sa, ma abbiamo imposto regole rigide di trasparenza alle società pubbliche, agli ordini professionali, abbiamo attivato la vigilanza su un enorme numero di appalti, abbiamo stipulato convenzioni con tutti gli organi per la formazione dei pubblici dipendenti, con Confindustria abbiamo lavorato al loro codice etico". Ma lei fino a oggi ha fatto arrestare qualcuno? "Io non sono più un pm... certamente il nostro lavoro potrà servire per inchieste future. Ma non è solo con gli arresti che si vince la corruzione. La politica deve recuperare fino in fondo il valore etico della sua funzione". Giustizia: Cooperativa 29 Giugno. Usb: non in nostro nome, i lavoratori non sono mafiosi www.contropiano.org, 8 dicembre 2014 Nel gran polverone di questi giorni, tra mafiosi al servizio di Carminati, cooperative, società, assessori, mazzette, deputati ecc., c'è il "mondo di sotto" che rischia di essere ancora una volta sommerso dalla spazzatura e dal fango prodotti da "quelli di sopra" e dai loro servi, "il mondo di mezzo". Rischiano insomma di andar smarriti i lavoratori di quelle cooperative e società che facevano il loro lavoro senza sapere nulla di quel che veniva combinato dai dirigenti. Quelli coinvolti (presidenti, amministratori, una segretaria) sono stati arrestati o sono indagati; i loro nomi e funzioni potete cercarli nella ordinanza emessa dai magistrati. Tutti gli altri non c'entrano nulla, ed è comprensibile che siano indignati per essere accomunati alle pratiche dei loro "capi" e inquieti circa il futuro del proprio lavoro. Sappiamo e scriviamo da anni che le cooperative sono diventate imprese come tutte le altre, addirittura holding e multinazionali (lo dovrebbe saper bene il signor Giuliano Poletti, che presiedeva la Lega Coop quando andava a cena con Alemanno, Buzzi, Marroni padre e figlio, Casamonica, ecc.). Sappiamo dunque bene che proprio lì dentro ha incubato una cultura "praticamente imprenditoriale" incentrata sull'assenza di diritti e salari sotto i livelli contrattuali grazie al trucco del "socio lavoratore", teoricamente imprenditore di se stesso e praticamente dipendente senza diritti. Sappiamo anche bene che queste cooperative sono state importanti per ridare un briciolo di ritorno nella società a persone che avevano dovuto passare attraverso il carcere; e anche che a molte di queste strutture erano state esternalizzate funzioni essenziali del welfare in dismissione, dei "servizi alla persona" o al "verde pubblico" secondo la prassi del "massimo ribasso". Ma non bisogna confondere - appunto - ruoli positivi originari e pratiche negative, dirigenti mafiosi e lavoratori ignari. Qui di seguito il comunicato stilato ieri dai dipendenti della holding coop "29 giugno" e subito un comunicato dei lavoratori della Cooperativa 29 giugno aderenti all'Usb. Una condizione comune ma due visioni non del tutto coincidenti anzi. Per mercoledì è stata convocata una assemblea in Campidoglio di tutte le lavoratrici e i lavoratori comunali e dei servizi esternalizzati - come è il caso della cooperativa 29 giugno. Sarà un momento importante di chiarezza e mobilitazione. Giustizia: AssoTutela e la formazione degli ex detenuti, "modello Lazio" o "modello Buzzi"? www.agoramagazine.it, 8 dicembre 2014 La Regione sostiene l'inclusione lavorativa per gli ex detenuti. E scritto in un trionfante comunicato dell'assessorato Politiche sociali della giunta Zingaretti, divulgato il 17 novembre, che continua: "Al via il progetto Modello Lazio: tirocini di orientamento e formazione per gli ex detenuti". Il tutto annunciato durante il convegno "Carcere: modello Lazio" promosso dal Consiglio regionale del Lazio e dal garante regionale dei diritti dei detenuti. La quiete prima della tempesta esordisce il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato che spiega il progetto è sostenuto dall'assessore alle Politiche sociali Rita Visini e prevede uno stanziamento di 500 mila euro a sostegno dell'inclusione lavorativa degli ex detenuti. Nulla da eccepire precisa Maritato se non il fatto che tale piano di recupero sia stato fortemente sponsorizzato dal garante per i detenuti del Lazio, l'immarcescibile avvocato 83enne Angiolo Marroni, sulla cui rettitudine non abbiamo motivi di dubitare ma che è stato immortalato nella foto della famosa cena dei Casamonica e dei cooperatori sociali, insieme a suo figlio Umberto deputato, che Salvatore Buzzi voleva sindaco di Roma. A questo punto precisa Maritato ci chiediamo se siano stati pubblicati bandi o messi a gara tali progetti di inclusione. AssoTutela chiederà in breve l'accesso agli atti relativi a tale stanziamento e a tutto l'iter relativo al reinserimento dei detenuti attraverso progetti di formazione, tutela dei figli dei ristretti e promozione dello sport in carcere. I cittadini di Roma e del Lazio hanno il diritto di sapere, dopo la melma emersa dall'inchiesta Mafia Capitale, dove vadano a finire i propri soldi, chiosa il presidente. Giustizia: che direzione prende il fenomeno dell'insicurezza? sul trend dei reati s'indaga poco di Maurizio Fiasco Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2014 Dove si radica la criminalità, che direzione prende il fenomeno dell'insicurezza? Tradotto il quesito nei numeri, si può sostenere che essi lasciano intendere pesi più rilevanti al Nord: Milano, Bologna, Torino, Genova. In mezzo, geograficamente e nella statistica, c'è Roma. I dati paiono mostrare che oggi il rischio si alleggerisce al Sud e nelle province montane. Insomma, se si osserva la tendenza, appare in rialzo in quattro capoluoghi, mentre resta invariata in due e scende in dieci, con particolare decremento a Napoli. Bilanciando i due indicatori (dato statico e dato dinamico) si tenta così di apprezzare il senso di marcia. Di più è difficile ottenere. Ci si deve basare su una statistica assai parziale, che aiuta a capire se però si verifica una condizione: che ci sia attorno una cornice dove si inquadrano molti altri indicatori. È quanto avviene nel rapporto annuale del Sole 24 Ore, grazie al paniere di ben 36 parametri per le classifiche. Così, collocati nella misurazione della Qualità della vita, i dati della criminalità "registrata" aiutano a delineare un fenomeno pur tuttavia ambiguo. Con un curioso ossimoro i vecchi manuali lo indicavano con "criminalità legale". Per distinguerla dalla "cifra oscura" dei reati. In pratica, i delitti per i quali si dispone di una traccia ufficiale - la denuncia formale alla polizia o al pubblico ministero - possono includersi nella criminalità portata a giudizio (di qui l'aggettivo "legale"). Quella semplicemente denunciata o querelata è detta criminalità "apparente". Infine, ma siamo nel campo della mera logica, se si dovesse misurare tutta la concreta devianza delittuosa si tenterebbe di pervenire alla metrica della criminalità "reale". Il vero rebus sta qui: perché la criminalità "apparente" è la frazione del fenomeno che l'apparato di polizia intercetta nelle mille città. Quella "legale" sono i reati per i quali si procede e si conclude. Infine, c'è quella priva di qualsiasi traccia (nessuno denuncia, nessuno rileva) e la cui estensione dipende da un insieme di fattori. Alcuni materiali (densità di servizi di polizia, efficienza degli apparati, produttività della giustizia) e altri "immateriali" (cultura, senso comune, costume, fiducia o diffidenza verso la giustizia). Detto brutalmente: più si denuncia, più s'incrementano i valori statistici. Dovrebbe quindi risultare ovvio, ma non più di tanto. Per mettere a fuoco come la questione criminale influenza, o è condizionata, dall'incedere della Grande Crisi, si ha necessità di un sistema aggiornato di dati, di informazioni strutturate, sulle quali fondare l'analisi obiettiva. Da mettere al riparo dalle polemiche strumentali, dalle retoriche dell'allarme sociale. In sostanza, una cognizione del reale da salvaguardare da ricorrenti manipolazioni, vero problema "aggiuntivo" per chi ha l'incarico di decidere, di elaborare indirizzi strategici in tema di sicurezza pubblica. Tutto questo supporto, in verità, non è disponibile. Da una decina d'anni è stato smantellato il tradizionale compendio di statistiche giudiziarie dell'Istat. Non che fosse soddisfacente, quell'annuario di due volumi ponderosi, pubblicato in ritardo di almeno un paio d'anni. Tutt'altro, ma almeno rendeva possibile confronti degli essenziali repertori di dati: sui procedimenti penali e civili, sulle condanne e sul turnover nelle carceri, sui fallimenti e sulle bancarotte e tanto altro ancora. Con un metodo ben elaborato e con un set di indicatori di sfondo, si potevano ottenere informazioni spendibili su singoli fenomeni e sulla loro distribuzione nelle province. Ricavando un'immagine sociologica della questione giudiziaria e della criminalità, avvalendosi di criteri e idee utili a "demistificare" quel che le istituzioni ci propongono di loro attraverso continue statistiche. Già, perché se davvero si vuol disporre di un'ipotesi razionale su quel che succede sul fronte insicurezza, si è costretti a un paziente lavoro a mosaico: tessera dopo tessera, per andare oltre banali impressioni, inferenze, forzature retoriche. Qui ci si sofferma su un asse di questa visione: la comparazione di un dato statico - quello dei delitti registrati per 100mila abitanti - con un altro, che possiamo dire dinamico, qual è il trend su un medio periodo di cinque anni. Dove il quoziente è più contenuto, occorre valutare la tendenza e capire se però i numeri si vanno incrementando o riducendo ancora. E viceversa, nelle province che sembrano peggiorare. A complicare c'è la questione della non uniforme distribuzione dei presidi organizzativi di chi costruisce il dato. Per l'insormontabile ragione che a meno sedi di polizia e carabinieri corrisponde meno propensione a denunciare. Oltre il 50% dei reati, occorre ricordarlo, non viene affatto denunciato. E la ragione è in parte dovuta alla disponibilità sul territorio, nei pressi del cittadino, di un ufficio o di una struttura di polizia cui chiedere aiuto o reclamare. E allora meno si reclama, meno si sa dell'impatto tra condotte criminali e territorio. E senza conoscere, come si fa a deliberare in tempi di revisione della spesa? Come si possono collocare le risorse scarse? Giovano due ingredienti: la conoscenza di quanto si agita nella realtà e l'indicazione di obiettivi chiari ed elevati al sistema di sicurezza pubblica. Rapidamente vanno messe a punto entrambe. Giustizia: un nuovo "caso Cogne"… tutti contro la madre di Loris di Susanna Schimperna Il Garantista, 8 dicembre 2014 I giornali la accusano, lei urla. "Basta, non ne posso più. Cosa vogliono da me? Io ho detto la verità. Io voglio solo il mio bambino. Perché non me lo danno? Voglio toccarlo, voglio abbracciarlo". Contraddizioni e omissioni. È questo che si imputa alla madre di Andrea Loris Stival, il bambino di otto anni il cui corpo è stato trovato in un canalone di cemento, strangolato - oggi lo sappiamo - con una fascetta stretta con forza incredibile intorno al suo collo, che poi è stata tagliata con delle forbicine. Nella perquisizione effettuata a casa dei genitori, Veronica Panarello e Davide Stival, sono state rinvenute forbicine che potrebbero essere, come si dice in linguaggio tecnico, compatibili con sono state usate, e il padre di Loris, su invito della moglie, alle maestre che erano andati a trovarli dopo la scomparsa del bambino ha consegnato una scatola di fascette "che Loris avrebbe dovuto portare a scuola per i lavoretti" (lavoretti e fascette di cui le maestre hanno detto, stupite, di non sapere nulla), e che sono, anche queste, compatibili con quella stretta intorno al collo di Loris. Ma chi ascolta, quando si dice che bisogna aspettare le analisi per capire se si tratti davvero delle stesse strisce, delle stesse forbicine? Chi riflette sul fatto che siano oggetti comunissimi, presenti nella maggior parte delle case? Ogni nuova scoperta è considerata dall'opinione pubblica una prova, e già si parla dell'orrore supremo, quello a cui nessuno vuole credere eppure sembra, più che aleggiare, circolare senza remore nei discorsi che si fanno in famiglia, nelle ricostruzioni televisive: madre assassina. Subito bisogna ricordare e sottolineare, a questo punto, che Veronica Panarello non è neppure indagata. Lo è soltanto, e come atto dovuto, il cacciatore che ha trovato il corpo di Loris, e che finora ha un alibi (fornitogli dalla moglie) e si mostra tranquillissimo. Ma Veronica ha contro di sé, appunto, contraddizioni e omissioni. Vediamo quali. La sua ricostruzione è stata molto semplice: avrebbe percorso via Giacomo Matteotti e avrebbe lasciato il figlio a poche decine di metri dall'ingresso della scuola. Ma nessuna delle quaranta telecamere che avrebbero potuto riprendere la scena mostra nulla del genere. Le telecamere dicono invece che il bambino non è mai salito in macchina ed è rientrato in casa, che nella versione di Veronica ci sono 15 minuti di "buco", che la sua Polo nera ha transitato nella zona in cui poi è stato ritrovato il corpo. Ma anche di fronte a queste evidenze, Veronica grida di aver detto la verità, di avere tutti contro, e insiste a dare particolari, si affanna a voler ricordare ogni minuto di quella tremenda mattinata. Sta malissimo, non mangia, è sconvolta. Abbiamo visto le sue foto, una 25enne sorridente, carina e bionda, e l'abbiamo vista mentre gridava, sorretta perché incapace di camminare, irriconoscibile. Da quando suo figlio è scomparso non è mai stata lasciata sola, non sarebbe in grado di sopravvivere. Si è indagato sulla sua vita, è venuta fuori un'infanzia difficile, la certezza di non essere stata voluta, quattro sorelle che lei dichiara figlie di padri diversi dal suo. Il primo bambino, Loris, avuto a soli 17 anni, e poi, dopo l'altro, una depressione post-parto. Due tentativi di suicidio, uno recente. La dichiarazione di essere infelice. Sarà tutto vero? Sono indiscrezioni del Corriere di Ragusa, riprese da varie trasmissioni televisive e dalla stampa. Ma anche se fosse? Che tutto questo possa tracciare il quadro di una figlicida è accettabile esattamente quanto lo è il contrario: si tratta di situazioni e condizioni che possono portare una donna ad amare i propri figli ancora più teneramente e profondamente. Le reazioni disperate, al limite dell'autolesionismo di Veronica, sono spiegabili in maniera altrettanto convincente come conseguenze di un gesto di follia poi compreso o come espressione di quello che prova una madre a cui viene ucciso un figlio. E mentre i dettagli più terribili non ci vengono risparmiati da una spettacolarizzazione che ogni giorno di più si dimostra necrofila e priva di ogni rispetto per il dolore e la morte, questa donna grida "Perché non me lo ridanno, rivoglio il mio bambino, voglio toccarlo, abbracciarlo!". Dovremmo fermarci su questo, adesso, e rispondere a questo grido atroce e giusto: perché, perché no? Giustizia: Celentano denunciato dai poliziotti penitenziari coinvolti nel caso Cucchi www.italia-notizie.it, 8 dicembre 2014 Gli agenti di Polizia penitenziaria, coinvolti nel caso Cucchi tramite i loro rispettivi avvocati, hanno depositato presso il Tribunale penale di Roma una denuncia-querela nei confronti di Adriano Celentano per i contenuti di un post a sua firma presente sul suo blog. Il cantautore milanese è stato l'autore di forti parole nei confronti sia dei magistrati definendoli "[…] ignavi, […] anime senza lode e senza infamia, i più pericolosi, e giustamente il poeta li condanna" sia degli agenti di Polizia Penitenziaria. Celentano continua cosi il messaggio in questione: " Ma adesso dove sei tu è tutto diverso, lì si respira l'amore del Padre che perdona e non di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire" e ancora "Sei finalmente libero […] di amare e scorrazzare […] senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti". Gli agenti di Polizia penitenziaria, si sono sentiti offesi da tali parole, e nella loro querela hanno sottolineato come "le affermazioni di Celentano non corrispondono al vero - come tra l'altro statuito in ben due sentenze di merito - e sono gravemente lesive del nostro onore, reputazione e decoro". Giustizia: Corona chiede la grazia "non sfuggo alla condanna, chiedo di essere rieducato" Paolo Berizzi La Repubblica, 8 dicembre 2014 L'ex re dei paparazzi firma in carcere una domanda di clemenza parziale. L'avvocato: via dal cumulo della pena gli anni che lo costringono a un trattamento da boss. È nero su bianco: Fabrizio Corona ha chiesto la grazia al Capo dello Stato. A confermare la notizia a Repubblica è l'avvocato Ivano Chiesa, legale dell'ex re dei paparazzi detenuto nel carcere di Opera e condannato a 14 anni e 2 mesi (poi ridotti a 9 anni e 8 mesi) per una serie di reati. "La domanda di clemenza al Presidente ha preso la strada per Roma", dice Chiesa. Si tratta, come previsto, di una richiesta di grazia parziale. Al Quirinale, in sostanza, viene chiesto di intervenire per rimuovere dal cumulo di condanne a 9 anni i cinque "ostativi" legati all'estorsione aggravata ai danni del calciatore David Trezeguet (il quale ha peraltro negato di avere ricevuto minacce dall'estorsore). È questo il macigno che schiaccia l'ex agente fotografico. È questo il reato per il quale è stato dichiarato soggetto pericoloso, alla stregua di un mafioso e con tutte le restrizioni del caso: niente sconti, niente percorso rieducativo e terapeutico, almeno 5 anni in cella. L'obiettivo della "grazia parziale" a cui punta la difesa è proprio questo: affrancare Corona dal "reato ostativo" che gli preclude l'accesso all'affidamento terapeutico. "Non voglio scappare dalla mia pena o farla franca - ha fatto sapere Corona. Voglio scontare la condanna. Chiedo solo aiuto per poter superare quel tecnicismo giuridico della mia condanna di Torino (quella di Trezeguet, ndr) che impedisce al tribunale di sorveglianza di concedermi, come invece hanno richiesto gli operatori sanitari del carcere, l'affidamento terapeutico e poter così proseguire quel percorso di cura di cui oggi ho bisogno". Torniamo al fascicolo della domanda di grazia. Da quanto si apprende, il documento redatto da Ivano Chiesa - tra i più noti penalisti del Foro di Milano - porterebbe la firma dello stesso Corona. La legge prevede che a richiedere la clemenza del presidente della Repubblica possa essere il condannato o altre persone a lui vicine: un congiunto, il convivente, il tutore o curatore, oppure l'avvocato. L'incartamento è stato presentato al ministero della Giustizia e diretto al Quirinale (quando il richiedente è detenuto si può passare anche dal magistrato di sorveglianza). Quali passaggi seguiranno ora? Il primo è l'apertura di un procedimento per valutare il caso Corona. Il parere sarà espresso dal magistrato di sorveglianza sulla base di un'istruttoria che raccoglie "ogni utile informazione relativa, tra l'altro, alla posizione giuridica del condannato, all'intervenuto perdono delle persone danneggiate dal reato, ai dati conoscitivi forniti dalle forze di polizia, alle valutazioni dei responsabili degli istituti penitenziari". Il fascicolo verrà poi trasmesso al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che darà il suo parere e lo trasmetterà a Napolitano. È al Capo dello Stato - come stabilito dalla Corte Costituzionale con una sentenza del 2006 - che "compete la decisione finale". Quale sarà il giudizio del Quirinale? Difficile fare ipotesi. È vero che in questi mesi la grazia per Corona è stata invocata da un largo numero di personaggi pubblici, artisti e intellettuali. Ma è anche vero che la fama del detenuto, il suo comportamento arrogante e esibizionistico, "negativo per i giovani" e "sprezzante verso i giudici" (ipse dixit), espongono Napolitano al vaglio severo dell'opinione pubblica. Anche da qui la decisione della difesa della richiesta parziale: per non mettere il Quirinale di fronte a una scelta troppo difficile. "Quattordici anni sono una pena da omicidio in abbreviato - ragiona l'avvocato Chiesa - Su Corona c'è stato un accanimento. Certe condanne sono stravaganti e eccessive. Penso al caso Trezeguet: due foto scattate per strada, con l'estorto che dichiara di non avere ricevuto nessuna minaccia dall'estorsore". Sardegna: i detenuti che aiutano l'archeologia di Francesca Sironi L'Espresso, 8 dicembre 2014 Oltre ai docenti di Sassari e ai funzionari della soprintendenza di Cagliari, sul posto arrivano ogni mattina due specializzande, una rugbista di Cabras che dà una mano per passione, e tre uomini muscolosi: sono detenuti che hanno ottenuto una borsa-lavoro da 350 euro al mese. L'importanza scientifica di Mont'e Prama è tale da aver attirato sul piccolo scavo speranze e aspirazioni senza pari. Non solo di scienziati ed esperti, ma anche di politici e ladri. I ladri: hanno trafugato un sepolcro, ancora sigillato, la notte del 22 settembre. I politici: dopo aver litigato per decenni sulla destinazione delle sculture dissepolte negli anni 70, oggi polemizzano sul futuro dei lavori, alimentando un dissidio fra l'Università di Sassari, che ha avviato le ricerche, e la Soprintendenza di Stato, che dovrebbe alternarsi all'ateneo all'inizio del 2015. Inutili i tentativi degli archeologi di stemperare le polemiche sul "di chi sarà la firma? Dell'isola o del Continente?" ripetendo che se pure cambierà lo staff la collaborazione scientifica non sarà fermata. Sui quotidiani locali si parla di "Giganti superstar": la fama dei guerrieri aumenta. E così anche la sete di chi vorrebbe la sua parte negli annali dell'archeologia internazionale. Indenne alla polemica, in queste settimane la squadra di Mont'e Prama continua il suo lavoro. Oltre ai docenti di Sassari e ai funzionari della soprintendenza di Cagliari, sul posto arrivano ogni mattina due specializzande, una rugbista di Cabras che dà una mano per passione, e tre uomini muscolosi: sono detenuti che hanno ottenuto una borsa-lavoro da 350 euro al mese. "Per noi il loro contributo è incredibilmente importante", spiega un tecnico: "Sono diventati esperti. Affidabili. E sono emotivamente legati al progetto, che permette loro di uscire dalle celle e contribuire alla storia degli studi nuragici". A breve inizieranno le ricerche finanziate dalla Regione e affidate dalla soprintendenza, dopo una gara d'appalto, a una ditta dell'Emilia-Romagna. "Noi intanto andremo avanti per la parte che ci compete finché avremo fondi", dicono dall'Università. E le scoperte, promettono, saranno di tutti. Busto Arsizio: "Dolci Libertà" il cioccolatino di Milano che nasce nel carcere bustocco www.varesenews.it, 8 dicembre 2014 Una nuova produzione di alta qualità per "donare" anche a Milano un suo cioccolatino caratteristico. Questa è la nuova sfida di Dolci Libertà, la cioccolateria nata all'interno del penitenziario bustocco. Una manciata di riso soffiato e cioccolato bianco, una spolverata di zafferano e un tuffo nel cioccolato fondente. È questo il nuovo prodotto di Dolci Libertà, il laboratorio di cioccolateria del carcere di Busto, che punta a riempire un vuoto nell'offerta gastronomica del territorio. "Tutte le più grandi città hanno un loro cioccolatino di riferimento -spiega Dionigi Colombo, uno dei responsabili del centro - ma non Milano". È da qui che è nata l'idea del cioccolatino che è stato presentato ufficialmente giovedì 4 dicembre all'interno del laboratorio dopo mesi di tentativi per trovare la ricetta perfetta. L'idea riprende uno dei piatti tipici del capoluogo milanese, il risotto allo zafferano, e si candida a realizzare una nuova linea di eccellenza del lavoro portato avanti da Dolci Libertà. "Il cioccolatino ha già riscontrato successo in numerose fiere - spiega Roberto Colombo - grazie anche alla particolarità di associare il gusto dello zafferano al cioccolato". Ma le novità per la cioccolateria del carcere non finiscono qui. In produzione anche una nuova linea di cioccolato priva di qualunque tipo di allergene: uova, lievito, lattosio. Una sfida, quella di Dolci Libertà, che continua puntando su qualità e innovazione. "Abbiamo capito fin da subito che l'unico modo per stare sul mercato era con prodotti di altissima qualità -continua Dionigi Colombo- e avviando collaborazioni con aziende e start up del territorio". Così, ad esempio, con le stampanti 3d di My Chok si potranno personalizzare le tavolette di cioccolato prodotte a Busto Arsizio. "Da quando abbiamo aperto - ricorda Colombo - da qui sono passati oltre un centinaio di ragazzi e al momento sono circa 30 quelli impegnati qui". Un turn over che rende "un po' più complesso rispetto alle altre attività mantenere questo elevato standard qualitativo" ma che parallelamente "ci consente di insegnare ai nostri ragazzi un lavoro oltre che a garantire loro un guadagno pulito". Il lavoro di Dolci Libertà, tra l'altro, non ha mai generato problemi per il penitenziario: "In quattro anni che sono qui - afferma il direttore Orazio Sorrentini - non abbiamo mai avuto un problema di sicurezza con la cioccolateria". Per maggiori informazioni sui prodotti del laboratorio seguite questo link. Alessandria: l'arte fa incontrare scuola e carcere, murales creato da studenti e da detenuti di Selma Chiosso La Stampa, 8 dicembre 2014 S'intitola "Il pane invisibile" ed è un pane che profuma di solidarietà. Un "pane" che è iniziato a lievitare nel 2012 e che ha il sapore "della bellezza", che è quella dell'arte. Significa che un artista geniale, l'alessandrino Piero Sacchi, ha creato due botteghe virtuali nelle quali ha fatto lavorare in parallelo detenuti e piccoli allievi. Il filo rosso, il tema comune, è stato il pane. Perchè il pane da sempre è simbolo di bontà, perchè avere le "mani in pasta" è come avere "i colori tra le dita", perchè tutto parte da un'idea che appunto "lievita". Il risultato è un'opera pittorica realizzata dalle due "botteghe", una nel carcere di San Michele, l'altra alla scuola elementare Galilei: un murales inaugurato ieri pomeriggio nell'atrio dell'Università, Dipartimento di Scienze, al quartiere Orti. : "Il pane invisibile - spiega Sacchi - è un progetto che si conclude dopo due anni di lavoro. Si fonda sul rapporto tra musica e pittura, possiamo dire che ogni pennellata è un suono e il tutto una composizione". La musica - quella di Alberto Serrapiglio e Andrea Negruzzo, del coro di Voci bianche del Conservatorio, del rap Assodipicche - è stata il contrappunto dell'intera operazione artistica. Quella di Sacchi è stata una magia: è riuscito a coinvolgere e fare lavorare due mondi diversi, quello dei ragazzi e quello di chi in carcere non sa più cosa siano i colori. Pre farlo ha ristabilito un'antica prassi fatta di committenti, maestro, apprendisti. Spiega: "La mia bottega di pittura apre le porte alla formazione di apprendisti, giovani e giovanissimi, allievi di una scuola che troppo spesso confonde l'obbligo dello studio come lontananza dal lavoro delle mani. E più volte lavorando con i detenuti li ho sentiti dire "qui non siamo in prigione". La bottega di pittura è uno spazio non detentivo all'interno del carcere. È un luogo in cui si mette in atto una procedura di risarcimento sensoriale e culturale verso persone, che scontano una pena, ma a cui si deve la giusta riconoscenza del loro essere persona. Non ho prodotto un bozzetto e pennellate mie, sono entrato nelle centinaia di migliaia che sono state stese dai settanta apprendisti che hanno realizzato l'opera. Solo quando rivedo se sequenze fotografiche mi rendo conto della strada percorsa". L'opera è una miriade di colori in 24 tavole con 216 pannelli (nove per tavola) la metà creata dai ragazzi, la metà dai detenuti. In due occasioni i due gruppi artistici si sono incontrati, in carcere: a dicembre 2013 e giugno 2014. "Determinante - spiega Sacchi - è stata la disponibilità emotiva e culturale degli insegnanti della Galilei, con la dirigente in prima linea, delle famiglie e la collaborazione del personale della Casa di Reclusione, a partire dalla direttrice Elena Lombardi Vallauri. Entrambe le occasioni si sono trasformate in una festa. Mi ha sorpreso la facilità con cui le persone si sono mescolate e relazionate. Anche in questo caso determinante è stato l'uso della musica". Il futuro è ancora un progetto e si chiama "Povero nemico", è sostenuto da "Ics e Ics" e bando SociAL. Salerno: detenuti attori per un giorno, con i magistrati nella Casa circondariale di Fuorni La Città di Salerno, 8 dicembre 2014 Nella vita che scorre fuori dalle mura della Casa circondariale di Fuorni il loro lavoro è indagare sui crimini commessi da quelli che in quelle celle poi ci finiscono per pagare il loro debito con la giustizia. Ieri mattina, però, nel teatro del carcere salernitano, hanno calcato il palco, come d'altronde fanno da tempo nei penitenziari di tutta Italia, per lanciare un messaggio di speranza e per rappresentare quella fiducia nelle istituzioni che soprattutto chi sbaglia deve continuare ad avere. Per costruirsi un futuro migliore. Magistrati per professione (ma anche giornalisti e gioiellieri) e attori per passione, i membri della compagnia teatrale Luna Nuova (ex Lunatici), formatasi nel 2003, ieri hanno messo in scena "Uomo e Galantuomo", commedia in tre atti scritta da Eduardo De Filippo, per circa una settantina di detenuti che hanno preso parte allo spettacolo seduti in platea insieme al vescovo di Salerno, monsignor Luigi Moretti. "L'iniziativa - spiega Stefano Martone, direttore del carcere di Fuorni - è interessante non solo per il suo aspetto ludico, quanto perché la compagnia è composta per la maggior parte da magistrati, soggetti che solitamente giudicano i detenuti stessi. La compagnia ha avuto la sensibilità di offrire ai nostri detenuti un momento di svago e di riflessione. Lo scopo è quello di testimoniare una vicinanza concreta e sentita alle persone recluse". Milano: la "Prima" a La Scala dal Fidelio a oggi, ma l'emergenza carceri resta inascoltata di Carlo Melato L'Huffington Post, 8 dicembre 2014 A un certo punto la Scala piangerà, o perlomeno resterà turbata, come se fosse la prima volta. Primo atto del Fidelio, che inaugura la stagione del teatro milanese, scena nona. I prigionieri escono faticosamente dalle carceri per un inaspettato istante di libertà. Di colpo realizzano di non essere più abituati alle cose essenziali della vita ("Oh qual piacere, all'aria aperta, respirare in libertà!"), iniziano a cantare sussurrando, immobili, come statue che vorrebbero prendere vigore ("Solo qui, solo qui è vita, il carcere è una tomba!"). "Tutto l'opposto di un finale d'atto, che solitamente prevede molto movimento - ci spiega Fabio Sartorelli, docente di Storia della Musica all'Accademia del Teatro alla Scala, esattamente il contrario di quel "picciol dramma da sé" di cui si raccomandava Lorenzo Da Ponte. Beethoven fissa una situazione esemplare in un tableau vivant con al centro il diritto inalienabile dell'uomo: la luce, il sole, l'aria fresca, ovvero la libertà". Potenza della musica del genio di Bonn, certo. Nonostante il tedesco e senza conoscere le scelte della regista Deborah Warner (a parte la fabbrica-prigione e un immenso muro in cui non c'è un mattone uguale all'altro, che pare abbia mandato in tilt chi vuole portare questa produzione in Germania) già sappiamo che condurrà il pubblico alle lacrime. Purtroppo però c'è un altro motivo che non ci farà sembrare la Siviglia del XVII secolo troppo lontana. Il coro dei prigionieri "O welche Lust, in freier Luft" non potrà non farci pensare, almeno per un istante, alla situazione delle nostre carceri e alle condanne della Corte europea dei diritti umani per cui l'Italia è recentemente corsa ai ripari con i cosiddetti "rimedi risarcitori", anche se il problema del sovraffollamento è ancora lì tutto da risolvere. Ma davvero il cattivo Pizarro ci somiglia? La domanda è lecita se il presidente Napolitano (grande assente della Prima), dopo la sentenza pilota del gennaio 2013, che l'Italia si era guadagnata violando l'articolo 3 della Convenzione europea che vieta i trattamenti inumani e degradanti, aveva parlato di "mortificante conferma". E se solo da qualche tempo i dati ufficiali (e contestati) dicono che il nostro Paese garantisce a tutti i detenuti almeno tre metri quadrati di spazio vitale a testa (grossomodo un palco della Scala), soglia sotto la quale non si può scendere. "È questa esecuzione della pena "all'ingrosso" - ci dice il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato -, questo ammassare persone all'interno di mura chiuse, come se si potesse combattere il crimine con misure generali, indistinte, fortemente connotate dal solo elemento della repressione, che ci porta necessariamente a non tutelare i diritti e a sottoporre delle persone a un regime che non è quello che la legge prevede. È chiaro che la sofferenza che infliggiamo ai detenuti delle nostre carceri non è certo "la minore possibile" di cui parlava Cesare Beccaria". E allora a cosa serve questo surplus di dolore? A sentire Gherardo Colombo proprio a nulla, anzi è anche controproducente. "All'inizio della mia carriera di magistrato - ha raccontato in questi giorni durante un dibattito proprio sul Fidelio - credevo che il carcere funzionasse. Col tempo ho capito che serve solo a far sentire buoni quelli che stanno fuori. Chi può uscire riappacificato con la società dopo un'esperienza simile?" ha chiesto a una platea abbastanza incredula. Ma i dati gli danno ragione. L'87% dei carcerati non lavora e il 68% di chi esce commette nuovi reati. I 54.428 detenuti costano alla collettività circa 120 euro a testa al giorno, ma la maggior parte di queste risorse serve a tenere in piedi il sistema, non a favorire un recupero. E se nessuno chiaramente è incatenato nei sotterranei come Florestan, pochi sono gli istituti come Bollate in cui si possa studiare, lavorare, suonare, fare sport o, banalmente, dipingere le pareti della propria stanza, magari singola (nel video in anteprima alcune immagini del cortometraggio "Expio / Bollate" realizzato da "NutriMente, artisti associati" in occasione di Expo 2015). "La Corte europea dei diritti dell'uomo - conclude Manconi - è stata essenziale nel pungolare un paese distratto e disinteressato come l'Italia, ma non possiamo aspettarci che come il Don Fernando dell'opera beethoveniana, annunciato da uno squillo di tromba, venga a liberare gli oppressi e a riportare la giustizia. Un governo come il nostro dovrebbe fare propri quei richiami e decidersi a ripristinare la legalità. Basterebbe soltanto riprendere il messaggio che nell'ottobre del 2013 il Capo dello Stato inviò alle Camere. In quel testo viene indicato un disegno organico di interventi, congiunturali e strutturali, per mettere mano alle contraddizioni del sistema, senza escludere interventi di clemenza come amnistia e indulto. Peccato però che solo a sentire a queste parole i parlamentari scappino a gambe levate". Milano: cadono le catene, il carcere esulta. Il Fidelio è un'opera che parla di libertà Di Piero Colaprico La Repubblica, 8 dicembre 2014 I detenuti ammutoliscono, ma magistrati, agenti, assistenti sociali, parlano a ruota libera. Il Fidelio, dentro la rotonda di San Vittore, racconta del carcere, ma è anche il carcere, con le sue facce, con i suoi abiti, con le sue mani, che raccontano il Fidelio. L'applauso scroscia quando alla fine cadono le catene di Florestan, e sembra di essere in una curva di San Siro: l'ingiustizia è caduta, la libertà è a portata di mano. Almeno sul palcoscenico, qui dentro chissà. Ognuno, seguendo l'opera, ha intonato la personale vibrazione. C'è il detenuto americano, che sente parlare il cronista e si avvicina senza nascondere gli occhi lucidi: "Mi sento proprio come l'opera, in questo momento, provo quelle cose". Ma c'è l'altro, che quasi s'indigna: "Con tutti i soldi che hanno, alla Scala, sembra che abbiamo chiesto gli abiti alla Caritas". Eppure, sin dai primissimi quadri, il maxischermo sembra uno specchio. Le felpe e i maglioni sulla scena sono le felpe della platea. Le scarpe da ginnastica? Ai piedi di moltissimi. E i capelli spettinati del coro, sono quelli di alcuni degli uomini che qui ascoltano le parole che hanno provato e provano. Scorrono le note di Beethoven ed "È una bella cosa l'oro", dice il capo del carcere. Saremo "felici ancora" dicono tutti, invocando un "legame che costa lacrime". Si canta il "fedele amore di sposa", e qui dentro l'amore è solo lettere, parlatorio, grida dalla strada. Poi il coro ferma l'aria e molti sguardi in platea si sperdono quando intona: "Oh qual piacere l'aria aperta, il carcere è una tomba". E sull'onda di questi destini che s'incrociano tra lo schermo e la platea che "si è avvicinato un detenuto - racconta Giovanna Rosa, magistrato sorveglianza e già al Csm - per dirmi: "Quest'opera ci sta facendo ragionare sulla libertà e qui dentro un po' ce la dimentichiamo com'è, la libertà". Per il secondo anno La Scala, con la sua Prima, entra, portandosi dietro l'attore Filippo Timi, lo scienziato Umberto Veronesi e Giovanni Canzio, presidente della corte d'appello, molto colpito. Tanto da lanciare una proposta che trova l'immediata accoglienza degli assistenti sociali: "Questo va bene, ma forse - dice - potremmo portare i detenuti alla Scala, magari i cinque più meritevoli, o quelli che ne capiscono di più", e pronti via, già si pensa a come poter organizzare, "con una scorta discreta", questa trasferta. Forse già per le prossime repliche del Fidelio. Tra due mondi distanti, tra il carcere e il teatro più famoso del mondo, uniti per una volta dalla musica di quello che nel film "Arancia Meccanica" la banda degli assassini chiamava il grande Ludovico Van. La citazione s'impone perché c'è un detenuto che non nomineremo, con le stampelle, accusato di tre omicidi e, accanto a lui, senza scorta, c'è Alberto Nobili, il procuratore aggiunto che l'ha mandato dentro e che si guarda intorno quasi stupito: "Trent'anni fa, qui, c'era una decina di morti all'anno, un altro clima, è vero che la Comunità europea ci ha sanzionato, ma qui a San Vittore sono stati fatti passi da gigante". Quelli che fanno calare la violenza. E forse qualche passo positivo dipende dai tacchi delle donne, perché oltre alla direttrice, Gloria Manzelli, c'è Manuela Federico, che è "il comandante", e a lei ubbidiscono tutti, uomini e donne, e anche questo dettaglio "di genere", trent'anni fa, era impensabile. Dove c'erano capimafia e banditi da telegiornale, adesso ci sono detenuti più fragili, come sanno altri presenti, da Beatrice Crosti e Giovanna Cossia, magistrati di Sorveglianza, a don Colmegna, della Casa delle Carità. E come non si stanca di ripetere Lina Sotis, che con le sue relazioni ha "lanciato" questa prima che si è conclusa con grandi risate. Per i fischi: che da parte dei detenuti non vanno all'interprete, ma al ruolo di Don Pizzarro. Ogni volta che il barbuto e spregevole governatore s'affaccia sul golfo mistico per ricevere gli applausi della Scala, qui in carcere becca "insulti" e "buuu". Un applauso, però, prima dei risotti, c'è: ed è per Giovanni Fumagalli, ex capo degli assistenti sociali, appena pensionato, e da ieri con l'Ambrogino d'oro sul bavero della giacca. Agenti, detenuti, ospiti, tutti sanno che non ha speso invano qui dentro trentacinque anni di lavoro, e anche questo dettaglio è "Milano". Cina: 8 condanne a morte per le violenze nello Xinjiang Agi, 8 dicembre 2014 Un tribunale cinese ha condannato a morte 8 persone, accusate aver organizzato violenze nella regine occidentale dello Xinjiang. Lo ha riferito il canale televisivo di Stato. Ad altri cinque è stata inflitta la pena di morte con la sospensione condizionale, passaggio giudiziario verso una commutazione nel carcere a vita. Nelle violenze, che avvennero la scorsa primavera, vi furono 39 morti in un mercato e uno in una stazione ferroviaria. Nigeria: uomini armati assaltano carcere e liberano 200 detenuti Adnkronos, 8 dicembre 2014 Uomini armati hanno assaltato un carcere di massima sicurezza a Minna, nella Nigeria centro occidentale, liberando almeno 200 detenuti. Lo riferisce il quotidiano nigeriano The Punch. L'assalto è stato condotto ieri da una decina di uomini armati che hanno ferito diverse guardie. Il portavoce della direzione del carcere, Rabiu Muhammed, ha confermato l'attacco ma ha aggiunto di non poter quantificare il numero di evasi. Stati Uniti: il Pentagono; sei detenuti del carcere di Guantánamo trasferiti in Uruguay Ansa, 8 dicembre 2014 Sei detenuti di Guantánamo - quattro siriani, un palestinese e un tunisino - sono stati trasferiti in Uruguay dal carcere militare statunitense dove restano così 136 uomini. Lo ha reso noto il Pentagono. Tra i sei figura anche il siriano Jihad Diyab che ha chiesto alla corte degli Stati Uniti di ordinare alle autorità di Guantánamo di interrompere l'alimentazione forzata nel corso del suo sciopero della fame. Dal carcere di Guantánamo sono stati trasferiti da inizio anno 19 detenuti, che sono stati rimpatriati o inviati in un paese terzo, nel chiaro sforzo da parte dell'amministrazione Obama, di accelerare lo svuotamento del carcere più volte promesso dal presidente americano. Dei 779 detenuti a Guantánamo negli ultimi 13 anni, attualmente ne restano 136, la maggior parte dei quali non sono mai stati accusati o processati. Sessantasette sono stati dichiarati "rilasciabili". I sei uomini, accolti dall'Uruguay, dove il presidente José Mujica ha promesso che sarebbero stati liberi, sono di età compresa tra 30 a 40 anni e sono arrivati a Guantánamo con i primi detenuti nel 2002. Si tratta, secondo un comunicato del Pentagono, di quattro siriani - Ahmed Ahjam, Ali Hussein Shaabaan, Omar Abou Faraj et Jihad Diyab, un palestinese, Mohammed Tahanmatan, e un tunisino Abdoul Ourgy. Arabia Saudita: sfidano divieto di guidare, 2 donne in carcere per 6 giorni La Presse, 8 dicembre 2014 Due donne sono state arrestate e tenute in carcere per sei giorni in Arabia Saudita, per aver sfidato la regola che vieta alle donne di guidare. Lo fanno sapere familiari e attivisti. Erano entrare alla guida di auto il primo dicembre nel Paese dagli Emirati Arabi Uniti. La 25enne Loujain al-Hathloul aveva programmato di sfidare il divieto e si è presentata alla frontiera in possesso della sua patente, valida negli Emirati. Le guardie di confine saudite le hanno sequestrato il passaporto, costringendola ad attendere ala frontiera per circa 24 ore. Poi l'anno arrestata. La 33enne Maysa al-Amoudi è arrivata al confine per consegnare cibo, acqua e coperte ad al-Hathloul ed è stata anche lei arrestata. Tutte le fonti hanno parlato a condizione di anonimato, temendo ritorsioni dal governo.