Giustizia: la legge sui risarcimenti ai detenuti fa risparmiare, ma non risparmia le sofferenze di Riccardo Polidoro Il Garantista, 30 dicembre 2014 Un anno nuovo diverso per coloro che sono detenuti negli istituti di pena in Italia? Sembrerebbe di sì. Per la prima volta il Capo dello Stato, intervenendo, come ormai consuetudine, sul tema delle carceri mostra un cauto ottimismo, ma precisa che "molto resta da fare" e bisogna "perseverare affinando gli obiettivi". I destinatari di tale monito sono il Parlamento e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando. A quest'ultimo il Presidente Napolitano riconosce il "cambio di passo" che potrebbe condurre finalmente a mutare complessivamente il sistema della pena in Italia. Il Ministro, nella conferenza stampa di lunedì scorso, ha comunicato quanto è stato fatto sinora e quali sono gli obiettivi del Governo. Non vi è dubbio che il cambiamento c'è. Muta l'impostazione culturale e l'approccio al problema. Non si ricorre a facili slogan, come il terribile quanto inefficace "svuota carceri", e non si considera la detenzione, l'unica pena possibile. Ma aver superato la "fase di febbre alta", come riferito dal Ministro in merito alla diminuzione del sovraffollamento, non vuol dire essere guariti ed occorre una cura costante sotto osservazione. Il Governo intende giustamente "sviluppare e strutturare il sistema delle pene alternative" e per questo ritiene fondamentale il contributo della Magistratura di Sorveglianza, il cui Coordinamento Nazionale, però, nella recente Assemblea, ha manifestato "seria preoccupazione per i progetti di riforma che si annunziano, nelle parti che non si pongono in completa sintonia con il modello costituzionale, da cui sembrano allontanarsi in aspetti non secondari" oltre a ribadire le carenze di organico, che non consentono di svolgere nei tempi dovuti l'enorme carico di lavoro. È stato annunciato che il termine stabilito - marzo 2015 - per la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, sarà perentorio, senza alcuna possibilità di proroghe. In caso di inadempienze si procederà al commissariamento delle strutture regionali. Sarebbe davvero auspicabile il rispetto di un termine che ha visto innumerevoli rinvii, ma potrà il potere centrale, sostituendosi a quello locale, evitare che la tanta invocata chiusura si trasformi nella frammentazione degli stessi Opg, in micro-organismi regionali? Non vanno, poi, condivisi i toni trionfalistici e strettamente economici del Ministro per aver evitato la condanna dell'Italia per il trattamento disumano e degradante riservato ai detenuti. Se è vero che, come testualmente riferito, è stata "scongiurata un'onta politica", in quanto la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha dichiarato irricevibili 3.685 ricorsi, avendo l'Italia introdotto il rimedio risarcitorio davanti al Giudice nazionale, è altrettanto vero che la nuova norma si è rivelata, allo stato, un vero e proprio fallimento. Con la pronuncia di "irricevibilità" dei ricorsi, afferma il Ministro, vi è stato "un risparmio per l'Italia di 41.157.765 euro. In prospettiva, se i 18.219 ricorsi pendenti davanti ai Giudici nazionali fossero stati proposti a Strasburgo (ove il rimedio interno non fosse stato introdotto), la stima sarebbe pari a un costo di ulteriori 203.488.011 euro, per un totale di 244.645.776 euro" (askanews). Ma i conti nascondono un vero e proprio caso di Giustizia negata. Da un lato Strasburgo ritiene di non interessarsi più dei ricorsi provenienti dall'Italia, avendo tale Paese trovato una soluzione interna; dall'altro il tanto sbandierato rimedio non funziona affatto. L'indagine sulle istanze depositate al 27 novembre 2014, è lapidaria: istanze iscritte 18.104, definite 7.351, pendenti 10.753. Delle definite ne sono state dichiarate inammissibili 6.395 (87%) ed accolte solo 87 (1,2%). Ma la Corte Europea che aveva raccomandato rimedi effettivi, rapidi ed efficaci, lo sa? L'Unione Camere Penali Italiane ha in corso un sondaggio presso tutti i Tribunali di Sorveglianza e presso i Giudici Civili, competenti per il risarcimento (quale sconto di pena o monetario), al fine di conoscere anche le singole realtà territoriali. Allo stato sono già pervenuti dati significativi. Al Tribunale di Sorveglianza di Palermo, al 18 dicembre 2014, istanze accolte 0, rigettate 0, inammissibili 426. A Firenze, al 15 dicembre 2014, accolte 0, rigettate 6, inammissibili 96. A Napoli, al 27 novembre 2014, accolte 0, rigettate 2, inammissibili 124. A Cagliari su 332 istanze, ne è stata decisa solo una, dichiarata inammissibile. All'Ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Avellino, sono stati proposti 698 ricorsi, ai primi di dicembre ancora tutti pendenti. Le Camere Penali, pur condividendo lo spirito della Legge, ne hanno apertamente criticato il testo, per le sue lacune, per gli inevitabili contrasti giurisprudenziali, per la complessità e, a volte, impossibilità delle istruttorie, per l'assoluta inadeguatezza delle risorse e dei mezzi di cui dispongono gli Uffici di Sorveglianza preposti. È vero abbiamo evitato (per ora) la condanna e scongiurato un'onta politica, nel pieno della presidenza italiana dell'Unione Europea. Abbiamo anche risparmiato una considerevole cifra. Ma tutto questo, a ben vedere, ha un prezzo troppo alto se davvero si vuole dare un effettivo segnale di trasformazione culturale. Va, dunque, ancora una volta condiviso il monito del Capo dello Stato sulle problematiche relative alla detenzione. La strada intrapresa può essere quella giusta, ma il percorso è ancora lungo e i tratti in salita non saranno pochi, affinché la pena in Italia sia scontata secondo i principi costituzionali, tutelando la dignità, la salute, la rieducazione, il lavoro, la famiglia, gli affetti. Giustizia: più web ai detenuti, ce lo chiede l'Europa di Andrea Oleandri (Associazione Antigone) Il Garantista, 30 dicembre 2014 È ora di dare accesso a internet ai carcerati italiani, sulla scorta di quanto deciso in Francia, dove dal 2007 esiste il programma Cyber bases. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". È il principio affermato dal terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione italiana. Un articolo che spesso contrasta con la realtà della detenzione. Lavoro, accesso allo studio, affettività, diritto di voto, sono tutti elementi critici che si vanno ad aggiungere alla già non facile vita in carcere, tra assenza di privacy e sovraffollamento. Questioni che vengono approfondite nel report dell'Osservatorio Penitenziario Europeo (www.pri-sonobservatory.org), progetto attivo in 8 paesi (Francia, Grecia, Italia, Lettonia, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Spagna), di cui l'Associazione Antigone è capofila, che monitora e analizza le attuali condizioni dei vari sistemi penitenziari nazionali e dei relativi sistemi delle alternative alla detenzione, confrontandole con le norme internazionali rilevanti per la protezione dei diritti fondamentali dei detenuti, in particolare le Regole penitenziarie europee (Epr) del Consiglio d'Europa. Proprio su una delle principali questioni sollevate da questo lavoro è utile soffermarsi. Negli ultimi anni lo sviluppo della tecnologia e di internet è stato inesorabile, tanto che il digitai divide, ovvero il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell'informazione (in particolare personal computer e internet) e chi ne è escluso, in modo parziale o totale, rappresenta uno dei fattori che misurano il grado di sviluppo di uno Stato. Se ci si sofferma a guardare indietro, anche solo di 10 anni, si può vedere quanto si sia diffusa a tutti i livelli della società questa tecnologia e quanto ogni tipo di professione non possa fare a meno dell'utilizzo di un pc e di un indirizzo e-mail. È facile capire, quindi, quanto l'assenza di internet per un detenuto che stia scontando pene a medio o lungo termine possa allontanarlo ulteriormente dalla società. Chi è entrato in carcere da diversi anni, al momento del fine pena e della riammissione in libertà, si può trovare dinanzi a cose di cui non conosce nulla e trovare cose che, se per lui "dentro" erano quotidiane come lo spedire lettere via posta, "fuori" sono completamente abbandonate. Un significativo svantaggio sociale che non può che rendere più difficile un effettivo reinserimento. Proprio le Epr sottolineano come la vita in carcere dovrebbe avvicinarsi "il più possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera" (Regola 5) e che tutta la detenzione dovrebbe "essere gestita in modo da facilitare il reinserimento nella società libera delle persone che sono state private della libertà" (Regola 6). Per rispondere a queste regole il ministero della Giustizia francese, fin dal 2007, ha deciso di sperimentare in carcere un accesso sorvegliato a Internet, al fine di "colmare il divario digitale e l'analfabetismo". Chiamato "Cyber bases", questo esperimento è ora portato avanti in sette carceri (per minori, uomini e donne). Qui i detenuti possono, previa autorizzazione del direttore, navigare in Internet attraverso vari siti preselezionati - di solito siti web di servizi pubblici (in materia di diritti sociali, di ricerca di lavoro, di ricerca di alloggio, ecc.) o alcuni siti di informazioni tipo Wikipedia (sono autorizzati a interagire o a utilizzare la posta elettronica solo sotto supervisione; quando visitano questi siti senza supervisione, ai detenuti non è permesso utilizzare le loro tastiere). "Cyber bases" è anche usato come parte della formazione. I detenuti possono svolgere, con o senza supervisione, esercizi online (spesso in matematica e in francese) su siti web scelti dal personale docente o ricevere una formazione in informatica, Word ed Excel o scrittura di curricoli. Un utilizzo che tuttavia è ancora troppo limitato, sia nella diffusione che nelle possibilità di accesso ai siti, cosa quest'ultima che -per coloro che già possiedono abilità informatiche - rende il progetto meno interessante, cosa che ha portato numerosi organismi indipendenti a chiedere un allargamento di "Cyber bases" a tutte le carceri e una più ampia possibilità di accesso ad Internet. Un'altra questione che l'utilizzo delle nuove tecnologie potrebbe risolvere è quella che risponde a un'altra regola europea: "i detenuti devono essere autorizzati a comunicare il più frequentemente possibile - per lettera, telefono, o altri mezzi di comunicazione - con la famiglia, con terze persone e con i rappresentanti di organismi esterni, e a ricevere visite da dette persone" (Regola 24-1). Avviene in alcuni casi che i detenuti vengano trasferiti in carceri lontani dai loro luoghi di residenza. Questo di fatto provoca - soprattutto per i tanti che provengono da famiglie a reddito basso, o per chi ha problemi legati a malattia, disabilità o semplicemente l'età - l'impossibilità di mantenere rapporti con i propri famigliari in maniera continuativa. In tal senso i nuovi strumenti di comunicazione offrono la possibilità di rimediare a questa problematica, senza che la sicurezza venga minacciata. Un esempio dell'utilizzo di queste nuove tecnologie viene dalla Scozia dove, a seguito della chiusura di due carceri, che comportarono il trasferimento di molti detenuti, dall'inizio del 2014 è stato sviluppato un servizio di visite video come risposta alla crescente distanza di viaggio. Finanziato dallo Scottish Prison Service (SPS) e sviluppato in partnership con Apex, un'organizzazione che lavora con ex-detenuti, la tecnologia della videoconferenza permette alle famiglie e agli amici di "visitare virtualmente" i detenuti. Mantenere rapporti costanti con le famiglie sembra contribuire a ridurre la recidiva, proprio per questo ora si sta rendendo permanente questo esperimento riuscito. Due buone pratiche che l'Osservatorio Europeo - e in Italia Antigone - ha chiesto vengano rese operative in tutti gli stati membri. Per il nostro Paese significherebbe fare un passo in avanti verso il dettato costituzionale. Giustizia: il 41-bis non si dà a furor di popolo di Astolfo di Amato Il Garantista, 30 dicembre 2014 Piero Sansonetti non perde occasione per manifestare, su questo giornale, le sue perplessità e il suo disaccordo riguardo alla indagine condotta dal Procuratore Tignatone e che va sotto il nome di Mafia Capitale. Da ultimo ha qualificato come feroce e demagogica l'assegnazione di Carminati al regime di 41bis, il carcere duro. Mafia Capitale ha portato alla luce una dimensione del malaffare devastante per la tenuta del sistema democratico del nostro paese. E emersa una contiguità, tra criminalità e politica, del tutto sconosciuta. Il punto più alto di quella contiguità era sinora costituito dalle vicende di Cuffaro e di Dell'Utri, nelle quali il paradigma del concorso esterno in associazione mafiosa è stato dilatato oltre i confini definiti in precedenza, per giungere alla condanna. Nella vicenda di Mafia Capitale non sembra siano necessarie forzature per ravvisare gli estremi di alcuni gravi reati. Essa segna anche un nuovo punto di arrivo: il coinvolgimento di tutte le parti politiche, spesso teorizzato, ma mai provato sino in fondo, qui non è neppure in discussione. Anche rispetto a Mani Pulite vi è un salto di qualità (o forse meglio dire una ulteriore caduta) evidente. In quel caso Craxi poteva vantare di aver raccolto risorse per finanziare tutti i partiti socialisti del Nord Africa e del Medio Oriente, a cominciare dai palestinesi di Arafat. A sua volta, la Democrazia cristiana si legittimava invocando la necessità di compensare i cospicui finanziamenti fatti dall'Unione Sovietica al Pci. Mafia Capitale ha scoperchiato un sistema nel quali tutti rubano su tutto, senza limiti e senza giustificazioni. Ma io sono con Sansonetti. Cerco di spiegare la ragione con un esempio. Pensiamo ad un reato particolarmente odioso: l'abuso sessuale di un disabile. È una condotta capace di far reagire le corde più profonde dell'indignazione. Per il quale nessuno mai potrà neppure immaginare giustificazioni capaci di attenuare la gravità e l'immoralità del fatto. Eppure, è semplicemente inconcepibile che la indignazione possa consentire di celebrare un processo per omicidio innanzi ad una Corte di Assise, invece che un processo per violenza sessuale innanzi ad un Tribunale ordinario. Ecco, rispetto all'indagine Mafia Capitale, i confini tra le categorie sono meno evidenti rispetto all'esempio fatto, ma egualmente netti. Il punto di tensione, difatti, non sta affatto nella valutazione circa la gravità dei fatti emersi, ma nella possibilità che ad essi possa applicarsi lo strumentario previsto per la lotta alla mafia. Tale strumentario, che consente il ricorso a misure di dubbia legittimità costituzionale, come il carcere duro, è legato alla presenza di alcune caratteristiche dell'organizzazione criminale, che vedono l'aspetto più significativo nel controllo del territorio, unito ad altri indici quali la capacità di intimidazione e la condizione di assoggettamento e di omertà. Se non si presta attenzione a tali particolarità, è evidente che qualsiasi organizzazione che faccia, non importa se occasionalmente, uso della violenza è suscettibile di essere qualificata mafiosa. Con un effetto analogo alla inammissibile qualificazione come omicidio di uno stupro. E evidente che un esito del genere viola i principi dello stato di diritto. Questo è caratterizzato dalla presenza di una legge, che è innanzitutto un limite invalicabile anche per l'esercizio delle potestà pubbliche, oltre che un argine al populismo. Il criterio di qualificazione dei fatti, nella procedura penale di uno stato di diritto, non può essere il livello dell'indignazione popolare, su cui può influire una accorta regia della comunicazione, ma esclusivamente quello offerto dalla legge. E noto che quest'ultima può essere stuprata attraverso interpretazioni corrive con il populismo, ma si tratta di negazioni della legalità, il cui effetto, sul lungo periodo, è un degrado sempre maggiore del tessuto democratico. Anche peggiore degli effetti del malcostume portato alla luce da Mafia Capitale. È per questo che sono con Piero Sansonetti. Giustizia: legge sui corrotti e Mafia Capitale… due "flop" in uno di Errico Novi Il Garantista, 30 dicembre 2014 Sparito il testo varato dal governo sull'onda delle indagini. Che hanno già esaurito la loro carica mediatica. I botti del procuratore Pigliatone non sono ancora arrivati. Può darsi scoppino prima di Capodanno: basterà aspettare poco per verificarlo. Sta di fatto che le "nuove operazioni" annunciate dal capo dei pm romani alla commissione Antimafia restano per ora un'ipotesi. Così come resta un'ipotesi il disegno di legge anticorruzione annunciato esattamente quindici giorni fa dal governo. Prima di girare la chiave nella porta e congedarsi dal personale di Montecitorio, la presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti non aveva ancora ricevuto il provvedimento. Anche qui: non è da escludere che il testo con l'inasprimento delle pene per i reati di corruzione e le norme più stringenti sulle confische faccia capolino prima che finisca il 2014. Ma è una possibilità ancora più remota di un nuovo uragano giudiziario nella Capitale. Il doppio ritardo comincia a pesare. Troppa l'enfasi attribuita a entrambe le questioni. Tanto che adesso si rischia l'effetto bolla mediatica: l'opinione pubblica potrebbe avvertire l'eccessivo scarto tra i roboanti annunci e i passaggi successivi tutt'altro che adeguati alle premesse. Sul fronte della stessa inchiesta Mafia Capitale a fare notizia sono più che altro la durezza delle misure cautelari nei confronti della banda. Di Massimo Carminati in particolare. A suo carico il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha controfirmato, alla vigilia di Natale, la richiesta della magistratura romana di far scattare il 41 bis. Da Tolmezzo, Carminati sarà trasferito nelle prossime ore in una struttura dove sarà possibile applicare il regime del carcere duro. Già la decisione di trasferirlo da Rebibbia al penitenziario friulano è stata contestata dal suo difensore, Giusuè Bruno Naso: a suo giudizio si tratta di misure che hanno il solo fine di ostacolare il diritto di difesa. A breve il lavoro del legale diventerà ancora più complicato. Ma era davvero necessario riservare all'ex terrorista dei Nar lo stesso trattamento previsto per i mammasantissima di Cosa Nostra? O la eccezionalità delle misure detentive serve soprattutto a tenere alto l'impatto mediatico dell'indagine, che altrimenti rischia di scontare un clamoroso calo di interesse? Osservazioni non troppo diverse si potrebbero fare sulle risposte normative annunciate dal governo. Nella conferenza stampa tenuta da Renzi e Orlando subito dopo il Consiglio dei ministri del 12 dicembre sembrava che dovesse arrivare una specie di rivoluzione sul fronte delle misure contro i corrotti. In realtà già quella sera gli esperti della materia ebbero modo di notare come gran parte degli interventi descritti dal premier e dal ministro della Giustizia fossero superflui: nell'attuale ordinamento esistono già gli strumenti per confiscare i beni frutto di corruzione e per impedire che basti una richiesta di patteggiamento a evitare la galera. Nel disegno di legge "varato" dal Consiglio dei ministri c'era, di veramente nuovo, solo l'inasprimento delle pene per i reati di corruzione. Dovrebbero trovarvi posto in realtà tutta una serie di altre misure che da tempo il guardasigilli aveva in preparazione, relative al processo penale generalmente inteso. Novità riguardanti le norme sulla prescrizione di tutti i reati, sulle impugnazioni delle sentenze di primo e secondo grado, sui limiti temporali delle indagini e su altre questioni. Nient'altro dunque che il provvedimento già "varato" lo scorso 29 agosto e poi tenuto da parte per evitare di mettere troppa carne a cuocere nelle già intasate commissioni parlamentari. Ragioni del tutto simili costringono il ministro Orlando a temporeggiare ancora. E ad esporsi però, in questo modo, agli strali di chi lo accuserà di aver fatto sparire per ben due volte la stessa legge. Assai più realisticamente, era astata sproporzionata e indebita la fretta con cui Palazzo Chigi, due settimane fa, aveva chiesto di metterlo improvvisamente in pista. Una scelta dettata esclusivamente dal clamore mediatico di Mafia Capitale. Ora che anche quest'ultimo va scemando (né basta a risollevarlo il commissariamento di un paio di appalti, dell'Ama, l'azienda romana dei rifiuti), la presentazione del disegno di legge perde di nuovo la propria ragion d'essere. Una doppia bolla mediatica, appunto. Che, come tutti i fenomeni di questo tipo, produrrà a breve un rimbalzo d'indignazione nei militanti del giustizialismo. Di concreto, alla fine, resterà il nulla. O quasi. Giustizia: tortura in Italia, anche il 2014 è trascorso nel segno della impunità di Patrizio Gonnella (Presidente dell'Associazione Antigone) Il Manifesto, 30 dicembre 2014 "L'inadempienza dell'Italia nell'adeguarsi agli obblighi della Convenzione Onu crea una situazione paradossale in cui un reato come la tortura che a determinate condizioni può configurare anche un crimine contro l'umanità, per l'ordinamento italiano non è un reato specifico. È quindi necessaria una legge che traduca il divieto internazionale di tortura in una fattispecie di reato, definendone i contenuti e stabilendo la pena, che potrà determinare anche il regime temporale della prescrizione. Pertanto, nella attuale situazione normativa non può invocarsi, così come fa parte ricorrente, l'imprescrittibilità della tortura, cioè di un reato che non c'è". Così ha scritto nero su bianco la Corte di Cassazione in una sentenza del 17 luglio del 2014 resa pubblica poche settimane fa. Nella sentenza si certifica l'impossibilità di estradare in Argentina il sacerdote Franco Reverberi, accusato dai magistrati sudamericani di avere partecipato nella sua veste di cappellano militare ai "tormenti" dei torturati ai tempi di Videla. In assenza del delitto di tortura nei confronti del sacerdote possono essere previste ipotesi di reato che hanno tempi di prescrizione ben più brevi. Invece la tortura, crimine contro l'umanità al pari del genocidio, dovrebbe essere imprescrittibile o quanto meno avere tempi molto lunghi di prescrizione. Il 17 luglio del 1998, ovvero sedici anni prima rispetto alla sentenza della Cassazione nel caso Reverberi, l'Italia aveva organizzato solennemente a Roma in Campidoglio la conferenza istitutiva della Corte Penale Internazionale competente in materia di crimini contro l'umanità. La Corte è nata, seppur stentatamente. L'Italia non si è mai adeguata fino in fondo allo Statuto della Corte voluta dall'Onu. Tra i crimini che la Corte è deputata a giudicare vi è la tortura. Non essendovi il delitto nel nostro codice penale sarà ben difficile arrestare quel militare o dittatore che si è macchiato di questo crimine all'estero e viene a trovare rifugio in Italia. I torturatori di tutto il mondo possono scegliere di venire in Italia come se fosse un paradiso criminale. Tre anni dopo la conferenza di Campidoglio, nel luglio del 2001, ovvero tredici anni prima della sentenza della Cassazione, c'è stata la tragedia genovese. Un pezzo dell'apparato di Stato organizza e commette violenze brutali contro chi manifestava contro il G8. Partono i processi. Un certo numero tra poliziotti e funzionari viene messo sotto inchiesta. La condanna interviene ma per reati lievi. Manca infatti il delitto di tortura. A uno dei torturati di Bolzaneto gli agenti della polizia penitenziaria, dopo essersi vantati di essere nazisti e di provare piacere a picchiare un "omosessuale, comunista, merdoso", dopo averlo offeso dicendogli "frocio ed ebreo", lo hanno portato fuori dall'infermeria e gli hanno strizzato i testicoli, come nella tradizione tragica della tortura a Villa Triste o a Villa Grimaldi. "Entro stasera vi scoperemo tutte". Machismo e fascismo, come sempre insieme appassionatamente. Tra il 2001 e il 2014 ci sono stati casi che hanno scosso le coscienze di questo paese. Un giudice ad Asti nel gennaio del 2012 ha certificato che la tortura commessa da alcuni poliziotti penitenziari non era da lui punibile in assenza del delitto nel codice. Siamo alla fine del 2014 e il Parlamento resta ancora in silenzio. Antigone, insieme ad Amnesty International, Arci, Cittadinanza Attiva, Cild e decine di altre organizzazioni ha organizzato un minuto di silenzio in Parlamento lo scorso 10 dicembre 2014 sperando di mettere i deputati davanti alle loro responsabilità e volendo stigmatizzare il silenzio colpevole delle istituzioni. L'esito della discussione parlamentare è quanto meno mortificante: è stata rinviata a dopo le vacanze. L'Italia, va ricordato, aveva preso formalmente questo impegno internazionale nel 1988. Nella scorsa primavera il Senato ha approvato un testo non conforme a quanto previsto nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: si usa il plurale per le violenze (un'unica violenza non determinerebbe tortura) e si configura il delitto come delitto generico ovvero non tipico di chi ha obblighi legali di custodia. La Camera sta ragionando - lentamente, molto lentamente, troppo lentamente - intorno a possibili miglioramenti. Questa è buona cosa ma lo fa senza verificare cosa potrebbe accadere in Senato nel caso di un nuovo cambio di testo. Infatti, fino a quando resiste il bicameralismo, ad ogni cambiamento il testo torna all'altra Camera. In Senato non vi sono garanzie che ci siano i numeri per far passare la legge. Ci sono gruppi dello stesso partito che hanno votato o preso posizioni molto diverse, se non opposte, alla Camera e in Senato. A Palazzo Madama il Ncd ha dato il peggio di sé. Gli emendamenti peggiorativi del testo sono tutti suoi. "Accogliamo con grande favore l'introduzione del nuovo reato, che è uno strumento in più per perseguire le violazioni alla tutela dei diritti dell'uomo. L'unica perplessità è nella fase applicativa, non certo in termini di principio. Ci sono alcune criticità nel testo". Così il capo della Polizia Alessandro Pansa audito in Commissione Giustizia alla Camera. Le sue dichiarazioni costituiscono un passo in avanti importante. Dunque ci rivolgiamo a tutti i parlamentari del campo democratico, liberale, cattolico, progressista: se siete contro la codificazione del delitto di tortura abbiate il coraggio di dirlo pubblicamente (alle Nazioni Unite, ai nostri lettori e alle nostre associazioni); se invece siete favorevoli scrivete la migliore legge possibile a approvatela definitivamente nel giro di un mese. Giustizia: premier Renzi; abbiamo risolto i problemi delle carceri senza amnistia e indulto Ansa, 30 dicembre 2014 "Un anno fa si parlava di amnistia e indulto, ora non ne parla più nessuno. Il governo ha aumentato del 10% i posti nelle carceri eppure non ne parla nessuno". Così il premier Matteo Renzi. "Abbiamo aumentato le pene alternative al carcere, lavorato molto molto bene sul tema della riduzione delle persone in attesa del primo grado, che sono diminuite del 20%, ma ancora non basta. Stiamo lavorando su questo ma talvolta la necessità di titoli veloci e comunicazione rapida fa dimenticare" temi prima al centro del dibattito. "Sono diminuite di quasi il 20 per cento le persone che sono in attesa di giudizio di primo grado. Stiamo lavorando su tante questioni". Lo ha detto Matteo Renzi durante la conferenza di fine anno. Magistrati più apprezzati se parlassero con sentenze "Su Mafia Capitale c'è stata una risposta giusta non emotiva: chi ruba, ruba e va messo in galera. Ben vengano le indagini e i processi, ma i magistrati sarebbero più apprezzati se parlassero attraverso le sentenze". Lo ha detto il presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso della conferenza di fine anno. "Chi ha sbagliato deve pagare, gli sconti si fanno al supermercato e non ai corrotti - ha precisato Renzi -. Ben vengano i processi e le indagini le dichiarazioni quotidiane dell'Anm ci stanno, sono vivi e vegeti e lottano con noi, ma non faccio quello che mette bocca sull'Anm, io governo il Paese. Ma i magistrati sarebbero più apprezzati se parlassero attraverso le sentenze. Ma non posso passare il tempo a commentare l'Anm - ha aggiunto -. L'Anm può commentare noi". Giustizia: Istat; minori affidati ai servizi sociali +10%, quelli negli istituti di pena -12% Il Velino, 30 dicembre 2014 Aumenta il numero dei minori in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm), soprattutto tra il 2010 e il 2011 (+9,8 per cento). Nel 2013 sono il 10,1 per cento in più rispetto al 2010 e segnano un +13,4 per cento rispetto al 2008. L'aumento, però, è dovuto non tanto alla presa in carico di nuovi soggetti, quanto alla maggiore durata del trattamento secondo le disposizioni dell'Autorità Giudiziaria Minorile. Lo rende noto l'Istat nel pubblicare un quadro aggiornato della condizione dei minori in carico ai servizi della Giustizia minorile. Una parte dei minori in area penale esterna è in carico agli Ussm con provvedimento di messa alla prova. Nel 2013 sono stati emessi 3.456 provvedimenti di messa alla prova, un valore in aumento nel tempo (+85 per cento rispetto al 2003), anche in confronto al totale dei minori per i quali è iniziata l'azione penale. Nei Centri di prima accoglienza si conferma, invece, il trend decrescente degli ingressi iniziato nel 2005 (-8 per cento rispetto al 2012, -42,6 per cento rispetto al 2013). Nelle Comunità il numero dei minori presenti al 31 dicembre 2013 è triplicato rispetto all'inizio del decennio (906), sebbene nel 2013 si registri un calo del 3 per cento rispetto al 2012. Infine, negli Istituti penali il numero dei detenuti è diminuito sia nel 2012 (-8 per cento) sia nel 2013 (-12 per cento), con valori pari a 494 nel 2011, 456 nel 2012, 401 del 2013. Circa nove minori affidati ai Servizi minorili su dieci sono maschi. Con riferimento alla cittadinanza, prevalgono gli italiani, ma con percentuali diverse nei vari Servizi (80 per cento tra i minori in carico agli Ussm, 66 per cento dei presenti in Comunità, 56 per cento dei detenuti in Ipm, 50 per cento degli entrati nei Centri di prima accoglienza). Le principali aree geografiche da cui provengono gli stranieri sono l'Est europeo (Romania, Paesi dell'ex Jugoslavia, Albania) e il Nord Africa (Marocco, Tunisia, Egitto). Le ragazze arrivano soprattutto da Romania, Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia. I minorenni commettono prevalentemente reati contro il patrimonio, soprattutto furto e rapina: il 45,9 per cento dei reclusi negli Ussm, il 62 per cento di quelli presenti nei Cpa e il 54 per cento dei detenuti nelle Comunità e negli Istituti penali per i minorenni. Frequenti sono anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, soprattutto tra gli italiani, mentre tra i reati contro la persona prevalgono le lesioni personali volontarie. Giustizia: chiudere le cooperative in carcere, un danno per i detenuti di Paolo Colonnello La Stampa, 30 dicembre 2014 L'incontro di questa mattina alle 10 tra il Guardasigilli Andrea Orlando e i rappresentanti delle cooperative di detenuti che si occupano dei pasti in dieci carceri italiane, potrebbe segnare una svolta nel mondo dimenticato delle prigioni, oppure riportarlo indietro di un secolo. In gioco infatti non ci sono solo i pasti per i detenuti e i loro costi, ma il concetto stesso del principio di carcerazione: un sistema rieducativo, oppure semplicemente repressivo. E quindi, inutile. Dice Nicola Boscoletto, della cooperativa Giotto di Padova: "Noi non chiediamo niente ma speriamo che si faccia una riflessione seria e un'analisi attenta su costi e benefici, affinché si possa arrivare ad una soluzione che vada bene non tanto alle cooperative ma alla nostra società". Un dato sopra gli altri: se il tasso di recidiva nelle nostre prigioni si aggira sul 94 per cento, nelle cooperative che impiegano i detenuti nella preparazione dei pasti e non solo, si ribalta specularmente: solo il due per cento dei detenuti, una volta uscito, torna a delinquere. E il motivo è semplice: nelle loro cooperative, un mestiere si impara davvero. E imparare un mestiere è riconquistare dignità. È uscire di prigione a testa alta per non tornarci mai più. "In questo modo - continua Boscoletto - si restituiscono persone che prima erano un problema e adesso sono delle risorse". E non si rischiano le multe della Corte europea che considera l'impiego nelle carceri dei detenuti come "scopini", "spesini", "scrivani", o "sguatteri", pagati con la misera "mercede", una cosa ottocentesca a livello di schiavismo. Abolire insomma, la possibilità per chi è rinchiuso di imparare un mestiere vero, mettendosi in cooperative che gestiscono non solo le cucine delle carceri - garantendo standard di igiene, capacità e cura delle macchine elevati - ma anche piccole imprese ormai rinomate (a Padova ad esempio, si fa dalla pasticceria alle borse, alle biciclette), vuol dire forse dover pagare uno stipendio in più ma ottenere in cambio la cura del materiale e il rispetto della Costituzione. Laddove recita che il carcere deve avere un fine rieducativo e non repressivo. La "spending review" può essere insomma più utopistica della rieducazione se non si attua con criteri che badino alle persone prima che hai conti. "Se il problema per il ministero è che costiamo troppo - dice Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc del carcere di Bollate - che ci convochi e ce lo dica apertamente. Sapendo però che non è vero, visto che noi a Bollate nelle tre sezioni su 6 in cui funziona il nostro servizio pasti, abbiamo risparmiato 49 mila euro in un anno". Fatti. Che vedono schierarsi apertamente in difesa dell'esperienza delle cooperative carcerarie tutti i direttori delle case circondariali italiane che in una lettera inviata in aprile al ministro e alle autorità europee, scrivono come "un tema centrale per il miglioramento della qualità della vita interna è quella del lavoro, dentro e fuori dal carcere. Il tasso di disoccupazione nelle carceri italiane è del 96 per cento. Il lavoro qualificato è essenziale quale fattore di riduzione, pressoché totale, della recidiva". Giustizia: "effetto Carminati", a rischio il lavoro delle cooperative per i pasti nelle carceri di Walter Passerini La Stampa, 30 dicembre 2014 E così, dopo dieci anni di positive esperienze, il servizio di preparazione dei pasti nelle carceri italiane, svolto dalle cooperative sociali, rischia di chiudere e di passare alla gestione interna. In questi anni, non solo la gestione esterna della ristorazione carceraria è stata un esempio virtuoso da un punto di vista economico, ma anche un positivo elemento di inclusione sociale, coinvolgendo direttamente centinaia di detenuti in un lavoro che rappresenta anche un nucleo di competenze da utilizzare dopo la pena. Non c'è dubbio che a gettare un'ombra di discredito contro il mondo delle cooperative sociali siano stati i comportamenti delinquenziali emersi nell'indagine Mafia capitale nel Lazio, ma ora volendo gettare l'acqua sporca si rischia di buttare stupidamente anche il bambino. Sono dieci anni che l'esperienza realizzata da 10 cooperative sociali che hanno professionalizzato i detenuti ha dimostrato la validità di un progetto sperimentale, che ora, per opportunismo, mala informazione o superficialità, rischia di saltare, riassegnando il servizio all'amministrazione interna. Oggi i responsabili delle dieci cooperative incontreranno il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, per scongiurare la chiusura del servizio prevista dal 15 gennaio e porranno al ministro e ai responsabili del Dipartimento di amministrazione carceraria le proprie valutazioni e richieste. Tra di esse: - che il Ministero commissioni un'azione di ricerca seria condotta da un soggetto terzo imparziale e competente, circa l'esito delle sperimentazione condotte in questi anni. Chiediamo di poterci confrontare con indicatori di valutazione univoci, espliciti e con riferimenti di spesa effettivi e non situazionali. - che il Ministro stenda una nota formale in cui si dia conto in modo serio delle ragioni per cui si decide di concludere queste esperienze di gestione. Ad oggi l'unico fatto dotato di un rilievo amministrativo è l'iter che sta portando all'uscita di scena della Cassa delle Ammende. Iter in cui peraltro le ragioni addotte dalla Cassa delle Ammende non hanno nulla a che vedere con la bontà o meno del lavoro svolto, ma con la legittimità di ricorrere alla Cassa quale strumento di finanziamento ordinario di servizi collegati alla vita degli istituti di pena. - che il Ministro non chiuda queste esperienze se non al termine di un iter di valutazione compiuto da un soggetto terzo e imparziale. L'interruzione di alcuni di questi progetti porterebbe infatti alla chiusura di alcune delle cooperative coinvolte, generando un danno non sanabile nel breve termine. - che sia concessa una fase transitoria della durata di sei mesi in cui concludere un lavoro serio di monitoraggio, analisi approfondita, e riorganizzazione di queste esperienze. Giustizia: l'appello dei Cappellani "lasciate le mense delle carceri alle cooperative" di Ilaria Sesana Avvenire, 30 dicembre 2014 Dieci anni di sperimentazione e di buoni risultati non bastano. A meno di cambiamenti dell'ultim'ora, il 15 gennaio le cooperative sociali che gestiscono le mense di nove carceri italiane (tra cui Milano Bollate, Rebibbia, Trani, Siracusa e Padova) dovranno riconsegnare le chiavi delle cucine. Mettendo fine a un'esperienza che - a detta degli stessi direttori delle carceri - è stata "oltremodo positiva". "Tornare a un modello in cui i detenuti, ogni due o tre mesi, si alternano a gestire le cucine, mi pare un grosso passo indietro", commenta don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri. "Il lavoro - aggiunge il sacerdote - quando è fatto con continuità e offre formazione è uno degli strumenti con cui la persona detenuta riconquista dignità. E così si allontana dalla criminalità. Iniziative come questa non dovrebbero essere chiuse: investire sul lavoro in carcere favorisce la sicurezza di tutta la società". I dati sulla recidiva dimostrano il buon esito di questi investimenti: chi in carcere inizia a svolgere un'attività professionalizzante, più difficilmente torna a commettere nuovi reati tornato in libertà. Solo due su 100, a fronte di un tasso di recidiva del 70% tra quanti scontano tutta la pena senza far nulla. "A distanza di anni sono certamente necessarie delle verifiche, ma le scelte che ne conseguono devono tener conto dei risultati che, in questo caso, affermano tutti la positività dell'esperienza - commenta don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana. Non si può chiudere un'attività dicendo che la sperimentazione ha funzionato". La decisione di cessare la sperimentazione sembra essere dettata da motivi economici: Cassa delle Ammende, infatti, non finanzierà più il progetto ritenendo conclusa la fase di start-up. "Solo per un ipotetico risparmio momentaneo si eliminano, con un colpo di spugna, dieci anni di fatiche, sofferenze, rinnovate speranze, possibilità di futuro - sottolinea don Soddu - posto che ci sia un risparmio economico, a quanto ammonta il costo sociale della scelta?". Eppure, lavori di questo tipo, che offrono formazione e competenza, sono quelli che danno le migliori garanzie, a differenza delle mercedi, i lavori alle dipendenze dall'amministrazione penitenziaria che i detenuti svolgono a rotazione. "Il carcere deresponsabilizza le persone, costrette a stare in cella a far nulla. La continuità del lavoro, il rispetto delle regole e degli orari invece fanno acquistare dignità", sottolinea don Virgilio Balducchi. "Se si crede che offrendo alla cooperazione sociale la possibilità di gestire le lavorazioni ci sia un miglioramento della qualità e la possibilità di reinserimento, allora bisogna essere coerenti e finanziare questo percorso", aggiunge don Sandro Spriano, cappellano del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso e direttore della cooperativa E-Team che gestisce le cucine con la cooperativa Men at work. In questi dieci anni nelle cucine di Rebibbia sono passati almeno un centinaio di detenuti che, oltre alla formazione professionale, hanno avuto anche il sostegno di un ‘ufficio socialè che ne ha seguito il percorso. "In carcere - spiega don Spriano - tante persone non sono abituate al lavoro: poveri, emarginati, persone senza una professionalità che non hanno mai visto una busta paga. Proprio qui si avvicinano per la prima volta a un'esperienza lavorativa". Un impegno adeguatamente remunerato: dagli 800 euro al mese in su. Mentre chi lavora in mercede - a rotazione e poche settimane l'anno - si accontenta di 200 euro. Per don Marco Pozza, cappellano del Due Palazzi di Padova, la decisione di porre fine alla sperimentazione delle cooperative nelle mense pone di fronte a "un dubbio costituzionale: come rieducare il detenuto se lo si priva del lavoro e della sua dignità?". Nel carcere dove è cappellano da tre anni, spiega, attraverso l'attività della cooperativa Giotto "ogni giorno vedo che il lavoro produce speranza più che salario, impegno dove regnava l'ozio, sorrisi nella palude di desolazione". Le ultime speranze di un cambio di direzione sono riposte nell'incontro che il ministro Orlando avrà stamane con i responsabili delle coop e i Garanti regionali dei diritti dei detenuti. Giustizia: Cassazione; l'imputazione diventa flessibile, ammesso adeguamento progressivo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2014 Via libera alla modifica del capo d'imputazione nella fase delle indagini preliminari. E poi, la contestazione della doppia punibilità, in materia di mandato d'arresto europeo, va posta all'autorità richiesta per l'esecuzione e non a quella richiedente. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 53678 della Seconda sezione penale, depositata il 23 dicembre, respinge il ricorso di Chiara Rizzo, moglie in corso di separazione di Amedeo Matacena, contro, l'ordinanza del tribunale del riesame di Reggio Calabria che aveva confermato il giudizio del Gip favorevole alla misura cautelare personale. Tra i motivi di impugnazione aveva trovato posto la radicale trasformazione dell'imputazione di trasferimento fraudolento di valori rispetto all'ordinanza originaria. La Cassazione, nel valutare legittima la condotta del tribunale del riesame, sottolinea innanzitutto che è fuori discussione la circostanza che le parti e quindi anche il pubblico ministero hanno la possibilità di presentare nuovi elementi nel corso dell'udienza, producendo nuovi documenti o altre prove sul fatto oggetto della decisione. Nella fase delle indagini preliminari, cioè, la contestazione, avverte la Corte, è sempre in evoluzione e non può essere cristallizzata in un capo d'imputazione "per cui è sempre possibile al pubblico ministero integrare le imputazioni procedendo alle modificazioni fattuali che ritiene necessarie in qualsiasi momento della fase delle indagini preliminari, compresa la camera di consiglio convocata dal giudice per il riesame delle misure cautelari". Pertanto, se l'originaria imputazione formulata dal pubblico ministero e indicata dal Gip nell'ordinanza cautelare viene modificata, il tribunale del riesame può legittimamente confermare la misura cautelare facendo riferimento alla nuova ipotesi di accusa. Il provvedimento cautelare infatti può essere via via adeguato su richiesta del Pm, in relazione alle vicende dell'accusa e, se è in corso il provvedimento di riesame, è in questo momento che può avvenire l'adeguamento. Nel caso specifico, inoltre, più che davanti a una riformulazione del capo d'imputazione, ci si trovava di fronte a semplici precisazioni e integrazioni dello stesso. Che, a giudizio della Cassazione, non incidono affatto sull'esercizio del diritto di difesa. Non è stato cioè imputato un fatto nuovo o anche solo diverso. A corroborare ulteriormente la tesi seguita sulla differenza del regime delle imputazioni tra fase cautelare e giudizio pieno di merito ci sono anche gli articoli del Codice di procedura penale dove, all'articolo 292 comma 2 lettera b), si fa espresso riferimento alla "descrizione sommaria del fatto", rendendo in questo modo evidente che il legislatore ha tenuto conto della possibilità di adeguamenti nella fase "sommaria". Come pure su questa linea si pone l'altro chiarimento della cassazione, che dà il via libera alla possibilità per il pubblico ministero di depositare una nuova documentazione, acquisita dopo l'emissione dell'ordinanza cautelare. La documentazione depositata infatti, che ha carattere integrativo e specificativo, ha portato a una precisazione dell'imputazione. Quanto alla verifica delle condizioni per la doppia punibilità, nell'ambito di un mandato d'arresto europeo chiesto dall'a magistratura italiana a quella francese, la Cassazione spiega che non tocca certo all'autorità giudiziaria nazionale procedere. La questione andava piuttosto posta ai giudici francesi che avrebbero dovuto mettere a confronto il reato italiano di trasferimento fraudolento di valori con quelli francesi di "blanchement du produit du crime ou delit" e di "recel de malfaiteur", tenendo conto della possibilità, al termine dell'esame, di rifiutare la consegna della cittadina italiana. Giustizia: Massimo Carminati, criminale con diritto alla difesa di Annalisa Chirico Il Foglio, 30 dicembre 2014 Non ha mai negato rapine e eversione nera e banditismo. Ma Carminati odia droga e mafia. Al Cecato è negata una tutela giudiziaria decente. Icona mediatica, non sta al gioco. Le ragioni del 416 bis secondo i legali. Anche i criminali hanno diritto alla difesa. Quella che leggete è una difesa di Massimo Carminati. Il giornalista collettivo, per definizione, è megafono della requisitoria e censore dell'arringa. Qui si contraddice la pubblica accusa. Non è lesa maestà ma tributo alla giurisdizione. Ci hanno raccontato che Carminati è un fascio cecato, dominus di una romanissima cupola mafiosa, trafficante e pluriomicida. Di sicuro c'è un fatto: "Er Cecato" è cecato veramente. Orbo di un occhio. Nell'epopea mitica del "re di Roma" propalata dalla grancassa massmediatica, l'occhio lo avrebbe perso in uno "scontro a fuoco" con la polizia. Prima bufala. L'unica arma che Carminati indossa quel 20 aprile del 1981 è un passaporto falso. Al valico di Gaggiolo, in provincia di Varese, Carminati è a bordo di una Renault 5 con due sodali in fuga dalla retata anti Nar della magistratura romana. Quando l'auto si ferma e i tre tentano di scappare, gli agenti della Digos sparano. Carminati è salvo per un pelo: il bulbo oculare sinistro è spappolato, un frammento del proiettile gli rimane conficcato nella testa. Il giovane, nato 23 anni prima da una famiglia borghese ben insediata nella capitale, maturità classica e qualche esame alla facoltà di Medicina, non è un neofita del crimine. Infiammato dall'ideologia eversiva, estremista, dei Nuclei armati rivoluzionari, nel 1979 insieme a quattro camerati mette a segno la rapina della Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi a Roma. Da allora il certificato penale di Carminati s'ingrossa tra rapine, eversione, banda della Magliana, fino all'ultima clamorosa impresa: il furto nel caveau della banca interna del Palazzo di giustizia a Roma. "Massimo ha un'alta considerazione di sé", sorride sornione l'avvocato Giosué Bruno Naso che lo difende da trent'anni. La reputazione conta. Per questo, quando nel dicembre 2012 l'Espresso pubblica un articolo a firma di Lirio Abbate che svela in anticipo l'inchiesta detta Mafia Capitale e attribuisce al Nero condanne per droga e omicidi, Carminati s'infuria: "Finché mi dicono che sono il re di Roma mi sta pure bene, come l'imperatore Adriano. Però sugli stupefacenti non transigo. Lunedì voglio andare a parlare col procuratore capo e dirgli: se sono il capo degli stupefacenti a Roma mi devi arrestare immediatamente". Assistito dall'avvocato Ippolita Naso, figlia di Giosuè Bruno, cita per danni editore e giornalista. L'articolo di "De-Lirio Abbate", come lo ribattezza Naso pater, alimenta l'ego di Carminati definito "arbitro di vita e di morte", "unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale". Ma poi l'articolista si spinge oltre e lo tira in ballo nel "business della cocaina". Il che, per il Carminati pensiero, equivale alla peggiore delle infamie. È cresciuto nel mito volontaristico che non ammette dipendenze. L'uomo vero è un soggetto nel pieno controllo di sé. La droga è robaccia per il "Mondo di sotto". Il casellario giudiziario di Carminati conferma la sua impostazione: zero condanne per droga. Quanto al profilo del pluriomicida, in entrambi i processi per l'assassinio del giornalista Carmine Pecorelli (presunto mandante l'ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti) Carminati è assolto. Il nome del Nero rimbalza in "Romanzo Criminale", nonché in diverse inchieste su servizi segreti deviati e depistaggi di stragi. Sconta pure il carcere inseguito da accuse poi falcidiate a colpi di archiviazioni e assoluzioni. "È la solita mania tutta italiana di riscrivere la storia del paese in chiave giudiziaria - commenta il legale Naso pater - Massimo non è un frate trappista ma con la mafia non c'entra niente. Hanno tentato di coinvolgerlo nelle trame dei cosiddetti misteri italiani privi di alcun esito giudiziario. Se non quello di rinverdire il mito carismatico del Nero". Una vita tra fiction e realtà. Fino all'ultimo colpo di scena: Mafia Capitale. L'annuncio dell'"imminente scoperta" avviene nel corso di un convegno del Partito democratico a opera del procuratore capo Giuseppe Pignatone, magistrato stimatissimo che lo scorso sabato ha rilasciato una corposa intervista al Sole 24 Ore per dettagliare sullo sviluppo dell'inchiesta. Pignatone contesta il 416 bis perché è convinto che esista una mafia autoctona, romanissima, dotata degli "indici rivelatori" della tipica struttura associativa mafiosa. Pignatone vuole riuscire laddove gli inquirenti fallirono nei confronti della banda della Magliana (per la quale l'aggravante mafiosa fu esclusa dal giudice). "A quel punto - insinua maliziosamente Naso pater - chi potrà negargli il posto di procuratore nazionale antimafia?". L'avvocato Naso filia ha coniato l'espressione "mafia parlata": "Non ci sono morti né feriti. Pullulano invece gli episodi di corruzione, estorsione… ma che senso ha contestare il 416 bis?" L'imputazione mafiosa estende la gamma dei mezzi investigativi disponibili, abbassa la soglia di gravità indiziaria, consente una gestione dei detenuti più favorevole alla procura. Il ministero di via Arenula ha disposto il 41 bis per l'indagato Carminati (non è ancora neanche imputato), il che significa 23 ore in cella e una sola visita al mese per i familiari. Chi lo conosce dubita che il "carcere duro" possa fiaccarlo nello spirito ribaldo. Ma di certo una misura cautelare così rigida rende assai ardua l'articolazione di una strategia difensiva. "Il 41 bis c'è anche a Rebibbia e a Civitavecchia. Perché trasferirlo prima a Tolmezzo, in provincia di Udine, e poi a Parma? Hanno sequestrato i conti suoi e dei familiari. Come farà a coprire almeno le spese della difesa? - si domanda Naso pater. Non siamo messi nelle condizioni materiali per difenderlo. Ma lo sa che hanno pedinato e intercettato me e mia figlia per mesi? Persino durante i colloqui con il mio assistito, cosa che è espressamente vietata dalla legge". All'indomani dell'arresto avvenuto il 2 dicembre scorso, si consuma la prima "colossale buffonata": un interrogatorio di garanzia in cui Carminati dovrebbe rendere conto delle risultanze d'indagini durate quattro anni e racchiuse in 80 mila pagine. Mentre i giornali ricamano sulla scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere, manco fosse un'implicita ammissione di colpa, gli avvocati che hanno ricevuto il malloppo appena 12 ore prima dell'incontro con il gip, si tormentano: "Come facciamo a consigliare al nostro assistito di rispondere se non abbiamo avuto il tempo di vagliare le carte?". L'ordinanza d'arresto di oltre 1.200 pagine, un compendio d'intercettazioni telefoniche e ambientali, replica quasi testualmente l'istanza dei pm "i quali, a loro volta, ricalcano l'ultima informativa dei carabinieri. Il che vuol dire che non c'è più un controllo giurisdizionale sull'operato degli investigatori", sostiene Naso pater. Davanti al collegio del tribunale del Riesame che potrebbe scarcerare Carminati ma non lo fa, Naso filia si scaglia contro "i metodi di un'indagine ossessiva, quotidiana, mostruosa" e contro un'imputazione, il 416 bis, che è "un calderone senza confini definiti in cui rientra ogni tipo di condotta, secondo il pericoloso e subdolo schema dell'argomentazione assiomatica". Come un dogma. In effetti, le intercettazioni andrebbero ascoltate oltre che lette. "Il tono conta - prosegue la giovane e agguerrita Ippolita. È una manifestazione di spacconeria romana, un autentico cazzeggio che sconfina nel turpiloquio. Come si può pensare che un mafioso impartisca ordini imprecando seduto su una panchina con la gente che si volta a guardarlo?". L'ormai famigerata pompa di benzina è un palcoscenico a cielo aperto. Di quale omertà parliamo? Carminati sa da tempo di essere pedinato e intercettato. Con le telecamere installate presso il benzinaio di corso Francia improvvisa siparietti da smargiasso rivolgendosi direttamente ai carabinieri: "Che ne dite, oggi facciamo un'estorsione o un'usura?". Quando telefona a Naso filia, esordisce così: "Buongiorno, avvocato, sono il re di Roma". Sembra una barzelletta. Stando all'ipotesi accusatoria, mentre a Roma scorrono miliardi di euro tra metropolitane e cantieri infiniti, Mafia Capitale si avventerebbe sul bottino delle corruzioni municipali con funzionari disposti a vendersi per 400 euro. "Fateci delinquenti ma non cojoni", confida un risentito Carminati all'avvocato di una vita, Naso pater, all'indomani dell'episodio di intimidazione denunciato da Lirio Abbate. "Ma davvero credono che per mettere paura a un giornalista già scortato prendiamo un ventenne inesperto e lo mettiamo a bordo di una Clio per speronare un'auto blindata?". La reputazione prima di tutto. "Forse ci siamo dimenticati che cos'è la mafia vera, come agisce - commenta Naso pater - C'è indubbiamente un malcostume diffuso che riguarda molte amministrazioni comunali. Ma è roba per "Striscia la Notizia" più che per la procura di Roma". Si spieghi meglio, avvocato. "Se volete c'è una cultura mafiosa ma nessun metodo mafioso. E quella cultura mafiosa, se mi permette, permea la realtà italiana a molti livelli: negli appalti, nell'università, nella magistratura". Attenzione che la incriminano. "Dico, e ripeto, che quando alcuni incarichi direttivi in magistratura restano vacanti per mesi e anni perché i capicorrente non si mettono d'accordo sulla spartizione dei posti, anche lì si appalesa una logica spartitoria di stampo mafioso". I legali sono pronti a dare battaglia. Nessun giudizio abbreviato ma un processo vero, udienza per udienza. Naso pater non esita a definire Carminati un "Robin Hood del XX secolo": se poteva aiutare qualcuno, non si risparmiava. Se occorreva sbloccare in Campidoglio una pratica, che riguardasse gli affari suoi o di persone a lui vicine, Carminati sapeva chi contattare. "Avete ridotto a questo stato la politica per la quale tanti di noi sono morti? E adesso io vi uso", era l'atteggiamento sprezzante che il Nero riservava al mondo dei colletti bianchi e dei politicanti all'ombra del Cupolone. Per il resto, conduceva una vita morigerata e rigorosa con la sua compagna nella villetta di Sacrofano, una smart e pochissime uscite, una grande passione per National Geographic, "Quark" e SkyTg24. Banditi alcol e droghe. "Sa quante volte ha pagato le visite mediche private a ex camerati e ai loro familiari?", evidenzia Naso pater. E allora uno si chiede come potesse mantenere un figlio ventenne a Londra e fare pure beneficenza con le sole entrate del negozio della compagna. "Ricordiamoci che del bottino del caveau è stata rinvenuta soltanto una minima parte", si lascia scappare l'avvocato. Il Nero le rapine non le ha rinnegate, se l'è appuntate al petto come una medaglia al valore. Adesso che a 56 anni si ritrova per la prima volta nella sua vita al 41 bis, sussurra impaziente al suo legale: "Fateci fascisti ma non mafiosi". Carminati invoca giustizia. Giustizia: Veronica, ecco perché deve essere scarcerata di Vincenzo Vitale Il Garantista, 30 dicembre 2014 Domani mattina, 31 dicembre, il Tribunale del Riesame di Ragusa sarà chiamato a decidere sull'istanza di scarcerazione di Veronica, la giovane donna accusata d'aver ucciso il proprio figlioletto di pochi anni, Lorys. Con fermezza e ragionevolezza, dobbiamo auspicare che il Tribunale acceda alla richiesta della difesa di Veronica, scarcerandola con effetto immediato. Se infatti la custodia cautelare esige, per essere legittimata, oltre che l'assenza del pericolo di fuga, anche quella dell'inquinamento probatorio e quella della reiterazione del reato, qui deve dirsi che nessuno di questi elementi, proprio perché assenti, impedisce che la misura della carcerazione cautelare venga revocata. Infatti, non si vede come Veronica possa reiterare un reato simile o come possa inquinare prove che sono già tutte acquisiste o come possa fuggire, posto che sarebbe in ogni caso super controllata dagli organi di investigazione o, comunque, qualora collocata in detenzione domiciliare, sottoposta agli ordinari controlli propri di tale forma di custodia cautelare. A ciò si aggiunga che, in ogni caso, per mantenere la misura della custodia in carcere, la legge pretende "gravi indizi di colpevolezza". Può sensatamente affermarsi che codesti "gravi indizi di colpevolezza" sono presenti, ed in misura tale da giustificare il rigetto dell'istanza di scarcerazione? Obiettivamente, bisogna rispondere di no: gli indizi, se pur presenti, non appaiono di tale gravità da indurre al rigetto dell'istanza. Questa affermazione risulta confortata da due osservazioni sul piano probatorio. Da un primo punto di vista, pare che i rilievi assunti attraverso le telecamere siano abbastanza confusi, non potendosi affermare con certezza che l'automobile da esse ripresa sia proprio quella di Veronica: non si vede la targa, non si comprende con certezza quale sia il modello di auto né tanto meno si vede il volto di chi ne sia alla guida. Insomma, nessun dato attesta, al di là di ogni ragionevole dubbio, che alla guida di quell'auto fosse Veronica e che sua fosse l'auto filmata. Da un secondo punto di vista, il risultato dell'esame del Dna eseguito sul materiale cellulare ritrovato sulla mani della piccola vittima pare escluda ogni riferimento alla madre, a Veronica. Questo esito è del tutto incompatibile con ciò che vien fatto di immaginare, soprattutto se, come si afferma, il delitto è stato commesso tramite strangolamento. Questo tipo di uccisione è per sua natura lento, in quanto richiede sforzo da parte dell'esecutore e offre alla vittima, nello stesso tempo, la possibilità di resistere, di lottare, di sottrarsi: ed è nella natura delle cose che anche un bambino, non volendo essere strangolato (neppure dalla propria madre ), cerchi di divincolarsi, di fermare l'istinto omicida, di usare le mani per ripararsi o cercare di liberarsi dalla stretta mortale. È nella natura delle cose perciò che residui cellulari dell'aggressore possano, addirittura debbano, residuare sulle mani dell'aggredito: altrimenti, bisogna concludere che le cose si siano svolte diversamente. In particolare, cade ogni certezza che ad aggredire con istinti omicidi il piccolo Lorys sia stata proprio la madre, la quale, dopo il delitto, avrebbe dovuto operare una specie di miracolo, ripulendo completamente del proprio (invisibile ed inafferrabile) materiale cellulare le mani e le broccia del piccolo. Orbene, questo risulta impossibile, dal momento che Veronica è visibilmente persona incapace di mettere in atto, per giunta anticipatamente, una strategia difensiva così appropriata ed insieme raffinata: peraltro, ben pochi sarebbero capaci di operare in tal senso in modo davvero efficace. Ed allora, da due risultati che non possono ambire neppure al grado di indizio, perché sono del tutto controvertiti dai rilievi fatti, non si può certo cavare una legittimazione della custodia in carcere di Veronica: zero più zero fa zero. Aspettiamo allora con fiducia. Lettere: piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 30 dicembre 2014 Che siano ancora lodati Rita Bernardini, Marco Pannella, Roberto Giachetti e le altre e gli altri che con loro trascorrono Natale e Capodanno dentro un carcere. Non c'è esibizionismo né demagogia in questa scelta. Magari all'inizio, chissà, poi diventa un'altra cosa. Fra i luoghi in cui le feste affabili, le feste di famiglia, e specialmente il Natale, sono più sentite, c'è la galera. Sentite, nei modi più diversi. Quest'anno si sono suicidati in due, impiccati. Uno a Trani, uno a Palermo. Dall'inizio dell'anno, riferisce l'Osservatorio permanente sulle morti in carcere, si sono tolti la vita 43 detenuti: "Avevano un'età media di 40 anni, 37 gli italiani e 6 gli stranieri, 2 le donne. 37 detenuti si sono impiccati, 5 si sono asfissiati con il gas del fornelletto da camping in uso nelle celle, 1 si è dissanguato tagliandosi la carotide con una lametta da barba". Vorrei fermarmi un momento sul penultimo, Cataldo B., 31 anni, che l'ha fatta finita alle 7 di mattina di Natale. Condannato per detenzione di stupefacenti, sarebbe uscito nel prossimo febbraio. Chissà se gli sono pesati di più i due mesi da scontare ancora in galera, o una vita da scontare fuori fra solo due mesi. Un ergastolano dev'essere davvero molto forte per affrontare una vita intera da trascorrere dentro. A Cataldo B., a 31 anni, una vita intera da trascorrere fuori dev'essere sembrata un fardello troppo grave. Lettere: al papà di Loris… non credere ai giudici, parla con tua moglie di Angela Azzaro Il Garantista, 30 dicembre 2014 Caro Davide Stival, come tanti italiani e tante italiane ti ho conosciuto in un'occasione bruttissima, terribile. In un colpo solo il mondo ti è crollato addosso: tuo figlio, il piccolo Loris è stato ucciso. Tua moglie è stata accusata di essere lei l'assassina. Hai provato non un dolore, non due dolori, ma tutti i dolori del mondo. La tua vita che prima, nell'intervista al Corriere, descrivevi felice, piena di amore, si è trasformata in un incubo. Anche nei momenti peggiori, anche quando le telecamere ti inseguivano sperando in una tua reazione, hai mantenuto un contegno impeccabile, senza cedere a nessuna lusinga dei mass media. Sei stato te stesso, sempre. All'inizio sei rimasto vicino a tua moglie, l'hai stretta, protetta. Sembrava quasi che fosse più importante lei del tuo dolore. Il dolore di un padre che non vedrà più suo figlio. Dopo l'accusa di omicidio nei confronti di Veronica, hai deciso di non starle più vicino. Hai deciso di credere alla procura, non a lei che anche dal carcere continua a dirsi innocente. E da settimane ti rifiuti di andarla a trovare, e anche in questi giorni di Natale non hai cambiato idea. Nessuno può giudicarti per questa scelta. Solo tu sai cosa stai provando. Solo tu puoi capire cosa sia meglio fare. Eppure mi permetto lo stesso di dirti - sperando che qualcuno ti faccia arrivare questo messaggio - che la procura, i media che hanno già condannato tua moglie, l'opinione pubblica che l'ha offesa, non sanno come siano andati veramente i fatti. La procura, a cui dici di credere, non è la verità. Hanno espresso un'ipotesi, peraltro piena di falle, fondata sostanzialmente sulle immagini delle telecamere di sorveglianza dalle quali - lo hai detto tu stesso - non si evincono che ombre e sagome, poco chiare per poter dire che è davvero lei l'assassina. Ieri l'altro è arrivato un altro elemento che va a favore di Veronica, o che comunque rende il quadro molto più complesso, nell'unghie di Loris non è stata trovata alcuna traccia del Dna di tua moglie. Manca il movente, le immagini non sono chiare, nessuna traccia di Dna: prima di accusare Veronica di essere l'assassina, l'omicida di suo figlio, di tuo figlio, servirebbe un'inchiesta a più largo raggio. Servono altre prove, perché quelle che sono state trovate sono davvero poca roba. Soprattutto serve un processo sereno e tre gradi di giudizio. Il fatto, caro Davide, è che - come denunciato anche dall'avvocato di tua moglie - la condanna di Veronica è già avvenuta sui media e la Procura si è fatta pesantemente condizionare. No, caro Davide, la Procura non solo non è la verità. Ma in questi anni - tanti e tanti fatti di cronaca - ci raccontano il contrario. I giudici sono esseri umani, soggetti ad errore. È sempre stato così. Oggi però c'è un nuovo elemento: sono uomini e donne che agiscono fortemente condizionati dall'opinione pubblica e dal suo punto di vista che si crea in relazione con quanto dicono giornali e televisione. Anche Napolitano lo pensa e ha chiesto ai magistrati, soprattutto a quelli inquirenti, di stare zitti, di non eccedere in un protagonismo che fa male alla giustizia. Invece "lo ha detto la tv e quindi è vero" è diventato per te e per milioni di italiani "lo ha detto la procura e quindi è vero". No, non ci credere, in entrambi i casi è sbagliato. Fai invece uno sforzo e parla con lei. Valla a trovare in carcere o se viene scarcerata vai a casa (mercoledì è attesa la decisione del tribunale del riesame): guardala negli occhi, senti le sue ragioni. Se davvero vuoi sapere che cosa è accaduto, non fidarti di chi in poche ore ha chiuso l'inchiesta, non fidarti di quelle immagini distorte, non credere a quello che dicono in tv. Credi a te stesso. E vai da Veronica. Prato: Comune e carcere firmano la convenzione per l'inserimento lavorativo dei detenuti www.toscanatv.com, 30 dicembre 2014 Da 5 a 10 detenuti avranno la possibilità di lavorare fuori dal carcere e dedicarsi a lavori di pubblica utilità dopo un breve percorso formativo. Il sindaco: "Per la prima volta a Prato si intraprende questa strada". Questa mattina il sindaco Matteo Biffoni e il direttore della Casa circondariale La Dogaia Vincenzo Tedeschi hanno firmato la convenzione per l'inserimento lavorativo dei detenuti. Presente anche l'assessore alle Politiche sociali Luigi Biancalani. "È la prima volta - afferma il sindaco Matteo Biffoni - che a Prato si mette in atto una convenzione del genere e di questo, come Istituzione, siamo orgogliosi. L'attivazione di questa convenzione, che partirà a gennaio e avrà una durata di due anni, permetterà il reinserimento sociale di detenuti scelti in base a requisiti giuridici specifici e valutati da un equipe interna, e farà sì che attraverso un lavoro di pubblica utilità questi possano rendere un servizio per la cittadinanza". I detenuti scelti svolgeranno attività di pulizia strade, manutenzione di verde pubblico, restauro di siti di interesse pubblico e potranno essere impegnati in attività formative per il recupero di lavori artigianali ormai in disuso. Saranno individuati un numero di detenuti, da 5 a 10 circa, per i quali sussistano le condizioni per l'ammissione al lavoro all'esterno, alla semilibertà, all'affidamento in prova al servizio sociale, ai permessi o alle licenze, e il Comune per il loro compenso si avvarrà dello strumento della "borsa lavoro" il cui importo sarà deciso in base al tipo di lavoro e alla sua durata. La borsa lavoro sarà gestita attraverso il Sisal "Servizio di inclusione sociale e di accompagnamento al lavoro", il servizio che gestisce a livello intercomunale i reinserimenti socio-lavorativi delle persone svantaggiate. "Ad oggi - afferma il direttore della casa circondariale Vincenzo Tedeschi - all'interno della nostra struttura ci sono 570 detenuti, circa 100 in meno rispetto allo scorso anno. Il 45 per cento di questi è straniero. Siamo felici di poter attivare questa convenzione che rappresenta una possibilità concreta di reinserimento per i detenuti, così come prevede la nostra Costituzione, sia un'occasione di utilità e risparmio economico per la cittadinanza. Al momento oltre ai detenuti in semilibertà altri tre soggetti stanno svolgendo servizio all'archivio del tribunale di sorveglianza di Firenze nella sua sede pratese. Brescia: la direttrice; gelo e scarafaggi, chiudete Canton Mombello, è un posto indegno di Damiano Aliprandi Il Garantista, 30 dicembre 2014 Il carcere di Cantori Mombello va chiuso. A dirlo non sono le associazioni che si occupano dei detenuti o partiti sensibili alle tematiche carcerarie come i Radicali, ma è la direttrice stessa della struttura, Francesca Gioieni, che ha lanciato l'appello a una settimana dalla chiusura della mensa degli agenti a causa della presenza di scarafaggi. Ha esattamente un secolo di vita il carcere Canton Mombello che si trova nel centro di Brescia e l'età ne risente visto che cade letteralmente a pezzi e registra condizioni di detenzione degradanti che lo rendono invivibile: un metro quadro per ognuno degli oltre 330 detenuti, che teoricamente non dovrebbero essere più di 298. A seguito di una denuncia, lo scorso anno la Corte europea per i diritti dell'uomo aveva aperto una procedura e aveva richiesto ulteriore documentazione in merito alla situazione del carcere di Canton Mombello a Brescia. Ma la situazione del carcere è peggiorata sempre di più e - oltre all'invasione degli scarafaggi - a provocare i maggiori disagi negli ultimi giorni è l'impianto di riscaldamento. E la direttrice a raccontarlo sulle colonne di Brescia Oggi: "Negli ultimi giorni il riscaldamento è saltato più volte, servono continui interventi sulle tubature ormai rovinatissime, dobbiamo fare sforzi enormi per far funzionare il carcere. Non è possibile andare avanti in queste condizioni, questa non è una struttura degna del 2015, è inefficiente e ha costi di mantenimento altissimi". Seppure la situazione in merito al sovraffollamento sia notevolmente migliorata rispetto all'inizio dell' anno (da 470-480 a 330-340 detenuti), a livello generale le condizioni di vita dei carcerati e le difficoltà nella gestione della struttura, a partire dalla cronica carenza di personale, sia di sorveglianza che amministrativo, fanno dire a Francesca Gioieni che Canton Mombello "non è più in grado di garantire l'esecuzione della pena come previsto dal nostro ordinamento giuridico". La soluzione? "Canton Mombello deve essere completamente ristrutturato". Oppure chiuso - come sentenzia la direttrice - per sostituirlo con un altro carcere più moderno ed efficiente. Rossano (Cs): un ergastolano vince battaglia legale per uscire dal Reparto di Isolamento di Emilio Quintieri www.radicali.it, 30 dicembre 2014 Nelle scorse settimane, il Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro ha annullato i provvedimenti adottati dal Comandante di Reparto Facente Funzioni della Polizia Penitenziaria, poi ratificati dal Direttore dell'Istituto e infine confermati dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza. A darne notizia è l'esponente radicale calabrese Emilio Quintieri che unitamente all'Onorevole Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, segue da tempo (anche) la situazione del penitenziario rossanese. Lo scorso mese di Agosto, Vincenzo Rucci, detenuto appartenente al Circuito dell'Alta Sicurezza (As3), precedentemente ristretto presso la Casa Circondariale di Catanzaro, giusta disposizione ministeriale, faceva ingresso nella Casa di Reclusione di Rossano. Essendo un ergastolano ostativo con fine pena "mai" e dovendo espiare la sanzione penale dell'isolamento diurno ancora per un anno, su disposizione del Comandante Facente Funzioni della Polizia Penitenziaria veniva allocato nel Reparto di Isolamento poiché a causa del sovraffollamento non vi era la possibilità di allocare lo stesso, da solo, in alcuna camera detentiva poiché tutte occupate da altri ergastolani e da detenuti con problematiche di carattere psichiatrico. Per tale motivo il sottufficiale della Polizia Penitenziaria chiedeva al Direttore di ratificare il provvedimento adottato in via d'urgenza e di intercedere con l'Autorità Giudiziaria affinché la pena accessoria dell'isolamento diurno venisse temporaneamente sospesa in attesa che in quella Casa di Reclusione vi fossero le condizioni idonee per garantire al detenuto la continuazione dell'esecuzione della sanzione penale. Il Direttore, previa ratifica e condivisione del provvedimento adottato, chiedeva ed otteneva dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza, con Decreto n. 3121/2014 del 13.08.2014, la sospensione dell'isolamento diurno per la restante parre di sanzione non ancora eseguita e, comunque, fino alla decisione definitiva del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro a cui venivano trasmessi gli atti. Il Magistrato di Sorveglianza accoglieva la richiesta del Direttore in virtù di quanto disposto dall'Art. 684 comma 2 del Codice di Procedura Penale. Il detenuto Rucci, immediatamente, proponeva reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, denunciando la irritualità ed illegalità del provvedimento adottato dal Magistrato di Sorveglianza su richiesta del Direttore del Carcere in quanto la norma invocata non aveva nulla a che vedere con l'isolamento diurno ma riguardava tutt'altro per cui era inammissibile. Chiedeva, quindi, di annullare il provvedimento impugnato ripristinando immediatamente l'isolamento diurno considerando tutto il periodo trascorso come sanzione penale espiata. Il Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, all'esito di una Camera di Consiglio, con Ordinanza nr. 1150/2014 del 02.10.2014, accoglieva il reclamo proposto dal detenuto Vincenzo Rucci, poiché non ricorrevano i presupposti per la sospensione dell'isolamento diurno e, pertanto, revocava con efficacia ex tunc il provvedimento emesso dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza in data 13/08/2014 ritenendo come sanzione espiata il periodo trascorso durante la sospensione illegale. L'isolamento diurno è una vera e propria sanzione penale e non una modalità di esecuzione della pena detentiva. Non essendo, quindi, una modalità di vita o di disciplina carceraria, ma una risposta sanzionatoria per i delitti concorrenti con quello punito con l'ergastolo, il Magistrato di Sorveglianza non può disporre modalità esecutive tali da renderlo privo di contenuto effettivo. Nella fattispecie sia il Direttore del Carcere che il Magistrato di Sorveglianza - dichiara l'esponente radicale Emilio Quintieri - hanno travalicato le loro competenze occupandosi di una modalità esecutiva dell'isolamento diurno che non gli competeva. Anche in presenza di gravi ragioni ostative, ivi compreso il sovraffollamento, l'Amministrazione Penitenziaria è tenuta a dare obbligatoriamente attuazione all'esecuzione delle sanzioni penali legalmente disposte dall'Autorità Giudiziaria non essendo prevista dall'Ordinamento alcuna discrezionalità al riguardo. Foggia: i Radicali; nel carcere cattiva igiene, affollamento e difficoltà nel reperire farmaci www.radicali.it, 30 dicembre 2014 Restano complicate le condizioni del carcere di Foggia, in perfetta linea con le difficoltà a livello nazionale. Cattiva igiene, sovraffollamento e difficoltà nel reperire farmaci rientrano tra le maggiori criticità. A rivelare i dati è l'associazione Radicali "Maria Teresa Di Lascia" che stamattina ha fatto visita alla struttura prima di incontrare la stampa fuori dai cancelli. Mentre cala sensibilmente il numero dei detenuti, resta alta la difficoltà a recuperare medicamenti. La farmacia territoriale dispensa al carcere solo determinati tipi di medicinale che non sempre sono utili a curare la patologia del detenuto in questione. Restano allarmanti i numeri. In una cella di circa 9 metri quadrati dovrebbe esserci un solo detenuto, al massimo due, invece a Foggia ce ne sono anche quattro, costretti a vivere come in un lager. 88 stranieri presenti sugli oltre 500 carcerati. Quasi il doppio rispetto alla capienza del carcere. Nelle celle molte facce giovanissime, di ragazzi poco più che ventenni. Il numero di agenti è sottodimensionato. Ci sono circa la metà di quelli previsti. "Sono loro i veri reclusi" secondo i Radicali. E non mancano episodi di violenza all'interno della struttura. Un tema molto delicato e che spesso resta sottaciuto o mai palesato interamente. I Radicali hanno constatato situazioni piuttosto difficili. Ci sono detenuti con i volti tumefatti ed alcuni in preda a crisi psicologiche. Proprio stamattina un detenuto recava lesioni a se stesso sbattendo ripetutamente contro le mura della sua cella. I Radicali hanno chiesto di intervenire ma è stato proibito l'avvicinamento "per preservare l'incolumità fisica". Riguardo alle ferite, spesso visibili sui corpi dei detenuti, aleggia un alone di mistero. Le motivazioni sono sempre le stesse: "È stato un incidente" oppure "sono caduto". La paura di ritorsioni interne è molto forte come quella di essere trasferiti. Perciò nessuno si espone. Ma non mancano lati positivi. Innanzitutto il reparto femminile, notevolmente migliorato. Oggi appare pulito e curato. Alcune donne lavorano e non ci sono bambini. Migliora anche il rapporto tra detenuti e Polizia penitenziaria. Secondo i carcerati ci sarebbe maggiore disponibilità da parte degli agenti rispetto a qualche anno fa. Rimini: rientra protesta detenuti per cibo avariato, ma impianto riscaldamento è fuori uso www.romagnanoi.it, 30 dicembre 2014 Nuova visita ai Casetti del Garante Davide Grassi, e dei parlamentari Arlotti e Preziosi. Spunta un nuovo problema: due giorni al gelo causa guasto all'impianto di riscaldamento. Nuova ispezione ieri nel primo pomeriggio al carcere Casetti. Una visita voluta dall'associazione Papillon, dal garante dei diritti Davide Grassi e dai deputati Pd Tiziano Arlotti ed Ernesto Preziosi, in seguito alla protesta portata avanti da un gruppo di detenuti per il cibo servito spesso avariato. La protesta è iniziata il 23 dicembre ed è terminata sabato scorso, quando la situazione è tornata alla normalità. In più occasioni erano stati serviti alimenti non più commestibili, insalata nera e frutta marcia. A controllare i pasti c'è una commissione formata da detenuti e un civile. Viste le irregolarità è scattato il malcontento e 42 carcerati di due sezioni hanno rifiutato per cinque giorni il cibo acquistando gli alimenti con i propri soldi al sopravvitto, uno spaccio interno. I detenuti hanno inoltre fatto presente che il menù non veniva esposto, non rispettando la legge che prevede che siano a conoscenza di ciò che viene servito. Il garante e i parlamentari hanno verificato la situazione e Grassi ha informato il direttore del carcere Candiano, che dovrebbe far partire una lettera di diffida all'azienda che fornisce i pasti. Nella visita è emerso un altro problema, per ben due giorni i detenuti sono stati al freddo, si era infatti rotto l'impianto di riscaldamento, aggiustato poi ieri. Altra problematica su cui si sono confrontati è stata quella legata alla tempistica dei permessi: su nove richieste per Natale solo una è stata accolta, 7 sono state rigettate il 23 dicembre e una non ha ancora avuto risposta. Le domande erano partite in anticipo, ma fino all'ultimo i detenuti sono stati con il fiato sospeso, per questo motivo il gruppo sta protestando, ritenendo di non essere stati presi in considerazione. Napoli: moglie di un detenuto tenta il suicidio bevendo detersivo, è salvata dai carabinieri di Nico Falco Il Mattino, 30 dicembre 2014 I carabinieri l'hanno trovata riversa al suolo, priva di sensi, con una bottiglia di detersivo vuota accanto. Un tentativo di suicidio, la sera della vigilia di Natale, che non si è trasformato in tragedia soltanto grazie al tempestivo intervento delle forze dell'ordine. È accaduto a Napoli, poco dopo le 22 della sera del 24 dicembre. I due militari della Compagnia di Intervento Operativo, diretta dal capitano Francesco Saverio Caparrotti, impegnati nell'operazione alto impatto agli ordini del maggiore Claudio Papagno, comandante della Compagnia Stella, hanno raggiunto l'appartamento nel quartiere Sanità su indicazione della centrale operativa, alla quale era stato segnalato un tentativo di suicidio. Arrivati sul posto, i carabinieri hanno trovato ad attenderli numerose persone che hanno indicato loro l'appartamento in cui una trentenne si era barricata. Poco prima aveva telefonato alla sorella dicendole di voler farla finita. I motivi, hanno successivamente appurato gli inquirenti, sarebbero da ricercare nella difficile situazione economica che la donna, madre di due figli piccoli e sposata con un uomo attualmente detenuto, stava affrontando da tempo e che l'avevano fatta precipitare in uno stato di depressione. I militari hanno provato a bussare più volte all'uscio, ma senza ottenere alcuna risposta. Temendo il peggio, hanno forzato la porta di ingresso e sono entrati nell'appartamento. La ragazza era a terra, in evidente stato di choc. La lingua, che si era rivolta verso l'esofago per gli spasmi, le impediva di respirare. Sarebbe morta in pochissimo tempo se i carabinieri non fossero riusciti, con le dita, a liberarle la gola. Subito dopo sono arrivati sul posto i sanitari del 118, che si sono occupati delle prime cure e si sono assicurati che non avvenissero altri laringospasmi che potessero soffocare la ragazza. Subido dopo, grazie all'aiuto di una squadra dei Vigili del Fuoco, imbracata con mezzi di fortuna perché le scale strette impedivano il passaggio della barella, la giovane è stata accompagnata in codice rosso all'ospedale Cardarelli, al pronto soccorso e successivamente presso la Chirurgia d'Urgenza per intossicazione da sostanza chimica, con prognosi di sessanta giorni. Milano: pet-therapy nel carcere di Bollate, i cani dietro le sbarre per aiutare i detenuti Askanews, 30 dicembre 2014 I cani giocano e si divertono in un cortile, ma non si tratta di una passeggiata qualsiasi, perché avviene dietro le sbarre del cortile del carcere di Bollate. Ogni settimana Onda, Titti, Carmela e Tatò entrano nel penitenziario alle porte di Milano, per il progetto "Cani dentro". Si tratta del primo laboratorio di Pet Therapy dentro le mura di una prigione e prevede che i cani vengano addestrati dai detenuti tramite esercizi di discriminazione olfattiva, ricerca e pista. Il contatto con il cane permette a chi è dietro le sbarre di riprendere il filo di un'affettività forzatamente interrotta come spiega la fondatrice della Onlus "Cani dentro" Valeria Gallinoti. "È il luogo dove in assoluto c'è la totale privazione dell'affettività dove il cane al di là della terapia vera e propria, può portare serenità, armonia, buon umore, affettività, fisicità". Il progetto è stato portato sia nella sezione femminile che in quella maschile, tra i detenuti che hanno aderito c'è Nicola. "Al momento credo che il mio cane preferito sia Carmela, perché è arrivata che non sapeva fare niente ed era spaventatissima, quasi come succede a noi quando si entra in carcere. E anche lei piano piano si sta abituando a questa esperienza come noi". Rieducazione attraverso la Pet therapy Pet Therapy e carceri. Esiste una circolare che prevede la presenza di piccoli animali da compagnia in carcere, è fondata su due principi che conviene sottolineare, innanzitutto prevede che persone recluse possano occuparsi di un altro essere vivente , evitando la pena aggiuntiva della privazione del contatto con altre specie, poi sottolinea il valore e il beneficio che ne si può ricavare dal punto di vista psicologico ed etico-morale. L'assunto di base è che gli animali domestici, per mezzo della loro capacità di comunicare possono alleviare condizioni di malessere e disagio. Se è vero che la maggior parte delle persone risente in maniera positiva della relazione con il proprio animale, tanto più importante tale presenza risulterà per le persone detenute che si trovano in una situazione di durezza esistenziale e di solitudine rispetto alle relazioni affettive ed umane. Il carcere, ha tra i suoi obiettivi non solo la punizione, ma la rieducazione , la risocializzazione ed il recupero, la presenza di animali può, in tal senso, diventare un "trattamento" volto all'umanizzazione della pena . L'attuazione di tali iniziative come la Pet Therapy è molto dipendente però dalla sensibilità dei direttori delle strutture carcerarie, non ci sono infatti delle normative precise, per cui l'innovazione ed il tempo che si vuole dedicare a tali attività è frutto di una adesione e convinzione personale. Dobbiamo ammetterlo, però, questi buoni esempi sono limitati e spesso si tratta di progetti che hanno una durata temporale precisa e gestiti da personale esterno, eppure le esperienze positive ed i vantaggi sono tanti: limitare la solitudine innanzitutto, aumentare il senso di responsabilità e contribuire a migliorare l'affettività, tutti elementi che possono apportare miglioramenti ed evitare, perché no, anche delle tragedie preannunciate. Sono tantissimi i detenuti che desidererebbero curare un animale, ma non osano nemmeno chiederlo, perché la "domandina" da indirizzare al direttore rappresenta un sogno proibito, un premio che sono certi di non meritare. Eppure un canarino in gabbia da curare, anche solo per poche ore, può mobilitare la sfera affettiva, entrare nella testa e nel cuore di chi vive in solitudine. Bello e forse anche un po' utopistico immaginare che progetti similari possano crescere, possano aprire un ponte verso l'esterno, verso il riscatto e la salvezza di vite interrotte come quelle dei detenuti. Torino: Messa nel carcere minorile, ecco il Natale di speranza dei ragazzi detenuti di Marina Lomunno Avvenire, 30 dicembre 2014 Sono un'esigua minoranza i ragazzi cattolici detenuti al carcere minorile di Torino "Ferrante Aporti": eppure anche tutti gli altri, insieme con loro - musulmani, ortodossi e non credenti - hanno accolto l'invito del cappellano, il salesiano don Domenico Ricca, a partecipare alla Messa di Natale. A "far le veci" dei familiari e degli amici dei 26 minori, don Domenico ha invitato i volontari della vicina parrocchia della Visitazione di Maria Vergine e S. Barnaba che ogni quindici giorni si occupano dell'animazione della liturgia domenicale al Ferrante, il gruppo dei "Giullari di Dio", il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni Anna Maria Baldelli e la direttrice del carcere Gabriella Picco. Al di là dei ruoli di ciascuno - come sottolinea don Ricca - invitando i ragazzi a pregare per i propri cari che oggi non possono abbracciare - le persone che sono qui al Ferrante "vogliono dirvi che non siete soli nel percorso di ripensamento della vostra vita, delle vostre scelte". Parole che fanno sciogliere nella commozione la finta spavalderia di alcuni dei detenuti: ma poiché "neppure in carcere oggi ci deve essere spazio alla tristezza", don Ricca annuncia una bella notizia come si usa in famiglia: Barbara e Arturo, coordinatori del gruppo dei volontari, aspettano un bambino... e scoppia un applauso. Un clima di famiglia: è lo stile di Don Bosco - che a metà Ottocento, giovane prete, proprio andando a trovare i giovani "pericolanti" detenuti nel carcere minorile torinese, ebbe l'intuizione del suo "sistema preventivo": aprendo gli oratori si sarebbero tolti i ragazzi più a rischio dalla strada e dall'illegalità. E così si cerca di fare anche oggi in tutte le parrocchie salesiane del mondo. Per questo motivo i cappellani del Ferrante per tradizione sono salesiani e, nelle prossime settimane, in occasione del bicentenario di Don Bosco, verrà collocata nella cappella del carcere una statua del santo che abbraccia due ragazzi, donata dagli amici di don Ricca. Sarà l'arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, a benedire la statua. Nell'omelia il cappellano parla direttamente ai ragazzi: cosa significa celebrare il Natale dietro le sbarre anche per chi non è cristiano? "Innanzitutto ricordarci che è un Bambino, non un potente, che ci richiama alla pace. Natale è la festa della pace e Dio, non importa come lo invochiamo, ci invita a fare la pace tra di noi, con i compagni di cella". E poi non può mancare un richiamo a papa Francesco che tutti i ragazzi qui, al di là della loro religione, sperano di incontrare il prossimo 21 giugno quando verrà in visita a Torino: "ci speriamo - dice don Ricca -la sua prima visita dopo l'elezione a Papa è stata al carcere minorile di Casal del Marmo a Roma. Francesco viene a Torino per vedere la Sindone ma anche per le celebrazioni di Don Bosco. I giovani a cui il Papa spesso si rivolge perché "vittime della cultura dello scarto", nella nostra città sono innanzitutto i ragazzi del Ferrante a cui il santo dei giovani anche oggi riserverebbe la sua parte migliore". Immigrazione: nel Cie di Ponte Galeria, detenuti senza aver commesso alcun reato di Barbara Spinelli Micromega, 30 dicembre 2014 Uno zoo per umani, ma senza erba né alberi né rocce come quelli che oggi sono concessi ai non umani. Una spianata di cemento e, anziché gli alberi, una fitta foresta di sbarre d'acciaio che delimita e suddivide gli spazi dove i detenuti dormono, escono nelle gabbie antistanti le camerate, fanno qualche passo nel corridoio centrale, anch'esso cintato da barriere. Le gabbie per animali rari che la Francia inventò in pieno Terrore, negli anni ‘90 del Settecento, erano proprio così - loculi e inferriate - solo che col tempo per le bestie andò un po' meglio. Tutto resta invece grigio-ferro, qui a Ponte Galeria: le sbarre di recinzione, il plexiglas che impedisce ai detenuti di salire sui tetti, le graticole che fasciano le finestre dei dormitori. Il Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria, sobborgo di Roma, non finge nulla, anche se qualcuno forse ha ripulito alla meglio i cessi in occasione della visita di controllo dell'europarlamentare. L'osceno si disvela subito per quello che è: un campo di concentramento per migranti non in regola col permesso di soggiorno, richiedenti asilo, stranieri che hanno scontato una pena carceraria ma sono senza documenti, ammucchiati e confusi gli uni con gli altri. L'Italia e l'Europa esibiscono la propria verità concentrazionaria senza pudore né memoria d'alcun genere, anche se non senza frapporre ostacoli a chi viene da fuori - autorità parlamentari o associazioni della società civile che vogliono indagare, capire, denunciare. Il venerdì 19 dicembre ero lì, in missione ufficiale come eurodeputata, accompagnata dalla mia assistente e portavoce Daniela Padoan e da una delegazione composta di amici difensori dei migranti e dei loro diritti. I gestori di Ponte Galeria avevano il dovere di aprirmi i cancelli, perché l'accesso non può esser vietato a un parlamentare e al suo assistente. Ma fin dall'inizio avevo chiesto di entrare con una delegazione, perché assieme ad essa avevo preparato la visita. Sono entrate, ma di straforo, solo l'avvocato Alessandra Ballerini, Gabriella Guido responsabile della campagna LasciateCIEntrare e Marta Bonafoni, consigliere regionale del Lazio. Gli altri sono stati tenuti fuori dai cancelli, per strada, e non perché il viceprefetto avesse dato ordini in tal senso. Il viceprefetto responsabile del CIE mi aveva personalmente dato il consenso, appena arrivata, ma la Questura ha messo il veto. L'organo inferiore ha scavalcato il superiore, abusivamente. Così gran parte degli amici sono restati fuori: l'antropologa Annamaria Rivera, Stefano Galieni responsabile nazionale immigrazione del Prc, Antonello Ciervo avvocato dell'Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione), Cinzia Greco attivista della campagna LasciateCIEentrare, l'avvocato Flavio Del Soldato, il giornalista Giacomo Zandonini. Solo nella seconda parte della visita ho temporaneamente lasciato l'edificio e vi sono rientrata riuscendo a farmi accompagnare da Giovanni Maria Bellu, direttore del giornale Left e presidente dell'associazione Carta di Roma. Con Daniela Padoan e i pochi con cui sono entrata ho visto l'orrore del Cie romano, simile a quello di tanti Cie in Italia. Il Centro di Ponte Galeria ha sede nella periferia sud ovest della capitale, in una caserma, la Gelsomini, dove nel 2001 si addestrarono gli agenti della celere inviati a Genova per eseguire la macelleria messicana del G8. Fu ancora qui, nel dicembre 2013 e nel luglio 2014, che una decina di migranti si cucì le labbra: un segno di protesta estrema. Fuori dai cancelli, volanti e blindati delle forze d'ordine; oltre il cancello un cortile, ed eccomi nello spettrale caseggiato del Cie: un corridoio dove si susseguono alcune stanze, adibite via via agli incontri con i parenti, ai colloqui con i legali che convalidano le detenzioni ed espulsioni dei reietti, poi l'ambulatorio medico, poi la stanza dello psichiatra che però non c'è - per il momento è stato licenziato perché impiegato dalla vecchia gestione - infine il bagno del personale, le pareti costellate di scritte ingiuriose che gli impiegati della gestione precedente hanno graffiato non si sa quando. Subito dopo, gli spazi geometricamente suddivisi del carcere-lager, a sinistra gli uomini e a destra le donne: qui s'accampa la geometria delle sbarre altissime, cui stanno aggrappati (questo giorno di visita è un avvenimento)… chi sta aggrappato per la precisione, e come li chiamiamo? Il vocabolario dei custodi e delle forze d'ordine tentenna e scivola come fosse liquido, senza arrivare a solidificarsi. Li chiamano a volte detenuti, o addirittura "utenti", o "ospiti"; molto più di rado trattenuti. Capita anche che mettano in fila i due attributi: "detenuti-cioè-mi-scusi-trattenuti". Annamaria Rivera, che aspetta inutilmente fuori dall'edificio, mi scriverà una email, dopo la visita: "Abbiamo discusso vivacemente con due gestori. Di loro, mi hanno impressionata, tra le altre cose, l'ideologia e il lessico da banalità del male: uno definiva gli internati "utenti" e affermava che erano lì, i custodi, per dovere civile, cioè per migliorare il "servizio"". Prima di entrare nei recinti, chiedo ai custodi: "Si può parlare con loro?" - "Un momento, i capibanda per ora non ci sono, magari sono a mensa" - "Icapibanda?". Sì, i capibanda. Così vengono interpellati e descritti i rappresentanti dei detenuti. Il lessico di Ponte Galeria è impastato di parole prese in prestito dal crimine, dalla malavita. "Comunque vi consigliamo vivamente di non entrare, sono molto agitati. Sono pericolosi". Da lunedì mattina 15 dicembre il Centro è nelle mani di un nuovo ente, l'agenzia francese Gepsa, specializzata in amministrazione carceraria. L'agenzia ha vinto la gara perché il capitolato che ha presentato prevede tagli al personale e diarie decurtate ai detenuti (2,5 euro al giorno). I prigionieri parlano ossessivamente di spending review: è un vocabolo appreso in fretta. Da lunedì manca quasi tutto, nel Cie: vestiti caldi, biancheria, calze, lenzuola di ricambio, kit con spazzolino da denti e dentifricio per i nuovi arrivati, assorbenti per le donne. I nuovi gestori dicono che ci vorrà del tempo, che qualche grave "inconveniente" sarà superato. Ma nelle grandi linee le norme sono le stesse: questo è il regno del diritto emergenziale permanente, e nessuna miglioria cambia i dati di fatto. Ai reclusi è proibito tenere matite o penne, per evitare che le inghiottiscano e finiscano in ambulatorio. Non possono avere carta da scrivere, per motivi che non riescono a delucidare anche se chiedi molto. Hanno il telefonino, e tra noi visitatori e loro c'è un fitto scambiarsi di numeri, ma la connessione internet è preclusa. Non hanno accesso ai giornali. Nelle camerate in un angolo per terra è acceso un piccolo televisore, ma chissà quel che possono vedere e in che ore. I gestori smentiscono, ma tutti i detenuti con cui parlo sono esasperati perché di notte le luci al neon sul soffitto sono ininterrottamente accese, e addormentarsi è difficile se non impossibile. Di qui - anche - l'alto uso di sonniferi. Ricorrente è anche la somministrazione di anti-epilettici o, per i tossicodipendenti, di metadone. Le tensioni si alzano e scendono come maree, e a seconda del loro livello si dispiegano più o meno numerose le forze d'ordine, manganelli bene in vista e grosse pistole alla cinta. La struttura contiene al momento 98 reclusi (76 uomini e 22 donne). Entriamo a questo punto nelle camerate, dove ci sono otto o dieci letti in uno spazio che ne dovrebbe contenere quattro. Dentro fa freddo come fuori, nel cortile recintato: il riscaldamento funziona a intermittenza, mi dicono, sempre che funzioni. I reclusi mi fanno vedere le poche cose che ricevono: lenzuola di carta che subito si sbrindellano sopra il materasso ("non ce le danno di stoffa perché temono che le attorcigliamo e le trasformiamo in corde"), e sopra una coperta militare marrone. Un detenuto ci mostra di nascosto un pettinino sbocconcellato: i pettini sono proibiti, vai a sapere perché. La maggior parte calza ciabatte o sandali infradito di gomma, anche se fa parecchio freddo. Sono vietati i lacci, se hai le scarpe. Un detenuto ride dell'ordine insensato: i lacci no, ma uno spago che funge da cintura per i pantaloni troppo larghi, "quello sì lo possiamo portare ed eventualmente impiccarci". Tutti sono angosciati dall'igiene: sono giorni che non ricevono sapone né dentifricio, che non possono andare alla "barberia" (da soli non possono usare lamette e rasoi). Si vergognano molto di quest'incuria e delle barbe non fatte. Sono giorni che non hanno vestiti di ricambio: "Non ci piace puzzare, ma ecco puzziamo". Sono angosciati anche dai gatti che circolano tra il fuori e il dentro le inferriate: "Vorremmo tanto dar loro da mangiare, ma non ne abbiamo la possibilità e allora chi ci pensa ai gatti?". Resto dentro il recinto sei o sette ore, ma quando ne esco ho l'impressione sia passato un anno. A che scopo son qui? Dico loro che in Europa mi batto contro i Cie, per i corridoi umanitari che legalizzino le fughe verso il nostro continente, per il riconoscimento reciproco del diritto d'asilo nell'Unione, per l'annullamento della Bossi-Fini. E per la revisione o l'abolizione dell'assurdo regolamento di Dublino, che obbliga i profughi a chiedere asilo nel primo Paese dove approdano, anche se non vorrebbero affatto restare in Italia ma andare in Svezia o Germania: lì l'integrazione sociale funziona, mentre in Italia nulla è garantito se non questi indecenti Centri. I relegati sono felici di parlare con un parlamentare. "Onorevole Onorevole", dicono a ogni piè sospinto, poi fortunatamente cominciano a chiamarmi per nome: Barbara. Ma continueranno a esser così eccitati e speranzosi quando la delegazione se ne sarà andata e li avremo lasciati lì, a passare altre notti senza sonno sotto il biancore del neon? Tutti i buoni propositi di un parlamentare europeo vanno a sbattere inani contro quei volti di supplica e disperazione semi sorridente, che chiedono quel che dovrebbe essere normale: poter uscire da quest'inferno, in cui precipitano inspiegabilmente tutti, incensurati e non; avere informazioni precise (ma mancano gli interpreti); poter raggiungere i parenti che a volte sono fuori Italia, a volte abitano qui vicino, a Roma stessa; poter usufruire di assistenza vera (il barbiere e lo psicologo sono le figure più anelate). E soprattutto: scongiurare il respingimento che le leggi europee almeno sulla carta vietano, il rimpatrio in Paesi dove sta in agguato la morte. Un pakistano, M.M., mi afferra le due mani, a mo' di preghiera: è cristiano, teme di essere rispedito in Pakistan dove "di sicuro mi ammazzeranno". Parlo anche con un recluso del Ghana che probabilmente è uno dei "capibanda", con un colombiano mitissimo e con una strana pazienza, con il tunisino I.B. che mi dà il numero del suo cellulare, con l'egiziano M.A.: invariabilmente implorano aiuti concreti e immediati che non posso dare e tutti dicono: "Non ci dimentichi". Nessuno mi chiede soldi. C'è un pregiudicato, S.G. Ha scontato una pena a Rebibbia e poi a sorpresa si è ritrovato qui: scrive romanzi e poesie, e ha vinto numerosi premi letterari. Ha studiato e si è messo alla scrittura in carcere. Molti hanno conosciuto lo stesso tragitto: la prigione (il più delle volte per spaccio o taccheggi), la pena scontata fino all'ultimo giorno, per poi ricadere inaspettatamente in questo Lager. I più domandano e ridomandano Perché. Datemi una ragione. Non capisco. Corrono in camerata e ti portano a vedere foglietti ormai sbrindellati che riportano le loro richieste di permesso di soggiorno. Molti sono nati in Italia, ma come sappiamo non hanno diritto alcuno perché da noi vige la legge tribale del sangue. Ho passato un pomeriggio con loro, e alla fine avevo l'impressione che fosse un tempo sterminato, che t'invecchia rapido. Ero senza più parole. Infinitamente sconsolata. Ci si continuerà a battere per loro, questo è vero. Anzi è più vero che mai. Ma con quale prospettiva di essere ascoltati dalle autorità nazionali ed europee, di obbligarle a guardare in faccia quello che abbiamo visto? Una cosa so: quale che sia la nostra azione, nel Parlamento dell'Unione europea e nelle associazioni, so che tutti ci stiamo macchiando di un misfatto di enormi proporzioni. È come se visitando i Centri ti spuntasse sulla pelle un marchio, una voglia: il marchio della colpa. Perché questo zoo per umani l'abbiamo fabbricato noi italiani, noi europei. Perché lo definiamo inaccettabile, allontanandoci da quei volti che chiedono risposte fino all'ultimo istante - insopportabile - in cui incroci i loro sguardi prima di partire. Ma lo sappiamo, gli amici con cui sono venuta e io: nello stesso istante in cui pronunci la parola "inaccettabile", e poi prendi il treno per tornare a casa, già hai accettato quello che hai visto, quello che ha ferito i tuoi occhi. Già sei sceso a patti con il tremendo. India: Renzi sul caso marò "il governo di New Delhi ha aperto un canale di confronto" Corriere della Sera, 30 dicembre 2014 Il premier: "Vicenda complessa. Da Delhi dichiarazioni che abbiamo apprezzato". I giornali locali parlano di "linea morbida" "frutto di un dialogo dietro le quinte". Quella dei marò è "una vicenda molto seria molto difficile per ciò che è accaduto in passato, su cui ognuno di noi si tiene il suo giudizio: oggi questione aperta con un paese come India, amico, alleata dell'Italia che nelle ultime ore ha aperto un canale di confronto diretto anche con dichiarazioni che abbiamo apprezzato". Lo ha detto il premier Renzi alla conferenza di fine anno. Dichiarazione che giunge dopo un "cambio di rotta" di cui parla la stampa indiana. La scelta di non ostacolare in Corte suprema la richiesta dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone di tornare temporaneamente in Italia "è parte del dialogo dietro le quinte" fra le parti e "rappresenta un radicale cambiamento di opinione del governo indiano sulla vicenda". Lo hanno assicurato fonti affidabili al quotidiano The Economic Times. In un articolo pubblicato oggi online, il giornale ricorda che il ministero dell'Interno indiano ha sempre avuto una posizione rigida su questo tema e che non era favorevole alla concessione, nel settembre scorso, di un permesso di rientro in Italia di quattro mesi a Latorre per una terapia di riabilitazione dopo l'ictus che lo aveva colpito. Ma poi il governo indiano, dice ancora il quotidiano, decise di non opporsi davanti alla Corte Suprema all'autorizzazione per Latorre a recarsi in Italia sulla base di quello che il ministro degli Esteri Sushma Swaraj aveva definito "un terreno umanitario". Questo accadde più o meno nel momento in cui, sostiene ET, "l'Italia sottopose all'India una proposta per una soluzione consensuale per l'intera questione". Il giornale aggiunge di avere appreso che "il giorno stesso in cui la Corte concesse in settembre a Latorre il permesso per rientrare in Italia, l'amministrazione indiana lavorò intensamente per preparare i documenti necessari e permettere al militare di partire quella stessa notte con un aereo inviato dal governo di Roma". L'atteggiamento morbido del governo, evidenzia ET, si è ripetuto prima di Natale quando il "Solicitor General" non si è opposto all'estensione del permesso di permanenza di Latorre in Italia, incontrando però il parere contrario dello stesso presidente della Corte suprema. Montenegro: Romagnoli scrive dal carcere "proverò mia innocenza, devo avere pazienza" www.italiachiamaitalia.it, 30 dicembre 2014 Massimo Romagnoli (Fi) scrive a Italia Chiama Italia. Il presidente del Movimento delle Libertà, detenuto nel carcere di Podgorica dal 16 dicembre sera, per un reato che - credimi - non ho commesso". Tuttavia, spiega Romagnoli sempre rivolgendosi a Filosa, "devo avere pazienza di aspettare che gli americani si accertino che io sono innocente prima di Natale ha preso carta e penna e di suo pugno ha scritto una lettera che poi ha inviato al nostro direttore, Ricky Filosa, attraverso il suo avvocato montenegrino. Pubblicare tutto il contenuto della lettera sarebbe sbagliato, ma fra le altre cose possiamo dirvi che Massimo ringrazia Filosa "per i graditissimi saluti ricevuti attraverso i diplomatici dell'ambasciata d'Italia in Montenegro. Purtroppo - spiega - mi trovo in una situazione delicata, detenuto nel carcere di Podgorica dal 16 dicembre sera, per un reato che - credimi - non ho commesso". Tuttavia, spiega Romagnoli sempre rivolgendosi a Filosa, "devo avere pazienza di aspettare che gli americani si accertino che io sono innocente per liberarmi". Massimo Romagnoli, ex deputato azzurro arrestato nei giorni scorsi in Montenegro con la pesantissima accusa di traffico d'armi, continua a sostenere la propria innocenza. Fin dall'inizio di questa vicenda Italia Chiama Italia segue il caso da molto vicino. In costante contatto con l'ambasciata d'Italia a Podgorica, il nostro quotidiano online nei giorni scorsi ha anche lanciato un appello rivolto a politici e rappresentanti delle istituzioni: non abbandoniamo Massimo Romagnoli. Romagnoli, presidente del Movimento delle Libertà e molto attivo con Forza Italia nella sua Sicilia, prima di Natale ha preso carta e penna e di suo pugno ha scritto una lettera che poi ha inviato al nostro direttore, Ricky Filosa, attraverso il suo avvocato montenegrino. Pubblicare tutto il contenuto della lettera sarebbe sbagliato, ma fra le altre cose possiamo dirvi che Massimo ringrazia Filosa "per i graditissimi saluti ricevuti attraverso i diplomatici dell'ambasciata d'Italia in Montenegro. Purtroppo - spiega - mi trovo in una situazione delicata, detenuto nel carcere di Podgorica dal 16 dicembre sera, per un reato che - credimi - non ho commesso". Tuttavia, spiega Romagnoli sempre rivolgendosi a Filosa, "devo avere pazienza di aspettare che gli americani si accertino che io sono innocente per liberarmi". Visto che il mandato di cattura è stato emanato dagli Stati Uniti, "occorre che io sia estradato negli USA per provare la mia innocenza: i miei legali già si stanno adoperando", fa sapere l'azzurro. Romagnoli coglie l'occasione "per augurare a tutti gli italiani nel mondo buon Natale, da trascorrere con le proprie famiglie. Io quest'anno non avrò questo privilegio, ma avrò l'occasione di pregare per la mia famiglia, per gli italiani all'estero e per me. Se potete - scrive ancora - quando andate in chiesa pregate per me". L'ex parlamentare spera di "poter provare presto la mia innocenza", e aggiunge: "purtroppo in questo momento è delicato poter spiegare, ma attraverso Italia Chiama Italia potete rivolgermi delle domande, io non appena le avrò ricevute risponderò". Il presidente MdL poi rivolge un sentito ringraziamento alla locale ambasciata d'Italia: "abbiamo i migliori diplomatici del mondo, l'ho potuto provare su me stesso. Grazie a loro oggi ritrovo la forza di scrivere". Ricordiamo che Romagnoli ha ricevuto il 22 dicembre scorso, in carcere, la visita della dottoressa Antonella Fontana, dell'ambasciata d'Italia, e poi quella dell'ambasciatore d'Italia il 24 dicembre: "mi hanno trasmesso tanto calore - commenta il forzista - e una incredibile carica di energia". "Essere rinchiuso in un carcere di uno Stato dove non hai né amici né parenti è difficile, ma poi ti trovi il tuo Paese, la tua ambasciata, che silenziosamente fa un lavoro straordinario". Massimo invia i suoi saluti a sua moglie, ai suoi figli e a sua madre: "purtroppo anche loro per questa stupida situazione stanno passando momenti non belli...". Saluti anche per il nostro direttore, che conosce Romagnoli da una decina d'anni: "Ricky, ti abbraccio forte e un saluto alla tua cara signora". E poi ancora gli auguri di buone feste inviati agli amici. Italia Chiama Italia non si fermerà. Continuerà a indagare, a scavare, a fare domande, a volere vederci chiaro. Lo facciamo per Romagnoli come lo abbiamo fatto in altri casi simili. Dopo il nostro appello, alcuni parlamentari si sono mossi e nei prossimi giorni potrebbero esserci novità. Si è mosso anche Vincenzo Nicosia, presidente dell'associazione Sicilia in Europa. Ancora fermo il Cgie, il Consiglio Generale degli italiani all'estero, di cui Massimo Romagnoli fa parte: silenzio assoluto da parte dei vari consiglieri, silenzio assoluto sulla vicenda da parte del segretario generale del "parlamentino" degli italiani nel mondo. A voi ogni commento. Albania: in carcere per furto di energia si suicida, polemiche fra opposizione e governo Nova, 30 dicembre 2014 Il suicidio in Albania di un uomo di 52 anni, Qamil Zela, in carcere perché accusato di furto di energia elettrica, ha provocato dure polemiche fra l'opposizione di centrodestra guidata da Lulzim Basha e il governo di centrosinistra del premier Edi Rama. Secondo le prime notizie, Zela sarebbe stato arrestato perché risultava debitore nei confronti dell'operatore di distribuzione di energia. L'opposizione ha accusato direttamente il premier per il "clima di terrore diffuso in tutto il paese". L'atto di suicidio in cella "è un'accusa contro il premier e le ingiustizie di questo governo che promuove in alti incarichi statali chi ha debiti enormi e chiude in carcere invece chi ha un debito di soli 3.500 lek" (circa 25 euro, ndr), ha scritto Basha, in un post su Facebook. Il premier Edi Rama ha replicato, considerando "una politica delle iene", le reazioni dell'opposizione. "Nessun debitore di energia è stato mai arrestato", ha precisato Rama sempre su Facebook. Mentre l'operatore della distribuzione di energia e il ministero dell'Interno, hanno spiegato invece che Zela sarebbe stato arrestato per furto di energia. Due suoi negozi risultavano ottenere la fornitura di energia elettrica da un collegamento illecito, dall'abitazione di Zela. Tuttavia, sul suo suicidio è stata aperta un'inchiesta. Pakistan: il Governo non recepisce moratoria Onu su pena morte e impicca sei terroristi Nova, 30 dicembre 2014 Non hanno sortito l'effetto sperato le richieste avanzate al governo pachistano da Nazioni Unite e Unione Europea per la sospensione delle esecuzioni capitali. Almeno sei militanti islamisti sono stati impaccati in Pakistan dopo l'attacco talebano del 16 dicembre contro una scuola gestita da militari nella città di Peshawar. Sono 170 i condannati in via definitiva per terrorismo su 8.000 detenuti che si trovano nei bracci della morte delle carceri in tutto il paese. Per Islamabad," la pena capitale per i terroristi non viola la legge internazionale". Secondo un portavoce governativo, "il Pakistan rispetta la comunità internazionale ma il paese sta attraversando circostanze straordinarie che richiedono misure straordinarie". Lo scorso 18 dicembre, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha chiesto oggi per la quinta volta - la prima fu nel 2007 - di porre fine all'uso della pensa di morte con il passaggio di una nuova risoluzione che invita gli Stati a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell'abolizione della pratica. La nuova risoluzione (non vincolante) era stata adottata con il numero record di 117 voti a favore, sei in più rispetto alla Risoluzione di due anni fa e il più basso dei voti contrari. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, aveva commentato su "Twitter" parlando di "un successo per l'Italia e i diritti umani". Gentiloni aveva ringraziato la Comunità di Sant'Egidio, Amnesty International Italia e Nessuno Tocchi Caino, "parti attive della task force costituita alla Farnesina dallo scorso luglio". Giordania: sceicchi sunniti iracheni mediano con Isis per rilascio pilota giordano catturato Nova, 30 dicembre 2014 Le autorità di Amman hanno deciso di ricorrere alla mediazione dei capi tribù sunniti di al Anbar, provincia irachena ad ovest di Baghdad, per ottenere la liberazione del pilota catturato in Siria dallo Stato islamico. Secondo quanto rivelano fonti del governo di Amman, citate dal quotidiano "al Quds al Arabi", il pilota Moaz al Kasasba e la sua vicenda sta dando vita ad una mobilitazione dal basso nella società giordana con una serie di iniziative che si stanno organizzando in favore della sua liberazione. L'obiettivo dei mediatori tribali sunniti iracheni sarà quello di ottenere la sua liberazione in cambio del rilascio di un esponente salafita detenuto nelle carceri giordane e già condannato a morte per terrorismo. Egitto: al Sisi incarica ministro Interno di verificare situazione degli studenti detenuti Nova, 30 dicembre 2014 Il presidente egiziano Abdul Fatah al Sisi ha incaricato il ministro dell'Interno Mohamed Ibrahim di riesaminare la situazione degli studenti detenuti. Lo riferiscono i media statali, secondo cui al Sisi avrebbe proposto la formazione di un comitato per ispezionare le carceri egiziane e controllare le condizioni dei detenuti. "Ogni innocente sarà rilasciato", ha promesso il presidente egiziano. Decine di studenti sono stati arrestati per i disordini seguiti alla deposizione dell'ex presidente Mohamed Morsi del luglio 2013. Egitto: tre giornalisti di Al Jazeera detenuti in da un anno, condannati a 7 e 10 anni www.journal.it, 30 dicembre 2014 La storia dello staff dell'emittente araba condannati almeno a 7 anni dietro le sbarre. Un anno in carcere per aver fatto il proprio lavoro da giornalista. E la prospettiva è quella di restare dietro le sbarre per tanto tempo. La vicenda dei tre membri dello staff di Al Jazeera in Egitto è l'esempio di come la libertà di espressione sia soffocata dal regime guidato da al-Sisi. Baher Mohamed, Mohamed Fahmy e Peter Greste sono stati arrestati il 29 dicembre 2013 con l'accusa di aver diffuso false notizie a sostegno dei Fratelli Musulmani, il partito islamico messo fuori legge dal governo del Cairo. La sentenza, arrivata a giugno, ha condannato Greste e Fahmy a sette anni di carcere, mentre la pena per Baher Mohamed è stata di dieci anni. Da un anno Al Jazeera conteggia i giorni di detenzione del suo staff, mettendo ben visibile sul sito Internet questo contatore. La mobilitazione, tuttavia, si è intensificata a ridosso del pronunciamento sul ricorso avanzato dai tre condannati: giovedì 1 gennaio si attende la decisione della Giustizia egiziana. Il giudice ha varie opzioni, tra cui la conferma del verdetto e la revisione del processo. La vicenda, comunque, potrebbe essere chiusa dal presidente al-Sisi con un'amnistia. Ma finora ha sempre detto di non voler interferire. L'emittente araba ha sempre sostenuto che la sentenza è stata viziata, alimentando dunque una campagna internazionale. Sul governo del Cairo è arrivata la pressione della Casa Bianca, dell'Unione Europea e di oltre 150 associazione sui diritti, tra cui Amnesty International. Tuttavia, nemmeno questa situazione ha sbloccato l'impasse.