L'indifferenza che cancella l'amore nel carcere di Agnese Moro La Stampa, 7 dicembre 2014 Ho letto che gli italiani parlano al telefono, cellulare o fisso, in media, 35 minuti al giorno; decisa indicazione sulla nostra voglia di comunicare e di essere in contatto soprattutto con coloro che amiamo. Un dato che mi fa sentire come ancora più ingiusti e inaccettabili i 10 minuti a settimana in cui consentiamo alle persone detenute di telefonare ai propri cari. 10 minuti che divengono 8 o 9 quando si inserisce la voce di colui che dice che la telefonata è quasi finita. I colloqui, poi, della durata massima di un'ora, sono contati, 6 al mese, in ambienti non accoglienti, tristi e affollati. Qualcuno dirà che stiamo parlando dei "cattivi" (ma come non pensare oggi alla scritta che compariva sull'ingresso di un manicomio negli Usa "Non tutti e non i peggiori"?), cosa questa che nel nostro ordinamento può essere sanzionata con la perdita della libertà, ma non della titolarità ad essere persona, con tutte le relazioni, affetti, sentimenti che questo comporta. La rivista del carcere di Padova "Ristretti Orizzonti" - www.ristretti.it - ha molto opportunamente richiamato la nostra attenzione su questo grave problema con un appello sottoscrivibile sul loro sito e con un recente seminario "Per qualche metro e un po' di amore in più". Dando anche voce, oltre che agli esperti, ad alcuni parenti di persone detenute, che ci hanno aperto con coraggio uno spiraglio sulla loro vita. Con le sue umiliazioni, paure e tanta fame di incontro, contatto, amore. Per non parlare poi della dimensione - umanissima - della sessualità che non ha proprio alcun modo di esprimersi. La nostra indifferenza e i nostri pregiudizi nei confronti di tante persone che, magari, in non pochi casi, hanno trovato in carcere, dentro di loro, la forza di cambiare rotta e di riacquistare una piena umanità, viene favorita dal semplice fatto che noi non li vediamo. Il carcere li separa da noi, ci impedisce di guardarne i volti - che sono come i nostri, di sentirne le loro voci, di ascoltarne le storie, tutte difficili, ma non poi così lontane. Cosa li rieducherà, e li riporterà in mezzo a noi, come vuole la nostra Costituzione e tanti di noi che li hanno conosciuti, più degli affetti e delle responsabilità che ogni rapporto d'amore comporta? A noi il compito di non girare la testa dall'altra parte, ma di aiutarli a vivere più pienamente queste dimensioni così immensamente importanti. "La castrazione sessuale è una condanna accessoria". Un manifesto per gli affetti in carcere di Gianluca Testa Corriere della Sera, 7 dicembre 2014 La dignità, prima di tutto. Stiamo parlando delle carceri italiane e delle misure alternative alle pena, a cui Report ha dedicato ampio spazio la scorsa settimana. Del resto investire sull'alternativa non significa cancellare le pene (e neppure i reati). Il primo obiettivo resta il rispetto della Costituzione italiana, che prevede percorsi che puntino alla rieducazione dei detenuti e abbassino i costi gestionali dello Stato. In questo contesto s'inserisce il delicato tema dell'affettività. "La castrazione sessuale e affettiva è una condanna accessoria" commenta Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale all'Università di Ferrara. "In carcere è vietato perfino masturbarsi. È considerato un atto osceno in luogo pubblico e può costare sei mesi di liberazione anticipata". Secondo Pugiotto la pena "provoca un deserto di relazioni affettive che crea solo vittime e condanna i familiari". Sesso e affettività in carcere, quindi, non rappresentano un tabù. È anche per questo che la rivista "Ristretti Orizzonti" gestita dall'associazione "Granello di Senape", ha promosso e diffuso un manifesto per "salvare gli affetti delle persone detenute". Perché - dicono - solo "mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari" sarà possibile "immaginare un reinserimento nella società al termine della pena". Per rendere il carcere "più umano", "Ristretti Orizzonti" chiede quindi di liberalizzare le telefonate per tutti i detenuti, consentire colloqui riservati di almeno 24 ore ogni mese, aumentare le ore dei colloqui ordinari, aggiungere agli attuali 45 giorni di permessi premio anche alcuni giorni nell'arco dell'anno da trascorrere con la famiglia. Tra le proposte da attuare subito, Ristretti ritiene sia utile (e possibile) offrire l'opportunità di aggiungere alle sei ore di colloqui previste ogni mese alcuni colloqui "lunghi" con la possibilità di pranzare con i propri cari, due telefonate in più al mese per tutti i detenuti, l'allestimento di postazioni per colloqui visivi via Skype, migliorare i locali adibiti ai colloqui e maggiore trasparenza sui trasferimenti. Sul tema è stato depositato in Senato un disegno di legge firmato dal parlamentare Pd Sergio Lo Giudice a favore dell'umanizzazione delle visite ai detenuti e per la legalizzazione dell'affettività in carcere. "Ho una compagna e due figli (e adesso due nipotini) che mi aspettano da oltre ventitré anni. E purtroppo, dato la mia condanna all'infinita pena dell'ergastolo, se non cambiano le leggi in Italia avranno di me solo il mio cadavere" scrive un detenuto. Giustizia: inchiesta "Mafia Capitale"… ehi, garantisti, dove siete scappati? di Piero Sansonetti Il Garantista, 7 dicembre 2014 Come iniziò "Mani Pulite"? Con l'arresto di un certo Mario Chiesa, preso con le mani nel sacco (una tangente di 7 milioni di lire nascosta nelle mutande). E finì radendo al suolo la Prima Repubblica, dopo una stagione tremenda di arresti e intimidazioni. Parecchi ci lasciarono la vita: Cagliari, Gardini, Moroni, Craxi. "Mafia Capitale" invece non ha intercettato nessun fatto concreto, nessuna tangente, solo alcune telefonate nelle quali gli imputati si vantavano di avere mezzo mondo ai propri ordini. E siccome in questa inchiesta non c'è niente di concreto, gli inquirenti anziché contestare il reato di corruzione hanno contestato il reato di mafia. Questa inchiesta è una bufala. Ma i pochi garantisti che ancora circolavano nel dibattito pubblico sembrano spariti. Aiuto! Il 17 febbraio 1992, quando ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio, a Milano, Mario Chiesa, dirigente del partito socialista, venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire (3.500 euro, circa) dall'imprenditore Luca Magni, che gestiva una piccola società di pulizie e voleva assicurarsi un appalto. Da lì nacque "Mani Pulite" che pose fine alla prima Repubblica e al periodo migliore della democrazia italiana. Stavolta - a differenza da allora - nessuno è stato colto con le mani nel sacco. La retata è nata da una attività vastissima di intercettazioni e da un numero incredibile di sciocchezze dette al telefono da tre o quattro persone fra le quali questi due strani personaggi che sono Carminati e Buzzi. A differenza dal 1992, pare, nessuno è stato preso mentre intascava una tangente, o mentre la chiedeva, o mentre minacciava qualcuno per averla. Allora il pool di Milano inquisì molte migliaia di persone per concussione o corruzione (non per mafia…). Ci furono 4.500 arresti, 25mila avvisi di garanzia, una decina di suicidi e dopo alcuni anni 1.300 tra condanne e patteggiamenti. La maggioranza delle persone passate per la prigione non fu condannata. Ci ha insegnato qualcosa "Mani Pulite"? No. L'inchiesta su "Mafia Capitale", che sembra molto meno solida di "Mani Pulite", ha suscitato entusiasmo generale. Nei giornali, tra la gente, anche nella politica. La discussione politica che si è aperta non ha riguardato il merito dell'indagine, non ha messo in discussione i suoi eccessi di spettacolarità, neppure la fragilità dell'accusa di associazione mafiosa, non ha sfiorato l'eccesso di protagonismo dei magistrati, non ha avanzato nessun dubbio sulla strabordante utilizzazione delle intercettazioni, sulla discrezionalità della loro interpretazione, sull'illegittima e interessata distribuzione ai giornali, e sul loro uso assai discutibile. Niente di tutto questo. La discussione che è in corso verte esclusivamente su come la politica deve punire i suoi esponenti prima ancora che qualunque responsabilità sia accertata. E questa posizione ha unificato stavolta, senza esclusione, non solo i rappresentati del fronte molto esteso e molto potente, dei giustizialisti, ma ha finito per aggregare anche un gran numero di leader che negli anni passati avevano tentato di navigare sulla barca garantista, e che improvvisamente ne sono scesi. Chiedere lo scioglimento del Consiglio comunale di Roma è una follia. Il consiglio comunale è stato eletto, il sindaco Marino ha vinto le elezioni democratiche, ed assegnare ai giudici il potere di spedirlo a casa - neppure con un avviso di garanzia a lui, ma addirittura con un avviso di garanzia a un suo assessore - è la resa definitiva e totale, senza condizioni, della politica alla magistratura. È la sconfitta, la morte di una politica che si genuflette all'arroganza di un giornalismo "linciatorio", privo di struttura, asservito alla potenza del potere giudiziario. Immagino che voi come me avrete letto le intercettazioni distribuite dai magistrati ad alcuni grandi giornali (come premio per la loro fedeltà). In nessuna di queste intercettazioni c'è niente di concreto. Si riferiscono tutte a discorsi di un gruppetto di esaltati che sostiene di avere il mondo in mano e di tenere ai propri ordini leader politici, amministratori, e varia gente potente. Non c'è mai un leader politico che prende un ordine da loro. Che dice signorsì o ringrazia per una tangente. Non c'è nessun riscontro. Sono frasi sconnesse che sicuramente alludono a pratiche di corruzione e di degrado politico, che certamente esistono e delle quali è giusto indignarsi. Ma che in nessun modo costituiscono prove di reati concreti. Dire per telefono a un amico "Io a quello lo faccio strillare come un'aquila spennata" è una cosa che a me non vorrebbe in mente. Però, ad esempio, "io a quello lo gonfio…" credo che sia una frase che io talvolta ho pronunciato al telefono, eppure vi assicuro che non ho mai gonfiato nessuno e nemmeno ho pensato di farlo, e che non esercito usura e non distribuisco tangenti. Questa inchiesta a me sembra che sia una bufala. Non perché a Roma non esista la corruzione ma perché il sospetto che esista è l'unica cosa concreta che emerge da questa carte e dalla retata. Fa paura la scomparsa dei garantisti. A partire da Berlusconi, da Forza Italia, che invece chiede che sia mandata a casa la giunta Marino. E da Renzi, che in passato aveva fatto vedere una certa avversione al forcaiolismo, e che invece ora sembra solo cercare un po' di consenso nei giornali e nel popolo che lincia. Giustizia: sulla custodia cautelare una bella riforma, peccato sia uguale a quella del 1995 di Tiziana Maiolo Il Garantista, 7 dicembre 2014 Quando, tra non molto, Matteo Renzi annuncerà che, grazie a lui e al suo governo, il Parlamento ha approvato una nuova riforma del processo penale, e in particolare è intervenuto sulla custodia cautelare, in modo che il carcere senza processo per l'indagato sia solo l'extrema ratio, ebbene sappiate che mente. Non c'è nessuna riforma che tale possa chiamarsi nel provvedimento approvato dalla Camera il 4 dicembre in terza lettura e che a breve diventerà legge al Senato. Tutti i principi enunciati in questo provvedimento esistono già nella legge numero 332, approvata l'8 agosto del lontano 1995, quando il Parlamento improvvisamente si svegliò, compresi i partiti della sinistra più giustizialista. Il risveglio avvenne dopo il decreto del governo Berlusconi del 13 luglio 1994 (che tu chiamato "decreto Biondi" dal nome del ministro di giustizia) che, in piena bufera Tangentopoli e per porre argine all'uso perverso del carcere preventivo, era intervenuto a disciplinare per una serie di reati gli arresti domiciliari in luogo della detenzione in carcere. Quel decreto fu ritirato dopo che i quattro pm di Milano, con barba lunga, occhiaie e sapiente regia, si presentarono in televisione a dire che senza manette non potevano più lavorare. E in seguito, dopo il disconoscimento di paternità da parte del ministro agli Interni Maroni e il ritiro del decreto (anche se alcuni di noi l'avrebbero poi rivotato), nessuno di quegli indagati fu riportato in carcere. Il che significa che forse la custodia cautelare non era così indispensabile. Ma intanto il risultato era raggiunto. E poco dopo cadde anche il governo Berlusconi. Due piccioni con una fava, A quel punto, tutti i partiti si mossero e corsero a presentare proposte di legge per riformare la custodia cautelare. Gli abusi di quegli anni erano sotto gli occhi di tutti, e altrettanto le morti per infarto e i 41 suicidi, tra cui aveva molto colpito la morte di Cagliari, cui non era stata mantenuta la promessa di scarcerazione e il successivo suicidio di Gardini, che evitò in quel modo tragico il previsto arresto. La discussione, alla Camera e al Senato, fu serrata e importante, improntata al massimo del garantismo. Sul fatto che la custodia in carcere prima del processo debba rappresentare l'extrema ratio sono tutti d'accordo. E così anche sul fatto che il pm debba fornire al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda, ma anche, a pena di nullità, tutti gli elementi a favore della persona indagata e le memorie dei difensori. E anche le motivazioni del giudice che dispone la misura in carcere devono basarsi su elementi di fatto che la giustifichino in concreto. Si rafforza la figura del giudice anche attribuendo a lui l'obbligo del primo interrogatorio, sottraendolo al pubblico ministero. Si fissano i principi dell'articolo 274 del Codice di procedura penale: per l'acquisizione e la genuinità della prova devono esserci "situazioni di concreto e attuale pericolo". E il pericolo non può essere individuato nel rifiuto da parte dell'indagato di parlare o di confessare. Per il timore di reiterazione del reato, questo deve essere desunto da "comportamenti o atti concreti". Lo stesso per quel che riguarda il pericolo di fuga, che deve essere "concreto". Anche l'articolo 275 è chiarissimo: al comma tre dice chiaramente che si va in carcere solo quando ogni altra misura risulti inadeguata. È il famoso concetto dell'extrema ratio, tanto strombazzato in questi giorni per pubblicizzare la nuova "riforma". L'avvocato Romanelli ha ieri spiegato con molta competenza su queste colonne perché quella di oggi non è una riforma, ma un insieme di piccolissimi aggiustamenti. Che senso ha infatti aggiungere l'aggettivo "attuale" a "concreto" al pericolo di reiterazione del reato? La verità è che non si vuole affrontare il vero problema, e cioè che la legge del 1995 è in gran parte disattesa o elusa. È inutile infatti -per faro un piccolo esempio - che il primo interrogatorio in carcere venga svolto dal Gip se questi comunque arriva in auto con il pm, suo collega e spesso amico. È inutile che si dica che la gravità del delitto non deve incidere sulla custodia cautelare (lo dicevamo anche vent'anni fa), così come la mancata confessione, se poi Massimo Bossetti è in carcere da oltre cinque mesi, in palese violazione della legge. E allora? Prima di tutto occorre togliersi dalla testa che una buona riforma porti sempre con sé buoni risultati. Secondariamente dobbiamo sempre ricordare che i magistrati sono un popolo di conservatori, che ancora non hanno digerito il nuovo codice di procedura penale del 1989. Infine, è sotto gli occhi di tutti che chi non applica la legge non avrà alcuna sanzione. E questo è il motivo per cui il sindacato delle toghe non vuole che questo punto riguardi la legge sulla responsabilità civile. E non saranno certo le finte riforme a risolvere i problemi. O forse, dopo l'approvazione del nuovo provvedimento da parte del Senato, Massimo Bossetti sarà restituito alla sua libertà? Due giorni fa il sì della Camera al disegno di legge Tra le novità più significative ci sarebbe il vincola per il giudice delle indagini preliminari, per colui cioè che valuta la richiesta di custodia cautelare presentata dal pm che e deve emettere l'ordinanza. Secondo quanto previsto nel testo che riforma gli articoli del codice relativi alla carcerazione preventiva, il gip non potrà più limitarsi a richiamare "per relationem" gli atti del pubblico ministero ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Oltre a questo, ci sono una serie di altre precisazioni che dovrebbero concorrere a fare delle manette l'extrema ratio in materia di misure cautelari. Questa è almeno l'ambizione della proposta di legge passata in terza lettura alla Camera giovedì scorso, con 303 sì e 21 voti contrari, e che ora tornerà al Senato per l'approvazione definitiva. Ma come rilevato su queste colonne dal componente della giunta dell'Unione camere penali Rinaldo Romanelli e come esposto nell'analisi che pubblichiamo in questa pagina da Tiziana Maiolo, gran parte delle modifiche sono al più un restyling di una precedente riforma, che risale addirittura a 19 anni fa. Peccato non sia stata quasi mai applicata davvero. Giustizia: 1 minuto di silenzio, 30 anni di battaglia per l'introduzione del reato di tortura di Damiano Aliprandi Il Garantista, 7 dicembre 2014 È presente in quasi tutti gli Stati, ma a 25 anni dalla ratifica il reato non è ancora stato inserito nel nostro codice. Un minuto di silenzio contro la tortura. Amnesty International, Antigone, Arci, Cild e Cittadinanzattiva, in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani, il prossimo 10 dicembre alle ore 10.00, manifesteranno con un minuto di silenzio alla Camera le loro ragioni contro il fatto clic non esista ancora una legge che preveda il reato di tortura in Italia. Il 10 dicembre saranno passati 30 anni esatti dall'adozione della Convenzione Onu contro la tortura - e oltre 25 dalla ratifica italiana - che impone tale legge. Quasi tutti i Paesi europei hanno il reato nel proprio codice. Il disegno di legge è attualmente pendente alla Camera. Da molti anni i principali organi di controllo internazionali sul rispetto dei diritti umani invitano il nostro Paese a colmare questa grave lacuna e ad adeguare l'ordinamento italiano a quanto previsto dal Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la tortura. Alla conferenza stampa, oltre alle organizzazioni promotrici, saranno presenti i seguenti parlamentari: Anna Rossomando, Daniele Farina, Giulia Sarti, Vittorio Ferraresi, Paolo Beni, Bruno Molca, Luigi Manconi, Gennaro Migliore, Davide Mattiello. Hanno aderito all'iniziativa le seguenti organizzazioni: A buon diritto, Acat - Italia, A Roma, Insieme - Leda Colombini, Aics, Associazione nazionale giuristi democratici, Cgil-Fp, Cir-Vito, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Cnca, Gruppo Abele, Il Detenuto Ignoto, Forum droghe, Lidu - Lega italiana dei Diritti dell'uomo, Medici contro la tortura, Progetto diritti; Ristretti Orizzonti; Associazione Vic-Volontari in carcere; Società italiana psicologia penitenziaria; Società italiana di scienze psicosociali per la pace; Unione delle camere penali italiane. Dal mondo dell'arte le prime adesioni: Erri De Luca, Massimo Carlotto, Noyz Narcos, Piotta. Il minuto di silenzio verrà osservato anche in altre città italiane durante iniziative pubbliche, il dibattito sull'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento penale italiano si infiamma sempre di più. I governi che si sono succeduti hanno solo espresso buone intenzioni non riuscendo però ad arrivare a una codificazione definitiva. Eppure nella Costituzione italiana l'articolo 13 si stabilisce il principio secondo cui "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà", anche se il legislatore non ha mai trovato la forza di adottare una normativa specifica a tale riguardo. Il divieto di tortura è contemplato non solo da numerose convenzioni generali sui diritti umani, ma anche da specifici trattati ai quali l'Italia ha aderito, come la Convenzione dell'Onu contro la tortura del 27 giugno 1987 e la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e della pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti del 26 novembre 1987. La Convenzione dell'Orni contro la Tortura prevede all'art. 1, in combinato disposto con l'articolo 4, l'obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura (come pure il tentativo di praticare la tortura o qualunque complicità o partecipazione a tale atto) fosse espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno. conformemente alla definizione prevista dall'articolo 1 della su citata Convenzione, la quale identifica la tortura come; "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali al fine di segnatamente ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni (...) qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito". Se prendiamo ad esempio solo l'Europa, ci siamo rimasti soltanto noi senza il reato di tortura. I Paesi del vecchio continente che hanno inserito nel loro codice penale il reato di tortura sono: Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria e, grazie all'attuale Papa, anche la Città del Vaticano. In realtà, da noi, si è provato più volte ad introdurre il reato di tortura, ma con esiti negativi. Il primo tentativo avvenne nel lontano 1989 tramite il senatore Nereo Battello dell'allora Partito comunista italiano, il quale propose un disegno di legge che prevedeva per il pubblico ufficiale che si macchiava del reato di tortura una pena compresa tra tre e sette anni di reclusione. Ma la proposta non venne approvata. Altro tentativo ci fu nel 1999 tramite Silvio Berlusconi, il quale presentò un'interpellanza alla Camera dove chiedeva al governo in carica a che punto fosse l'approvazione del reato di tortura, sottolineando quello che venne definito "un inqualificabile inadempimento" da parte dell'esecutivo allora in carica. Un altro tentativo d'introduzione del reato di tortura si ebbe il 28 agosto 2000 tramite Piero Fassino, l'allora ministro della Giustizia del Governo Amato, il quale presentò di concerto con il ministro degli Affari Esteri Lamberto Dini un disegno di legge dal titolo: "Norme in materia di tortura e di altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti". Ma il documento non venne più presentato. Dopo cinque anni la patata bollente del reato di tortura toccò proprio al governo Berlusconi. Mercoledì 26 maggio 2004 il ministro della Giustizia Gaetano Pecorella, Forza Italia, in commissione giustizia sulla discussione relativa all'articolo sul reato di tortura, fece riferimento all'approvazione da parte dell'Assemblea, il 22 aprile 2004, dell'emendamento Lussana (Lega Nord) che prevedeva come il reato di tortura si conclamasse a seguito di reiterate minacce. L'emendamento in questione bloccò una proposta che secondo le intenzioni di Pecorella avrebbe previsto una pena da uno a 15 anni alla persona ritenuta colpevole di aver inflitto torture fisiche e mentali ad un altro soggetto. Ma l'emendamento Lussana di fatto bloccò tutto. Passano due anni e il 12 Maggio del 2006, Alfredo Biondi di Forza Italia, presenta al Senato una proposta di legge che prevede l'istituzione del reato di tortura ai sensi dell'articolo 593-bis. La proposta venne affidata alla seconda commissione permanente giustizia presieduta da Cesare Salvi che arrivò alla calendarizzazione in aula nel 2008. Ma poi saltò tutto con la crisi del governo Prodi. E arriviamo a marzo di quest'anno quando il senato ha dato il via libera all'introduzione nel Codice penale degli articoli 613 bis, che disciplina il delitto di tortura e l'articolo 613-ter, che incrimina il pubblico ufficiale che istiga altri alla commissione del fatto. In realtà il testo iniziale , presentato dal senatore del Pd Luigi Manconi, risulta depotenziato e ha creato insoddisfazione da parte di Antigone, Radicali e l'Unione delle Camere Penali. Lo stesso Manconi ha espresso, pur votando la legge, una forte delusione: "La mia critica non si limita ad alcune questioni, pur rilevanti, ma all'impianto ed all'ispirazione complessiva del disegno di legge a mio avviso depotenziato in misura rilevante nel suo significato, come la prospettiva e la finalità di questa normativa, a partire dalla formulazione che prevede la reiterazione degli atti di violenza, cioè il fatto che debbano essere ripetuti perché si dia la fattispecie della tortura". La legge, attualmente pendente alla Camera, risulta molto debole perché affinché sia definito reato, la tortura diventa tale se è ripetuta più volte. Inoltre sarebbe imputabile a qualsiasi comune cittadino. In pratica non è un reato specifico dei funzionari di Stato, ma del cittadino comune. Il nostro Paese è destinato ad avere questa cultura insanabile qui; per quanto riguarda la repressione e costrizione, le leggi sono forti e brutali; invece per quanto riguarda il rispetto dei diritti civili e umanitari, le leggi sono deboli, depotenziate, perfino inutili. Giustizia: Direzione Nazionale Antimafia; Bernardo Provenzano? che muoia in galera! di Errico Novi Il Garantista, 7 dicembre 2014 Morirà al 41 bis. A meno che su Bernardo Provenzano non arrivi una decisione a sorpresa del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Davanti al quale ieri si è celebrata un'udienza molto delicata. I legali dell'ex boss mafioso, Rosalba Di Gregorio e Maria Brucale, hanno chiesto ancora una volta l'accoglimento del reclamo contro il decreto che nel marzo scorso ha rinnovato la misura del carcere duro per Provenzano. Ma la Direzione nazionale antimafia ha continuato a opporsi alla revoca. Nel corso di un iter che va avanti da mesi, i giudici hanno chiesto e ottenuto varie documentazioni mediche. Ieri hanno preso atto che gli elementi forniti dalla difesa sono abbondanti. E si sono riservati la decisione. Dovrebbero pronunciarsi nel giro di qualche giorno. Certo pesa il parere sfavorevole alla revoca del 41 bis opposto dalla Dia. E peserà il timore di suscitare scandalo. Ma intanto resta agli atti il sì alla fine del carcere duro espresso da tre Procure: Firenze, Palermo e Caltanissetta. E parlano chiaro, soprattutto, le relazioni firmate dai medici che hanno in cura l'ex capomafia. Provenzano si trova nel reparto penitenziario dell'ospedale San Paolo di Milano. E, scrivono i sanitari, "non è in grado di rispondere agli ordini". Se gli dicono di alzare una mano non lo fa. Non comunica. Quindi, hanno sostenuto gli avvocati ancora nell'udienza di ieri, "viene meno il senso del 41 bis, la cui ratio consiste nell'impedire che il detenuto possa impartire ordini all'organizzazione mafiosa. In realtà Provenzano non solo non è in grado di impartire ordini, ma neppure di comprendere quelli che i medici gli danno nei test sulle sue condizioni cognitive. Non è in grado di intendere e di volere". Dovrebbe essere tutto chiaro. L'ex boss è alimentato da un sondino. Ha un "eloquio incomprensibile", cioè nelle rare occasioni in cui parla dice quasi sempre cose incomprensibili. Che senso ha tenere al carcere duro una persona ridotta in questo stato? In realtà bisognerebbe chiedersi se una simile condizione sia compatibile con la detenzione. Evidentemente non lo è. Ma su questo, la Dia ieri ha fatto notare che dovrebbe pronunciarsi il Tribunale di Sorveglianza del distretto in cui Provenzano è attualmente detenuto, ovvero Milano. Il rappresentante della Dia ha mostrato di ignorare il procedimento che a Milano è già in corso, e che ha già visto un pronunciamento del collegio: in quella sede i giudici hanno sì riconosciuto che Provenzano non potrebbe impartire alcun ordine, ma hanno stabilito che la detenzione in ospedale sia preferibile alla scarcerazione, e hanno perciò negato il differimento della misura. "Fuori di qui morirebbe". Sì, morirà comunque. Ma la legge andrebbe applicata, ed è evidente che un moribondo non deve stare in galera, neppure nella versione ospedaliera della galera. Peraltro nel procedimento milanese - sviluppatosi in parallelo a quello di Roma in seguito a un procedimento d'ufficio del magistrato di sorveglianza - i giudici si erano posti il problema che la conferma della detenzione avrebbe potuto far passare Provenzano dalla condizione di colpevole a quella di "vittima". E per questo avevano chiesto la consulenza di un criminologo. Ne sono usciti rassicurati: "Quanto al particolare aspetto della pericolosità diretta o simbolica, la stessa non appare modificata dalla permanenza nella condizione attuale", quella di detenuto. Se resta privato della libertà, Provenzano non suscita un'indignazione tale da mettere a rischio il pubblico interesse alla lotta contro il crimine. Può darsi. Ma di sicuro, se Provenzano resta in carcere, si mette a rischio la sopravvivenza dello stato di diritto. Lombardia: dal Consiglio regionale sostegno a iniziative per lavoro nel carcere di Bollate Ansa, 7 dicembre 2014 "Il lavoro è uno strumento importante all'interno delle case circondariali. Oltre a favorire il pieno recupero e reintegro sociale delle persone, strutture come queste hanno il merito di contribuire ad abbattere la recidiva". Così il presidente della Commissione Carceri del Consiglio regionale della Lombardia, Fabio Fanetti (Lista Maroni), ha salutato la posa della prima pietra dello stabilimento per il trattamento e il recupero dei rifiuti elettrici ed elettronici nel carcere di Bollate, alle porte di Milano, promosso anche con il sostegno della Regione. Alla cerimonia che si è svolta ieri, oltre a Fanetti, erano presenti il vice-segretario generale della presidenza del Consiglio dei Ministri, Raffaele Tiscar, il vice-capo vicario del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, il provveditore regionale Aldo Fabozzi, il sottosegretario regionale Maurizio Del Tenno e la presidente dell'Amsa, Emilia Rio. Nuoro: le speranze di "salvare" il carcere di Macomer sono definitivamente sfumate di Tito Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 7 dicembre 2014 La delusione mista a rabbia del deputato di Sel, Michele Piras: "La chiusura è una decisione idiota che scontenta tutti". Entro mercoledì, computer e documenti degli uffici verranno imballati e trasferiti. Subito dopo partiranno i detenuti. La notizia che il processo di dismissione del carcere è entrato in una fase definitiva e irreversibile ha colto tutti di sorpresa. E ora c'è anche la conferma ufficiale del sottosegretario alla Giustizia, Enrico Costa. I parlamentari che dal ministro della Giustizia avevano ricevuto ampie assicurazioni sul mantenimento della struttura, basate anche sul fatto che la decisione di chiudere era giustificata con motivazioni non veritiere, sono cascati dalle nuvole nell'apprendere che da martedì si inizierà a sbaraccare alla luce del sole e senza nessuna remora. Il deputato di Sel Michele Piras ha chiamato il vice ministro Costa, il quale ha confermato che la decisione è definitiva per cui non c'è più nulla da fare. Nonostante la decisione del ministro di fermare l'attuazione del decreto di chiusura in attesa di approfondire l'effettiva situazione del carcere, negli ultimi mesi lo smantellamento della struttura è andato avanti in modo strisciante. L'istituto è stato lasciato senza risorse. Non c'erano neppure i soldi per sostituire le lampadine fulminate. Michele Piras non nasconde lo stupore e il disappunto e parla di comportamento scorretto, bugie, prese in giro e scelte sbagliate. "Ho parlato per telefono col vice ministro Costa - dice il parlamentare - mi ha risposto che la decisione è definitiva e non c'è nulla da fare. Più ci penso e più mi ribolle il sangue. È veramente una decisione idiota che produce il risultato straordinario di scontentare tutti: associazioni, istituzioni locali, detenuti e operatori. È gravissimo il fatto che non si sia voluto tenere conto delle osservazioni e delle opinioni del territorio e delle sue rappresentanze. Dimostra la distanza del Governo dai problemi concreti". Del problema si era occupata anche Maddalena Calia del Nuovo centro destra. "È una scelta gravissima - dice - e dispiace che lo Stato non abbia dato le risposte che il territorio sollecitava e si aspettava. Soffre l'indotto che faceva riferimento all'istituto, ma soffrono anche i detenuti che verranno trasferiti in strutture di grandi dimensioni dove molti problemi non trovano risposta. Chiederò chiarimenti anche attraverso i vertici del mio partito per sapere come mai si è arrivati a questo. C'era un impegno preciso che è stato disatteso. Mi aspetto una risposta e l'attendo". Anche i sindacati non nascondono il disappunto per una decisione calata dall'alto che non tiene conto dei problemi del personale, ma anche della necessità di dare una dimensione umana alla pena". Biella: lavoratori a "costo zero" per i Comuni? sì, detenuti e condannati a pene alternative di Eleonora Rosso www.newsbiella.it, 7 dicembre 2014 Tra pochi giorni tre Comuni biellesi avranno nuovi addetti all'interno del loro organico. Si tratta di detenuti che avranno la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità e che sono stati "assegnati" alle amministrazioni che hanno partecipato al bando indetto dalla Regione. Tra loro, c'è anche il Comune di Mongrando che ha ottenuto un lavoratore detenuto per un totale di 130 ore. L'iniziativa non sarà gratuita per le amministrazioni che hanno già versato una quota che si aggira tra i 4mila e i 5mila euro. "Si tratta di spese che comprendono la formazione di questo nuovo addetto e la polizza assicurativa" ha dichiarato Tony Filoni primo cittadino di Mongrando. Ma qualcuno ha spiegato ai sindaci che progetti come questo possono essere gratuiti per le amministrazioni e che esistono altre soluzioni per contare su lavoratori gratuitamente? Per capire meglio è necessario fare un passo indietro a domenica scorsa. Ad occuparsi di questo argomento è "Report" programma di attualità che va in onda su Rai Tre. Il servizio si riferisce a realtà ben più grandi ma questo, non esula dalla possibilità di approfondire il tema anche a livello locale. Per partire con la nostra inchiesta è necessario fare una distinzione tra misure alternative e progetti di pubblica utilità che coinvolgono condannati che stanno già scontando una pena. Per saperne di più incontriamo Fulvia Zago responsabile provinciale del settore politiche sociali. È stata lei nel 2009 a seguire le pratiche, tutt'oggi rimaste in un cassetto, per l'attuazione di una convenzione tra Gol e tribunale di Biella. "Il Gol è un tavolo di lavoro di cui fanno parte Provincia, Comune , cooperative e associazioni di promozione sociale. Lo scopo con cui questo tavolo è nato, è quello del reinserimento sociale e del contrasto alla criminalità sul territorio provinciale". Nel 2010 il Gol avvia le pratiche per la nascita di una convenzione che permetta ai cittadini condannati di svolgere ore di lavoro socialmente utile nei Comuni biellesi. "L'obiettivo era quello di creare una banca dati condivisa tra il Tribunale e la cooperativa che avrebbe poi comunicato con i Comuni. Questa modalità si riferiva soprattutto a condanne brevi che prevedono misure alternative al carcere". Tanto per capirci la guida in stato di ebbrezza o altri piccolo reati puniti con ore lavoro. "Abbiamo consegnato le pratiche richieste dal Tribunale ma, trasferitosi il giudice che se ne era occupato, non siamo più riusciti ad andare avanti". Ad oggi quindi sono i Comuni che, singolarmente, stringono convenzioni con il Tribunale per usufruire della forza lavoro gratuitamente. "Questo" prosegue Fulvia Zago, "significa che i Comuni devono avere le capacità e le possibilità di costituire la convenzione e seguirne i risvolti. Non solo, può capitare che un condannato debba prestare servizio in un Comune lontano o che non può raggiungere anche a causa di restrizioni dovute alla pena inflitta. Questo perché magari il Comune di residenza, non ha stretto l'accordo con il Tribunale. Il fatto che non esista un ente unico per la gestione di questo rapporto fa si che si creino liste d'attesa perché i Comuni sono inferiori alla disponibilità di persone e molte volte, non hanno interventi da svolgere sul territorio". In periodi di emergenza come questo però, a tutte le amministrazioni farebbero comodo braccia in più per spalare la terra delle frane o per tenere pulite le strade meglio ancora, se a basso costo. Altri Comuni seguendo questa linea hanno avviato dei bandi per lavoratori in mobilità. Qualcuno con scarsi risultati come il Comune di Pray che, mesi fa, aveva selezionato sei lavoratori che poi, però il primo giorno di lavoro non si sono presentati. "Questo è sicuramente un altro problema dovuto al fatto che i lavoratori non sono retribuiti e preferiscono non partecipare ai progetti" prosegue Fulvia Zago. "Fino a poche settimane fa, la legge parlava chiaro: i lavoratori in mobilità non erano obbligati a rispondere alle chiamate dei Comuni". Ora però la musica è cambiata e a farsene portavoce è stata la senatrice biellese Nicoletta Favero. "È stato chiesto alla Regione di esprimersi in merito ma la domanda, è stata rimbalzata al Ministero che ad oggi, non ha ancora chiarito la situazione ufficialmente" spiegano dal centro per l'impiego della Provincia di Biella. "Grazie all'interessamento di Nicoletta Favero siamo riusciti a fare chiarezza sulla questione. In un documento firmato dal Ministero del Lavoro e consegnato alla senatrice si legge che, secondo l'articolo 92 della legge specifica contenuta nel Jobs Act, i lavoratori in mobilità non possono rifiutare misure di politica attiva e devono quindi rispondere alle chiamate dei Comuni". La stessa norma ritiene inoltre fondamentale che questa categoria di lavoratori partecipi a progetti di reinserimento nel mondo del lavoro e a progetti a favore della collettività. Si parla di reinserimento e di restituzione alla collettività anche quando, gli ipotetici lavoratori, sono i detenuti. Anche in questo caso le amministrazioni comunali possono ottenere gratuitamente manodopera per i cosiddetti "lavori di pubblica utilità". Per capirci qualcosa in più abbiamo parlato con Antonella Giordano direttrice del carcere di Biella. "I detenuti possono lavorare gratuitamente per i Comuni? La risposta è si o meglio, quasi. Esistono dei protocolli tra Ministero della Giustizia e Ministero dell'ambiente e Anci proprio a questo proposito" ci spiega la direttrice, "Questo perché è fondamentale per i detenuti il reinserimento sociale attraverso progetti che permettano loro di lavorare e di uscire dal carcere. Abbiamo degli esempi locali che parlano chiaro. Da anni il nostro istituto ha una convenzione con Cordar e con il parco della Burcina che prevedono l'utilizzo di detenuti per lavori ordinari. In passato, abbiamo tentato di far nascere una convenzione con il Comune di Biella ma non è andata come speravamo". Secondo la dottoressa Giordano a tenere lontane le amministrazioni sarebbero i costi dell'operazione, irrisori, a confronto delle migliaia di euro spesi dai Comuni aderenti al bando regionale. "È chiaro che il Comune che si convenziona con noi dovrebbe provvedere a stipulare un'assicurazione per il detenuto e riconoscergli un rimborso spese di trasporto e di pasti durante l'orario di lavoro. La retribuzione non è obbligatoria e comunque, può essere concordata con la struttura penitenziaria che, secondo il suo ordinamento, ne tratterrebbe una parte per le spese di mantenimento del detenuto". In effetti se lo si cerca su internet, il protocollo è disponibile. Tra i vari articoli che lo compongono, non si parla di costi per i Comuni ma si chiarisce che a regolare il rapporto tra le due parti, deve essere un Comitato di Gestione formato dai rappresentanti del Comune e del carcere di zona i cui compiti sono quelli di monitorare le attività e definirle nel dettaglio. Non solo, si legge che: " Le modalità di inserimento lavorativo verranno di volta in volta definite in base alle opportunità disponibili secondo le esigenze delle aziende e le possibilità dei singoli detenuti, nell'ambito dei programmi di trattamento predisposti dalla Direzione dell'Istituto Penitenziario" e ancora, "saranno sottoscritte apposite convenzioni tra Dap e Anci, prevedendo le specifiche per la realizzazione di ciascuna attività descritta e le modalità per la selezione dei migliori progetti presentati dalle amministrazioni interessate, anche al fine di richiedere il sostegno specifico con le risorse costituenti del patrimonio della Cassa delle ammende". "Al di la del fatto che i detenuti abbiano bisogno di esperienze simili, questo ci permetterebbe di mettere in pratica anche quello che viene fatto all'interno del carcere" prosegue la dottoressa Giordano. "Nel caso di Biella, i detenuti partecipano a corsi professionali che prevedono anche la manutenzione di aree verdi e di altri ambiti pratici che potrebbero tornare utili alle amministrazioni. Alcuni detenuti sarebbero disposti a lavorare anche gratuitamente pur di mettersi alla prova e di dimostrare i loro risultati nel processo di recupero. Capiamo che gioca un ruolo molto forte il pregiudizio e che, molto spesso, i Comuni decidano di destinare le poche risorse in altri modi come voucher lavoro o simili. Noi comunque siamo a disposizione degli enti locali come lo siamo stati negli anni passati". Un invito che varrebbe la pena di approfondire vista la situazione. A fare il primo passo verso i progetti di pubblica utilità è la Provincia. Mentre stiamo scrivendo questo articolo, il presidente Emanuele Ramella e il consigliere Giuseppe Faci hanno incontrato la direttrice della casa circondariale Antonella Giordano. "L'obiettivo è quello di dare vita ad un protocollo che permetta di far nascere una collaborazione tra Provincia e carcere per la realizzazione di progetti di pubblica utilità. Il nostro ente ha forti difficoltà finanziarie ma non può lasciare perdere servizi importanti come la manutenzione di aree verde e strade e la cura dei propri immobili. Con questo accordo, garantiremo un'attenzione in più al territorio con la minima spesa dando un valore aggiunto agli interventi che saranno svolti da detenuti in fase di reinserimento". Busto Arsizio: dolcezza dietro le sbarre, ecco i detenuti pasticceri di "Dolci Libertà" di Mario Catania Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2014 Anche in carcere si può imparare un mestiere che, oltre a tenere il detenuto lontano dalla cella per la giornata lavorativa, gli dà la possibilità di imparare un mestiere oltre a quella di guadagnare un piccolo stipendio. Accade alla casa circondariale di Busto Arsizio (in provincia di Milano), dove il progetto di pasticceria e cioccolateria dell'azienda Dolci Libertà, dopo 4 anni dal lancio, continua a sfornare nuove leccornie direttamente da dietro le sbarre. L'iniziativa è nata da Sport & Spettacolo Holding, creata dal portiere del Napoli Roberto Colombo e che vede la partecipazione di ex calciatori come i fratelli Baresi e Giuseppe Bergomi. Si tratta quindi di un'azienda privata che ha deciso di lanciarsi un business dal forte valore sociale, ma stando sul mercato come qualsiasi altra azienda. "Prima di cominciare a lavorare ero sempre triste - racconta il detenuto Bah - ora la mia vita è cambiata e spero di poter continuare a fare questo lavoro una volta che sarò uscito". Milano: don Rigoldi "nel carcere minorile Beccaria manca la consulenza psichiatrica" di Elisa Murgese Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2014 Secondo il sindacato di polizia penitenziaria "troppi ragazzi con problemi psicologici (un terzo dei 41 detenuti) e casi di autolesionismo in aumento in una struttura fatiscente". Il cappellano dell'istituto conferma: "Agenti hanno orari massacranti". Un 17enne tunisino si è dato fuoco in cella. "Voleva stare in comunità non in carcere", dice il parroco dell'istituto minorile Beccaria di Milano don Gino Rigoldi. Un altro detenuto ha tentato di impiccarsi mentre un ragazzo con problemi di autolesionismo si è tagliato i polpastrelli in mensa, secondo la polizia penitenziaria, per far colare il sangue nel panino con la bresaola. Sono queste alcune delle istantanee che arrivano dal carcere minorile del capoluogo lombardo. "Troppi ragazzi con problemi psicologici (un terzo dei 41 detenuti) e casi di autolesionismo in aumento in una struttura fatiscente e sprovvista di un'equipe psichiatrica". A dirlo è Iolanda Tortù, coordinatore regionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). Solo negli ultimi due mesi ci sono stati "tre tentati suicidi - continua Tortù - oltre al tentativo di innescare un incendio nei corridoi del carcere bruciando magliette ed altri oggetti". Dei 41 detenuti, la scorsa settimana otto sono stati trasferiti in altre strutture per allentare la tensione dell'ultimo periodo. Alessandra Naldi, il Garante dei detenuti di Milano, collega "l'aumento dei detenuti minorenni con problemi mentali ad un incremento dell'uso di droghe prima di entrare in carcere". In altre parole, secondo il Garante, i minori arrivano al Beccaria già con disagi psicologici legati al consumo di stupefacenti e alla situazione difficili da cui provengono. Il problema sta quindi a monte: "Mancano servizi di prevenzione ed educativa di strada per intercettare i ragazzi a rischio prima che vadano in carcere - continua Naldi - Sicuramente il Comune potrebbe fare molto, ma i servizi comunali sono allo sbando per mancanza di risorse. Abbiamo attivato percorsi simili per Quarto Oggiaro, per esempio, ma ci sono voluti anni per raggiungere qualche risultato". Oltre al fatto che "sui minori detenuti c'è il grosso problema degli stranieri: nessun Sert (Servizio per le tossico dipendenze, ndr), prenderebbe in carico uno straniero irregolare. E questo rende più difficile eliminare problemi di tossicodipendenza nei ragazzi a rischio. Che poi potrebbero presentare problemi di salute mentale, una volta entrati in carcere". Rispetto alle risposte che il Beccaria dà ai suoi detenuti con problemi di salute mentale per don Gino Rigoldi "manca un contesto di consulenza psichiatrica stabile", al di là delle equipe di psicologi. "Ci sono detenuti che hanno grosse depressioni, soggetti fragili che arrivano anche ad atti di autolesionismo. Non può essere compito della polizia penitenziare trattare questi casi". Una situazione di mancate risposte che porta ad aumentare il carico di lavoro per gli agenti penitenziari. "Hanno orari massacranti e personale ridotto: è inevitabile che qualche caso psichiatrico li mandi ancora più nel panico". Tanto che il Sappe chiede "almeno la presenza di un presidio medico 24 ore su 24 (ora è dalle 8 alle 22, ndr). Perché se succede qualcosa di notte, cosa possiamo fare?", conclude Iolanda Tortù del sindacato di polizia penitenziaria. Problemi di gestione in una struttura carceraria che non può neppure contare su un direttore stabile. A marzo 2013, infatti, la direttrice e il comandante di Polizia penitenziaria hanno lasciato l'istituto dopo un'ispezione ministeriale che ha evidenziato "un difficile rapporto tra i due che ha comportato pesanti difficoltà nella gestione dell'istituto", si legge nel report dell'Ong Antigone. Da allora la direzione è stata assunta da Alfonsa Micciché. "Un anno di buona gestione", secondo il Garante dei detenuti. Peccato che il 28 febbraio sia scaduto l'incarico ed ora il Beccaria sia senza un direttore. E quindi, secondo il presidente di Antigone Lombardia Valeria Verdolini, "senza una persona a cui fare riferimento anche per affrontare questi problemi legati alla salute mentale dei detenuti". Pavia: denuncia del sindacato Sippe; nel carcere a Voghera c'è degrado ovunque La Provincia Pavese, 7 dicembre 2014 La nuova direttrice (reggente) del carcere di Voghera, Maria Antonietta Tucci, è arrivata da pochi giorni in via Prati Nuovi, ma deve già affrontare una grana. O meglio, la denuncia del sindacato Sippe sullo stato di complessivo degrado della casa circondariale, a cui seguirà già la prossima settimana una lettera-esposto al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Ieri pomeriggio, l'ispezione di Antonio Vignone, segretario generale aggiunto del Sippe e di Fabrizio Marongiu, segretario regionale lombardo. "Il sopralluogo ha fatto emergere una lunga serie di situazioni di disagio sia per gli agenti che per i detenuti - spiegano i due sindacalisti. Si comincia dai posti di sentinella e di servizio (porta carraia, portineria), fatiscenti e con infiltrazioni d'acqua piovana, fili elettrici sistemati alla rinfusa o scoperti con i rischi conseguenti, per continuare con le garitte riscaldate da stufette in ferro ormai antiquate e anche qui con perdite d'acqua". Quindi i box di servizio dei poliziotti, "non climatizzati e non a norma" e la casermetta agenti, "con docce esterne vecchie e sgangherate". Neppure l'ala nuova del carcere, che ospita circa duecento detenuti (parecchi dei quali ergastolani da sottoporre a stretta sorveglianza), è esente da pecche: "Pure qui infiltrazioni d'acqua; inoltre, il cortile per la passeggiata all'aperto e le attività sportive è privo di servizi igienici". La protesta sindacale riguarda anche l'organizzazione del lavoro. Nel mirino la decisione "unilaterale" della direzione di avocare a sè, senza confronto, la definizione dei turni e dei periodi di vacanza per il periodo natalizio e di Capodanno. "Una scelta quantomeno poco felice", attaccano Marongiu e Vignone. Il dossier comprende anche una ricca documentazione fotografica. Insomma, non mancano i problemi per il nuovo direttore. L'ex, Maria Gabriella Lusi, ora è alla guida del carcere di Cremona. Milano: cognome trascritto male, marocchino 26enne resta in carcere sette mesi in più di Sandro De Riccardis La Repubblica, 7 dicembre 2014 È stata forse una lettera in più nel cognome, che è Amine e non Aminje, a lasciarlo in carcere 208 giorni in più rispetto alla pena da scontare e ai benefici carcerari che aveva ottenuto. Ora, Amine - senza j - Cherouaqi, un marocchino di 26 anni che vive a Milano con la famiglia, finito in carcere per scontare due condanne per spaccio di droga, ha incaricato il suo legale, l'avvocato Debora Piazza, di chiedere il risarcimento allo Stato per ingiusta detenzione. Il primo ordine di esecuzione di Cherouaqi risale al 6 giugno 2011, quando viene calcolato una pena complessiva da scontare pari a "tre anni, nove mesi, cinque giorni, con decorrenza dall'8 agosto 2010, e scadenza il 12 maggio 2014". Amine, infatti, al momento in cui gli viene notificato l'ordine di esecuzione ha già scontato otto mesi e venti giorni, dal 10 giugno 2009 al primo marzo 2010. Durante gli anni in carcere, a Ivrea, Amine ottiene due provvedimenti per la liberazione anticipata, che dovrebbero portarlo fuori dal carcere sei mesi prima, l'11 novembre 2013. A Ivrea, però, gli notificano un altro ordine di esecuzione. Errato. Lo trasferiscono a Biella, lui fa istanze e chiede di essere scarcerato. Il 6 giugno 2014 è il carcere che si accorge che ha scontato giorni in più di detenzione. Così il ragazzo marocchino - che doveva lasciare il carcere l'11 novembre 2013 - esce solo il 9 giugno 2014. Duecento e otto giorni dopo. "Ho cercato di spiegare la mia situazione - dice ora Amine Cherouaqi nello studio del suo avvocato, ho detto agli agenti che avevo già scontato la pena. È come aver scontato due volte la stessa condanna". La direzione del carcere di Biella comunica l'anomalia del fascicolo del detenuto all'ufficio Esecuzioni penali il 6 giugno scorso. "Vista la nota della casa circondariale di Biella - si legge nel decreto di computo della custodia cautelare del ragazzo - accertato che il condannato ha effettivamente espiato la pena di cui alla sentenza in oggetto dal 10 giugno 2009 al primo marzo 2010, rilevato che aveva già interamente espiato la pena, dispone l'immediata scarcerazione del condannato se non detenuto per altra causa". Amine - senza j - Cherouaqi è rimasto in carcere quasi sette mesi in più. "Non riesco a spiegarmi la ragione di questo errore - dice in un buon italiano - Ho visto che sui miei documenti vengo registrato con due nomi diversi, a volte con la j, altre volte senza, e questo può aver indotto in errore gli uffici del tribunale. So solo che ho perso dei mesi di libertà. Nel frattempo mio padre è morto e ho dovuto lasciare i miei fratelli piccoli soli con mia madre". Ora Amine vuole avere giustizia. "Sono sempre i soggetti più deboli a soccombere, soprattutto se extracomunitari. Nessuno in questi mesi gli ha creduto - dice l'avvocato Piazza. Ora ci rivolgeremo all'autorità competente per chiedere il risarcimento per l'ingiusta detenzione". Un'altra anomalia nel decreto che ridà la libertà al nordafricano emerge dalla mancata indicazione dei giorni che il ragazzo ha trascorso in eccesso in carcere, "periodo - scrivono gli uffici - eventualmente fungibile per altro procedimento". Come immaginando che il nordafricano debba comunque tornare a delinquere. La Spezia: cella troppo affollata, detenuto risarcito con sconto di pena e 64 euro di Matteo Marcello La Nazione, 7 dicembre 2014 Per oltre nove mesi ha subito sulla propria pelle i disagi di un carcere sovraffollato, obbligato a dividere gli spazi esigui della cella con troppe persone. Per quella detenzione lesiva della dignità umana, un detenuto del carcere spezzino di Villa Andreino si è visto ridurre la pena di 27 giorni, ottenendo anche un mini risarcimento di 64 euro. Condizioni inumane, quelle condannate dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - e per le quali la Corte europea dei Diritti dell'uomo ha condannato più volte l'Italia - che alla Spezia hanno visto per la prima volta l'applicazione del "rimedio compensativo" introdotto pochi mesi fa dal Governo per ristorare il detenuto delle condizioni inumane sofferte durante la detenzione. A beneficiarne è un detenuto marocchino di quaranta anni, detenuto presso il carcere spezzino di Villa Andreino e costretto a trascorrere la propria pena in meno di tre metri quadri di spazio personale, a causa dell'eccessivo sovraffollamento della cella del carcere di via Fontevivo. I fatti risalgono all'inizio dello scorso anno, con il 40enne nordafricano, condannato per spaccio di sostanze stupefacenti, che dopo aver espiato una prima parte della pena nel carcere di Savona, è stato trasferito nel giugno dello scorso anno nel penitenziario spezzino. Identiche, tuttavia, le condizioni detentive con le quali doveva fare i conti. Istituti sovraffollati, spazi vitali nelle celle sempre più risicati. Da qui, il reclamo presentato dal 40enne marocchino attraverso il suo legale di fiducia, l'avvocato Marco Benacci, che è stato accolto dal magistrato del Tribunale di sorveglianza di Massa, Michela Mencattini, che nei giorni scorsi ha emanato un provvedimento risarcitorio a favore del carcerato, individuando in 278 giorni (92 trascorsi nel carcere di Savona, 186 passati nell'istituto penitenziario spezzino) il periodo in cui il detenuto, per il sovraffollamento della cella, è stato costretto a vivere in spazi risicati e condizioni ai limiti della dignità umana. Il magistrato, così come richiesto dall'avvocato Benacci, ha seguito i dettami del decreto legge varato dal governo in autunno: riduzione della pena di un giorno per ogni dieci giorni trascorsi in condizioni inumane, e 64 euro di liquidazione residuale di risarcimento del danno, ovvero otto euro per i restanti otto giorni. Grazie all'accoglimento del reclamo, il 40enne nordafricano potrà uscire dal carcere spezzino quasi un mese prima, alla fine di gennaio. Roma: "Made in Jail", parte al Teatro Palladium il Festival di Carcere e Cultura www.rbcasting.com, 7 dicembre 2014 Al via al Teatro Palladium di Roma Made in Jail, festival dedicato a teatro e cultura in carcere, organizzato dal Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, Università degli Studi Roma Tre. L'evento si inserisce nell'ambito della terza missione dell'università, un concetto legato alla polis, alla necessità che la gente si incontri sulle tematiche sociali. Protagonista di questa prima edizione al Palladium dall'11 al 14 dicembre, è l'arte nelle tante sfaccettature, il teatro certo, ma anche il cinema, la musica, le arti pittoriche, la letteratura. Saranno infatti proposti spettacoli teatrali, libri, video e musica rigorosamente "made in jail", prodotti culturali realizzati appositamente per questa occasione in vari istituti penitenziari del Lazio. "È una vera e propria necessità dell'Università aprirsi al sociale e a tutte quelle forme che concorrono ad una formazione culturale e scientifica", spiega Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro presso l'Università Roma Tre e direttrice artistica della manifestazione. E aggiunge: "Nel Lazio ci sono quindici istituti penitenziari e in ognuno di questi si fa stabilmente teatro. Un teatro che, in molti casi, prima di essere ‘parte del progetto trattamentalè è, e vuole essere, teatro tout-court, un'isola galleggiante che non cambia il mondo ma cambia chi la fa. Questa è la prima edizione di un festival che nasce come rassegna delle varie culture praticate nelle carceri del Lazio, portando all'esterno esperienze che fino ad oggi (solo di rado) è stato possibile vedere fuori dai penitenziari". Il festival Made in Jail nasce con l'obiettivo di contribuire a rendere visibile il ponte tra l'esterno e le varie realtà culturali in carcere. L'arte può davvero rendere liberi, e manifestazioni come queste possono rendere visibili anche realtà "chiuse" - come quella formata dai detenuti e dalle detenute di alta sicurezza che non possono portare la loro arte "fuori" - restituendole alla cultura e al pubblico "esterno" attraverso gli audiovisivi. È il caso del video sui dieci anni della compagnia del Teatro Libero di Rebibbia, dei cortometraggi in cui sono protagonisti i minori reclusi a Casal del Marmo, o, ancora, del corto "Prove chiuse" realizzato attraverso il montaggio di "Frammenti del laboratorio teatrale AdDentro" dallo spettacolo "La favola del figlio cambiato" (Compagnia Sangue Giusto e detenute della Casa Circondariale di Civitavecchia). Un esempio famoso è quello di Salvatore Striano, ex detenuto reso popolare dall'interpretazione al cinema di "Gomorra" e "Cesare non deve morire", che ha scoperto il suo talento per la recitazione proprio nel laboratorio della Ribalta diretto da Fabio Cavalli a Rebibbia. Un altro caso che ha riscosso grande successo è quello dei Presi per caso, la rock band di detenuti, ex detenuti e non detenuti del penitenziario di Rebibbia che, nel concerto di chiusura del Festival lanceranno il nuovo progetto discografico "Fuori!" ed eseguiranno alcuni dei loro classici, brani ironici ed amari sulla condizione carceraria. Il carcere come luogo di produzione di cultura sarà anche argomento di tavole rotonde come "Dentro. Libri dal carcere" (la presentazione del libro "Pensieri dal carcere" di Pierre Clémenti - attore amato da Buñuel, Pasolini, Glauber Rocha, Bertolucci, Jancsó e João César Monteiro - avverrà alla presenza del figlio, invitato per l'occasione dalla Francia), "Teatri in carcere nel Lazio" o "Cultura e recidiva". Riflessioni proposte da addetti ai lavori, aperte al confronto con il pubblico. Per suscitare spunti e riflessioni ulteriori, contribuendo a rendere più solido il ponte tra il carcere e la società libera. Genova: con il musical "Black and White" il teatro apre una breccia in carcere di Erica Manna La Repubblica, 7 dicembre 2014 Il direttore Salvatore Mazzeo: "Dove c'era solo terra e spazzatura adesso si può fare cultura". C'è odore di legno e di nuovo, nel Teatro dell'Arca. Sul palco gli studenti del liceo Pertini recitano il musical "Black and White", il regista dà le direttive. Giorno di prove, come tutti i venerdì. Ma questo non è un palcoscenico come gli altri: perché siamo in carcere. A Marassi. Nel primo teatro in Italia nato all'interno di una Casa circondariale. E in platea ci sono i detenuti. Che a loro volta stanno preparando un altro musical: "Angeli con la pistola", dal remake del film di Frank Capra. Ma qui non esistono etichette: solo attori. "Black & White", con la regia di Sandro Baldacci, il coordinamento della professoressa Elisabetta Battista e il sostegno del preside del liceo Pertini Alessandro Cavanna, andrà in scena il 10 dicembre proprio qui, in carcere, al Teatro dell'Arca, con ingresso a invito. "Manca ancora l'agibilità, ma ad aprile si aprirà ufficialmente il sipario alla città - racconta Mirella Cannata, presidente di Teatro Necessario Onlus, anima del progetto reso possibile dal direttore del carcere Salvatore Mazzeo - e ad assistere agli spettacoli potrà venire anche il pubblico da fuori. L'ingresso sarà in via Clavaretti, solo che qui per entrare non basta pagare il biglietto, ma registrarsi via e-mail e lasciare un documento. Il difficile sarà convincere il pubblico a tenere fuori i telefonini!". Il musical "Black & White" impegna una cinquantina di studenti e ne coinvolge almeno trecento, "nell'ambito di un progetto di "peer education", educazione alla pari per contrastare la dispersione scolastica, cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo e promosso dalla Regione Liguria - racconta la professoressa Elisabetta Battista - e abbiamo deciso che le dei ragazzi si dovessero svolgere nel teatro di Marassi. L'incontro con i detenuti è stato uno scambio reciproco. Molto istruttivo. Il musical che i ragazzi metteranno in scena è la storia di un pregiudizio. Non a caso". Lo hanno costruito anche loro, i detenuti, questo spazio all'interno del cortile di Marassi che ormai è quasi pronto. Lavoravano vestiti con una tuta marrone, per distinguerli dai dipendenti dell'impresa edile in blu. "Non dimenticherò mai quando abbiamo buttato giù il primo muro, per iniziare a costruire il teatro da zero", racconta Murad, che l'anno scorso ha recitato in "Amleto", andato in scena poi al Teatro della Tosse, e ripassava le battute nella sua cella divisa con altri sei detenuti, di notte, allo specchio - quando entri in carcere è come se lasciassi la tua esistenza all'ingresso, congelata. Eppure, adesso, grazie al teatro è ripartita. E pensare che nel mio Paese, in Palestina, non avevo mai nemmeno visto un palco". "Dove c'era solo terra e spazzatura - sorride il direttore del carcere Salvatore Mazzeo - adesso si può fare cultura: questo è un ponte verso l'esterno. Un luogo di crescita. Perché è proprio questo lo spirito del progetto: collegare il dentro e il fuori. Il carcere e la città". La Compagnia di attori detenuti si chiama - non a caso - Scatenati, e questa volta si cimenterà con un musical, "Angeli con la pistola", con la regia di Sandro Baldacci, le musiche di Bruno Coli e quattro professionisti esterni, in scena ad aprile. Perché il palco di questo teatro che hanno chiamato come l'Arca di Noè magari non garantirà la salvezza, ma per qualcuno è lo spiraglio di una vita diversa. Come per Paolo R., che l'anno scorso in "Amleto" ha interpretato la parte di Polonio, rivelando un talento naturale: al punto che è stato scritturato da Jurij Ferrini per un ruolo nella commedia di Govi "Colpi di Timone". È in scena stasera e domani al Politeama Genovese. Insieme agli attori professionisti. Immigrazione: liberato Emra, il giovane nato in Italia ma al Cie in attesa di espulsione Corriere della Sera, 7 dicembre 2014 La storia era stata raccontata dal "Corriere". I medici: incompatibile la permanenza. Era stato fermato a San Donà di Piave. Nell'anagrafe della Serbia non era mai stato registrato. Emra Gasi è libero. La storia del giovane nato in Italia da genitori immigrati dall'allora Jugoslavia aveva fatto il giro d'Italia dopo la pubblicazione della sua storia sul Corriere della Sera. Il giovane era stato fermato a San Donà di Piave (Venezia) e si trovava al Cie di Bari e l'udienza per il ricorso contro il provvedimento di espulsione era stata fissata per il 22 dicembre a Venezia. Il legale di Emra ha inoltrato l'istanza per il riconoscimento dello status di apolide mentre, dopo numerosi pressioni, dell'opinione pubblica, è stata disposta una perizia medica sul ragazzo. Il ragazzo doveva essere "rimpatriato" in un paese mai conosciuto, la Serbia, dove non era mai stato regitrato all'anagrafe. Nella mattinata di sabato meltingpot.org ha annunciato la notizia della "liberazione". La perizia dimostra che Emra non si trova in condizione di sopportare la detenzione in un Cie. Emra avrà diritto di rimanere in Italia in attesa del riconoscimento dello status di apolide e gli verrà quindi rilasciato un permesso di soggiorno. L'ultimo passaggio sarà il 22 dicembre davanti al Giudice di Venezia, per la revoca dell' espulsione. India: Tomaso ed Elisabetta, italiani detenuti; la madre di Tomaso fiduciosa per sentenza Ansa, 7 dicembre 2014 È fiduciosa Marina Maurizio, madre di Tomaso Bruno in carcere da quattro anni con Elisabetta Boncompagni con l'accusa di avere ucciso il loro compagno di viaggio in India, dopo la chiusura del dibattimento in appello e in vista della sentenza della Corte suprema indiana. "Gli avvocati hanno finalmente spiegato che cosa era accaduto quel giorno. I nostri ragazzi, come abbiamo sempre detto, sono innocenti. Quel giorno aiutarono in tutto e per tutto il loro amico colto da malore in albergo. Ora attendiamo fiduciosi la sentenza. Dopo le vacanze raggiungerò Tom e Eli e quindi parteciperò all'udienza del verdetto", ha spiegato la madre di Tomaso. Iran: segretario Consiglio diritti umani "sbagliamo a mostrare le esecuzioni in pubblico" di Tiziana Ciavardini La Repubblica, 7 dicembre 2014 Intervista a Mohammad Javad Larijani per Mondo Solidale. "Pensavamo che impiccare i colpevoli per strada fosse un deterrente soprattutto per i narcotrafficanti. Ma non è stato così. Il Paese sta attraversando una fase di transizione verso una più completa modernità. Ci vuole tempo, ma siamo fiduciosi". E le donne? "Siamo orgogliosi della loro emancipazione". Il Segretario del Consiglio dei Diritti Umani in Iran, Mohammad Javad Larijani, in visita in Italia per incontri ad alto livello, e per avviare scambi e consulenze in campo giudiziario, ha parlato con i giornalisti a margine di un convegno all'Istituto Affari Internazionali. Fratello del più famoso Ali Larijani, speaker del Parlamento iraniano, Mohammad Larijani è anche consigliere della Guida Suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei. "L'Iran è in continua evoluzione - ha detto - e stiamo cercando di migliorare la situazione dei diritti umani. Abbiamo capito che le esecuzioni di massa non hanno portato al risultato che volevamo ottenere". Lo stato attuale delle cose per i diritti umani. "In molti paesi i diritti umani vengono violati - ha esordito Mohammad Javad Larijani - ma spesso si fa confusione tra diritti umani e violazioni delle leggi vigenti in un determinato territorio. Il nostro paese è al centro delle cronache per le condanne a morte inflitte ai nostri detenuti. Non è semplice spiegare all'Occidente il sistema di leggi che articola la Costituzione del nostro paese. Spesso chi ci accusa si ferma solo al risultato di una determinata condanna, senza comprenderne il reale motivo, tantomeno interessarsi degli atti processuali. Non dobbiamo pensare alla condanna a morte di un detenuto - ha aggiunto Larijani - come ad una vendetta da parte nostra, ma come una punizione per un crimine compiuto. Sappiamo di diffondere un'immagine negativa del nostro paese, ma le leggi al momento non possono essere trasgredite". Il narcotraffico. "In Iran la maggior parte delle esecuzioni sono legate al traffico di droga - ha detto ancora Larijani - erroneamente avevamo pensato che aumentare le esecuzioni potesse avere un effetto dissuasivo sui trafficanti. Abbiamo sbagliato, evidentemente per alcuni è piú importante il denaro ottenuto smerciando droga che non la propria vita. Stiamo ipotizzando altre strategie per controllare questo traffico che dall'Afghanistan, paese fornitore del 90 per cento dell'oppio mondiale, passa per l'Iran per poi arrivare anche in Europa. Abbiamo spesso chiesto aiuto ad altri paesi per combattere questo fenomeno, per il quale l'Iran ha già perso quasi 4.000 uomini fra le forze di polizia, nel corso degli ultimi 34 anni". Le pubbliche impiccagioni. Una delle critiche che spesso l'Occidente muove all'Iran è quella provocata dalle esecuzioni pubbliche. Le cronache diffondono video e foto di impiccagioni davanti ad un pubblico formato anche da adolescenti e bambini. A questo proposito Larijani spiega che già nel gennaio del 2008 l'Ayatollah Mahmoud Hashemi-Shahroudi, allora capo della Magistratura, aveva firmato una moratoria che proibiva le esecuzioni in pubblico. Le impiccagioni, insomma, dovrebbero avvenire solo al chiuso, senza alcuna possibilitá di foto o riprese video. Ma la decisione non è stata rispettata, perché qualcuno la leggeva come un modo per eludere il controllo della popolazione rispetto al numero delle esecuzioni effettuate. La questione femminile. Quando chiediamo a Larijani come mai ancora oggi la vita di una donna in Iran vale la metá di quella di un uomo, lui risponde che siamo in errore. Gli articoli 20 e 21 della Costituzione Iranana parlano chiaro, spiega: "Nel rispetto delle norme islamiche - dice il segretario del Consiglio dei Diritti Umani iraniani - tutti i cittadini della nazione, sia uomini che donne, sono uguali di fronte alla protezione della legge e godono di tutti i diritti. Nel nostro paese - ha aggiunto - più del 65 per cento degli studenti universitari sono donne, presenti anche nelle posizioni di direzione amministrativa più elevate, così come nella politica, o nell'insegnamento universitario. E di questo siamo orgogliosi". Secondo Larijani, dunque, la realtà delle donne iraniane è ben diversa dall'idea propagandistica che viene diffusa. Le promesse di Rohani. Quando chiediamo al dirigente iraniano se le promesse del Presidente Hassan Rohani potranno a breve realizzarsi, in particolare quelle legate ai temi dei diritti e delle libertá individuale, Larijani spiega: "L'Iran sta facendo un percorso che è partito da una Rivoluzione ed è diretto verso una evoluzione. La Repubblica Islamica è pronta a nuove sfide verso una più completa modernizzazione. Stiamo vivendo una lunga fase transitoria, che implica alcuni cambiamenti. Per attuarli ci vuole tempo, ma abbiamo grande fiducia in Rohani e siamo convinti che avrà successo nel seguire i suoi buoni propositi". Egitto: tribunale del Cairo condanna a morte sette estremisti islamici per strage di Rafah Nova, 7 dicembre 2014 Il tribunale penale del Cairo ha condannato a morte sette estremisti islamici, guidati dallo sceicco Abdel Habara, accusati dell'uccisione di 25 membri della sicurezza per il processo denominato della "seconda strage di Rafah", in riferimento all'attacco compiuto il 19 agosto del 2003. Altri tre imputati sono stati condannati a pene detentive che vanno dai 15 ai 22 anni di carcere. Il 19 agosto del 2013 Habara ed i suoi seguaci hanno fermato un autobus con a bordo dei membri delle forze di sicurezza nel Sinai, obbligandoli a scendere e uccidendoli. Iran: giornalista del Washington Post incriminato dopo oltre 4 mesi carcere La Presse, 7 dicembre 2014 Il giornalista del Washington Post Jason Rezaian, detenuto in Iran da oltre quattro mesi, è stato incriminato in un tribunale di Teheran. La testata americana ricorda che si tratta della prima incriminazione dal giorno dell'arresto del cittadino americano-iraniano, avvenuto il 22 luglio. Non è chiaro quali siano i capi d'accusa, spiega il Washington Post, mentre l'udienza odierna è durata circa dieci ore. La detenzione di Rezaian nei giorni scorsi era stata prolungata sino a metà gennaio, mentre le indagini proseguivano. La famiglia ha assunto un legale per difendere il giornalista, ma nessun incontro è stato autorizzato. Kerry: deluso e preoccupato per caso di giornalista Washington Post Il segretario di Stato americano, John Kerry, è "deluso e preoccupato" per gli ultimi sviluppi del caso del giornalista del Washington Post Jason Rezaian. Lo si apprende dal profilo Twitter del dipartimento di Stato. Il reporter è stato incriminato in un'udienza durata circa 10 ore, dopo oltre quattro mesi di carcere. Kerry ha chiesto al governo di Teheran di far cadere tutte le accuse contro il cittadino americano-iraniano e "di rilasciarlo in modo che possa tornare dalla famiglia".