Giustizia: "Come il mio nemico", riflessione sul garantismo e la vicenda di Provenzano di Luigi Manconi Il Foglio, 5 dicembre 2014 La miseria culturale (prima ancora che politica) del garantismo italiano è qualcosa di desolante. E pensare che, da un quarto di secolo, alcuni giuristi (Luigi Ferrajoli e non solo lui) lavorano egregiamente alla elaborazione di una vera e propria teoria generale delle garanzie nel processo e nel sistema della reclusione e dell'esecuzione delle pene. Una teoria generale puntualmente articolata e concretamente applicabile semmai qualcuno (singolo o istituzione) volesse applicarla. Un vero e proprio manuale d'uso che al presente pressoché nessuno sembra voler usare. Con la sola eccezione dei radicali e di pochissimi altri. Proprio ieri Marco Pannella ha annunciato un nuovo sciopero della sete a proposito dello stato della giustizia e, in particolare, delle condizioni di Bernardo Provenzano. La sorte di quest'uomo rappresenta una delle vicende che, in ragione della loro esemplarità, consentono di guardare il cuore profondo e la qualità dirimente della categoria stessa di garantismo. In altre parole: provateci voi a fare i garantisti nei confronti di chi è stato condannato a tre ergastoli per più stragi e per la morte di decine e decine di persone. Ma proprio per questa ragione la storia di Provenzano costituisce - paradigmaticamente - l'inveramento del garantismo o, meglio, la sua ardua incarnazione. Partiamo dal quadro clinico che, su richiesta del tribunale di sorveglianza di Milano, è stato redatto dai medici dell'ospedale San Paolo: Provenzano "presenta un grave stato di decadimento cognitivo, trascorre le giornate allettato alternando periodi di sonno a vigilanza. Raramente pronuncia parole di senso compiuto o compie atti elementari se stimolato. L'eloquio, quando presente, è assolutamente incomprensibile. Si ritiene incompatibile col regime carcerario". Tra tre giorni sarà presa una decisione, ma già si è fatta una notevole confusione tra il giudizio di "incompatibilità" con la detenzione, che apparirebbe valutazione inoppugnabile, e la richiesta di declassificazione dal regime di 41 bis. Quest'ultimo - va immediatamente chiarito - non rappresenta la giusta pena per i mafiosi. Costituisce, piuttosto, una delicatissima misura di prevenzione, come l'ha qualificata nel corso di un'audizione presso la commissione per la Tutela dei diritti umani del Senato, il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. Insomma, una misura da assumere caso per caso, sulla base dell'effettiva e attuale (attenzione: attuale) pericolosità del detenuto. È un punto cruciale: il 41 bis persegue l'esclusivo fine di spezzare ogni legame tra detenuto e organizzazione criminale. Di conseguenza, quella misura non deve mirare ad alcuna ulteriore afflizione nei confronti di chi vi è sottoposto. D'altra parte, è un provvedimento che i magistrati impegnati nelle indagini sulle mafie reputano irrinunciabile: ma che - a sentire il consigliere Roberto Piscitello dell'Amministrazione penitenziaria - in più di una circostanza ha portato alcuni ad accusare gravi disturbi mentali. Ma torniamo a Provenzano. Nel marzo scorso, le tre procure distrettuali antimafia interessate (Palermo, Caltanissetta e Firenze) hanno giudicato l'ottantunenne capomafia ormai incapace di parlare e di partecipare a un dibattimento (tanto meno, dunque, di intrattenere rapporti con l'organizzazione criminale). E, tuttavia, il ministro della Giustizia ha ritenuto di doverlo sottoporre al 41 bis per altri due anni, in base al parere espresso dalla Direzione nazionale antimafia. A questo punto diventa decisiva la sentenza del tribunale di sorveglianza di Roma del prossimo 5 dicembre: e così potrà accadere che il regime del 41 bis venga revocato per gravi motivi di salute, e per conseguente assenza di pericolosità, mentre verrebbe confermata la pena detentiva. Pertanto, sarà solo il pericolo di morte che potrebbe consentire la revoca del 41 bis a un vecchio capomafia ormai incapace di intendere e di volere. O forse questo non accadrà e Provenzano finirà i suoi giorni lì dove si trova ora. Sarebbe un grave errore per il nostro stato di diritto. E, infatti, qui non si discute in alcun modo del feroce curriculum criminale di Provenzano e delle pene giustamente comminategli. Qui si discute esclusivamente di ciò che, di quel crudele criminale, tuttora sopravviva e, dunque, di ciò che quel crudele criminale tuttora meriti di scontare. Ed è a questo punto che la sorte che il sistema della giustizia dello stato democratico vorrà riservargli diventa un test-verità. Innanzitutto per un principio generale, che possiamo definire di filosofia morale: non dobbiamo assomigliare al nostro nemico. La superiorità giuridica dello stato di diritto consiste in questo: nel fatto di essere indipendente da chi lo combatte così nella elaborazione delle leggi come nell'esecuzione delle pene. Di conseguenza l'amministrazione della giustizia non si fa influenzare da chi rappresenta la negazione assoluta dei principi che ispirano il sistema democratico, non ne adotta i metodi e non ne assume - mai la ferocia. Se Provenzano venisse sottratto a una carcerazione incompatibile con il suo stato di salute, ciò costituirebbe una vittoria dello stato di diritto e il vecchio boss sarebbe restituito alla sua attuale e più autentica dimensione: quella di un "simbolo del male" ormai completamente vuoto e ridotto a un consunto simulacro del passato. Giustizia: drogati e sedati... ecco come tengono buoni i detenuti di Damiano Aliprandi Il Garantista, 5 dicembre 2014 Rita Bernardini: "in carcere si risparmia su tutto, fuorché sul valium". Suicidi sospetti e tossicodipendenti che non dovrebbero stare in prigione. Valium, antipsicotici, antidepressivi, benzodiazepine, ipnotici e oppiacei, questi sono gli psicofarmaci somministrati ai detenuti per contenerli e sedarli. L'istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di degrado e sovraffollamento che sono costretti a subire. Inoltre c'è il sospetto che dietro alcuni suicidi che avvengono al carcere ci sia l'ombra dell'abuso degli psicofarmaci. C'è il caso di Alessandro Simone, il 28enne bitontino che sì è tolto la vita il 28 maggio di quest'anno nel carcere di Bari, è che l'autopsia ha negato la presenza di lesioni e violenze esterne. Il calvario di Alessandro comincia il 13 marzo, quando è associato al carcere del capoluogo pugliese con le accuse di detenzione d'arma (non trovatagli addosso, ma in campagna e ricondotta a lui) e di maltrattamenti familiari (avrebbe picchiato la sua compagna, più grande di lui, che poi ha esporto denuncia). Una volta in carcere, il giovane bitontino viene posto nella sezione dei cosiddetti "sex offender", cioè il reparto degli stupratori e di chi ha commesso violenze sessuali, ed è sottoposto a regime di sorveglianza h24, perché tenta due volte il suicidio (impiccagione e taglio delle vene) ed è considerato un "soggetto problematico". Nonostante la sorveglianza, il ragazzo si sarebbe impiccato nel bagno. Si sono aperte ben due inchieste per far luce su alcune zone ombra, soprattutto sulla sorveglianza che non c'è stata. La famiglia del giovane bitontino, però, vuole andare oltre e capire, per esempio, che ruolo abbiano avuto gli psicofarmaci che Alessandro assumeva in carcere, proprio perché "soggetto problematico". Secondo la famiglia queste forti assunzioni di psicofarmaci, forse non bene coordinati tra loro, piuttosto che aiutarlo lo hanno indebolito e portato ad atti autolesionistici. Recente è anche la denuncia di Rita Bernardini, segreteria di radicali italiani, nel corso della scorsa audizione nella commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi, ove ha dichiarato che "nelle carceri si risparmia su tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter superare questo stato. È molto alta infatti, intorno al 25% la percentuale di persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza". Molte richieste di psicofarmaci, infatti, sono fatte soprattutto dai detenuti tossicodipendenti che cercano di sostituire con essi la sostanza stupefacente. Le maggiori richieste sono rivolte alle benzodiazepine, i tranquillanti che riuscivano a trovare e che usavano anche prima della carcerazione nei periodi di astinenza. I tossicodipendenti cercano di procurarsene dosi molto elevate. Fingendo di ingoiare la compressa per poi sputarla non appena l'infermiere o l'agente se ne va, riescono ad accumulare più dosi per ottenerne una consistente e quindi più forte, quasi quanto una vera dose di droga. Tutto ciò ha costretto il corpo dei medici penitenziari alla prescrizione di formulazioni farmaceutiche in gocce che, a differenza delle compresse, se assunte davanti all'infermiere, difficilmente possono essere nascoste sotto la lingua. Per l'esperienza accumulata all'esterno, i tossicodipendenti conoscono i farmaci molto bene. Scrive lo studioso del settore Daniel Gonin: "Il Transene 5 o 10 per esempio gli sembra ridicolo; per loro una vera prescrizione non ha senso che a partire da una compressa di 50 mg"; e frasi come "La compressa rosa dottore, quella rosa e non la capsula rosa e bianca o tutta bianca" sono assai frequenti". Continua Gonin: "È con i drogati che ho imparato a conoscere i diversi colori delle medicine alle quali prima non sapevo che dare un nome, o attribuire una formula molecolare difficile da ricordare. Ma il valium bianco, giallo o blu, o meglio ancora il Xanax color pesca, li avevo ignorati!". È chiaro quindi che il problema della richiesta di psicofarmaci da parte dei tossicodipendenti è particolarmente difficile: da una parte l'inevitabile sofferenza del detenuto e dall'altra la necessità di tutelare la sua salute e di intraprendere la strada della disintossicazione. Il "divezzamento" è fonte, secondo Gonin, di molteplici controversie. Egli si chiede se sia lecito fornire legalmente una droga illecita oppure somministrare una droga di sostituzione come il metadone, che crea minori rischi per la salute dei consumatori, permettendo loro al contempo, di ottenere un discreto inserimento sociale; o se sia più opportuno rimpiazzare la droga con dei medicinali dei quali si diminuirà progressivamente la dose per permettere una disintossicazione senza traumi: questo atteggiamento terapeutico ha il vantaggio di alleviare rapidamente l'astinenza e di procurarsi la riconoscenza del drogato, ma non è privo di effetti di natura tossicomanica. Inoltre risulta estremamente difficile ridurre le dosi dei medicinali prescritti, il che conferma chiaramente l'instaurazione di una nuova forma di tossicodipendenza nel soggetto. Infine l'autore si chiede se non sia più opportuno astenersi, rifiutando qualsiasi prescrizione di una molecola chimica e lasciare che il processo di disintossicazione segua il suo corso, onde evitare di cadere da una consumazione di sostanze tossiche in un'altra. In Toscana la terapia adottata in carcere per la disintossicazione è costituita dalla somministrazione del metadone cloridrato, uno sciroppo ad alta percentuale di zucchero contenente questa sostanza oppiacea (il metadone) che funziona da "sostitutivo" coprendo le crisi di astinenza. Al primo ingresso in carcere la terapia viene iniziata con un dosaggio massimo di 30 ce di metadone per 2 o 3 giorni, dando modo all'organismo di assestarsi, per poi cominciare a scalare di 1 ce al giorno. Nel corso di 30 giorni lo scalaggio (il metandone) è più o meno finito. L'articolo 5 del decreto ministeriale (n. 445, 19 dicembre 1990) stabilisce che il trattamento della tossicodipendenza da oppioidi con farmaci sostitutivi è limitato ai soggetti con comprovata dipendenza fisica. I programmi con metadone sono riservati ai soggetti per i quali altri tipi di trattamento non abbiano determinato la cessazione di assunzione di eroina o di altri oppioidi. Alla fine del trattamento con metadone, il detenuto tossicodipendente può chiedere la somministrazione del Naltrexone, farmaco chimico utilizzato come "scudo" contro l'eroina. Devono trascorrere 7/8 giorni senza che il detenuto assuma nessuna sostanza, nemmeno il metadone, dopodiché viene somministrato il Naltrexone che impedisce all'eroina di produrre qualsiasi effetto. Tale farmaco deve essere assunto per un minimo di 6 mesi, tutti i giorni. Il consumo molto elevato di psicotropi in prigione è una caratteristica dell'incitamento alla tossicomania da medicinali (farmacodipendenza), tipica dell'ambiente carcerario. La prigione, che già di per sé causa numerosi disturbi postumi nel detenuto tornato alla vita libera, "fabbrica" così dei tossicodipendenti da farmaci. Molti sono gli ex detenuti che non riescono più a vivere senza tranquillanti e sonniferi. Il timore di diventare vittime dell'assuefazione viene spesso sentito già durante il periodo della carcerazione; in questi casi è lo stesso detenuto a chiedere al medico che lo psicofarmaco prescritto sia leggero nell'effetto come nella dose e, il suo uso, limitato ad un particolare momento di crisi. Il consumo eccessivo di psicofarmaci all'interno della popolazione carceraria è un problema ancora non risolto, anche se c'è la volontà, rara, di sostituire i farmaci con la psicoterapia. Il ricorso ad essa però è ostacolato dall'organizzazione sanitaria carceraria che prevedendo un solo psichiatra a fronte di centinaia di detenuti, non permette una "presa in carico" di tutti i pazienti che necessitano di cure psichiatriche. Ma resta il vero problema ancora non affrontato di petto: i tossicodipendenti in carcere non ci dovrebbero proprio stare. Giustizia: ok dalla Camera alla riforma delle misure cautelari, il ddl passa al Senato Il Velino, 5 dicembre 2014 Con 303 voti favorevoli e 21 contrari l'aula di Montecitorio ha approvato, in terza lettura, la proposta di legge che modifica il codice penale relativamente all'applicazione delle misure di custodia cautelare. Ora il provvedimento torna al Senato, per l'approvazione definitiva. Le nuove norme si propongono di restituire natura di extrema ratio alla carcerazione preventiva, rendendo più stringenti i presupposti e le motivazioni e ampliando al contrario le misure alternative. Niente prigione, ad esempio, se in corso di processo basteranno il divieto di esercitare una professione e il ritiro del passaporto o l'obbligo di dimora. Ecco, in sintesi, le principali novità. Saltano gli attuali automatismi applicativi: la custodia cautelare in carcere potrà essere disposta soltanto quando siano inadeguate le altre misure coercitive o interdittive. Tali misure, a differenza di quanto è oggi, potranno però applicarsi cumulativamente. Per giustificare il carcere il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non dovrà essere soltanto concreto (come è oggi) ma anche "attuale". Il giudice non potrà più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l'accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali i precedenti, i comportamenti, la personalità dell'imputato, etc. Gli obblighi di motivazione si intensificano. Il giudice che dispone la cautela non potrà infatti più limitarsi a richiamare per relationem gli atti del pm ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Aumentano (dagli attuali 2 mesi) a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione esercizio potestà genitori, sospensione esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. Per i delitti di mafia e associazione terroristica resta la presunzione assoluta di idoneità della misura carceraria. Per gli altri delitti gravi (omicidio ad esempio, violenza sessuale, sequestro di persona per estorsione, etc.) vale invece una presunzione relativa: niente carcere se si dimostra che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Cambia in profondità la disciplina del riesame delle misure cautelari personali. Il "tribunale della libertà" avrà tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni a pena di perdita di efficacia della misura cautelare. Che, salvo eccezionali esigenze, non potrà più essere rinnovata. Il collegio del riesame dovrà inoltre annullare l'ordinanza liberando l'accusato (e non come oggi integrarla) quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della cassazione. Per la presidente della commissione giustizia Donatella Ferranti, si tratta di un "atto di civiltà giuridica". "Una riforma strutturale - osserva l'esponente del Pd - che certamente si lega (potendo contribuire a un ulteriore riduzione del numero dei detenuti) alla questione del sovraffollamento carcerario, ma risponde soprattutto a ragioni di civiltà giuridica". "Le misure cautelari in carcere - spiega Ferranti - non possono costituire una anticipazione della pena: quello approvato è un buon testo, un testo equilibrato che riesce a contemperare il principio di una carcerazione preventiva come extrema ratio con la necessità di tutelare le vittime e la sicurezza dei cittadini nei confronti dei reati gravi. è un testo, insomma, che dà più garanzie agli imputati senza alcun cedimento nei confronti dei delitti di forte allarme sociale, dalla mafia alla violenza sessuale, dalle rapine allo stalking". L'auspicio, aggiunge la presidente della commissione Giustizia, "è che ora il provvedimento possa avere una rapida e definitiva approvazione da parte del Senato, perché è indispensabile ripristinare una cultura delle cautele penali fondata sul rispetto dei principi costituzionali e sulla necessità di valutare, caso per caso e senza automatismi, le misure più idonee a garantire le esigenze cautelari in attesa del processo e della sentenza". Ferranti (Pd): atto civiltà riforma misure cautelari "Un atto di civiltà giuridica". Così Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, commenta il via libera dell'aula in terza lettura alla riforma delle misure cautelari: "Si tratta di una riforma strutturale - osserva l'esponente del Pd - che certamente si lega (potendo contribuire a un ulteriore riduzione del numero dei detenuti) alla questione del sovraffollamento carcerario, ma risponde soprattutto a ragioni di civiltà giuridica. Le misure cautelari in carcere - spiega Ferranti - non possono costituire una anticipazione della pena: quello approvato è un buon testo, un testo equilibrato che riesce a contemperare il principio di una carcerazione preventiva come extrema ratio con la necessità di tutelare le vittime e la sicurezza dei cittadini nei confronti dei reati gravi. È un testo, insomma, che dà più garanzie agli imputati senza alcun cedimento nei confronti dei delitti di forte allarme sociale, dalla mafia alla violenza sessuale, dalle rapine allo stalking". L'auspicio, aggiunge la presidente della commissione Giustizia, "è che ora il provvedimento possa avere una rapida e definitiva approvazione da parte del Senato, perché è indispensabile ripristinare una cultura delle cautele penali fondata sul rispetto dei principi costituzionali e sulla necessità di valutare, caso per caso e senza automatismi, le misure più idonee a garantire le esigenze cautelari in attesa del processo e della sentenza". Carfagna (Fi): sovraffollamento non si affronta con misure emergenza "Se ho deciso di astenermi in alcune votazioni sulla riforma della custodia cautelare è perché se da un lato riconosco l'abuso di carcerazione preventiva che si è fatto fino ad oggi in Italia (in media 1/3 delle persone sottoposte a custodia cautelare si rivelerà innocente oltre ogni ragionevole dubbio), reputo altrettanto prioritario non abbassare le garanzie e le tutele nei confronti di quelle donne o di quei minori che subiscono violenza. Il sovraffollamento carcerario si affronta con investimenti e nuove carceri non con misure di emergenza". Così la deputata di Forza Italia, Mara Carfagna, spiega la sua astensione nella votazione odierna sulla riforma della custodia cautelare. Giustizia: più limiti alla custodia cautelare, non sarà obbligatoria per traffico di droga di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2014 La Camera ha approvato la riforma, che ora torna al Senato per ratificare gli ultimi dettagli. Ridurre l'area della custodia cautelare, riservandola alle situazioni dove realmente è indispensabile. Anche perché, se i detenuti in attesa di giudizio sono in diminuzione, restano comunque tanti: 18.748 su poco più di 54mila. Così ieri la Camera ha approvato in terza lettura la riforma, che ora torna al Senato per effetto di alcune, limitate correzioni. Il testo ruota intorno ad alcune modifiche-chiave al Codice di procedura penale. In generale, le più incisive sono su valutazione delle esigenze cautelari e idoneità della specifica misura restrittiva, obblighi di motivazione del giudice, procedimento di riesame e appello. Anna Rossomando (Pd), relatrice del provvedimento, spiega che alla base c'è l'intenzione di non considerare la detenzione cautelare come un'anticipazione della pena, oltretutto in condizioni spesso peggiori visto che i detenuti in attesa di giudizio non possono fruire dei trattamenti di cui "beneficiano" i condannati definitivi. In ogni modo, precisa Rossomando, "sono state potenziate le misure interdittive, permettendone anche il cumulo. E per alcuni tipi di criminalità, come quella dei "colletti bianchi", potrebbero essere efficaci". Per giustificare il carcere, il pericolo di fuga o di ripetizione del reato non dovrà essere solo concreto (come oggi) ma anche attuale. Il giudice non potrà più ritenere l'esistenza del pericolo solo da gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l'accertamento dovrà coinvolgere elementi come precedenti, comportamenti e personalità del soggetto. Quanto alla motivazione, il giudice che dispone la custodia in carcere non potrà più limitarsi a richiamare gli atti del pm, ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Passano da due a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione dall'esercizio della potestà genitoriale, dal pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali), per consentirne un effettivo uso alternativo alla custodia cautelare. Per i delitti di mafia e associazione terroristica resta la presunzione assoluta di idoneità del carcere come unica misura per spezzare il vincolo associativo. Per gli altri delitti gravi (come omicidio, violenza sessuale, sequestro di persona per estorsione) c'è una presunzione relativa: niente carcere se si dimostra che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. In questo elenco confluiscono, ed è una delle novità introdotte dalla Camera rispetto al testo del Senato, anche voto di scambio e traffico di stupefacenti per i quali (ma in contrasto con la giurisprudenza della Corte costituzionale) era stata previsto solo il carcere. Cambia anche la disciplina del riesame delle misure cautelari personali. Il Tribunale della libertà avrà tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, pena la perdita di efficacia della misura cautelare e la sua non rinnovabilità (salvo eccezionali esigenze). Il collegio del riesame dovrà inoltre annullare l'ordinanza liberando l'accusato (e non integrarla, come oggi) quando il giudice non motiva il provvedimento o non valuta autonomamente tutti gli elementi. Tempi certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Cancellata dalla Camera, perché incoerente con la materia del Ddl, la stretta disciplinare sui magistrati che non rispettano i tempi di deposito delle sentenze. Giustizia: dal governo via libera a una prescrizione senza "paracadute" di Errico Novi Il Garantista, 5 dicembre 2014 Nel caos mediatico scatenatosi attorno alla prescrizione, il governo opterà per il gioco di rimessa. Lo lascia intendere il ministro della Giustizia Andrea Orlando al termine di un incontro con i vertici dell'Associazione magistrati. "Il 16 dicembre inizia il lavoro della commissione Giustizia della Camera su un testo base di riforma della prescrizione: o si arriva a quella data con un testo complessivo", che associ dunque la proposta dell'esecutivo e quella dei deputati, "oppure presenteremo un emendamento". Il guardasigilli lascerà fare al Parlamento. Dal prossimo Consiglio dei ministri potrebbe sì arrivare lo stralcio della prescrizione dal disegno di legge sul processo penale. Ma viste le tensioni che sul punto attraversano lo stesso Pd, Orlando glisserà in ogni caso, nel suo ddl, sulla clausola che esclude l'applicazione delle nuove norme ai processi in corso. È il nodo su cui si concentrano le critiche del Nuovo centrodestra e dell'Unione Camere penali. Via Arenula però non intende farsi travolgere dall'onda delle strumentalizzazioni, che già insinuano l'idea di un favore al Cavaliere. Se infatti l'applicazione della norma venisse esplicitamente esclusa per i processi già arrivati a una prima sentenza, andrebbe senz'altro in prescrizione uno degli ultimi giudizi pendenti su Berlusconi, quello relativo al caso Lavitola. In realtà se i deputati della commissione Giustizia decidessero di andare avanti su una riforma della prescrizione priva di clausola di salvaguardia, il rischio è che eventuali applicazioni "estensive" della legge vengano comunque dichiarate incostituzionali. Lo spiega al Garantista l'ordinario di Diritto costituzionale della Federico II di Napoli Sandro Stajano. "Intanto è chiaro che la riforma della prescrizione rientrerebbe nelle norme di diritto penale sostanziale, secondo quanto ampiamente consolidato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, oltre che in quella nazionale. E questo", nota il costituzionalista, "vuol dire che le nuove norme sulla prescrizione non dovrebbero essere applicate in modo retroattivo, cioè sfavorevole all'imputato". Se pure la riforma passasse senza clausola, un imputato di un processo già andato a sentenza dovrebbe dunque aspettarsi che il giudice d'Appello non tenga comunque conto della prescrizione "allungata" all'esame di governo e Parlamento. "Naturalmente non è detto che il giudice interpreti spontaneamente la norma a favore dell'imputato. Potrebbe non farlo, e in quel caso però l'imputato potrebbe chiedere che venga sollevata l'eccezione di costituzionalità di fronte alla Consulta. Se pure il giudice del processo trovasse infondata l'eccezione d'incostituzionalità e non inviasse gli atti alla Corte costituzionale, dopo il giudicato ci sarebbero tutti gli estremi per ricorrere alla Corte di Strasburgo". Applicare a processi già in corso le nuove norme sulla prescrizione sarebbe dunque contro la Carta. Anche per questo il governo preferisce che ad assumersi la responsabilità di un "no" sulla famigerata clausola siano le Camere. Tanto poi i processi andrebbero comunque a sbattere contro il giudizio della Consulta o contro quello della Corte europea. Sulla prescrizione l'Associazione magistrati si dice in ogni caso insoddisfatta. Sulla responsabilità civile si affida al ministro Orlando: "Vedremo quali saranno gli interventi in sede interpretativa", dice il presidente dell'Anm Sabelli. Su almeno un punto il guardasigilli promette di vigilare, l'interpretazione della legge che "deve restare libera e diretta conseguenza del principio costituzionale dell'autonomia e dell'indipendenza" dei magistrati. Niente sciopero delle toghe, comunque. "Decide il comitato direttivo dell'Associazione", dice Sabelli, ma dopo l'incontro di ieri l'ipotesi pare definitivamente sfumata. Riprende quota invece quella di un intervento sui profili incostituzionali della legge Severino, invocato ieri anche da Carlo Nordio. E, sul fronte Csm, si ripropone il trasferimento d'ufficio dalla Procura di Milano sia per Bruti Liberati che per Robledo, chiesto dalla presidente della prima commissione, la "laica" Paola Balducci. Giustizia: Mauro Palma nominato nuovo vice capo del Dap di Giovanni Augello Redattore Sociale, 5 dicembre 2014 Dopo essere stato inserito nella rosa dei papabili a capo dell'Amministrazione penitenziaria, dal ministero della Giustizia trapela la notizia della sua nomina a pochi giorni da quella di Santi Consolo a capo del Dap. Notizie anche sugli Opg: "Non ci saranno più proroghe". Mauro Palma affiancherà Santi Consolo alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Dopo essere stato dato per papabile alla guida del Dap, in queste ore dal ministero della Giustizia trapela la notizia della sua nomina a vice capo del Dap. Una nomina non senza resistenze, si apprende da alcune fonti. C’è chi al posto di Palma avrebbe voluto un magistrato o una figura proveniente dalla stessa amministrazione. Il nome del presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale era stato oggetto di un endorsement da parte sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe. In una intervista pubblicata sul Manifesto, Donato Capece, segretario del sindacato, nel bel mezzo di un totonomine sul successore di Giovanni Tamburino (capo Dap fino a maggio 2014), l’aveva indicato come "l’uomo giusto". "Il professor Palma è uno studioso – spiega Capece nell’intervista -, ha lavorato con la ministra Cancellieri e conosce il mondo penitenziario, anche se proviene da Antigone. Pensiamo che la filosofia del "povero" detenuto vada abbandonata ma Palma è fortemente convinto delle misure alternative e ha più volte dimostrato che tiene alla dignità della Polizia Penitenziaria, che si è fatta carico di tutte le criticità. Con lui potremmo fare un percorso alternativo e forse è proprio lui l'uomo che potrebbe restituire dignità al nostro Corpo, attraverso la riforma della Polizia Penitenziaria". A portare il suo nome tra la rosa dei candidati è stato anche il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, che sempre sul Manifesto gli attribuiva "un ruolo decisivo" nella sua doppia funzione di presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale e di consigliere del ministro della Giustizia. "È indubbio che senza il suo contributo - spiega Gonnella nell’articolo - l'Italia avrebbe subito ben altra sorte a Strasburgo. Sarebbero probabilmente piovute condanne per il passato e si sarebbe consolidata sfiducia per il futuro". Sulla chisura degli Opg, nessuna proroga. Dal ministero di via Arenula, intanto, trapelano anche altre notizie riguardo il pianeta carcere. Stavolta in merito agli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Al ministero, infatti, pare non vogliano sentir più parlare di proroghe per la chiusura delle strutture, la cui ultima scadenza è fissata per il 31 marzo 2015. Alle regioni poche possibilità di scelta. E se necessario non è escluso che il ministero possa esercitare interventi sostitutivi. Giustizia: Operazione "Farfalla", al Copasir nuovo confronto con Minniti e direttore Aisi Adnkronos, 5 dicembre 2014 Si avvia verso la conclusione l'indagine del Copasir, decisa l'8 settembre scorso sulle cosiddette operazioni ‘Farfallà e ‘Rientrò che in passato avrebbero portato agenti del Sisde, in accordo con il Dap, ad avere informazioni con detenuti al regime del 41 bis. Oggi, nell'aula del sesto piano di Palazzo San Macuto, sono tornati il sottosegretario Marco Minniti, Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica e, in mattinata, il direttore dell'Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), generale Arturo Esposito. Un confronto, riferiscono fonti qualificate, che ha permesso di fare un punto situazione sui dati acquisiti nel corso della lunga e corposa indagine che ha visto centinaia di ore di audizione dei vari soggetti che sarebbero stati interessati dalle presunte operazioni, e l'acquisizione di migliaia di pagine documentali. Dalle audizioni odierne dei vertici del Comparto Intelligence, riferiscono le stesse fonti, non sarebbero emersi elementi di novità rispetto a quanto più volte comunicato al Copasir circa l'inesistenza di un ‘protocollo Farfallà, che avrebbe portato uomini dei Servizi segreti ad entrare nelle carceri violando così le norme per parlare con i boss reclusi. Si attende in queste ore la risposta del generale Mario Mori, ex capo del Sisde, in merito a una sua eventuale audizione che dovrebbe essere fissata al massimo per la prossima settimana. La richiesta di nuova convocazione al generale Mori era stata firmata dal presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Giacomo Stucchi. In ogni caso, sulla base del lavoro di indagine svolto dal Comitato, spetterà al vicepresidente del Copasir, il senatore di Ncd Giuseppe Esposito, tracciare nella relazione finale che sarà trasmessa al Parlamento le conclusioni dell'indagine. Lettere: lo Stato sta al carcere come l'allevatore alla fattoria degli animali di Chiara Sirianni Tempi, 5 dicembre 2014 Domenica 30 novembre ho visto Report, che proponeva (riassumo con parole mie) che tutti i detenuti in salute dovrebbero essere obbligati a lavorare, che tanto "lo fanno in tutta Europa", e siccome i soldi mancano puoi anche non pagarli, così imparano, e ringrazino lo Stato che gli insegna un lavoro. Il punto essenziale lo ha posto la Gabanelli quando ha domandato: "Possiamo ripensare l'intero sistema carcere?". Una domanda che mi sembra più che giusta e che credo volesse essere il fulcro della puntata. Però vorrei metterti in fila i miei pensierini sul tema e chiederti i tuoi. Primo pensiero. Dopo una serie di riprese di passeggiate in cortile e di detenuti che giocano a carte e rispondono alla telecamera "io guadagno quattrocento euro al mese", la reazione della maggior parte delle persone che seguono sarà stata, inevitabilmente: "Ecco, ci tocca pure mantenerli". E non doglianza per il fatto che in Italia appena un detenuto su quattro ha la possibilità di lavorare in carcere (fonte: Ristretti Orizzonti). O che il lavoro si deve pagare. Vale anche per i detenuti, che sono cittadini come gli altri. Altrimenti se sei milioni di disoccupati si fanno arrestare abbiamo risolto il problema della disoccupazione, no? Non c'è molto da girarci attorno: obbligare il detenuto al lavoro volontario è una forma di lavoro forzato. Seguendo la logica di Nicola Gratteri (abbracciata con entusiasmo da Report), in America i condannati a morte dovrebbero pagarsi la sedia elettrica prima di salirci. Secondo pensiero. Lo Stato spende circa 250 euro al giorno per ogni detenuto, è vero, ma la cifra copre il pagamento di tutti gli stipendi degli operatori, dell'elettricità e il mantenimento delle strutture (che però rimangono fatiscenti). Con 250 euro al giorno di costo (detraiamo pure l'euro e mezzo, per la precisione 1,58, che viene speso per i "lauti pasti" del detenuto) il ministero della Giustizia spesso non è neppure in grado di fornire medicinali ai reclusi, che li devono comprare di tasca propria, se hanno soldi. Terzo pensiero. In questa Italia vogliosa di capri espiatori il detenuto che ozia (tralasciando il fatto che spesso è imbottito di farmaci) è un buon bersaglio, e nell'immaginario collettivo le carceri italiane saranno sempre alberghi a 5 stelle con la tv a colori e la moquette per terra. Anche se i problemi sono altri: il sovraffollamento, gli abusi di potere. Quarto pensiero. Il modello Usa che Report ha indicato come positivo consente di far passare due milioni di detenuti come "occupati" alzando le quotazioni delle agenzie di rating sull'occupazione. C'è un nesso preciso tra politiche antisociali e repressive: con il lavoro coatto in America sono state convertite intere filiere produttive nelle carceri, trasformando disoccupati strutturali in detenuti senza diritti. Non è che il famoso "milione di posti di lavoro" renziano ha bisogno di pescare anche qui? Pace e bene. Risponde il direttore, Luigi Amicone Perfetto. Coincidenza vuole che lunedì 1 dicembre fossi al carcere di Padova ospite del mio amico Bruno Turci e della sua redazione di Ristretti Orizzonti a convegno su questi temi. E lì ho sentito da Mario Palma, consigliere del ministro della Giustizia, riferire di questa trasmissione e ricordare che "la pena consiste nella restrizione della libertà, non in altro, come suppone Report". Aggiungerei che proprio a Padova ci sono circa 150 detenuti che hanno imparato un mestiere e che guadagnano mediamente un buono stipendio, chi assemblando trolley e biciclette, chi sfornando panettoni di qualità per un marchio che sta facendo il giro del mondo, chi al cali center, chi nella componentistica elettronica. Da quella parte di carcere esce gente con tassi di recidiva molto prossimi allo zero, mentre mediamente la recidiva nazionale è al 70 per cento. Il giustizialismo non è soltanto un cancro, rende ebeti. Il giustizialismo e tutto quello che abbiamo sotto i nostri occhi dello sfascio italiano e che non fa riprendere l'Italia perché tutti, dal giornalista al cretino, ci campano o hanno paura di mettersi contro il giustizialismo che mantiene alto il livello di depressione e il commercio di antidepressivi. Le carceri italiane non si discostano da questo panorama. Perciò sono il paradiso dell'incuria, della sciatteria, del falò di tasse dei contribuenti bruciate per mantenere un sistema statale che sui 250 euro a detenuto lucra senza produrre altro che vecchi e nuovi delinquenti. E perché tanti funzionari statali sono così gelosi di gestire in proprio questa massa di esseri umani dipendenti in tutto da regole, codicilli, procedure penitenziarie spesso assurde, che producono solo recidive e ostacoli (non è il caso di Padova) a iniziative come quelle dei succitati lavoratori della cooperativa Giotto? Perché allo statalismo non conviene usare quei 250 euro per favorire l'apertura delle carceri al fare del privato sociale, al lavoro e alle scuole di formazione dei detenuti? Perché così come se togli i poveri ai funzionari del poveraccismo togli loro i finanziamenti statali e il mestiere della "scelta per i poveri", se ai carcerati offri la possibilità di avere interlocutori non burocratici, scuole, un lavoro dignitoso e perciò retribuito, tu rischi davvero di far rinascere alla vita anche il delinquente più incallito. Ma lo capisco, così fai anche perdere i clienti a coloro i quali campano sul carcere come l'allevatore campa sulla fattoria degli animali. Emilia Romagna: iniziative nei penitenziari per Giornata internazionale sui Diritti umani Italpress, 5 dicembre 2014 Anche quest'anno, il 10 dicembre, Giornata internazionale sui diritti umani, la Conferenza regionale Volontariato e Giustizia e l'ufficio del Garante regionale dei detenuti promuovono una serie di iniziative in tutte le sedi di reclusione dell'Emilia-Romagna. L'obiettivo è attirare l'attenzione sul diritto delle persone detenute a mantenere i tratti fondanti della loro cultura di origine ed esplorare e riconoscere, in particolare, il diritto religioso, il diritto a poter esprimere il proprio culto e ad avere l'assistenza religiosa. Riconosciuto anche dall'ordinamento penitenziario, questo diritto rischia di apparire secondario, quando invece può aiutare una pacifica convivenza tra le culture e contribuire a migliorare la qualità complessiva della vita in carcere. Ogni gruppo di volontariato che opera negli istituti della regione troverà modalità proprie per celebrare la ricorrenza all'interno del carcere di riferimento: letture comuni, drammatizzazioni, lezioni magistrali, dibattiti e proiezione di film diventeranno il modo per conoscere un pezzo di storia della nostra civiltà, per riflettere su valori, ideali e impegni che dovrebbero fare parte della nostra cultura. A Bologna, all'interno della casa circondariale della Dozza, alle ore 12, ci sarà una conferenza stampa di presentazione delle iniziative organizzate in regione. Sarà presente, fra gli altri, Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale. Seguirà, alle 14.30, una "lezione aperta" del professor Giuseppe Cecere, dal titolo: "Le Costituzioni arabo-islamiche: i tratti comuni fondamentali, la loro collocazione spazio-temporale". In accordo con la direzione del carcere, saranno presenti 50 detenuti e 50 persone dall'esterno. Roma: la storia della Coop "29 Giugno"… dal carcere, alla solidarietà, alla corruzione di Emilio Radice La Repubblica, 5 dicembre 2014 Era il 1985: il detenuto Buzzi, condannato per omicidio, cominciò a recitare l'Antigone a Rebibbia davanti a Nicolò Amato e Pietro Ingrao. Fu il battesimo della Coop "29 giugno", fondata anche da don Di Liegro e Laura Lombardo Radice. Un'ascesa folgorante, lavoro per circa duemila persone, fino agli affari con gli appalti pubblici. E anche le macchine da presa: grazie alla coop i fratelli Taviani hanno realizzato il pluripremiato "Cesare deve morire", "Abbiamo sbagliato. Col nostro passato non dovevamo spingerci avanti, dovevamo ricordarci di noi. E noi non siamo Buzzi ma Rosa, Khaled, Enrico, insomma tanti poverracci". Poi l'imbarazzo, il silenzio e Danilo torna a spazzere i marciapiede. La Coop 29 Giugno si stava preparando a festeggiare i suoi 30 anni di vita. C'era, nei loro programmi o vaneggiamenti, anche un incontro col presidente Napolitano. Una storia che nasce bella e adesso diventa maledetta col volto e le parole del suo creatore e presidente Salvatore Buzzi, condannato a 25 anni per omicidio e che però si laurea in carcere. Uno che riuscì a convincere un illuminato come Don Di Liegro e un'intellettuale come Laura Lombardo Radice, moglie di Pietro Ingrao, a mettere i loro nomi nell'atto costitutivo della coop che ora tutti conoscono come cupola della Mafia Capitale. Un ex bancario imbroglione che ammazzò il suo ricattatore, che però sconta la pena, e intanto per tutti si redime e poi si fa intercettare mentre dice: "Io con gli immigrati ci faccio più soldi che con la droga" e che poteva vantarsi "‘Me li sto' a comprà tutti". Uno che tira dentro nella sua coop persone come Rosa, una vita passata fra i bassi dei quartieri spagnoli di Napoli e che dice: "Prima non sapevo che cosa fosse la busta paga, però ne avevo sentito parlare. Grazie alla 29 Giugno ora ce l'ho, a 53 anni, unica nella mia famiglia. Faccio le pulizie e ne sono orgogliosa". Come Khaled, palestinese: "Vengo da uno Stato dove non potrò mai tornare, sono un apolide. Vivo in un locale che mi ha dato la coop e faccio il giardiniere. Senza questo sarei nessuno". Come Enrico, orfano, ex tossico, ex spacciatore: "Peggio dell'eroina mi ha fatto una donna, mi volevo ammazzare. Ma i compagni della 29 Giugno non mi hanno mai lasciato solo, mi hanno aiutato. Ora lavoro, poto gli alberi, e ricostruisco la vita". E su di loro piovevano tanti appalti pubblici, mentre i capi si intrecciavano con il Re della Roma criminale, vecchi e nuovi fascisti, politici di alta e bassa lega, e tanti dirigenti pubblici che sguazzano nel frusciare delle mazzette. È per questo, per un "Mondo di mezzo", che nasce la Coop 29 giugno? Erano i primi anni Ottanta, con le carceri italiane stracolme di reclusi. A Roma, nell'istituto di Rebibbia, i "politici" affollavano il braccio G9 del cosiddetto Nuovo Complesso. Le Brigate Rosse sparavano ancora. Nel vicino Istituto Penale, quello dei reclusi "comuni", in via Bartolo Longo, un direttore illuminato, Luigi Turco, e una vicedirettrice fantastica, Mariapia Frangeamore, guardavano comunque avanti: la situazione generale era esplosiva, il sovraffollamento impossibile. Bisognava fare qualcosa. E loro cominciarono a farlo assieme ai reclusi. Primo atto: aprire le celle, poi laboratori. Parola dei direttori di allora: "Facile dirigere un carcere chiuso. Ma se uno vuol lavorare davvero le porte le deve aprire". Rebibbia penale divenne un'officina. Salvatore Buzzi era già lì, a scontare una pesante condanna. Il primo risultato eclatante, potremmo dire pubblico, di questa stagione fu la realizzazione di uno spettacolo teatrale, "Antigone", in cui Buzzi stesso recitava. Nel ruolo di Creonte si era prestato Bianchedi, un attempato boss della zona di Campo dè Fiori. Ad assistere alla rappresentazione vennero in tanti. C'era praticamente tutta la Direzione generale delle carceri, con a capo Nicolò Amato. C'era Pietro Ingrao. C'erano i giornalisti. Per molti, compreso chi scrive, si trattava del primo contatto col modo carcerario. E fu l'inizio di un successivo percorso, perché intanto a Firenze due dei migliori rappresentanti del cattolicesimo progressista, Gozzini e Margara, stavano buttando giù la bozza della legge di riforma delle carceri, poi detta Legge Gozzini, che ancora oggi governa l'universo penitenziario. Le legge avrebbe introdotto (1986) una serie di misure premiali, tese a promuovere un reale interesse alla rieducazione, e l'istituto della semilibertà legato al lavoro. È qui che nasce la 29 Giugno. Per poter far vivere la riforma e per coglierne i frutti serviva dunque una possibilità di lavoro. Il recluso, scontata più o meno metà della pena, previo parere positivo della direzione e del giudice di sorveglianza, poteva uscire per andare a lavorare, salvo poi tornare in carcere a passare la notte. Ma, tranne qualche generoso, chi mai avrebbe offerto un lavoro a un galeotto? Nessuno, e la riforma sarebbe fallita. Una situazione di stallo, superata da un'idea: realizziamo noi una cooperativa, noi detenuti, per offrire un impiego a chi di noi ne ha bisogno. Ma era una utopia. A farla diventare realtà ci pensarono, fra gli altri, Don Luigi Di Liegro, allora a capo della Caritas Diocesana e oggi in odore di santità, e Laura Lombardo Radice, moglie di Ingrao. Misero i loro nomi nell'atto costitutivo della Cooperativa 29 Giugno. Era, per la precisione, il 1985. Pochi mesi prima, a Rebibbia, si era tenuto uno storico convegno sul tema del lavoro in carcere. Uno dei principali relatori era stato Salvatore Buzzi, intanto laureatosi dietro le sbarre con 110 e lode. Nel concreto però le cose non furono facili. La prima uscita di lavoro i veterani della 29 Giugno la ricordano ancora: con pale e zappe a ripulire qualche aiuola lungo la Casilina. E subito si delineò quello che, dando linfa alla cooperativa, ne era anche il punto debole: la dipendenza economica dalle commesse pubbliche. Non erano i privati a far vivere la coop ma le Circoscrizioni, la Provincia, il Comune, la Regione. E gli Enti locali non rispondevano a un obbligo di istituto ma lo facevano nel migliore dei casi per sensibilità sociale, poi per opportunità, e - le cronache di oggi ce lo dicono - anche per il peggiore opportunismo. La coop di ex reclusi (intanto Buzzi ed altri erano usciti dal carcere) era costantemente nella condizione di chiedere. E questo ha fatto. E man mano gli incarichi sono arrivati: manutenzione giardini, pulizia di parchi pubblici, sistemazione di strade, pulizia dell'Auditorium, giardinaggio a Villa Borghese, gestione di case Rifugio. Il giro di affari è diventato tale da poter dare lavoro a circa duemila persone, comprese fette sempre più ampie di altri disagi sociali: disoccupati, donne maltrattate, disagiati psichici. La storia narrata nel film "Si può fare", con Claudio Bisio, venne proiettata nella sala del centro di accoglienza realizzato dalla 29 Giugno in una ex vetreria del Tiburtino, quella della foto incriminata che vede anche Alemanno e Poletti attorno ad un tavolo. Alla proiezione erano presenti i personaggi reali del film, di un'altra cooperativa del nord. E anche i fratelli Taviani per realizzare il pluripremiato "Cesare deve morire" hanno avuto la collaborazione della 29 Giugno, viatico delle telecamere in carcere e che nel frattempo a Rebibbia aveva avviato una scuola di teatro. Uno dei protagonisti della pellicola, Cosimo Rega, un passato nella camorra salernitana, era un membro fondatore della coop. Contemporaneamente - non scordiamolo - anche la magistratura e le direzioni della carceri romane si affidavano alla 29 giugno, spedivano a frotte i detenuti in regime di semilibertà. Troppo pochi, e aspettando troppo tempo, hanno avuto il sentore che tutto era marcito. Roma: Buzzi l'ho conosciuto a Rebibbia era dei "bravi ragazzi" che sanno stare in carcere di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 5 dicembre 2014 Io a Buzzi me lo ricordo. Una vita fa. Tra i primi anni e metà degli Ottanta. Stavamo, ehm, nello stesso circondario: carcere di Rebibbia. Lui al penale, io, con altri detenuti politici, all'Area omogenea, dove cercavamo di sfuggire alla tenaglia Brigate rosse/Stato. Eravamo riusciti a sollecitare attenzione di una parte del mondo politico sulla questione del carcere. Facevamo incontri con parlamentari di vario segno politico, producevamo documenti per convegni, ragionavamo sulle possibilità di "socializzare il carcere". Tutto quello che poi determinò e i coagulò nella legge Gozzini, con straordinarie opportunità di reinserimento. Buzzi era dei bravi ragazzi. Di quelli che sanno stare in carcere. Con noi non aveva rapporti continui diretti - non che avessimo un "divieto di incontro", ma la direzione teneva gli uni separati dagli altri - però era sveglio e capì che quello che stavamo facendo poteva tornare utile ai "comuni". Noi stavamo lavorando a un convegno da tenere dentro le mura di Rebibbia. Lui pensò che fosse più "normale" che il convegno lo tenessero loro, i comuni. E ci riuscì. Qualcuno di noi poi ci andò. Articoloni de l'Unità, del manifesto. Pietro Ingrao ci scrisse su una cosa da strappacuore. Una roba di sinistra, insomma, di garanzie e diritti e libertà. Non che Buzzi fosse di sinistra, era sveglio però. Nacque così la cooperativa 29 giugno, che è poi la data da cui per loro tutto ebbe inizio. La prima cooperativa di detenuti in Italia. Un fiore all'occhiello, per l'amministrazione penitenziaria. Negli anni, centinaia di detenuti sono usciti dal carcere e hanno trovato forme di sussistenza e reinserimento per mezzo della cooperativa. La cooperativa che è al centro dell'indagine giudiziaria che ha portato a trentasette arresti e un centinaio di avvisi di garanzia. Nacque facendo bottiglie di pomodoro da rivendere, e poi pulendo gli spazi di Rebibbia e poi allargandosi piano piano. Una gran mano gliela diede Angiolo Marroni, comunista, che allora era vicepresidente della Provincia e che si costruì il resto della carriera politica, e anche quella del figlio, Umberto, ora deputato Pd - i carcerati hanno un sacco di familiari da far votare - su quelle iniziative dei detenuti, fino a diventare il loro Garante per la Regione, vita natural durante. E a destinare i congrui fondi. La cooperativa 29 giugno entrò a far parte della rete della Lega delle cooperative, quella dove imperò Poletti, ora ministro del lavoro. Un fiore all'occhiello per la Lega. E ecco spiegata la foto che svolazza sui giornali e sul web, come prova del crimine. Buzzi, i Marroni, Poletti. E Alemanno. Tutti a cena. Alemanno era il nuovo "interlocutore" della 29 giugno: era lui, il sindaco, quello che decideva sulla pulizia delle aree verdi di Roma, sul mantenimento del decoro urbano, insomma su quella marea di appalti e di proroghe di appalti che intanto la cooperativa crescendo si era aggiudicata. E da chi dovevano andare? Forse è in quel momento lì che nasce il rapporto con la destra di Carminati, o forse prima. Davvero, qui parlare di destra e sinistra è una cosa senza senso. Si sono bevuti pure Emanuela Bugitti, che era presi- dente della cooperativa, e che una vita fa s'era presa una quindicina d'anni di carcere perché con le Brigate rosse avevano ammazzato un funzionario di polizia a Venezia. Per dire. Ci sono in ballo soldi, tanti soldi, perché la cooperativa, nel tempo, si era infilata in tutto ciò che riguarda le "situazioni svantaggiate" - rom, immigrati, profughi, rifugiati - e se non lo facevano loro, che erano carcerati, chi meglio? E perciò ci mangiavano tutti. Soldi per tutti. Per sé e per gli altri. Tanti soldi. Tanta corruzione. Ma questo non cambia una virgola rispetto le criticità dell'impianto accusatorio, quell'associazione di tipo mafioso. Carlo Bonini, di Repubblica, ci va a peso: dice che siccome sono novecento pagine - in realtà l'ordinanza è di mille duecento ventotto, ce l'ho qua, se vuole gliela presto - vuol dire che i magistrati ci hanno lavorato parecchio e perciò qualcosa c'è. Ora, si potrebbe obiettare a Bonini che le indagini non si valutano "a peso", e neppure il giornalismo se è per quello, e che ci sono state decine di ordinanze pesanti che però si sono rivelate tutta fuffa. Ma ognuno fa il suo mestiere. Giovanni Bianconi, sul Corriere, va invece a fiducia: dice che ci sarà pure un giudice che giudicherà sulla bontà dell'"insolito reato" - scrive proprio così, però per intanto prendiamolo per buono. Ora, a me di prendere per buona un'ordinanza che dice "in concreto, in una prima approssimazione si determineranno gli essentialia di un'organizzazione di tipo mafioso, avuto riguardo alla definizione normativa, e, successivamente, si individueranno indici rivelatori della sua esistenza secondo la giurisprudenza", cioè di fare le cose al rovescio, proprio non mi va. E dove sta il carattere "intimidatorio" di questa associazione? Qui magnavano tutti, qui se spartivano tutto, qui annavano tutti a burro e alici, altro che intimidazione. Dice che la "teoria programmatica" di Mafia Capitale sta tutta in quel "mondo di mezzo" pensato da Carminati. Che intercettato in un colloquio con un sodale (tal Guarnera), spiega: "ci sta un mondo.. un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… … (inc.)… come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi". Benedetto Carminati, se era questo tutto quello che volevi potevi chiedere alla D'Addario e te lo spiegava lei come era possibile stare a cena con Berlusconi. E se per quello pure a letto. Il generone romano della Grande Bellezza di Jep Gambardella è diventato mafioso. Sarà. Ahó, manco a quelli della Magliana - e sciacquiamoci la bocca, con rispetto parlando - gliel'hanno dato il 416 bis, e mo glielo date a Alemanno? A me comunque le arance a Alemanno non va di portarle. E se per quello neppure a Buzzi. Ne avrà di soldi per comprarsi le arance e per comprarle ai suoi detenuti, adesso, a Rebbbia, no? Firenze: l'Opg di nuovo nel mirino. La Fns-Cisl al provveditore: "va chiuso subito" Il Tirreno, 5 dicembre 2014 Appello del segretario della Fns-Cisl al provveditore regionale Cantone dopo gli ultimi episodi di violenza all'interno della villa medicea dell'Ambrogiana. Una lettera che è anche una denuncia, una lettera che è anche un appello. È quella scritta dal segretario generale della Fns (Federazione nazionale della sicurezza) Cisl della Toscana, Fabrizio Ciuffini, a Carmelo Cantone, provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria. Informando, però, anche il prefetto di Firenze e il ministro di grazia e giustizia. Al centro la situazione sempre più difficile dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, l'Opg che da anni sembra sul punto di essere chiuso ma che ancora occupa la villa medicea dell'Ambrogiana. Dove, nelle ultime settimane, gli episodi di violenza si sono ripetuti (prima una cella data alle fiamme, poi due agenti aggrediti) e la situazione è ormai insostenibile. La data di chiusura, fissata in un primo momento per il 2012, è poi slittata fino alla nuova data del 31 marzo 2015. "Ma - sottolinea Ciuffini in un passaggio della lettera - per quanto è dato sapere, la possibilità che la Regioni non saranno pronte per quella scadenza è molto più di una possibilità". Da qui la richiesta di un intervento urgente per chiudere l'Opg. "Lo deve al personale di polizia penitenziaria - continua il segretario Fns-Cisl - perché lei è la maggiore autorità dell'amministrazione e del corpo in questa regione". Nella lettera, inoltre, sono ricordati i soldi ("non meno di 5 milioni di euro") spesi recentemente per la ristrutturazione di alcuni spazi. "Dismettere la funzione di Opg - conclude Ciuffini - consentirà di destinare finalmente gli spazi ad un uso più consono, più coerente per l'amministrazione penitenziaria, visti i problemi di sovraffollamento carcerario, più dignitoso per la professionalità del personale di polizia penitenziaria". Lecce: oltre le sbarre tra arte e lavoro, così il carcere diventa luogo di riscatto di Anna Puricella La Repubblica, 5 dicembre 2014 Made in carcere è l'esempio lampante. La seconda opportunità, quella che trasforma la detenzione in lavoro e in messaggio sociale. L'idea di Luciana Delle Donne risale al 2007 e oggi vede la casa circondariale di Lecce esportare braccialetti, borse e accessori in tutta Italia. Da allora molto è cambiato nelle carceri pugliesi, le iniziative per il reinserimento sono numerose. "E sono utilissime - spiega il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Pietro Rossi - Per alcune la finalizzazione è strumentale alla riabilitazione, all'apprendimento e alla conoscenza, altre brillano di luce propria, ma in ogni caso la speranza è che i detenuti impieghino in maniera utile il loro tempo". Prima di tutto, però, bisogna scardinare i pregiudizi. Soprattutto ora che alcuni progetti prevedono l'uscita dei carcerati: l'ultimo caso è quello dell'Acquedotto pugliese, con cui la Regione ha firmato un protocollo per affidare i servizi di manutenzione e bonifica ad adulti sottoposti a procedimento penale. L'idea più diffusa è che tolgano posti di lavoro, argomento scottante vista la crisi. "Invece il concetto è un altro - continua Rossi - non si tratta di un favore, diamo l'opportunità al detenuto di restituire qualcosa alla comunità. Loro hanno commesso reati, a noi il compito di lavorare sulla riconciliazione sociale". Si tratta di utilità e risparmio, come dimostra la recente esperienza di Lucera. La Fondazione Con il Sud in accordo con l'Asl utilizza i reclusi per riparare sedie a rotelle e protesi, una "Bottega dell'ausilio" che si accompagna alla "Officina dell'ausilio" a Cerignola: "Un risparmio mostruoso". Sempre Con il Sud ha avviato a Turi "Cuore oltre le sbarre", per garantire uno spazio neutro in carcere dove i detenuti possano giocare con i figli. "L'esigenza fondamentale è ripristinare un principio stabilito per legge - continua il Garante - stare in carcere non vuol dire passare tutto il tempo in cella". Oltre ad attività dall'evidente ricaduta economica, come l'affidamento della mensa di Trani agli stessi detenuti, che producono anche i taralli "Campo dei miracoli", c'è un riscatto interiore, che passa dalla cultura e dalla bellezza. Si spiega così il nascente coro della casa circondariale di Bari, voluto dalla Fondazione Petruzzelli, o il laboratorio "Libere di danzare" dell'associazione A Mick. Con "Io ci provo" gli uomini di Borgo San Nicola sono attori che conquistano il palco del teatro Paisiello di Lecce, i minorenni del Fornelli di Bari ogni anno si confrontano con i laboratori del Kismet. Intanto a Taranto sono partiti gli allenamenti di "Fuori…gioco!": dopo aver partecipato a lezioni sullo sport e sui suoi regolamenti (anche negli aspetti penali e civili) i detenuti si preparano alla partita di calcio che si terrà allo stadio il 20 dicembre. Contro i magistrati, in una quadrangolare che prevede anche una squadra di avvocati e una di agenti di polizia penitenziaria. Cagliari: si è aperto un dibattito sulla destinazione dell'ex carcere di Buoncammino Ansa, 5 dicembre 2014 "Da subito l'ex carcere di Buoncammino e le sue pertinenze come i cortili e il piccolo giardino siano, nelle more della piena attuazione dell'articolo 14 dello Statuto sardo, posti sotto la custodia della Regione, o del Comune, e aperti al pubblico", lo chiede il coordinatore di Cagliari di La Base, Claudio Cugusi, in una lettera inviata al presidente della Regione, Francesco Pigliaru, e al sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. "Tale è l'interesse intorno alla struttura, unito alla curiosità e al desiderio che diventi produttiva, da convincerci che centinaia di Sardi vorranno visitarla anche a pagamento - aggiunge il consigliere comunale - la recente chiusura del carcere di Buoncammino ha suscitato un grande interesse nell'opinione pubblica cagliaritana, che da più parti sta manifestando la sua contrarietà a che la monumentale struttura, la più grande e imponente costruzione della città, sia destinata ancora alla detenzione o a sede di uffici giudiziari o dell'Amministrazione dello Stato. Il ricorso all'articolo 14 dello Statuto sardo, da più parti politiche auspicato consente alla Regione di diventare proprietaria dell'immobile, potendo così concordare con il Comune una nuova destinazione che risponda alla vocazione turistica e culturale del sito". Spano (Sappe): Buoncammino è dello Stato "Buoncammino non è della Regione ma dello Stato, ossia del ministero della Giustizia e non c'è alcun decreto di dismissione. L'amministrazione penitenziaria vuole utilizzare gli uffici della ex direzione del carcere come nuova sede per quelli del Provveditorato regionale e dell'area penale esterna, in questo modo verrebbero risparmiati centinaia di migliaia di euro", sono le parole del segretario provinciale del Sappe, Sindacato autonomo Polizia penitenziaria, Paolo Spano, che risponde così alla mozione presentata dal consigliere regionale di Fi Ugo Cappellacci. "Non comprendiamo tutto questo interesse da parte di Cappellacci che poco ha fatto per il carcere, per i detenuti e per tutti gli operatori penitenziari quando era a capo della Regione - evidenzia Spano - nulla ha fatto per impedire che il nuovo carcere, il più grande e moderno d'Italia venisse costruito a circa 30 chilometri da Cagliari, oggi unico capoluogo di provincia nel Paese a non avere una casa circondariale". Il sindacalista aggiunge: "Il trasferimento degli uffici dell'amministrazione penitenziaria consentirebbe di tenere in buone condizioni la struttura, mentre diversamente rischierebbe da fare la stessa fine dell'ex ospedale Marino". Il segretario provinciale del Sappe si chiede poi "che progetto ha la Regione per la struttura? Già in altre occasioni la massima autorità che rappresenta l'Amministrazione penitenziaria in Sardegna ha fatto presente che al ministero non interessano le aree detentive che potrebbero essere destinate a finalità che la Regione e il Comune andranno a scegliere. Capiamo che le arre detentive non piacciono ai politici ma dovranno accontentarsi proprio di quelle. Il Sappe è in linea con le intenzioni dell'amministrazione penitenziaria, tutto il resto secondo noi è solo propaganda politica". Napoli: all'Istituto penale minorile di Nisida conclusa II Edizione dei "Laboratori edili" Italpress, 5 dicembre 2014 Presso l'Istituto penale minorile di Nisida sono stati presentati stamane i risultati del progetto "Laboratorio Edili" ideato dalla Direzione regionale Campania Inail e dall'Acen, l'Associazione costruttori edili di Napoli, con il coordinamento della Seconda Università di Napoli. Il progetto ha coinvolto 40 giovani detenuti e ha consentito loro di acquisire informazioni sulla sicurezza sul lavoro e, in seconda battuta, pratica formazione di lavoro edile. Il corso della durata di 225 ore (200 ore di pratica) ha consentito tra l'altro il ripristino di alcuni ambienti dell'Istituto. I partecipanti al progetto si sono inoltre cimentati nell'apprendimento delle tecniche di intonaco, tinteggiatura, pavimentazioni, riciclo dei materiali, recupero maioliche. "Obiettivo di quest'iniziativa - ha detto Bruno Leone, direttore Inail Campania - è quello di diffondere la cultura della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, agendo nella prevenzione degli infortuni e nella diffusione delle norme di sicurezza. In questo caso il laboratorio edile è un laboratorio un po' particolare perché riferito ad una categoria di ragazzi che hanno delle esperienze di vita un po' diversa, e s'inquadra quindi in un contesto di reinserimento sociale conseguente ad un infortunio di vita, non di lavoro. A questo secondo progetto hanno partecipato quaranta ragazzi, e speriamo - prosegue Leone - di coinvolgere presto anche le ragazze". L'assessore regionale al Lavoro, Severino Nappi ha detto: "La società non deve aver paura di chi ha vissuto sicuramente una situazione di difficoltà, piuttosto deve fare in modo che tali situazioni non si ripetano. Nelle prossime settimane - ha aggiunto Nappi - abbiamo organizzato un'intesa con gli uffici del ministero della Giustizia affinché questi ragazzi entrino anche in Garanzia Giovani". Per Ornella Riccio, magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale per i minorenni di Napoli, "l'auspicio che la formazione professionale che i giovani detenuti hanno la possibilità di fare nell'istituto di pena prosegua anche dopo il termine della pena". Roma: rassegna teatrale "Made in Jail", da 11 a 14 dicembre ingresso libero al Palladium www.teatrionline.com, 5 dicembre 2014 fotoIl carcere come luogo di produzione di cultura: in carcere si fa e si produce teatro, si scrivono libri, si imparano mestieri, si diventa, tra l'altro, attori, musicisti e artisti. La cultura è fattore di coesione sociale, di educazione e ri-educazione, ma anche e soprattutto, nel caso delle discipline artistiche più praticate nelle carceri, ponte verso l'esterno. Con questa consapevolezza nasce il Festival "Made in jail", per contribuire a rendere visibili le importanti realtà culturali di alcuni istituti penitenziari della Regione Lazio. Il festival, promosso dal Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell'Università degli Studi Roma Tre, patrocinato da Roma Capitale, è realizzato con il contributo della Regione Lazio e dell'Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Il festival è diretto da Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro presso l'Università Roma Tre. "Made in jail", festival dedicato a teatro e cultura in carcere, organizzato dal Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, Università degli Studi Roma Tre, si inserisce nell'ambito della terza missione dell'università, un concetto legato alla polis, alla necessità che la gente si incontri sulle tematiche sociali. Protagonista di questa prima edizione al Teatro Palladium dall'11 al 14 dicembre, è l'arte nelle tante sfaccettature, il teatro certo, ma anche il cinema, la musica, le arti pittoriche, la letteratura. Saranno infatti proposti spettacoli teatrali, libri, video e musica rigorosamente "made in jail", prodotti culturali realizzati appositamente per questa occasione in vari istituti penitenziari del Lazio. "È una vera e propria necessità dell'Università aprirsi al sociale e a tutte quelle forme che concorrono ad una formazione culturale e scientifica", spiega Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro presso l'Università Roma Tre e direttrice artistica della manifestazione. E aggiunge: "Nel Lazio ci sono quindici istituti penitenziari e in ognuno di questi si fa stabilmente teatro. Un teatro che, in molti casi, prima di essere "parte del progetto trattamentale" è, e vuole essere, teatro tout-court, un'isola galleggiante che non cambia il mondo ma cambia chi la fa. Questa è la prima edizione di un festival che nasce come rassegna delle varie culture praticate nelle carceri del Lazio, portando all'esterno esperienze che fino ad oggi (solo di rado) è stato possibile vedere fuori dai penitenziari". Molte sono le realtà culturali e in particolare teatrali degli istituti penitenziari italiani: "Made in jail" vuole semplicemente mettere sotto i riflettori quelle del Lazio, poco conosciute che possono sembrare minori e che sono, invece, di grande valore (non solo sociale). Tra queste (alcune più conosciute, altre meno): Adynaton, ArteStudio, Associazione Made in Jail, Associazione PerAnanke, Compagnia Sangue Giusto, Compagnia Stabile Assai, King Kong Teatro, La Ribalta-Centro Studi Enrico Maria Salerno, Muses, Presi per caso, Rodez, Teatro degli Incerti. Secondo Mario Panizza, Rettore dell'Università degli Studi Roma Tre: "la terza missione deve prevedere opportuni strumenti che favoriscano le relazioni con i soggetti esterni; sviluppare reti di collaborazione con soggetti esterni di ogni tipo, aziende, associazioni professionali, istituzioni ed enti pubblici, promuovendo attività su ciascuno dei fronti. Deve essere intesa come capacità di diffondere determinate conoscenze sul territorio". Il festival "Made in jail" nasce con l'obiettivo di contribuire a rendere visibile il ponte tra l'esterno e le varie realtà culturali in carcere. L'arte può davvero rendere liberi, e manifestazioni come queste possono rendere visibili anche realtà "chiuse" - come quella formata dai detenuti e dalle detenute di alta sicurezza che non possono portare la loro arte "fuori" - restituendole alla cultura e al pubblico "esterno" attraverso gli audiovisivi. È il caso del video sui dieci anni della compagnia del Teatro Libero di Rebibbia, dei cortometraggi in cui sono protagonisti i minori reclusi a Casal del Marmo, o, ancora, del corto realizzato Prove chiuse realizzato attraverso il montaggio di Frammenti del laboratorio teatrale AdDentro dallo spettacolo La favola del figlio cambiato (Compagnia Sangue Giusto e detenute della Casa Circondariale di Civitavecchia). Un esempio famoso è quello di Salvatore Striano, ex detenuto reso popolare dall'interpretazione al cinema di Gomorra e Cesare non deve morire, che ha scoperto il suo talento per la recitazione proprio nel laboratorio della Ribalta diretto da Fabio Cavalli a Rebibbia. Un altro caso che ha riscosso grande successo è quello dei Presi per caso, la Rock band di detenuti, ex detenuti e non detenuti del penitenziario di Rebibbia che, nel concerto di chiusura del Festival lanceranno il nuovo progetto discografico Fuori! ed eseguiranno alcuni dei loro classici, brani ironici ed amari sulla condizione carceraria. Il carcere come luogo di produzione di cultura sarà anche argomento di tavole rotonde come "Dentro. Libri dal carcere" (la presentazione del libro Pensieri dal carcere di Pierre Clémenti - attore amato da Buñuel, Pasolini, Glauber Rocha, Bertolucci, Jancsó e João César Monteiro - avverrà alla presenza del figlio, invitato per l'occasione dalla Francia), "Teatri in carcere nel Lazio" o "Cultura e recidiva". Riflessioni proposte da addetti ai lavori, aperte al confronto con il pubblico. Per suscitare spunti e riflessioni ulteriori, contribuendo a rendere più solido il ponte tra il carcere e la società libera. Teatro palladium. Piazza Bartolomeo Romano, 8. 11 - 14 dicembre 2014. Ingresso gratuito. Info: tel. 0657338424 - 57338339 - festivalteatro@libero.it - madeinjailfestival.net. Firenze: il 7 dicembre i protestanti celebrano la domenica delle "catene spezzate" di Sara Sbaffi www.interris.it, 5 dicembre 2014 Il Gruppo di lavoro sulle prigioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia dedica la seconda domenica di Avvento alla detenzione. Il 7 dicembre sarà la domenica delle "catene spezzate". Questo è il titolo della liturgia che il Gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) propone alle chiese membro per la seconda domenica di Avvento. "Era da tempo che pensavamo di dedicare una domenica al tema del mondo carcerario e dei suoi problemi - ha spiegato il pastore Francesco Sciotto, coordinatore del gruppo di lavoro della Fcei. La scelta del 7 dicembre è dipesa dal fatto che in quella data le chiese metodiste e valdesi osservano la Domenica della diaconia, quest'anno dedicata al sostegno della "Casa del melograno" di Firenze, una struttura di accoglienza per detenuti a fine pena o ex detenuti. Abbiamo così pensato di estendere a tutte le chiese della Fcei la proposta di una domenica delle catene spezzate". Il testo della liturgia è pensato per "riflettere e pregare sul tema della prigione: su chi vive in carcere, chi ci lavora; sui volontari, i pastori, i ministri che vi predicano. Su chi vi si trova perché perseguitato e su chi sconta una pena. "Il passo biblico suggerito per la predicazione - ha aggiunto Sciotto - è quello della guarigione dell'indemoniato di Gerasa. Non si tratta di un testo che parla direttamente delle carceri ma affronta il tema di una prigionia che muta radicalmente nell'incontro con Gesù. Il riferimento ai ceppi, alla violenza, all'autolesionismo, ma anche la differenza del popolo nei confronti di Gesù e dell'ex indemoniato, costituiscono delle tracce di riflessione per parlare del carcere e del suo rapporto con la società e le chiese", ha concluso Sciotto. Trento: "Qui si resta passando", il teatro va oltre le sbarre con Emilio Frattini www.ladigetto.it, 5 dicembre 2014 Debutterà sabato 13 dicembre al carcere di Spini di Gardolo, poi andrà in scena domenica 14 alle ore 15.00 al Teatro Sanbàpolis. L'obiettivo del laboratorio, che ha visto una quindicina di detenuti impegnati nell'apprendimento delle tecniche dell'attore, di regia e di scrittura teatrale, era quello di avviare un'esperienza di ricerca espressiva tesa a comprendere meglio se stessi e gli altri, a scoprire le proprie potenzialità ideative e di progettazione e a trovare sul palcoscenico un veicolo artistico e culturale che potesse trasformare un'esperienza creativa in un'eredità di convivenza civile da parte di soggetti stranieri e di nazionalità italiana detenuti nel carcere, in contatto sinergico e di partecipazione concreta con soggetti esterni. Operando in un contesto altamente motivante, si è offerta ai partecipanti una situazione concreta di socializzazione e di partecipazione in un ambiente ludico-didattico regolato da impegni precisi, in cui le esperienze derivanti dall'incontro sinergico di più realtà vitali hanno cerato armonia tra interno ed esterno. Lo spettacolo conclusivo del laboratorio è stato co-prodotto dal Centro Servizi Culturali S. Chiara e dalle Associazioni "Con Arte e con pArte" di Trento e "Sagapò Teatro" di Bolzano con il sostegno del Servizio Attività culturali della Provincia autonoma di Trento, con il patrocinio del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati e il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto. La preparazione di attori e attrici interni ed esterni e la regia sono state curate da Emilio Frattini che ha anche realizzato la sceneggiatura ispirandosi al romanzo di Thomas Bernhard "L'imitatore di voci". Hanno collaborato in qualità di assistenti alla regia e all'organizzazione Francesca Sorrentino e Chiara Ore Visca. "Abbiamo valutato fino all'ultimo - ha puntualizzato Francesco Nardelli - l'ipotesi di concludere o meno questo percorso con la rappresentazione pubblica di domenica 14 dicembre al Teatro Sanbàpolis. "Questo perché il lavoro di mesi condotto in carcere da un gruppo di una quindicina di detenuti si ridurrà ad un saggio riservato a poche persone. Molti dei partecipanti al laboratorio, infatti, non potranno partecipare allo spettacolo o per cause legate al processo detentivo (rilascio o trasferimento) o a causa della mancata concessione del necessario "permesso premio" da parte del Giudice di sorveglianza. "Queste persone saranno in parte sostituite da attori esterni al carcere, - ha concluso Nardelli. - Si è però deciso di mettere in scena comunque lo spettacolo a Sanbàpolis per non mortificare lo sforzo e l'impegno prodotto dai partecipanti al laboratorio che potranno così essere in scena, anche se in numero ridotto rispetto a quanto avremmo sparato". Sul valore dell'iniziativa sotto l'aspetto rieducativo delle persone detenute si è soffermato l'avvocato Ottorino Brassanini che ha fatto riferimento, in particolare, all'articolo 27 della Costituzione che stabilisce che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". "Lo spettacolo - ha poi spiegato Emilio Frattini - rappresenta il risultato del percorso creativo che il gruppo ha compiuto grazie all'esplorazione delle proprie emozioni, del proprio vissuto mentale-corporeo e del proprio modo di "essere nella vita" in continua relazione con gli altri, siano essi detenuti, agenti di custodia, ragazzi che recitano, scenografi, tecnici, regista o pubblico, utilizzando e interpretando gli insegnamenti che ci provengono dagli autori classici e moderni che meglio hanno saputo evidenziare i temi portanti della difficoltà e della bellezza del vivere". Domenica 14 dicembre lo spettacolo "Qui si resta passando" avrà inizio alle ore 15.00 ed il pubblico potrà accedere gratuitamente alla sala del teatro Sanbàpolis. "Qui si resta passando", nota di Emilio Frattini Quando passeggiamo per la strada, incontriamo altre persone. Le traiettorie si incrociano, si intersecano, e per pochi preziosi attimi entriamo in un universo di parole frammentate, di concetti sospesi, di storie non finite. Quante volte ci resta la curiosità di conoscere il seguito di quei pensieri spezzati. Nella piazza irreale di "Qui si resta passando" queste microstorie hanno un inizio e una fine e i nostri personaggi le narrano senza pudori, col desiderio, anzi, di renderci partecipi. L'allegria iniziale poco a poco svanisce e lascia il posto a un desiderio più o meno conscio di esorcizzare il lato oscuro della natura umana, espresso attraverso una narrazione in "terza persona", che lascia intravedere un racconto autobiografico, grottesco, a volte molto divertente, ma che non dissipa del tutto l'inquietudine del clima a cui ci hanno purtroppo abituati i media con i loro "incidenti bizzarri". È come se gli uomini, in un attacco improvviso di resipiscenza, confessassero i loro crimini e la loro incapacità di comprensione alla vita. Gli individui che animano il palcoscenico-piazza sono alle prese con il disagio del vivere, sensazione sempre presente nei carceri italiani e nelle opere di Thomas Bernhard. Il barbone, unica presenza in questo mondo-contenitore di tutte le microstorie frantumate e di passaggio, è il fil rouge che unisce disperazione e humor e funge anche da specchio (interiore?) alla interpretazione identificativa e alla memoria collettiva del pubblico. Sarà dunque una passeggiata in compagnia dell'oste che ha scambiato il proprio ruolo con il filosofo pensatore, ma che ora chiede, deluso dall'incapacità di ascolto di un mondo troppo distratto, di poter tornare all'antica professione. Della studentessa che, disperatamente ci accusa di aver dimenticato la sensibilità per le Arti, rifugiandoci nell'assenza, nel ritiro autistico della coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici). Del giudice così severo che per dare una lezione esemplare si è suicidato in aula; delle massaie che, immalinconite da una vita coniugale ormai orfana di romanticismo, rubano un manichino maschile per sopperire alla propria solitudine. Dei sindaci di Pisa e di Venezia intenzionati reciprocamente a trasferire i campanili delle loro città per soddisfare la loro narcisistica noia; dell'imitatore di voci che tutti sa imitare tranne se stesso. È bene che gli spettatori seguano con attenzione distaccata questo spettacolo, come fosse un incidente bizzarro, e che non commettano errori; sappiano che avranno a che fare con il nostro Autore Caparbio, personaggio assai permaloso e deciso nel proprio giudizio. Per essere più espliciti: che si assumano i propri rischi! Associazione "Con Arte e con pArte" In un momento di generale imbarbarimento della società civile, crediamo che ci si possa concedere una pausa per parlare non solo dei grandi temi e dei crimini all'umanità che agitano le nostre coscienze, ma anche di Arte; un tocco di grazia che lenisca il nostro, pare ineluttabile, stupito precipitare nell'inciviltà e nell'egoismo. Motivazioni psicologiche, commento di Giuseppe Disnan La dimensione educativa, rieducativa e terapeutica del teatro è oggetto di riflessioni ed esperienze che sono ormai patrimonio comune dei due ambiti limitrofi, dell'espressione artistica da un lato, e dell'elaborazione emozionale a livello psicologico, dall'altro. Il teatro stesso nasce come luogo dove la "persona" (che non a caso nella sua radice etimologica rimanda alla "maschera dell'attore"), attraverso un forte coinvolgimento emotivo può entrare in contatto con contenuti che sono oggetto della vita psichica dell'essere umano, e qui affrontati in una specie di distanziamento che mentre protegge, consente un contatto catartico. Non a caso alcuni dei temi fondamentali dell'indagine psicologica, ancora oggi fondativi della clinica e della psicopatologia, quali la conflittualità edipica, il lutto, l'aggressività, il senso di colpa, trovarono una loro rappresentazione nei Classici della Tragedia Greca e in alcuni Drammaturghi Moderni come William Shakespeare, Samuel Beckett, Ian McEwan, Thomas Bernhard e altri. La trasposizione di un elemento artistico in spazi francamente terapeutici non ha poi tardato a verificarsi in modo teorizzato e formalizzato, basti pensare alla Drammaterapia e allo Psicodramma analitico, che diventeranno strumenti elettivi di intervento sia per minori che per adulti. In effetti l'essere contemporaneamente "attori" del proprio disagio, dei conflitti e delle problematiche, nel senso di agirle e di rappresentarle, consente di operare in quello spazio transazionale che unisce appunto realtà ed immaginazione, corpo, agito , pensiero ed emozione. Questo contesto privilegiato garantisce sia una immersione nel sé individuale, a contatto con esperienze ed emozioni, sia una condivisione con l'altro, partecipe di una esperienza comune, sia una ricerca di espressione e comunicazione della stessa che porta a una rielaborazione su un piano relazionale e gruppale, tale quindi da favorire una diluizione del conflitto. In questo senso , come detto, il lavoro terapeutico, educativo e riabilitativo fondato sui giochi di ruolo costituisce strumento elettivo per molti contesti, nei quali altre forme di intervento scontano l'inadeguatezza di setting non a ciò idonei. Firenze: al carcere di Sollicciano arriva "Evasione Totale, un'ora di speranza in musica" www.firenzetoday.it, 5 dicembre 2014 Il 12 dicembre alla Casa circondariale di Sollicciano di Firenze si terrà il primo appuntamento di "Evasione Totale - un' ora di speranza in musica", un'iniziativa che si pone l'obiettivo di sostenere i detenuti, attraverso la musica ed eventi all'interno delle carceri: "detenuti che anche se hanno commesso dei reati, anche se hanno sbagliato, sono sempre persone per le quali bisogna favorire il reinserimento sociale, offrendo sostegno ed opportunità". Per raggiungere questo obiettivo, appunto, è stata scelta come protagonista la musica, utilizzata come linguaggio universale e occasione per favorire la comunicazione, l'aggregazione e l'integrazione fra tutti gli addetti ai lavori che ruotano attorno ai penitenziari italiani: associazioni, volontari, agenti di polizia penitenziaria ed educatori. A capo dell'iniziativa ci sono il Presidente dell'associazione Apoxiomeno nonché Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, Orazio Anania, un uomo da sempre sensibile all'impegno sociale, e l'Associazione Les (associazione no profit che si occupa di tutte le problematiche relative alla sicurezza). Il Presidente dell'associazione Apoxiomeno ha costruito una squadra che si avvale di una serie di professionisti, cantanti, musicisti, animatori, che da sempre sono vicini al lavoro delle forze dell'ordine e che con i valori della musica intendono offrire una opportunità di svago e socializzazione per i detenuti con lo scopo di sensibilizzare la pubblica opinione su una particolare tematica sociale e umana quale è quella dei diritti dei detenuti. Tra i nomi più importanti contattati da Orazio Anania, ci sono il dj Mitch, speaker, musicista e produttore: Mitch, ex appartenente alle forze dell'ordine ha sposato il progetto dell'associazione Apoxiomeno mettendosi a disposizione per la produzione artistica e per una serie di concerti e di spettacoli che durante il periodo natalizio si svolgeranno all'interno delle carceri. Vista la difficoltà nel riuscire a lavorare con lingue, culture e religioni differenti, un problema che emerge negli Istituti penitenziari a causa delle diverse etnie, Mitch ha inserito nel progetto un suo artista internazionale, il cantante e ballerino cubano Leo Diaz. L'immagine e la voce ufficiale del progetto è invece affidata al cantante Hervè Olivetti che con il suo brano "Diavolo di un angelo", attualmente in radio e disponibile negli store digitali, contribuirà concretamente attraverso i relativi proventi all'acquisizione di materiale utile all'attività di formazione dei detenuti finalizzata all'inserimento lavorativo. "È importante, far capire alla società che la persona vale di più di qualsiasi reato commesso e che, offrendo al tempo opportunità e fiducia, è possibile aiutare anche chi dovrà rifarsi la vita e i sogni". Libri: non solo "ragazzi cattivi", ci sono storie dentro le nostre carceri minorili di Giancarlo Capozzoli www.huffingtonpost.it, 5 dicembre 2014 "Ragazzi cattivi" è un libro edito da Giunti e curato da Don Burgio con Domenico Zingaro. Don Burgio è il cappellano del carcere minorile di Milano, il "Cesare Beccaria", e presidente dell'Associazione Kayròs che si occupa della accoglienza in strutture comunitarie di ragazzi in difficoltà. Ragazzi come quelli raccontati, o meglio che si raccontano autobiograficamente, in questo volume. Apparentemente è una lettura semplice, ma come tutte le cose complesse, nasconde diversi aspetti di lettura. Don Burgio ha il merito di lasciare a loro i racconti, le loro voci. Il sacerdote, solo nella postfazione, afferma che i minorenni raccontati, quei "mostri di mamma" raccontati invece così da un giustizialismo troppo facile e troppo rassicurante, tranquillizzante, per lui sono "ragazzi e basta". Uno dei pregi inoltre di questo libro e delle parole stesse di Don Burgio, è una sorta di laicismo militante, di illuminismo, di umanesimo direi, che lascia emergere, da sé, come i problemi di questi ragazzi siano in realtà problemi legati anche alla società contemporanea. A quella società intendo che richiede degli status symbol riconoscibili facilmente, per sentirne di farne parte a tutti gli effetti, o peggio, per non esserne esclusi "obbligati a conformarsi in tutto, in un mondo dove la norma è il consumo, inibiti in ogni forma di originalità", scrive il sacerdote parlando a proposito della dittatura del divertimento ad ogni costo, e della feticizzazione dell'essere, aggiungo io. Quella feticizzazione dell'essere di cui molta filosofia dell'inizio del secolo scorso ha detto. Husserl e Heidegger, non proprio due filosofi marxisti, per prevenire critiche. Lo scopo che ha spinto Don Burgio a pubblicare questo volume è capire. E sollevare un problema che riguarda tutti noi, e non solo chi, come i protagonisti del libro, e le loro famiglie sono stati costretti a subire e vivere: la drammatica situazione dell'esclusione sociale, e peggio, la reclusione. Il libro è di una semplicità disarmante e apparente. Sette storie, sette capitoli, sette ragazzi. Tutti minorenni, alcuni italiani, altri no. Il filo conduttore di tutti i racconti è l'assenza di una comunità che trasmetta "valori veri". E i problemi sociali che questo comporta. Ma è anche l'assenza di quella autenticità /Eigentlichkeit heideggeriana, che conduce ad un consumismo sfrenato, ad una mentalità mafiosa, ad una mancanza di rispetto, e quindi mancanza di cura, di sé, come uomo, e dei propri prossimi. Io aggiungerei, anche a partire dalla mia esperienza personale, che la causa di questi problemi è anche e innanzitutto, lo sgretolamento di quello Stato Sociale che continuamente crea, e continua a creare nuove categorie di poveri ed emarginati. Naturalmente non è solo questo. La prima storia del libro è quella di Antonino. La sua storia è scritta, come spesso accade a chi vive la prigionia, sulla propria pelle, tatuata. Basta leggere i suoi tatoo per capire che la sua è una storia difficile, emarginata, periferica. Rassegnata. Ecco leggendo il suo racconto, e poi gli altri anche, questo tema della predestinazione rassegnata, torna, e di continuo. Come se l'impossibilità di un riscatto sociale e l'impossibilità della realizzazione del proprio sé, portasse alla rottura degli schemi, della legalità che la società ha invece imposto. La sua come quella degli altri è la storia di famiglie difficili, di chi vive la periferia, intesa in termini di sviluppo sociale economico e culturale. E di conseguenza la sua è la storia di chi subisce l'analfabetismo: lo studio è vissuto solo come un ostacolo al proprio successo personale, e immediato. Successo, cioè, dettato dal guadagno facile, diretto, precario, ma allo stesso tempo duro, eccessivo e smodato. Tutto votato al consumo. Il lavoro non c'è, e quelle poche volte che c'è è poco remunerato, allora si inventa. Il modello è davvero Al Pacino di Scarface, e la sua tigre in giardino. Intanto magari tatuata sul corpo. Nella seconda storia ai problemi già sollevati si aggiunge anche quello dell'emigrazione. Problema per chi la subisce, da intendere cioè come solitudine di un ragazzino, lontano dagli affetti, e isolato persino dalla lingua e dalla difficoltà persino di comunicare con i compagni di classe. "...ho realizzato che un albero, la libertà ce l'ha dentro, nel suo essere vivo", scrive il ragazzo alla fine, dopo l'incontro con Don Burgio. Quello che, secondo me, è chiaro è l'assenza, in ognuna delle storie raccontate, di un pro-getto. Pro-gettarsi, da intendere filosoficamente Ent-wurfen, in tedesco, gettar-si avanti. Avere uno scopo, gettarsi verso un telos. Darsi un pro-getto. Una destinazione. Che non sono, e il libro lo mostra chiaramente, i soldi facili del consumismo, o il potere, o tutto ciò che è extra-ordinario, super-ordinario. Super-omistico direi. In quel fraintendimento del super-uomo di Nietzsche su cui forse si dovrebbe riflettere. La ricerca della felicità, nei racconti raccontati dai ragazzi, è intesa come libertà di possesso, di possedere più oro, più soldi, più macchine, in vista di quel super-uomo a cui accennavo. Naturalmente non sempre è così, lo sappiamo ma è giusto ricordarlo. Il problema di Massimiliano, uno dei ragazzi, è il problema di avere le tasche vuote. Ed è un problema di molti. Ma nei casi, come quelli che emergono dalla lettura del libro, si dà forse un'altra possibilità. La possibilità di una svolta, di una Kehre, per riferirci ancora alla filosofia tedesca, la svolta che si fa ri-volta, da intendere quindi come un radicale ripensamento del sé, in vista di un ripensamento dei propri valori. Di quelli che più ci appartengono e che ci rendono davvero uomini. I valori autentici, allora. E il pensare. Stati Uniti: in Texas fermato il boia per Panetti, il condannato a morte malato di mente di Stefano Pasta La Repubblica, 5 dicembre 2014 A pochi minuti dall'iniezione letale, il Quinto Circuito della Corte d'Appello rinvia l'esecuzione di Scott Panetti nel carcere di Huntsville, in Texas. Il detenuto, colpevole di un omicidio nel 1992, è un malato di mente, ricoverato per problemi psichiatrici 14 volte negli 11 anni precedenti al fatto. Negli Usa, la sua esecuzione ha diviso: 20 leader conservatori, favorevoli alla pena di morte, avevano chiesto al Governatore Perry la sospensione dell'esecuzione. Almeno per ora, Scott Panetti, il malato mentale che nel 1992 aveva ucciso gli ex suoceri, non morirà. Rimane un dead man walking, un "morto che cammina" come negli Usa chiamano i detenuti nel braccio della morte, ma la scorsa notte non è stato portato sul lettino per l'iniezione letale. Pochi minuti prima della sua esecuzione, prevista per il 3 dicembre alle 18.00 in Texas, mezzanotte in Italia, il Quinto Circuito della Corte d'Appello ha concesso un rinvio e il governatore Rick Perry ne ha preso atto. La condanna non viene annullata, ma il "conto alla rovescia verso una data non nota" ricomincia. "Omicidio di Stato" per un matto. Del resto, a quest'uomo di 56 anni, era già successo nel 2007, quando l'omicidio di Stato venne sospeso a ventiquattr'ore dalla puntura. L'anno dopo, la pena capitale fu ripristinata perché, disse il giudice, "Panetti era malato di mente quando commise il crimine e lo è ancora adesso. Ma aveva chiaro il nesso tra il suo crimine, la sentenza prevista per quel crimine e il nesso causale retributivo tra il primo e la seconda". Ieri, motivando la sospensione, la Corte d'Appello ha chiesto tempo "per esaminare materiale legale complesso e arrivato in extremis". Ora, i suoi legali sperano che possa servire per riconsiderare il caso alla luce della proibizione, secondo la legge americana, delle esecuzioni per i malati di mente. Se Panetti ha commesso l'omicidio nel 1992, già dal 1978 aveva una diagnosi per schizofrenia, prima del 1978 era già stato ricoverato 14 volte per problemi psichiatrici e, consegnandosi alla polizia, disse di aver agito sotto il controllo del "Sergente" e "le risate del demonio". Vestito da cowboy, chiamò Gesù Cristo a testimoniare. Al processo si presentò con un vestito viola da cowboy e, rifiutando l'avvocato, chiamò a deporre alcuni testimoni morti da anni, assieme al Papa, Gesù Cristo e John Fitzgerald Kennedy. L'ex moglie stessa scrisse alla Corte che Scott, nonostante le avesse distrutto la vita, non doveva essere condannato a morte a causa delle sue condizioni mentali. Eppure, tutto ciò era già noto da anni. Quello che forse ha indotto la Corte alla prudenza è la mobilitazione internazionale che ha accompagnato il caso, insieme alla spaccatura interna al fronte dei sostenitori dell'omicidio di Stato. L'appello dei conservatori. Poche ore prima della condanna, infatti, una ventina di leader conservatori molto vicini a Rick Perry, cioè il governatore dello Stato americano in testa per le sentenze capitali eseguite, hanno diffuso un appello per la sospensione. Tutti sostenitori della pena di morte, ma a loro avviso l'esecuzione di un malato mentale come Panetti rischiava di mettere in pericolo il sostegno dell'opinione pubblica a questo strumento. Secondo l'ex ministro della Giustizia della Virginia Ken Cuccinelli, "anziché costituire una risposta misurata ad un delitto, avrebbe contribuito a mettere in crisi la fiducia del pubblico in un sistema di giustizia equo e morale". Si è mosso anche l'Onu. Altri appelli si erano accumulati sul tavolo di Perry: oltre 94 mila persone hanno firmato una petizione, diffusa in Italia dalla Comunità di Sant'Egidio, che è sommata alle voci a favore della vita del New York Times, di neuro scienziati, di esponenti evangelici e cattolici e attivisti di varia provenienza. Il giorno prima dell'esecuzione, era intervenuto anche l'Onu: da Ginevra, Christof Heyns, l'esperto Onu sulle esecuzioni sommarie o arbitrarie, aveva sostenuto che l'esecuzione di Panetti "violerebbe le salvaguardie che impediscono l'applicazione della pena capitale a individui con disabilità psicosociali: sarebbe dunque un'esecuzione arbitraria". E anche Juan Mendez, il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla torture, aveva ricordato che "la legge internazionale considera l'imposizione della pena di morte su persone con disabilità mentali una violazione del bando della tortura e di altre punizioni o trattamenti inumani e crudeli". Cina: stop all'espianto di organi dai condannati a morte, il divieto scatterà nel 2015 Agi, 5 dicembre 2014 La Cina dice basta all'espianto di organi dai condannati a morte, prima fonte di trapianti nel Paese. Il divieto scatterà nel 2015, da quel momento in poi tutti gli organi destinati all'impianto dovranno provenire da donatori volontari. Lo riferisce Huang Jiefu, ex vice direttore del ministero della Salute e direttore della Commissione trapianti e donazioni di organi cinese. I principali centri trapianti avevano già messo al bando la pratica di recente, che è rimasta, tuttavia, nelle restanti strutture. Tra i motivi che hanno alimentato la pratica di espiantare gli organi dai detenuti nel braccio della morte, il tasso di donatori tra i più bassi al mondo. Secondo statistiche mediche, infatti, solo 0.6 persone su un milione sono donatori, un dato che sale a 37 su un milione in Spagna, Paese che vanta, al contrario, uno dei tassi più alti in assoluto. Ogni anno in Cina vengono effettuati 10mila trapianti a fronte dei 300mila pazienti in lista d'attesa. Iran: Jason Rezaian, reporter Washington Post, resta in carcere per altri 2 mesi Adnkronos, 5 dicembre 2014 Resterà in carcere per almeno altri due mesi il giornalista del Washington Post Jason Rezaian, da luglio rinchiuso in una prigione iraniana senza un'accusa precisa. Lo ha riferito il fratello di Rezaian, Ali, confermando la notizia annunciata da Human Rights Watch (Hrw) sull'estensione della custodia cautelare nei confronti del reporter. Ali Rezaian, citato dal New York Times, ha affermato che la proroga è effettiva dal 18 novembre e che la sua famiglia è stata inspiegabilmente informata dalle autorità iraniane solo pochi giorni fa. Ieri Hrw ha denunciato che il giornalista del Washington Post si trova nel carcere di Evin, a Teheran, senza poter incontrare il suo avvocato. Rezaian è stato arrestato a Teheran lo scorso 22 luglio insieme alla moglie Yeganeh Salehi, anche lei giornalista, liberata su cauzione lo scorso ottobre, e ad altri due reporter presto rilasciati. Il giornalista, 38enne con la cittadinanza iraniana e statunitense, lavora dal 2008 come corrispondente dalla Repubblica Islamica e, come hanno più volte ribadito le autorità iraniane, si trova in prigione perché "coinvolto in attività che vanno oltre quelle di un giornalista" e che "violano la sicurezza dello Stato". Nei mesi scorsi il dipartimento di Stato Usa ha invocato il rilascio dell'uomo. A fine ottobre la famiglia di Rezaian ha scritto una lettera aperta alle autorità di Teheran affinché liberino il giornalista. Svizzera: a Lugano "La Colpa" esce dal carcere per salire sul palco del Foce www.tio.ch, 5 dicembre 2014 Prima assoluta questa sera allo studio Foce di "La Colpa", terza tappa del progetto teatrale sulla fallibilità dell'animo umano della Markus Zohner Arts Company. All'inizio c'era una prigione e la voglia di indagare la natura umana. "Abbiamo cominciato con il progetto Radio Scatenata fatta con i detenuti della Stampa - spiega Markus Zohner - Abbiamo lavorato sul libro "Alla ricerca del tempo perduto" e dal materiale audio raccolto è nato lo spettacolo "Proust in Prison" andato in scena l'anno scorso". Oggi la riflessione della compagnia fa un ulteriore passo avanti, mettendo in scena la colpa in tutte le sue sfaccettature. Liberato dalle sbarre, il concetto e il sentimento a esso legato assumono infatti sfumature diverse nella società: "Non solo si è colpevoli quando si ammazza qualcuno o si ruba - continua Markus - si è colpevoli anche quando si pensa di fare del male a una persona o si tradisce". Siete giunti a delle conclusioni? In sé no. Abbiamo visto e scoperto molte cose. Una di queste è che la colpa, in verità, è uno strumento di potere; questo per me è uno dei punti cruciali. Non diciamo che sia giusto o sbagliato, osserviamo il fenomeno nelle relazioni, nello Stato, nell'uomo". Cosa vi ha spinti a imbarcarvi in un progetto di questa portata: lavorare in un carcere, indagare l'animo umano, riflettere sulla colpa? "È un lavoro che si inserisce in un contesto ancora più ampio, un progetto culturale triennale che si chiama C.U.T! Il taglio. Abbiamo preso in considerazione le domande del taglio: i detenuti sono tagliati fuori dalla società. Abbiamo voluto vedere come è la loro riflessione sulle grandi domande della vita essendo tagliati fuori. C'è una grande differenza. Hanno tanto tempo per pensare, certo, ma hanno delle colpe reali da espiare. Volevamo scoprire cosa succede nell'animo umano. Dentro o fuori dal carcere ognuno ha un suo modo di porsi nei confronti di quello che ha fatto, ma al centro c'è sempre una fenomenologia della colpa che ci viene imposta o che ci diamo noi stessi. Più ci siamo addentrati più la questione si è ramificata, non si finisce più di indagare e scoprire". Lavorare con i detenuti ha cambiato il tuo modo di vedere il mondo? "Assolutamente. Avevo già fatto un lavoro simile sette anni fa in Kosovo, con attori kosovari sul tema della colpa e della possibilità di perdonare; era uno spettacolo pieno di sangue e molto brutale. Ora aggiungo l'esperienza con i detenuti della Stampa e posso dire che qualcosa mi è cambiato dentro: ho scoperto l'importanza di guardare le cose. Uno degli aspetti che più mi ha toccato, è che loro avendo il tempo e il dovere di riflettere lo fanno. In un certo senso parlare della paura della morte e della libertà con un detenuto è più interessante che con una persona comune. Hanno un'altra forza, un'altra necessità. Chi ha una colpa forte, deve trovare il modo di espiarla o di portarla convivendo con essa tutta la vita. Noi ci arrangiamo, ci giustifichiamo, ma se sei incastrato come in carcere non ti puoi arrangiare, le domande allora diventano vitali, il loro significato e il loro peso aumenta tantissimo". Cosa aspettarci dallo spettacolo? "Qualcosa di intimo e forte", assicura Markus, ma non la catarsi, piuttosto un'occasione per vedere con altri occhi il mondo e la vita: "Lo scopo dichiarato - conclude Markus - è parlarne il più possibile. Solo così si dà respiro alla riflessione, si aprono domande e percorsi. È come piantare un seme che chi vorrà cogliere coglierà".