Manifesto per un po’ di amore in più nelle carceri Ristretti Orizzonti, 2 dicembre 2014 I punti di riferimento per le innovazioni da realizzare sono le Regole Penitenziarie Europee, approvate dal Comitato dei Ministri dei 46 Stati europei l’11 gennaio 2006. 3. Le restrizioni imposte alle persone private della libertà devono essere ridotte allo stretto necessario e devono essere proporzionali agli obiettivi legittimi per i quali sono state imposte. 5. La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera. Serve una nuova legge per "salvare gli affetti" delle persone detenute L’Ordinamento Penitenziario sta per compiere quarant’anni, ed è allora importante che sia più applicato nelle parti che restano innovative e rinnovato in quelle più "invecchiate". E la parte riguardante gli affetti è decisamente "vecchia". Ecco le nostre proposte, che sono anche un investimento sulla sicurezza, perché riavvicinano le persone detenute alle famiglie, restituendo a queste ultime il ruolo di mediare le tensioni facilitando il reinserimento nella società dei loro cari. - "Liberalizzare" le telefonate per tutti i detenuti, a telefoni fissi o cellulari senza distinzioni. A tal fine è necessario introdurre, come è già stato fatto in alcune carceri, il sistema della scheda telefonica, che produce enormi vantaggi eliminando le domandine e riducendo il lavoro del personale addetto a tale servizio. E forse telefonare più liberamente ai propri cari, mantenere contatti più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, ma anche quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire un argine all’aggressività determinata dalle condizioni di detenzione e una forma di prevenzione dei suicidi. - Consentire i colloqui riservati, che dovrebbero consistere in almeno 24 ore ogni mese da trascorrere con la famiglia senza il controllo visivo. Devono altresì essere cumulabili per chi non fa colloquio con i familiari almeno ogni due mesi. - Aumentare le ore dei colloqui ordinari, dalle sei ore attuali, a dodici ore mensili, per rinsaldare le relazioni, che sono poi alla base del reinserimento nella società. - Aggiungere agli attuali 45 giorni di permessi premio 30 giorni nell’arco dell’anno da trascorrere con la famiglia. - Ampliare, per chi non può ancora accedere ai permessi premio, l’utilizzo dei permessi di necessità, ex art. 30 l. n. 354/75 O.P., intendendo per "gravi motivi" eventi significativi per la vita affettiva e i percorsi di reinserimento delle persone. Ma servono anche interventi immediati L’Amministrazione penitenziaria, nel suo impegno per "umanizzare le carceri", può da subito intervenire con proposte di "umanizzazione" anche per l’accoglienza alle famiglie, per le quali basta una circolare ministeriale, non serve cambiare la legge: - in considerazione del fatto che sei ore di colloqui al mese sono veramente una miseria, e nell’attesa che venga cambiata la legge in materia, dovrebbe essere permesso sempre di cumulare le ore per chi ha la famiglia lontana e fa pochi colloqui e dovrebbero essere concessi con regolarità alcuni colloqui "lunghi" con la possibilità di pranzare con i propri cari, possibilmente anche la domenica; - dovrebbero essere permessi sempre i colloqui con le terze persone; - dovrebbero essere concesse a tutti i detenuti, senza distinzioni per reati, due telefonate supplementari al mese. Questo si può fare da subito, con l’attuale normativa, nell’attesa di una nuova legge che "liberalizzi" le telefonate, come già avviene in molti Paesi; - dovrebbero essere allestite delle postazioni per permettere ai detenuti, in particolare quelli che hanno le famiglie lontane, di fare colloqui via Skype con i loro cari; - dovrebbero essere migliorati i locali adibiti ai colloqui, e all’attesa dei colloqui, con una attenzione maggiore alle esigenze che possono avere i famigliari, in particolare anziani e bambini (servirebbero in tutte le carceri pensiline, strutture provviste di servizi igienici, spazi per i bambini); - dovrebbero essere rese più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere rese più ampie possibile. - infine, serve una diversa attenzione e una maggiore trasparenza sui trasferimenti, che dovrebbero essere ridotti al minimo nel rispetto dei principi della massima vicinanza alle famiglie e della possibilità di costruire reali percorsi di reinserimento sul territorio. Ristretti Orizzonti: "Negare l'affettività ai detenuti, una pena ingiustificata" Redattore Sociale, 2 dicembre 2014 Il messaggio lanciato oggi da Padova nell'ambito del seminario "Per qualche metro e un po' d'amore in più", organizzato nel carcere Due Palazzi. Favero: "È una miseria quello che viene concesso oggi ai detenuti e ai loro famigliari". Negare l'affettività in carcere significa dare al detenuto una pena accessoria ingiustificata e colpire la sua famiglia, trasformandola in una vittima. È questo il messaggio lanciato oggi da Padova nell'ambito del seminario "Per qualche metro e un po' d'amore in più", organizzato nel carcere Due Palazzi da Ristretti Orizzonti. "È una miseria quello che viene concesso oggi ai detenuti e ai loro famigliari - accusa la direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero. Il nostro Ordinamento penitenziario sta per compiere 40 anni: è importante che sia applicato nelle parti che restano innovative e che venga rinnovato in quelle invecchiate, come la parte riguardante gli affetti". Per migliorare le condizioni attuali non serve molto: "Bisogna liberalizzare le telefonate, magari con lo strumento della scheda telefonica. Consentire di mantenere contatti più stretti quando si sta male o quando sta male un famigliare potrebbe davvero costituire un argine all'agressivita determinata dalle condizioni di detenzione e una prevenzione dei suicidi. Oltre a questo, chiediamo che siano consentiti colloqui riservati e cumulabili". Ci sono, però, anche azioni che possono essere attivate subito, senza nemmeno cambiare le leggi, "come dare la possibilità di fare due telefonate in piu al mese, concedere colloqui lunghi, aumentare le ore dei colloqui ordinari, consentire i colloqui via skype per chi non può venire fisicamente, aggiungere agli attuali 45 giorni di permessi premio alcuni giorni nell'arco dell'anno da trascorrere con la famiglia". A togliere di mezzo l'alibi dei vincoli legislativi ci pensa Andrea Puggiotto, ordinario di Diritto costituzionale all'Università di Ferrara: "La castrazione sessuale e affettiva è una condanna accessoria - mette in chiaro. Perfino masturbarsi è vietato, perchè considerato un atto osceno in luogo pubblico che può costare sei mesi di liberazione anticipata". E aggiunge: "La pena provoca un deserto di relazioni affettive che crea solo vittime e condanna i famigliari". Puggiotto precisa che anche la Corte costituzionale ha riconosciuto che la questione merita tutta l'attenzione del legislatore. "Ma il Parlamento ancora una volta è rimasto sordo. Gli ostacoli, quindi, non sono giuridici ma solo culturali". Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale e consigliere del ministero di Giustizia, annuncia che porterà la questione agli Stati generali della pena annunciati dal ministro: "Il parametro da tenere presente è quello del diritto, secondo cui la pena prevede una restrizione della libertà personale senza però ledere i diritti fondamentali, cioè senza introdurre pene accessorie, come quella della negazione degli affetti. Condivido che ci sono delle cose che possono essere fatte immediatamente, come introdurre Skype e il cumulo delle visite". Manifesto a Padova per "detenzione più umana" (Ansa) Proposta per telefonate libere a familiari e cumulo ore visite. Un manifesto per rendere le carceri più vivibili è stato presentato, nel corso di un incontro nella casa di reclusione di Padova, dall'associazione "Ristretti Orizzonti". Il manifesto "Per un po' di amore in più nelle carceri", corredato da una raccolta firme estesa a tutti gli istituti penitenziari d'Italia, sfocerà poi in una proposta di legge. Tra le proposte c'è la liberalizzazione delle telefonate ai familiari (ad oggi limitata a 10 minuti alla settimana) e la possibilità di cumulare le sei ore di visita concessi al mese. "Ci sono figli che raccontano che non pensavano che il proprio padre potesse camminare visto che l'hanno visto sempre seduto dietro ad un vetro - ha spiegato Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti - sono situazioni assurde e barbare. La nostra proposta prevede delle piccole grandi cose che potrebbero prevenire anche molti dei suicidi che ogni anno avvengono. È assurdo per esempio che si possa avere solo dieci minuti di telefonata alla settimana e, per esempio, che se dopo quattro tentativi nessuno risponde si perda il diritto a sentire i propri figli o la propria moglie". Giustizia: Santi Consolo nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Italia Oggi, 2 dicembre 2014 Santi Consolo è il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Lo ha deciso il Consiglio dei Ministri, su proposta del Guardasigilli Andrea Orlando. La poltrona di capo del Dap era vacante dalla scorsa primavera, quando era scaduto l’incarico di Giovanni Tamburino. Consolo torna così al Dap, dove in passato ha rivestito il ruolo di vicecapo del Dipartimento. Dal gennaio scorso il magistrato era alla guida della Procura generale di Caltanissetta. Nel corso della sua carriera, Consolo è stato giudice e poi sostituto Pg a Palermo, sostituto Pg in Cassazione e anche procuratore generale a Catanzaro. Tra il 1998 e 2002 è stato consigliere togato al Csm. Comunicato del Si-Di.Pe. Sindacato Direttori Penitenziari Il Consiglio dei Ministri, nella riunione svoltasi nella serata di ieri, lunedì 1 dicembre 2014 a Palazzo Chigi, su proposta del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha conferito l’incarico di Capo del Dipartimento della Amministrazione penitenziaria, a Santi Consolo, procuratore generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta. Trova così definizione, finalmente, la questione della lunga assenza del massimo vertice del delicato e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Finalmente, quindi, un punto certo ed importante dal quale partire per definire le strategie di politica penitenziaria. Il Si.Di.Pe. - il Sindacato più rappresentativo del personale della carriera dirigenziale penitenziaria - formula al neo Capo Dap i migliori auguri di buon lavoro, confidando che grazie alla sua levatura professionale ed alla sua conoscenza del mondo penitenziario, avendo egli già ricoperto l’incarico di Vice Capo del Dap nel recente passato, dimostrando competenza ed equilibrio, possa costruirsi un futuro migliore per il sistema penitenziario italiano, anche attraverso la valorizzazione del personale penitenziario, a partire dalla dirigenza penitenziaria. La dirigenza penitenziaria, infatti, ha l’enorme onere e la gravosa e diretta responsabilità di gestione del complesso sistema penitenziario e, quindi, di quella che resta, nonostante i pur positivi interventi normativi, un’emergenza penitenziaria, sicuramente resa più pesante dalla difficile congiuntura economica che determina scarsissimi mezzi e risorse. Per migliorare il sistema, infatti, non si può trascurare il personale penitenziario e la sua dirigenza, argano dell’intero sistema dell’esecuzione penale, interna ed esterna. Ci sembra, quindi, che la scelta del Guardasigilli di conferire l’incarico di Capo del Dipartimento della Amministrazione penitenziaria, a Santi Consolo, possa andare nella direzione giusta. Giustizia: "Report", il carcere umilia i detenuti rinunciando a sfruttarne le potenzialità www.firenzetoday.it, 2 dicembre 2014 Milena Gabanelli con Report sottolinea l'ennesimo paradosso tutto italiano: un sistema carcerario che umilia i detenuti rinunciando a sfruttarne le potenzialità Sono città che ogni giorno piangono vergogna, quelle italiane. La trasmissione di Rai3, Report, accende l'occhio della telecamera sulla gestione dei detenuti in Italia, lo fa però inquadrando il degrado delle strade: offrendo allo spettatore prima il danno e poi il possibile rimedio. Li chiamiamo "lavori socialmente utili" e non si tratta solo di verniciare pareti, sistemare giardini, dedicarsi agli anziani, ma di destinare parte del proprio tempo alla collettività. Quel tempo che, altrimenti, scorre tra le sbarre dove "giriamo come fanno i cavalli" spiegano i detenuti intervistati. L'inchiesta di Report è provocatoria? Lo ammette la stessa redazione. Ma quando il sottosegretario Cosimo Ferri afferma "Le vostre proposte hanno buonsenso" la provocazione diventa proposta. "Tutti i detenuti in salute dovrebbero essere obbligati a lavorare, perché nel lavoro c'è il loro recupero e anche quello delle spese giudiziarie, oltre a quelle per il mantenimento in carcere - spiega Milena Gabanelli, invece - nella maggior parte delle carceri italiane i detenuti giocano a carte o guardano la televisione. E il 70% quando esce torna a delinquere". Gli esempi portati dall'Irlanda agli Stati Uniti sono in certi casi confronti impietosi. Il sistema penitenziario costa 2miliardi e 800 milioni euro l'anno. Mantenere un detenuto costa 4000 euro al mese. Il paradosso: la legge prevede che i condannati in via definitiva potrebbero lavorare, anche per saldare le spese processuali, però, vanno retribuiti e mancano i fondi. La legge permette l'impiego gratuito per i lavori di pubblica utilità, come pulizia urbana di strade e parchi, argini o ripristini post alluvioni e frane. Mancherebbero le richieste da parte dei comuni. "Perché non cambiare la legge e farli lavorare lo stesso senza pagarli visto che i detenuti devono saldare il loro debito con lo Stato?" propone Report. La cittadinanza potrebbe giovare della manutenzione ordinaria del decoro urbano a costo zero. Lavoro e carcere. Un problema molto sentito ed un precursore lo abbiamo proprio a Firenze. A marzo 2014 Firenzepost riporta le parole del cappellano di Solliccianino, padre Davide Colella: "Non è il carcere che non funziona e sembra un paradosso dirlo, ma è lo Stato che non funziona; è il Ministero della Giustizia (la Grazia guarda caso è sparita!) che viene meno ad un dovere importantissimo per la qualità di tutti i detenuti: il lavoro, espressamente previsto e scritto nello stesso ordinamento penitenziario, come uno degli elementi cardini del trattamento. È uno Stato, il nostro, che alla faccia della rieducazione e del reinserimento, invoglia vergognosamente i suoi detenuti-cittadini, alla più completa vita parassitaria. Bisognerebbe avere il coraggio di uscire, una volta per tutte, dalla logica perversa degli interventi legislativi di emergenza, per entrare finalmente nella logica della santa normalità". A Solliccianino tra le persone condannate alcune sono affidate a strutture esterne con "i lavori di pubblica utilità" per cui è previsto che svolgano mansioni di volontariato utili alla società, ma padre Davide conosce bene l'effetto della rieducazione lavorativa per aver vissuto la realtà di Gorgona. Il 21 agosto 2010 muore il vescovo emerito di Livorno, Alberto Ablondi, che così parlava del caso Gorgona, il carcere modello nell'arcipelago toscano: "L'esperienza di Gorgona dimostra, quanto sia colpevole la determinazione dello Stato di impedire ai detenuti di esprimersi attraverso un lavoro: la privazione della libertà non sarebbe così grave se non fosse accompagnata dalla privazione della possibilità di lavorare" a ricordarlo è il giornalista Andrea Fagioli nel 2004 a corredo di un reportage sull'isola in cui si coltivano orti e si alleva bestiame. Ma dopo 10 anni a Gorgona rischiano persino gli animali; l'amministrazione penitenziaria dal 2 dicembre 2014 avvia una "procedura ristretta di alienazione" per la metà dei capi di bestiame presenti con l'obiettivo di risparmiare 30 mila euro sui costi di gestione. Chiara Gagnarli, deputata 5 Stelle del collegio Toscana ha chiesto al premier Matteo Renzi, di interrompere la procedura che non ha come solo fine l'allevamento, ma ne ha uno ben più utile e rischia di frenarlo: il progetto rieducativo per i 70 detenuti che si occupano di quegli animali. I detenuti sarebbero ben disposti a lavorare davanti all'alternativa di una reclusione senza occasione alcuna di imparare un mestiere, di crescere al fine di potersi rimettere in gioco una volta usciti. "Il 70% degli ex detenuti torna a delinquere" spiega Milena Gabanelli. Una percentuale impressionante per un sistema che intende essere rieducativo. Il Comune di Firenze attiva risorse per il reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti provenienti dall'area carcere e marginalità: analisi delle competenze, orientamento, matching con le aziende, borse lavoro. Nell'anno 2013/2014 sono state seguite circa 150 persone provenienti dall'area carcere tra fissi e saltuari tutti residenti in Toscana. Nella città di Firenze sono presenti due carceri: Sollicciano e la Casa Circondariale Mario Gozzini o Solliccianino. Secondo la Relazione annuale anno 2014 del Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Toscana al 31/03/2014 i detenuti presenti a Sollicciano erano 834, di cui 755 uomini e 79 donne; gli stranieri sono il 70% e provengono in gran parte da Marocco, Tunisia, Algeria, Romania, Albania. La percentuale dei detenuti definitivamente condannati presenti nel carcere di Sollicciano è del 56%. Il tasso di sovraffollamento è del 160%. Nel carcere Mario Gozzini i detenuti sono un centinaio: tra queste persone vi sono tossicodipendenti ai quali vengono offerte possibilità di lavoro, formazione e crescita culturale. Circa 20 persone di giorno lavorano, studiano e possono stare in famiglia, mentre la sera e, in genere, quando non hanno attività, rimangono in carcere (Fonte Relazione annuale anno 2014 del Garante Regionale). Le persone che scontano la pena fuori del carcere, in affidamento o detenzione domiciliare, al 2013 sono state pari a 344 tra affidati, detenuti domiciliari, liberi vigilati nell'intera Provincia di Firenze (Fonte: Ministero della Giustizia). Giustizia: il lavoro obbligatorio per i detenuti è un abominio… "Report" sbaglia di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2014 Ci sono poche cose che conosco a fondo e sulle quali ho competenza, come credo capiti più o meno a ciascuno di noi. Sulle altre sono costretta a seguire le inchieste giornalistiche con maggiore passività, e spesso finisco per non sapere a chi dare ragione. Accade che ogni volta che guardo una puntata di Report su un argomento che conosco bene scopro una trasmissione realizzata con tesi assertorie, lontane dal livello di civiltà giuridica che vorrei in questo Paese, con la controparte ridicolizzata e privata di parola. Mi è successo ieri sera, davanti alla puntata di Report che proponeva il lavoro obbligatorio per i detenuti. Innanzitutto va detto che, storicamente, i primi a contestare il lavoro gratuito dei detenuti sono sempre stati i lavoratori liberi. Infatti, chiunque preferirebbe assumere al loro posto un detenuto che non deve pagare. Tentare di mettere in competizione le brave persone che faticano a trovare lavoro e i detenuti che addirittura pretendono lo stipendio per lavorare è di certo strumentale. La vera competizione si creerebbe davanti a un detenuto non retribuito, ben più conveniente di un cittadino libero per un datore di lavoro. In secondo luogo, il lavoro gratuito ma volontario - di pubblica utilità - è già oggi previsto dalla legge, come anche ieri a Report si diceva. Perché ha solo 250 applicazioni? È colpa del Comune di Roma o del Comune di Milano? Io non credo. Negli ultimi decenni si è sempre assistito a una grande parsimonia da parte della magistratura di sorveglianza e dell’intero sistema alla concessione ai detenuti delle misure alternative e della possibilità di lavorare fuori dal carcere. L’ordinamento italiano è pieno di possibilità, per reati non ostativi, di far interagire il detenuto con l’ambiente esterno - sempre secondo un rigido programma del magistrato e senza che ciò si trasformi in una non pena - anche nell’ottica che la responsabilizzazione e la non totale rescissione dei legami sociali siano convenienti per l’intera collettività, in quanto allontanano il detenuto da scelte devianti e comportano, come dimostrato dai numeri, un tasso inferiore di recidiva, diminuendo i reati commessi e aumentando dunque il tasso di sicurezza del Paese. In terzo luogo il lavoro gratuito e obbligatorio, oltre a togliere mercato lavorativo ai cittadini liberi, è un vero abominio concettuale per una società democratica. Qualsiasi lavoro, per qualsiasi cittadino, non può che prevedere tutte le garanzie costituzionali che una Repubblica fondata sul lavoro promuove. È inammissibile pensare altrimenti e proporlo da una televisione dello Stato. I lavori forzati non possono mai essere un’opzione. Report affermava che un detenuto ci costa 4.000 euro al mese. Non diceva però che la maggior parte di esse è costituita da spese fisse (personale, manutenzione delle strutture, ecc.) e non si elimina togliendo dal carcere un singolo detenuto. Ma è impensabile far pagare al detenuto anche la quota di spesa realmente pro capite. Fa pensare a quei film western nei quali si chiede al condannato a morte di scavare la propria tomba. Vorrebbe dire tornare concettualmente indietro al pre-illuminismo. La pena nelle società moderne vuole avere un senso, una direzione. Il lavoro del detenuto deve servire quale strumento di emancipazione, per far sì che la persona possa distaccarsi da una vita criminale. Farlo lavorare gratis e forzatamente significherebbe fare un doppio danno alla cittadinanza: concorrenza lavorativa sleale e sicurezza messa a rischio da tassi di recidiva inevitabilmente più alti. Si avvicina il 10 di dicembre, giornata internazionale sui diritti umani. La dignità dell’uomo - di ogni uomo - è il fondamento ultimo di tutti i diritti. I lavori forzati significano dignità calpestata. La Dichiarazione universale dei diritti umani è una cosa seria: non vale la pena di mandarla al macero per lanciare una puntata in prima serata. Giustizia: lavori volontari o lavori forzati? Ma il punto di vista è un altro di Francesco Lo Piccolo (direttore di "Voci di dentro") www.huffingtonpost.it, 2 dicembre 2014 L’inchiesta "sul lavoro dei detenuti" realizzata dai giornalisti di Report dal titolo "Il risarcimento" e andata in onda ieri sera, sicuramente fatta bene dal punto di vista giornalistico, suggerisce idee e proposte che mi hanno lasciato l’amaro in bocca. Innanzitutto perché dà una rappresentazione del carcere come un luogo dove sono rinchiuse persone che vivono a spese della collettività, persone che costano allo Stato, che mangiano a sbafo. In realtà il carcere è innanzitutto un luogo di pena e di privazioni, dove le libertà civili e le relazioni sociali sono poco più di zero, dove per chi è detenuto sono nulli o quasi gli stessi rapporti affettivi con la propria famiglia e con i propri figli. Di più, un luogo dove ogni richiesta (un libro, un paio di scarpe, un foglia di basilico, la visita del proprio medico...) deve passare per la domandina che annulla la stessa dignità e trasforma una persona con diritti in una persona senza diritti. Ma c’è dell’altro che non mi ha troppo convinto e che mi sembra in linea con questa nuova Italia dove a grandi passi si stanno eliminando conquiste di civiltà e garanzie. E mi riferisco all’idea che il lavoro non essendo più un diritto dei cittadini come sostengono ormai in troppi (in barba all’articolo 4 della Costituzione italiana che recita "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società") possa diventare per coloro che sono in carcere una terapia anzi un obbligo. E questo senza nulla togliere alla validità del concetto che i carcerati possano o debbano lavorare dentro o fuori dal carcere. A 250 anni dalla pubblicazione del libro di Beccaria "dei delitti e delle pene", dopo due secoli di studi e proposte per riformare le carceri senza ovviamente fare nulla o quasi, ecco che si ritorna indietro, si ritorna ai lavori forzati...al carcere unicamente come punizione. E così ancora una volta ci si dimentica o si finge di dimenticare che l’allontanamento dalla società di chi è stato riconosciuto colpevole di un reato non è punizione fine a se stessa e segregazione ma piuttosto legalità e che da anni si va introducendo il concetto di diritto penale minimo, che la carcerazione va limitata solo a casi gravi, che vanno privilegiati i domiciliari o i lavori di pubblica utilità. Insomma che la carcerazione è solo l’extrema ratio. Io non credo, ad esempio, che serva in alcun modo tenere una persona in carcere perché ha causato un incidente stradale e investito e ucciso un pedone. Credo che serva molto più fare come si fa in Inghilterra e cioè condannare l’autore di tale reato a prestare attività di volontariato alla Croce Rossa o al 118. Con un doppio risultato: primo non costerà nulla allo stato e non vivrà a spese della collettività in carcere, secondo vivrà quotidianamente la tragedia dell’incidente e aiuterà il prossimo. Senza avere il problema di inventarci come far lavorare chi viene incarcerato. Senza inventarci nulla perché le leggi in tal senso ci sono, vanno solo applicate. Soprattutto alla luce dei numeri, al fatto che nelle carceri oltre la metà dei 38 mila condannati in via definitiva hanno da scontare pene inferiori ai 5 anni; che fra il 90 e il 94 come ricorda il libro "Cento volte ingiustizia - innocenti in manette" la percentuale degli imputati assolti è stata pari al 40 per cento; che in carcere quasi la metà sono in attesa di giudizio. Una società meno giustizialista e più giusta, una società che non invoca il carcere come unica soluzione, ma che si interroga e si pone dubbi; una società dove i giudici non si sentono dei supereroi in guerra contro il male e che applicano le pene alternative...ecco questa è la vera riforma che può evitare che in carcere ci siano detenuti pagati dallo Stato e che mangiano a sbaffo. Senza ricorrere al lavoro forzato e terapeutico...che di terapeutico non ha proprio nulla se non la violazione del diritto costituzionale: "la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro". Senza imporre il lavoro gratuito a nessuno, libero o detenuto che sia, perché "il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa" (articolo 36 della Costituzione). Giustizia: dagli Usa alla Cina, dove la barbarie dei lavori forzati esiste ancora di Damiano Aliprandi Il Garantista, 2 dicembre 2014 I detenuti, a partire dal prossimo anno, saranno tenuti per legge a "contribuire al costo del loro internamento" mediante forme di attività lavorativa gratuite. È l'iniziativa legislativa intrapresa dal Governo ultranazionalista ungherese, conosciuto per la sua deriva autoritaria. Secondo un articolo del Magyar Nemzet, la decisione significherebbe che 12mila dei circa 18mila detenuti delle carceri ungheresi dovranno lavorare gratuitamente. Sono infatti esclusi coloro la cui la salute non lo permette e i detenuti che hanno già raggiunto l'età pensionabile. Secondo l'articolo, negli ultimi 4 anni, il numero degli internati che hanno lavorato in prigione e per l'organizzazione di istituti correttivi sono aumentati di diverse migliaia. Jozsef Lajtar, vice capo del servizio "business e IT" del sistema detentivo ungherese, lo scorso anno le aziende di prodotti agricoli e industriali all'interno del sistema carcerario hanno totalizzato entrate per 14 miliardi di fiorini. Il lavoro forzato dei detenuti, nel mondo, per ora rimane una peculiarità dei governi totalitari. In Cina ci sono i loagai, dei campi di lavoro forzato per i detenuti. Il termine laogai si riferisce, propriamente, ad una particolare forma di lavoro forzato della Repubblica Popolare Cinese. Il termine è anche usato in modo generalizzato per indicare le diverse forme di lavoro forzato previste dal sistema giuridico e carcerario cine- Ise, che include anche il laojiao ("rieducazione attraverso il lavoro") e il jiuye (letteralmente "personale addetto al lavoro forzato", ma viene da alcuni considerato una forma indiretta di reclusione). Lo stesso termine laogai, in senso invece restrittivo, viene talvolta usato per indicare un campo da lavoro. Secondo un'indagine del 2008 della Laogai Research Foundation, nella Repubblica Popolare Cinese sono presenti 1422 laogai. Le condizioni di vita dei forzati e il loro impiego come forza lavoro sono spesso indicati come lesivi dei diritti umani. La condanna al laogai (in senso stretto) richiede un processo ufficiale e viene applicata a soggetti riconosciuti dalla legge come criminali, con pene di media e lunga durata di lunghezza stabilita; i detenuti sono privati dei diritti civili e non ricevono salario. La condanna al laojiao ("rieducazione attraverso il lavoro") è riservata a coloro che hanno compiuto reati minori, per cui non sono legalmente classificati come criminali. I condannati conservano i diritti civili e percepiscono un modesto salario. Il sistema del laojiao viene spesso attaccato come lesivo dei diritti umani e civili. A questo tipo di condanna è infatti associato un iter giudiziario semplificato (e quindi potenzialmente più arbitrario), che permette alle amministrazioni e alla polizia locali di recludere i colpevoli senza processo. I detenuti laogai e laojiao non raramente vivono negli stessi complessi e lavorano insieme, e si distinguono soprattutto perché i primi indossano un'uniforme e hanno i capelli rasati. Il sistema dei jiuye ("personale addetto al lavoro forzato") riguarda invece l'assegnamento di un lavoro all'interno di una struttura carceraria. Anche il jiuye viene considerato con sospetto da molte fonti occidentali. Sebbene esso non implichi formalmente l'incarcerazione dell'individuo (che rimane teoricamente libero e percepisce uno stipendio regolare) la condizione del personale jiuye (che spesso è costituito da persone obbligate a prestare servizio nei campi) viene spesso descritta come "semi-carceraria". I lavoratori possono vivere insieme alle loro famiglie all'interno o nei pressi dei complessi carcerari e spesso sono ex-detenuti provenienti dal laogai. Esisterebbe il detto: "laogai e laojiao hanno una fine; jiuye è per sempre". L'antica Cina fece uso del lavoro forzato per oltre 2.500 anni, sfruttando anche in tempo di pace sia civili sia criminali. Forzati furono impiegati nella costruzione della Grande Muraglia e del Grande Canale. Già molto prima della rivoluzione, il lavoro forzato veniva inteso come "rieducativo". Durante il periodo nazionalista il lavoro forzato perse molta importanza, con l'eccezione della leva militare durante la guerra col Giappone. Mao Zedong tornò ad applicarlo in modo sistematico, nel contesto della sua visione sociale e politica, come strumento adatto da una parte alla rieducazione dei controrivoluzionari, dall'altra a garantire che anche i detenuti contribuissero come i cittadini liberi alla produzione. Poi c'è la volta della Corea del Nord. Secondo un rapporto di Amnesty International, i detenuti nordcoreani sono costretti a lavorare gratuitamente all'interno dei campi di prigionia. C'è il campo di "rieducazione" chiamato kwanliso e si estende per circa 560 chilometri quadrati, tre volte Washington, la capitale degli Usa. Nel 2011, si riteneva vi fossero detenute 20.000 persone. Il duro lavoro forzato è dunque una prassi comune nei campi di prigionia della Corea del Nord. Secondo le testimonianze di ex detenuti e funzionari dei campi, i prigionieri passano la maggior parte del tempo a lavorare in condizioni pericolose, con poco tempo a disposizione per riposare. Ma anche negli Usa non si scherza. Sebbene negli anni 50 sia stato abolito formalmente il lavoro forzato, in Arizona c'è Joe Arpaio, lo sceriffo più duro d'America, il quale ha ripristinato il lavoro forzato per i detenuti. Ma non solo, ha inteso far rispettare "la parità tra i sessi", mandando anche le detenute a fare il lavoro forzato con le catene ai piedi. "Non c'è nessuna discriminazione nel nostro sistema carcerario - ha fatto sapere Arpaio - da noi le donne vengono trattate esattamente come gli uomini". Il ragionamento di Arpaio, conosciuto per una serie di iniziative tese a rendere la vita del carcere sempre più dura (come la proibizione di sigarette, caffè e della rivista Playboy, oppure dell'obbligo di indumenti rosa per umiliare i detenuti), non ha fatto una grinza, almeno formalmente. "Se le donne possono combattere nelle forze armate, fare il poliziotto, proteggere la popolazione e arrestare i criminali - aveva affermato - allora non dovrebbero avere problemi a raccogliere la spazzatura, in temperature di 48 gradi, davanti agli occhi di tutti". Giustizia: i detenuti dovrebbero fare i "lavori domestici" a titolo gratuito e volontario di Claudia Di Pasquale Corriere della Sera, 2 dicembre 2014 La proposta della direttrice della Terza Casa di Rebibbia: "Dentro al carcere creiamo lavori veri". "Dentro le carceri i detenuti dovrebbero fare i lavori domestici a titolo gratuito e volontario". È questa l’idea di Nunzia Passannante, direttrice della Terza Casa di Rebibbia. La proposta da lei definita "politicamente scorretta" nasce da alcuni dati obiettivi. Oggi per legge il detenuto che lavora va pagato ma i soldi per far lavorare tutti i detenuti non ci sono, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Solo l’1% dei detenuti si occupa della manutenzione del fabbricato, le carceri cadono a pezzi, e buona parte dei detenuti si ritrova a oziare, non impara un mestiere, e quando esce 7 volte su 10 torna a delinquere. Non solo, quei pochi che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria fanno per lo più dei lavori non professionalizzanti. Se questi lavori diventassero "gratuiti", secondo la direttrice della Terza casa, si potrebbero investire i pochi soldi che ci sono per creare dentro le carceri dei "lavori veri". Fanno così già in Irlanda: qui dentro alle carceri ci sono decine di laboratori creati allo scopo di insegnare ai detenuti una professione spendibile poi all’esterno, e il detenuto che lavora guadagna solo 15-18 euro la settimana. In Austria invece le carceri fanno da contoterzisti per imprese private, il detenuto fa un "lavoro vero", guadagna, ma il 75% dello stipendio viene trattenuto dall’amministrazione per compensare il costo del suo mantenimento. Giustizia: ripensiamo il sistema detentivo, ora la "lavatrice" tira fuori solo panni sporchi di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2014 Siamo in una fase che potrebbe definirsi rivoluzionaria: tutte le società vivono profondi rivolgimenti legati alla velocizzazione delle comunicazioni e al cambiamento degli assetti produttivi al livello mondiale. Non solo vediamo traballare tutte le istituzioni nazionali - dal Presidente della Repubblica, mai così in basso in termini di popolarità, agli organi costituzionali, alle forze armate, ai partiti e ai sindacati, alla scuola, al variegato mondo della giustizia - ma è lo stesso concetto di Stato che è messo in discussione. Tra le pressioni esterne che erodono sovranità in favore di organizzazioni internazionali e le spinte interne di vecchi e nuovi focolai di autonomismo che derivano da una ricerca di identità speculare all’omogeneità globale, non sappiamo come si trasformerà lo Stato negli anni a venire. Non solo, ma fenomeni dirompenti come l’astensionismo ormai consolidato nelle competizioni elettorali ci portano a riconsiderare la stessa idea di democrazia, come forma di governo che avremmo voluto veder realizzata almeno tendenzialmente. Imbevuti in una cultura che ancora influenzata da scampoli di illuminismo, siamo cresciuti nella convinzione o almeno nella speranza che il progresso passasse per un ampliamento "graduale" delle libertà e dei diritti individuali. Oggi ci troviamo a constatare, al contrario, che certe pretese (come quella delle pari opportunità di genere) hanno interessato una parte limitata dell’umanità (solo alcune società più avanzate dell’Occidente) in un periodo ancor più limitato di tempo (cinquanta, tutt’al più cent’anni, che sono un frammento del corso della storia). In più, assistiamo a uno spostamento dell’asse degli equilibri mondiali - in termini economici, quindi politici e culturali - verso Oriente. Dopo un secolo di dominio statunitense, dove almeno formalmente erano proclamati certi diritti fondamentali come quello alla "felicità", si va verso società come quella russa o cinese che hanno un’idea molto diversa dei rapporti tra individuo e comunità. Tutte queste considerazioni portano a una grande incertezza circa il futuro: non sappiamo cosa saremo tra vent’anni; per quel che ci riguarda direttamente, c’è addirittura qualche studio che dice che non resterà nulla dell’Italia così come l’abbiamo conosciuta. A proposito di carcere, che è l’argomento cardine di questo mio blog, di una cosa si può essere abbastanza certi: il sistema che tuttora caratterizza la gran parte degli istituti penitenziari, dove si sta 22 ore chiusi in cella con altre tre, quattro o talvolta anche più di dieci persone, sarà presto un brutto ricordo del passato. Non solo è disumano ma anche illogico e alla fine controproducente. Mi è sempre piaciuto il paragone, suggeritomi da uno studente detenuto nel corso dei miei lunghi e fruttuosi anni di insegnamento in carcere, del carcere come una lavatrice rotta, che tira fuori panni più sporchi di quelli che ci vengono inseriti. È assurdo spendere una cospicua quantità di risorse pubbliche per tener dentro individui che quando usciranno saranno peggiori di quando erano entrati; ancora più motivati e a volte quasi obbligati a commettere reati, che è esattamente quel che noi vorremmo scongiurare, contribuendo con le nostre imposte al mantenimento della pacifica convivenza. C’è un risvolto della medaglia: in seguito alla nefasta combinazione tra una crisi economica (e sociale) senza precedenti e un aumento dei flussi migratori (che vanno a inserirsi in un sistema della giustizia che fa acqua da tutte le parti), si fa sempre più urgente tra i cittadini un bisogno di sicurezza contro il dilagare della criminalità. Al di là delle risposte semplicistiche sbandierate da chi si crogiola nella propaganda smaccatamente razzista (purtroppo sempre efficace), credo che l’unico modo di affrontare il problema sia quello di riconfermare il valore della legalità e assicurare pienamente la certezza della pena. Il che va inteso non nel senso di "gettare la chiave", ma nella concreta attuazione della pena così com’è prevista dal nostro ordinamento: a partire dal principio costituzionale contenuto nell’art. 27 e dalla legge 354/75 dell’Ordinamento Penitenziario che a quel principio si informa. Tutto passa per il reinserimento del condannato, da ottenere con il trattamento e la progressiva concessione di misure alternative alla detenzione. È un’assurdità tenere una persona chiusa in una gabbia (che dovrebbe essere extrema ratio in casi di conclamata pericolosità sociale) fino al giorno prima del "fine pena"; per poi improvvisamente rimetterlo in libertà aspettandosi che, col marchio di pregiudicato che si porterà appresso, trovi un lavoro onesto e non cada nella recidiva. Il discorso della rieducazione del condannato, con tutti i dubbi del caso, va a incontrarsi con l’idea di education con cui in inglese si indica il servizio dell’istruzione. Ecco, è difficile immaginare un percorso di reinserimento sociale che non passi per scuola e lavoro in carcere, uniche due attività che possono offrire opportunità alternative alla devianza. E allora, tornando al paragone della lavatrice, noi operatori e insegnanti in carcere possiamo fare da detersivi e ammorbidenti. Ma non possiamo fare miracoli se la lavatrice (basandosi su un codice degli anni 30) è completamente rotta. Non sappiamo se basta una riparazione o va completamente sostituita. Non sappiamo neanche se è solo la lavatrice o tutta la stanza o l’intera casa da rifondare. Di certo, abbiamo urgente bisogno di una seria, organica riforma complessiva della giustizia. Giustizia: l'Anm "l'Appello non è tabù, necessaria la riforma". Ucpi "no all'eliminazione" di Dario Ferrara www.cassazione.net, 2 dicembre 2014 Il vice ministro della Giustizia Costa al convegno di Roma: "Sulle impugnazioni niente tagli lineari". Il presidente dei penalisti Migliucci: "Nelle indagini preliminari il 70% delle prescrizioni" Il processo d'appello "non è un istituto intoccabile, si può intervenire rendendo più specifici i motivi d'appello". Così il presidente dell'associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nel corso di un convegno promosso a Roma sul futuro del giudizio di secondo grado dall'Unione delle camere penali. Proprio il presidente dell'Ucpi Beniamino Migliucci s'incarica di replicare, dicendo no all'eliminazione: "L'appello non ha nulla a che vedere con la ragionevole durata del processo né con la prescrizione". Il vice ministro della Giustizia Enrico Costa interviene a rassicurare sulle intenzioni del Governo: "Non si può sottoporre il processo penale al taglio lineare delle impugnazioni, o di parte di esse, perché si colpirebbero le garanzie e i diritti". Ancora: "Su questo tema occorre procedere coi piedi di piombo", aggiunge il numero due di via Arenula. Motivi nel mirino Dopo il civile c'è dunque il penale, nei piani del Governo (cfr. in allegato la bozza di riforma sulle impugnazioni partorita dalla commissione presieduta da Giovanni Canzio, il presidente della Corte di appello di Milano). Anche per l'Anm in tema di appello non si deve pensare a una "eliminazione per garantire tempi brevi al processo". Piuttosto si deve intervenire "sui motivi d'appello" e "calare la riforma nell'equilibrio del sistema". Per il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, bisogna evitare "un approccio di tipo economicistico o aziendale, cioè che miri a produrre qualcosa". La prospettiva deve essere quella della "verifica e della delimitazione dei motivi d'appello". Garanzia imprescindibile A stretto giro la risposta dei penalisti, per bocca del presidente Migliucci: "Ciclicamente la questione dell'appello viene tirata fuori e si ritiene che una modalità per accorciare i tempi del processo sia quella di eliminarlo". Ma attenzione: la prescrizione "matura perché ci sono troppi processi", osserva il leader Ucpi, sollecitando un dibattito sull'obbligatorietà dell'azione penale. "Il 70 per cento delle prescrizioni matura in fase di indagini preliminari: se il tema che ci sta a cuore è la ragionevole durata dei processi, non c'entra nulla l'appello". Che invece è una "garanzia" e ne è un segnale il fatto che "il 37 per cento delle sentenze di primo grado è riformato in appello. È irresponsabile pensare che tutto si fermi al primo grado". Dignità da tutelare Non ha dubbi il vice ministro Costa: "L'istituto dell'appello ha una sua dignità e va tutelato". E sono i numeri che lo dimostrano: "Nel 2011 - ricorda - il 37 per cento delle sentenze di appello ha riformato quelle emesse in primo grado Nel 2012 questa percentuale è stata del 36 pe r cento" Dunque ? "È evidente che attiene all'esercizio del "controllo" e del "sindacato". Indebolendoli, si mette a rischio l'intero impianto di diritti e garanzie che non devono essere sacrificati in alcun modo nel percorso di riforma del sistema giustizia". Vizio d'origine "Il buco nero o l'imbuto dei processi non è l'appello ma sono le indagini preliminari", attacca Migliucci. E quanti rischi si annidano in questa fase nel sensazionalismo di certi media. "C'è uno scarto - ammette il presidente della Corte d'Appello di Milano Giovanni Canzio - tra i tempi delle indagini preliminari e il processo mediatico che si innesta sopra, e i tempi del processo penale. Ci siamo sempre battuti perché la magistratura rimanga unita. Ma quel vizio d'origine dello scarto tra processo mediatico e processo penale apre a un dialogo tra pm, stampa e opinione pubblica, tra pm e gente che pone un quesito di fondo ai magistrati: il pm deve chiedersi se intende aprire un dialogo con i soggetti del processo o piuttosto con i media, con la gente". E in questo secondo caso "c'è il rischio di un populismo giudiziario". Rischio-prescrizione Dopo l'estinzione del disastro ambientale dichiarata dalla Cassazione nel caso Eternit, c'è registrare l'accelerazione del Governo sulla riforma, annunciata dal ministro Andrea Orlando. Il numero due Costa fornisce alcuni dati inediti relativi all'anno 2013: "Sono state 123.078 le prescrizioni - racconta - 10mila in più rispetto alle 113.057 del 2012. Anche nel 2013, la maggioranza delle prescrizioni è sopraggiunta durante le indagini preliminari. Sono stati infatti 72.110 i decreti di archiviazione del Gip. Di contro, sono 20.685 le sentenze dichiaranti l'avvenuta prescrizione del Tribunale ordinario, 21.521 quelle della Corte d'appello". Non resta che attendere il dibattito parlamentare. Il presidente dell'Anm Sabelli, esprime "solidarietà" ai magistrati destinatari di minacce e al guardasigilli Orlando, al quale è stata indirizzata una lettera intimidatoria. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, il rischio del conformismo di Francesco Cananzi Il Mattino, 2 dicembre 2014 Il 10 novembre scorso il ministro Andrea Orlando, intervenuto nel corso del Plenum del Csm, a proposito della riforma della responsabilità civile dei magistrati ha dichiarato di voler evitare il pericolo del conformismo giudiziario. Aggiungeva: "Abbiamo detto no alla responsabilità diretta, ora bisogna evitare che forme di responsabilità diretta escano dalla porta e rientrino dalla finestra". Non vi è dubbio - occorre dare merito al ministro - che aver evitato la responsabilità diretta dei magistrati sia un risultato significativo per la democrazia, come per altro l'Europa stessa ritiene. Non è altrettanto in dubbio, però, che la riforma della responsabilità civile dei magistrati, come licenziata dal Senato, a seguito degli emendamenti di iniziativa parlamentare approvati dopo l'intervento del ministro al Csm, incentivi proprio il conformismo giudiziario. La riforma parte da una opportuna premessa: l'intenzione di salvaguardare l'attività di interpretazione di norme di diritto, di valutazione del fatto e della prova, fissando il principio che da tali attività mai possa derivare alcuna responsabilità civile per il magistrato. Il testo ora licenziato dal Senato, però, contraddice immediatamente quella premessa, ampliando significativamente il catalogo delle ipotesi di colpa grave. Ai casi di colpa grave per errore percettivo, allorché il giudice afferma l'esistenza di un fatto che è incontrastabilmente escluso dagli atti o viceversa, si aggiungono ora il travisamento del fatto e delle prove. Era fondato il timore del Ministro Orlando, rientra dalla finestra ciò che si è fatto uscire dalla porta: il travisamento del fatto e delle prove è errore valutativo e, dunque, attiene all'attività di interpretazione, che si voleva rendere intangibile. Il pericolo del conformismo si riaffaccia: eliminato il cosiddetto filtro di ammissibilità per valutare la fondatezza del giudizio, assisteremo ad un profluvio di azioni giudiziarie, inevitabilmente condizionanti l'attività del magistrato; ampliate le ipotesi di colpa grave, verrà invaso dal giudizio di responsabilità civile anche l'ambito proprio dell'interpretazione. Con una riforma così delineata, forte e concreto sarebbe il condizionamento della giurisdizione, resa così nei fatti meno autonoma ed indipendente. L'interpretazione è l'in-sé della giurisdizione: il giudice, che applica la norma al caso concreto, si trova spesso a confrontarsi con una realtà che è molto più veloce del legislatore e, per questo, l'ordinamento gli assegna il compito di interpretare la legge, al fine di dare una risposta adeguata alle attese di giustizia dei cittadini. La storia repubblicana ci insegna come la giurisdizione, anche grazie alle sollecitazioni dell'avvocatura, abbia spesso saputo rispondere a quelle attese, alle novità offerte dallo sviluppo sociale ed economico, proprio con l'interpretazione corretta delle norme, facendo buon governo dei valori della Costituzione: ad esempio riconoscendo fin dalla fine degli anni 60 l'esistenza della cosiddetta famiglia di fatto e dei diritti e doveri conseguenti, ovvero decidendo di complesse questioni relative all'evoluzione delle pratiche commerciali, non ancora colte dal legislatore; infine, tutelando diritti di soggetti deboli, non garantiti da esplicite previsioni legislative. Un contributo al progresso del Paese, che i Costituenti vollero richiedere ai magistrati quando li hanno sottoposti solo alla legge. L'alternativa è il conformismo giudiziario, cioè una risposta burocratica alle attese di giustizia. Spetterà alla Camera dei Deputati far sì che il detto "chi sbaglia paga", così spesso invocato a proposito di responsabilità dei magistrati, non voglia dire che a pagare siano i cittadini, trovandosi di fronte un giudice che, per non sbagliare, preferisca non dare risposte di giustizia sostanziali ad attese reali. La strada da percorrere è quella di escludere la responsabilità da travisamento, che incide sull'interpretazione, anche solo espungendola dalle ipotesi di rivalsa dello Stato verso il magistrato. Ciò consentirebbe di non condurre la magistratura al conformismo giudiziario e, al tempo stesso, di risarcire i cittadini quando effettivamente danneggiati. A questo punto, quanto è rientrato dalla finestra dovrà poter riuscire dalla porta. Giustizia: riforma, archiviazione per tenuità fatto applicabile a reati punibili fino a 5 anni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2014 La nuova ipotesi che il Governo si appresta a varare all'esito del Consiglio dei ministri di oggi (per inviare poi il testo in Parlamento) ha confini estremamente ampi. Il limite di pena per l'intervento è infatti stato fissato, quanto a detenzione a 5 anni, sola o accompagnata da sanzione pecuniaria; comprese ovviamente anche le condotte sanzionate con l'unica pena pecuniaria. In via astratta così, l'ambito di applicazione dell'istituto è di largo respiro, potenzialmente coprendo l'intera area delle contravvenzioni codicistiche (dal momento che l'articolo 25 del Codice penale nel definire la pena dell'arresto, tipica delle contravvenzioni, prevede che la stessa si estende da cinque giorni, limite edittale minimo, a tre anni, limite edittale massimo) e parte consistente dei delitti puniti con la pena della reclusione non superiore a cinque anni. Per esempio, è astrattamente applicabile ad alcuni delitti contro la libertà morale (violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, minaccia aggravata) a taluni delitti contro l'inviolabilità del domicilio, a numerosi reati contro il patrimonio (furto semplice, danneggiamento, truffa, appropriazione indebita). Il decreto prova a bilanciare l'interesse dello Stato a espellere dall'area della punibilità fatti che non ne sono meritevoli, con quello dell'indagato a ottenere un'assoluzione piena e soprattutto della persona offesa a contestare la limitata portata offensiva del fatto. Così, nella fase in cui il legislatore si augura il maggior numero di archiviazioni, quella delle indagini preliminari, tocca al Pm, intenzionato a mettere in evidenza la causa di non punibilità, darne avviso alle due figura maggiormente interessate. Entro 10 giorni deve essere presentata opposizione e il Gip, se l'opposizione non è inammissibile, procede con ordinanza, dopo avere sentite le parti; se invece l'opposizione è assente o inammissibile, il Gip procede senza formalità decidendo, in caso di accoglimento, per decreto. Nel caso la richiesta di archiviazione sia respinta è prevista la restituzione degli atti al pubblico ministero. Va sottolineato però che l'archiviazione potrà essere disposta anche successivamente, in ogni fase del procedimento penale. La legge delega era gia già assai precisa per quanto riguarda le condizioni cui subordinare l'archiviazione. Perciò , il primo comma del nuovo articolo 131 bis del Codice penale fonda il giudizio di "particolare tenuità del fatto" su due indici-criteri, che sono la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento. Il primo si articola a sua volta, nello schema di decreto, in due ulteriori indici-requisiti, costituiti dalle "modalità della condotta" e dall'"esiguità del danno o del pericolo". Il giudizio favorevole all'archiviazione presuppone però un accertamento sull'esistenza del reato e sulla responsabilità ovvero sulla sua ascrivibilità all'indagato/imputato. In questo senso la pronuncia può assumere efficacia nell'arco del procedimento civile instaurato per il risarcimento del danno. Come pure il verdetto è destinato a trovare traccia anche in una specifica sezione del casellario. Al Consiglio dei ministri potrebbe anche approdare, per un primo giro, una riflessione sulla prescrizione che, già oggetto di parte di un disegno di legge approvato il 29 agosto dal Governo, ne verrebbe stralciata per essere traghettata immediatamente in Parlamento. Prescrizione di cui sono stati resi i noti, sulla base della statistiche della Giustizia. Sono così oltre un milione e mezzo i processi andati in fumo negli ultimi 10 anni. La Direzione generale statistiche del ministero della Giustizia, tra il 2004 e il 2013, ha censito 1.552.435 procedimenti penali chiusi da una prescrizione. I dati indicano che la quota maggiore di prescrizioni si determina quando il processo è ancora in fase di indagini preliminari. Nell'ultimo decennio sono stati infatti 1.134.259, quindi il 73% sul totale, i decreti di archiviazione per prescrizione emessi dai Gip. Giustizia: nessuna pena per i reati minori, ma salta l’intesa sulla prescrizione di Dino Martirano Corriere della Sera, 2 dicembre 2014 Dopo una pausa di 90 giorni (tanti ne sono passati dalla seduta del 29 agosto in cui fu varata la riforma della giustizia in 12 punti), il Consiglio dei ministri è tornato ad occuparsi a tarda sera di prescrizione e di intercettazioni (tutto rinviato per mancato accordo) e di processo civile (rimandato anche questo tema). È passato invece lo schema di decreto delegato per la non punibilità dei reati bagatellari (pena inferiore ai 5 anni) qualora il danno arrecato sia tenue e il comportamento non seriale. Approvato anche il testo sulla nuova disciplina delle rogatorie e sulla collaborazione giudiziaria tra Stati. Infine il governo ha dato il via libera all’agenda per la semplificazione della Pubblica amministrazione 2015-2017, un pacchetto in 38 punti per semplificare il rapporto tra cittadino e burocrazia. Infine è stato nominato il nuovo capo del Dap: è il magistrato Santi Consolo. Il "pacchetto Giustizia" è entrato a Palazzo Chigi alle 21.45 e la discussione è stata molto articolata tra i ministri del Pd e quelli del Ncd. Alla richiesta del Guardasigilli Andrea Orlando di andare avanti senza indugi sulla riforma della prescrizione - con stralcio della proposta governativa da consegnare alla commissione Giustizia della Camera dove il tema è all’ordine del giorno già questa settimana - si è opposta la controspinta netta del ministro Angelino Alfano che ha chiesto di procedere di pari passo con le intercettazioni (limiti alla pubblicazione delle conversazioni), con la nuova udienza preliminare e con il sistema delle impugnazioni più snello. In altre parole, il Nuovo centrodestra cd ha formalizzato il suo veto su fughe in avanti che comportino l’anticipo del tema prescrizione su altre parti del pacchetto varato, "salvo intese", ad agosto. Inoltre, il Ncd ha chiesto che la nuova prescrizione (meno vantaggiosa per l’imputato che spera sempre nei tempi lunghi del processo) vada comunque intesa come norma di diritto sostanziale che vale (principio del favor rei) per il futuro e non per il passato. Dunque, nulla di fatto su questo tema. Meno aspra la discussione sulla "non punibilità" dei fatti di lieve entità" che non verrebbero più punti per dare respiro alla macchina ingolfata del processo penale. Il decreto delegato che recepisce le proposte della commissione ministeriale presieduta dal professor Francesco Palazzo inaugura una nuova era per i cosiddetti "reati minori": sentito il pubblico ministero e la parte offesa, "non sono punibili le condotte sanzionate solo con la pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a 5 anni". Furto semplice, danneggiamento, truffa, appropriazione indebita, interruzione di pubblico servizio, minaccia aggravata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato e altri reati bagatellari verrebbero archiviati. Ma chi li compie non deve essere "fuorilegge seriale" e non deve essersi macchiato di altri episodi criminosi. Il nuovo articolo 131 del Codice penale stabilisce che la non punibilità riguarda solo i casi in cui il danno o il pericolo provocato sia esiguo. Il giudice prima di emettere una sentenza di proscioglimento "per tenuità del fatto" deve sentire anche la persona offesa, consentendo così a chi ha subito il danno di interloquire sulla "tenuità". La maggioranza, intanto, ha sbloccato con la legge di Stabilità 50 milioni di euro per il servizio civile. Giustizia: i veri numeri della prescrizione, 3 volte su 4 scatta prima che il processo inizi di Valter Vecellio Il Garantista, 2 dicembre 2014 Tra il 2004 e il 2013 sono diventati carta straccia 1.552.435 procedimenti penali. Ecco: i fieri avversari di una amnistia, regolata e mirata su specifiche tipologie di reato, hanno di fronte a loro questa realtà: un’amnistia "clandestina". La maggior parte delle prescrizioni non è imputabile a diavolerie della difesa: ben 1.134.259 procedimenti (il 73 per cento) sono andati prescritti quando il processo era alle indagini preliminari. In dieci anni oltre un milione e mezzo di processi andati in fumo per prescrizione. Una cifra enorme, che emerge dalle tabelle messe a punto dalla Direzione Generale Statistiche del ministero della Giustizia. Per l’esattezza, tra il 2004 e il 2013 sono diventati carta straccia ben 1.552.435 procedimenti penali. Ecco: i fieri avversari di una amnistia, regolata e mirata su specifiche tipologie di reato, hanno di fronte a loro questa realtà: un’amnistia incontrollata, quotidiana, "clandestina"; eppure tacciono, questa realtà non fa scaldalo, non è oggetto di dibattito, confronto, non è neppure "notizia" che meriti di essere conosciuta. Il dato, di per se significativo, lo diventa ancora di più se si considera che la maggior parte delle prescrizioni non è imputabile a diavolerie escogitate dalla difesa degli imputati: ben 1.134.259 procedimenti (il 73 per cento) sono andati prescritti quando il processo è ancora incardinato nella fase delle indagini preliminari; i decreti di archiviazione sono emessi dal Giudice per le indagini preliminari. Altri 63.829 procedimenti vanno a farsi benedire su sentenza del giudice per l’udienza preliminare. Solo 209.576 procedimenti sono prescritti quando si svolgono in primo grado; altri 131.856 in fase d’Appello; 3.293 in Cassazione; 9.559 dinanzi i giudici di pace. Che il 73 per cento delle prescrizioni abbia luogo durante la fase delle indagini preliminari la dice lunga, e dovrebbe far riflettere quanti si stracciano le vesti invocando l’allungamento dei termini, puntando il loro indice accusatorio agli imputati e alle loro difese. Non solo. Per arrivare a una sentenza definitiva in Cassazione occorrono otto anni; in Spagna e Francia poco più di due. C’è poi la beffa: l’Italia è tra i paesi in cui si paga di più per una causa. Poco meno di otto anni è la durata media di un processo civile. Dai dati raccolti dall’Ocse si ricava che occorrono 2.866 giorni per arrivare al giudizio finale, passando tra primo grado, Appello e Cassazione. La Banca Mondiale conferma: peggio dell’Italia fa solo la Slovenia. Nel momento in cui a un italiano arriva la sentenza di primo grado, a un francese basta aspettare due mesi in più per l’appello. Cinque mesi dopo uno spagnolo arriva alla fine con la sentenza di Cassazione. All’italiano tocca aspettare ancora altri cinque anni e mezzo. Processi lunghissimi fanno male a famiglie e imprese, e non soltanto per l’incertezza che creano. Vale davvero la pena fare causa quando la risposta arriva così tardi? Ma il problema è anche più semplice, tanto da produrre un’altra conseguenza indesiderata che si misura in euro. Secondo i calcoli dell’Ocse l’Italia è fra i paesi in cui portare avanti un processo costa di più. La lentezza della giustizia sottrae agli imprenditori circa 2,2 miliardi di euro di risorse. Il danno per le casse dello Stato a causa del mancato rispetto dei tempi ragionevoli del processo (Legge Pinto) è passato dagli 81 milioni di euro del 2008 agli oltre 300 milioni del 2010. Eppure l’Italia, rispetto al proprio Pil, devolve ai tribunali più o meno quanto Slovacchia, Repubblica Ceca e Svizzera: circa 300 milioni di euro l’anno. Lì, però, i processi civili durano rispettivamente quattro, cinque e otto volte meno. La rapidità della Svizzera nel risolvere le controversie legali equivale a quella del Giappone che fra i paesi analizzati dall’Ocse è quello che spende meno. L’Ocse, a proposito dei sistemi giudiziari sottolinea un fattore trascurato ma rilevante: la spesa per l’informatizzazione della giustizia tende ad accorciare la vita dei processi rendendo anche più produttivi i giudici. L’Ocse suggerisce l’utilizzo di strumenti quali moduli digitali, portali web, registri informatici per la gestione elettronica e la consultazione dei fascicoli giudiziari; e qui si registra un grave ritardo: soltanto l’1,9 per cento del budget pubblico finisce in questo tipo di investimento, mentre dove i processi durano meno (come in Danimarca) arriva anche al quadruplo. Anche se non ci si fa quasi più caso, e a occuparsene sono i soliti Marco Pannella, Rita Bernardini e i radicali, nelle galere italiane si continua a morire. Il sistema penitenziario è di nuovo in allarme per l’alto tasso dei decessi e a preoccupare è in particolare l’aumento dei suicidi. "Se nel 2013 erano scesi al 30 per cento del totale delle cause di morte fra i detenuti, la previsione per il 2014 è di un ritorno al dato storico del 40 per cento: due decessi su cinque in carcere avvengono per suicidio", è la valutazione del presidente della Società italiana di psichiatria Emilio Sacchetti. Disturbi dell’umore, d’ansia, psicotici e di personalità sono i problemi di salute mentale più frequenti tra i circa 60 mila ospiti degli istituti penitenziari della Penisola. Malattie che il più delle volte non nascono in carcere, precisano gli esperti, ma che in carcere possono acutizzarsi e peggiorare soprattutto a causa della difficoltà di screening diagnostici e assistenza mirata. Dal 2000 a oggi nelle carceri italiane si sono contati 2.363 decessi, tra cui ben 841 suicidi. Oltre agli psichiatri, a dare l’allarme sono anche diversi garanti dei detenuti. Dopo il suicidio di un detenuto campano che si è impiccato nel bagno della sua cella a Fossombrone, il Garante dei diritti dei detenuti delle Marche Italo Tanoni ha scritto al ministro della Giustizia Orlando perché assuma "tutti i provvedimenti necessari per porre fine a una situazione di degrado che appartiene non solo al carcere di Fossombrone, ma anche ad altre realtà delle Marche". Le morti sono più frequenti tra i carcerati in attesa di giudizio, rispetto ai condannati, in rapporto di circa 60/40: mediamente, ogni anno in carcere muoiono 90 persone ancora da giudicare con sentenza definitiva; le statistiche degli ultimi 20 anni ci dicono che 4 su 10 sarebbero stati destinati a una assoluzione, se fossero sopravvissuti. In definitiva, ogni anno 30-35 dei morti in carcere erano probabilmente innocenti. A questi vanno aggiunti i condannati che avrebbero potuto essere in misura alternativa. Ci sono numerosi casi di persone che in carcere non ci dovevano essere: malati terminali, paraplegici, accusati del furto di una bicicletta, di resistenza a pubblico ufficiale, immigrati "catturati" in Questura dove erano andati a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, tossicodipendenti in preda alla disperazione. Ne vogliamo, finalmente parlare, essere messi a conoscenza, consentire dibattito e confronto? (L’interrogativo, ovviamente, non riguarda questo giornale, che è tra i pochi a parlarne: riguarda però tutti gli altri, finora in tutt’altre faccende affaccendati). Giustizia: ministro Interno Alfano; nuova legge generale per certezza pena, obiettivo 2015 Adnkronos, 2 dicembre 2014 "L'obiettivo che io ho per il 2015 è una legge generale per la certezza della pena, chi viene condannato deve scontarla in carcere fino alla fine". A Repubblica tv il ministro dell'Interno Angelino Alfano risponde anche ad alcune domande sulle carceri. "La mia idea è che di fronte al sovraffollamento carcerario non si risponda mandando i delinquenti in strada ma costruendo nuove strutture. Da ministro della Giustizia avevo lanciato un piano carceri che doveva prevedere la costruzione di nuovi padiglioni e di alcune nuove strutture. La mia idea non cambia", spiega il ministro che ha in mente per il 2015 una nuova legge generale per la certezza della pena che preveda la costruzione di nuovi padiglioni: "Chi viene condannato sconta la pena fino alle fine. Questo l'obiettivo". Lettere: voci dal carcere "i detenuti, il lavoro e l’arte di arrangiarsi" Corriere della Sera, 2 dicembre 2014 Imparare l’arte di arrangiarsi è, in carcere, un passaggio quasi obbligatorio per un detenuto. La vita all’interno del carcere può essere un percorso pieno di insidie, quindi il detenuto deve cercare di sopravvivere, imparando così "l’arte di arrangiarsi". Tutto ciò che sembra facile all’esterno, qui diventa molto più difficile: anche il semplice inoltro di una "domandina", deve seguire un iter ben preciso e complicato. Teniamo conto che molti detenuti sono di nazionalità straniera e di conseguenza, anche solo leggere le regole, spesso riesce difficile. Tralasciamo però la vita normale, parliamo di come un detenuto affronta la propria carcerazione: nello specifico di tutti i passaggi che deve affrontare per il suo reintegro nella società. All’arrivo di solito il detenuto è ancora classificato come imputato, cioè persona in attesa di processo e, purtroppo, i tempi di attesa sono sempre particolarmente lunghi, causa la lentezza della giustizia italiana. Dopo di che passerà allo stato di appellante, rimanendo così in attesa di altro giudizio, ed in fine diventerà definitivo, con una pena precisa da scontare. Questo iter, generalmente, richiede la media di 2/3 anni. Finalmente raggiunto lo stato di definitivo, il detenuto può cominciare a pensare alla propria reintegrazione nella società, seguendo un percorso non facile ma che lo potrebbe portare ad una condizione migliore: quella di una semilibertà con un lavoro all’esterno. Certo, tutto dipende dalla volontà del detenuto: una volontà messa a dura prova dalle tempistiche necessarie per raggiungere il risultato tanto ambito. Le vie da percorrere sono piene di "insidie", una di queste è la sintesi personale che serve per stabilire se il comportamento del soggetto sia più o meno consono al reinserimento finale. Normalmente le valutazioni sono veritiere ma può accadere che alle volte siano minate dai precedenti che rischiano di incidere sul parere degli addetti ai lavori. Il detenuto, per ottenere un lavoro all’esterno (la puntata di Report del 30 novembre 2014 su detenuti e lavoro in cui si è parlato anche di Brescia è lì a dimostrarlo), non ha vita facile : in primis la burocrazia, seguita dalla stabilità caratteriale dello stesso ed infine dalla disponibilità del mondo esterno ad accoglierlo. È così che si affina l’arte di arrangiarsi. Poniamo ora la nostra attenzione sul mondo esterno, presupponendo che il detenuto sia veramente propenso al cambiamento e che abbia dimostrato tutta la sua buona volontà. Quanto la realtà quotidiana è realmente disposta ad a chi dimostra di essere cambiato? Nonostante le varie leggi che agevolano il reinserimento nel mondo del lavoro attuando sgravi fiscali ed agevolazioni per l’assunzione, il mondo di oggi non lascia molto spazio ad un ex - detenuto. Sarà per chi ci ha preceduto con percorsi che non sempre sono andati a buon fine, anche se i dati confermano il contrario, cioè che solo il 12-19% dei liberanti che lavora torna a delinquere (Ministero della Giustizia - Pena e Territorio Report 2013) , vengono però ricordati più facilmente quei pochi che lo fanno. Perché la notizia del fallimento attira i media molto più che far sapere al mondo che la gente spesso cambia in meglio, lasciando così un tradimento delle aspettative e brutti ricordi difficili da cancellare. Sarà per il fantasma di un passato poco chiaro ma un ex-detenuto non ha vita facile. Anche se si accettano occupazioni in condizione di volontariato o poco remunerate, chi lo fa alle volte ha scopi poco chiari o la cattiva abitudine di promettere e poi non mantenere. Le responsabilità forse sono troppe, non è facile fidarsi di chi non si conosce ma, d’altra parte, com’è possibile conoscere chi non si ha mai avuto possibilità di incontrare? Si, perché per trovare un lavoro ci si deve prevalentemente affidare ad assistenti sociali e cooperative che in realtà non ci conoscono a fondo, per non parlare del datore di lavoro che, nella maggior parte dei casi, non ci incontra nemmeno di persona. "Dulcis in fundo" la crisi che sta attraversando il nostro Paese, una piaga che ormai ci affligge da alcuni anni, dà una mano a rallentare il processo di reintegrazione. Già non c’è lavoro per i giovani o per chi lo perde, figuriamoci per un ex-detenuto magari avanti con gli anni e senza una qualificazione specifica. Si dovrebbe fare di più o fare meglio, si dovrebbe prendere in considerazione il fatto che dopo un buon lavoro svolto all’interno del carcere, con la collaborazione delle istituzioni responsabili che svolgono, secondo me, nella maggior parte dei casi un buon lavoro in rapporto al materiale e alle risorse a disposizione, il detenuto è pronto ad uscire. Si potrebbe valutare magari un periodo stabilito di prova durante il quale la persona deve provvedere a trovare un lavoro e a stabilirsi così in un contesto normale in autonomia. Rendendo la persona consapevole delle proprie capacità non si fa altro che alimentare la sua voglia di cambiamento. Facilitiamo la creazione di posti di lavoro o realtà disposte a dare al detenuto la possibilità di proseguire il percorso iniziato in carcere, cerchiamo di non deludere le aspettative del detenuto e dell’opinione pubblica. Un detenuto, un volta uscito dal carcere, prova a mantenere la linea impostata nel suo percorso, non si arrende alle prime difficoltà, non molla, resiste come è abituato a fare, come ha dovuto imparare a fare nella vita reclusa in carcere. Ma se troppe volte non trova risposta, se continua a sbattere contro pareti di gomma che lo respingono indietro continuamente, deve piegarsi ai casi della vita e rispolverare quell’arte di arrangiarsi imparata per la strada, un’arte che purtroppo ha due facce, una delle quali piace a pochi o meglio a nessuno. Lettera firmata Toscana: progetto "Tra le righe", i libri entrano in carcere nelle dieci lingue più diffuse www.intoscana.it, 2 dicembre 2014 Si chiama "Tra le righe". È un progetto per aumentare la dotazione di libri nelle carceri toscane e oggi la Giunta Regionale lo ha approvato destinandovi 86 mila euro che serviranno per due obiettivi: 45 mila per costituire "micro-dotazioni librarie" di testi stranieri nelle dieci lingue più parlate all'interno delle carceri toscane; i restanti 41 mila per acquistare libri di testo da concedere ai detenuti che frequentano, in carcere, percorsi di istruzione primaria e secondaria. "La delibera - sottolinea Emmanuele Bobbio, assessore toscano all'Istruzione - può essere letta anche con riferimento alla inchiesta che Report ha trasmesso ieri sera sulle nuove strade da percorrere per favorire percorsi lavorativi di detenuti oggi troppo spesso costretti a una sconfortante inattività: anche nelle carceri sono fondamentali azioni congiunte fra istruzione, formazione, orientamento e lavoro; nelle carceri, in particolare, lo sono in modo da contribuire a rendere effettiva la funzione rieducativa che la nostra Costituzione attribuisce alla pena". Sono 25, nei 18 istituti penitenziari toscani, le biblioteche: dai 66.348 titoli presenti si è passati ai 75.605 di quest'anno ma con una lacuna significativa. A fronte di una popolazione straniera che ha raggiunto una media del 47,76% (1.610 detenuti presenti su 3.371 al 31 luglio scorso) e che riguarda 80 nazionalità con un ampio ventaglio linguistico, i testi in lingua straniera sono, infatti, soltanto poche centinaia. Ecco dunque il senso della delibera: acquistare testi (narrativa contemporanea e saggistica) nelle 10 lingue più diffuse (arabo, albanese, rumeno, serbo, russo, spagnolo, cinese, portoghese, francese, inglese) in base alla concreta consulenza dei docenti impegnati nei corsi di formazione realizzati dentro le carceri. La delibera prevede, inoltre, di acquistare doti librarie pro-capite per ciascun detenuto iscritto ai corsi di istruzione primaria e secondaria (di primo e secondo grado): stabilito un budget (4 mila euro) per ciascuno dei quattro istituti con il più alto numero di partecipazione ai corsi di istruzione secondaria superiore (Prato, San Gimignano, Porto Azzurro e Volterra) nonché un budget (3 mila euro) per altri 5 istituti (Sollicciano, Gozzini, Livorno, Massa e Pisa). Gli altri 10 mila (dei 41 mila euro stanziati per questa parte di progetto) sono ripartiti fra i singoli Istituti di pena per i corsi di istruzione primaria e secondaria di primo grado. "Tra le righe" attua un protocollo tematico già approvato a metà dello scorso aprile ed è firmato da Regione Toscana, Ufficio Scolastico Regionale del Miur e Provveditorato regionale dell'Amministrazione Penitenziaria per la Toscana. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; preoccupazione per incremento posti letto a Uta Ansa, 2 dicembre 2014 "Essere in condizioni di sovraffollamento ancor prima di essere inaugurato è il paradosso in cui rischia di trovarsi il Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta. L'intenzione dell'Amministrazione Penitenziaria di incrementare da subito il numero di detenuti per cella, che ha determinato lo stato di agitazione proclamato dai segretari regionali Pol-Pen di Uil, Sinappe e Cgil, appare come un'inequivocabile testimonianza della volontà di moltiplicare la presenza di persone private della libertà nell'isola e le relative servitù penitenziarie". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", precisando che "il programma del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, con la costruzione di quattro nuovo mega Istituti lontani dai centri urbani e con l'ampliamento delle relative aree territoriali, è stato chiaro fin dal primo momento giacché la capienza regolamentare è passata da 1.000 a circa 2.000 detenuti". "Ciò che sta a cuore al Dap - sottolinea Caligaris - non sembra il recupero delle persone che hanno commesso dei reati attraverso programmi riabilitativi affidati a specialisti e un ragionevole utilizzo delle risorse umane, quanto piuttosto la necessità di disporre di più ampi spazi detentivi per distribuire detenuti nel territorio della Sardegna scaricando sugli Agenti della Polizia Penitenziaria la responsabilità del controllo peraltro affidato prioritariamente a sistemi operativi telematici". "L'esempio di Oristano-Massama, dove il terzo letto è divenuto prassi, nonostante la presenza di ergastolani e detenuti sottoposti a regime di Alta Sicurezza, sta evidentemente convincendo il Dap che - evidenzia la presidente di Sdr - si tratta di una misura applicabile senza problemi trascurando gli indirizzi normativi volti a ridurre il numero dei privati della libertà attraverso le pene alternative". "Il passaggio epocale che ha portato alla chiusura dell'ottocentesco Istituto cagliaritano, malsano e sovraffollato, rischia insomma di trasformarsi in un serio problema. Alle questioni ancora irrisolte sul piano della salubrità della zona industriale in cui è ubicata la mega struttura, sotto il profilo dei lavori in corso per completare il Padiglione del 41bis, sul fronte delle oggettive difficoltà a raggiungere il sito per i familiari e con riferimento alle disfunzioni registratesi nell'area sanitaria non possono ora aggiungersi - conclude Caligaris - ulteriori complicazioni. Sarebbe pertanto opportuno fermare un momento la macchina e procedere con la necessaria lungimiranza. Con la fretta è noto che non si risolvono i problemi. Livorno: il Garante; preoccupazione per nuovo padiglione Alta Sicurezza alle Sughere www.gonews.it, 2 dicembre 2014 "Da recentissime comunicazioni intercorse con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria sembra che la destinazione del nuovo padiglione della Casa Circondariale delle Sughere di Livorno sia orientata verso l'ospitalità di detenuti ad alta sicurezza ed a elevato indice di vigilanza. Questa decisione, non ancora ufficializzata, smentisce e mortifica il lavoro intercorso in questi anni, affinché la Casa Circondariale di Livorno, con l'apertura del nuovo padiglione, potesse rinnovare una storia, dopo le criticità degli ultimi tempi". Lo ha detto il Garante dei Detenuti del Comune di Livorno, Marco Solimano, nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Municipale, alla quale hanno preso parte la vicesindaco Stella Sorgente, l'assessore al Sociale Ina Dhimgjini, il Garante dei Detenuti della Regione Toscana Franco Corleone, la presidente del Consiglio Comunale Giovanna Cepparello. Presenti anche i capigruppo consiliari Bastone (M5s),Raspanti (Buongiorno Livorno), Ruggeri (Pd) con il consigliere De Filicaja, Amato Nicosia (Forza Italia) e i rappresentanti di Arci Solidarietà e Cesdi. "Nel caso venisse confermata questa decisione - ha dichiarato ancora Solimano - non sarebbero quindi minimamente presi in considerazione i bisogni del territorio, della città e della sua ampia provincia. Tutto questo avviene senza che sia mai stato attivato dal Dap alcun livello di interlocuzione con la città e le sue istituzioni che in questi anni si sono impegnati su più fronti affinché la destinazione fosse esclusivamente quella della media sicurezza". Anche il Garante regionale Corleone si è detto "fortemente contrario a una decisione calata dall'alto senza confronto con la città e in aperto conflittualità con il principio della territorialità della pena". L'assessore Dhimgjini, che recentemente ha effettuato una visita al carcere insieme alla vicesindaco Sorgente, hai informato di avere scritto al Ministero di Grazie e Giustizia per evidenziare che "se venisse istituita la sezione femminile nel carcere di Livorno, questo rappresenterebbe un riavvicinamento delle detenute al territorio, appunto in aderenza al principio della territorialità della pena". La presidente del Consiglio Comunale Cepparello e i capigruppo si sono trovati d'accordo sull'idea di stilare in occasione della prossima seduta del Consiglio un documento per rivendicare un ruolo della città e delle sue istituzioni rispetto alla futura destinazione del carcere. Sanremo (Im): Uil-Pa; criticità intorno al muro di cinta del carcere di Valle Armea www.sanremonews.it, 2 dicembre 2014 Secondo il Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari, Fabio Pagani la situazione potrebbe migliorare se il direttore Frontirrè non dovesse occuparsi anche del carcere di Imperia oltre che a quello di Sanremo. "Continuano le difficoltà nella gestione del doppio incarico, ovvero, dirigere dei Carceri di Sanremo ed Imperia, da parte del Dott. Frontirrè. Topi, escrementi di piccioni e mancanza di igiene e salubrità, così si presente il camminamento del muro di cinta del carcere di Valle Armea". "Sul muro di cinta sono impiegate diverse Unità di Polizia Penitenziaria e non è possibile lavorare in questi ambienti insalubri e ridotti in queste pietose condizioni. Ci auguriamo che siano prese immediate soluzioni. Ovvero assegnare un direttore ad Imperia, permettendo al dott. Frontirrè di occuparsi esclusivamente di Sanremo. Non è stato in grado, da quel che ci risulta, neanche di garantire al personale di Polizia Penitenziaria le ferie natalizie. A Sanremo, la conta dei detenuti raggiunge a malapena le 200 presenze, numeri abbondantemente sostenibili dall'Istituto. Ci auguriamo - conclude il sindacalista della Uil - che l'Amministrazione possa trovare rapide soluzione in merito alla salubrità dei posti di lavoro e in questo caso rendere vivibile il muro di cinta di Valle Armea e avere un maggior controllo sui metodi di gestione del Dott. Frontirrè, considerato che al momento a pagare dazio resta solo la Polizia Penitenziaria". Viterbo: oggi Tavola rotonda sulla giustizia riparativa e la mediazione penale e sociale www.viterbonews24.it, 2 dicembre 2014 "Ufficio di Giustizia Riparativa e Mediazione penale e sociale della Provincia di Viterbo: risultati intermedi del nuovo servizio a favore della collettività". Questo il titolo del convegno che si terrà nella sala delle conferenze della Provincia di Viterbo il 2 dicembre a partire dalle 14,30 e che prevede anche la premiazione del concorso per le scuole "Un logo per medi@re". L'Ufficio di giustizia ripartiva è un servizio innovativo, fortemente voluto al fine di definire, programmare e realizzare efficaci politiche di promozione e sostegno alla comunità. Esso interviene nella gestione dei conflitti, sia che questi si realizzino nei rapporti di vicinato, nelle relazioni familiari, nell'integrazione interetnica, che nel contesto penale, tra autore e vittima di reato, favorendo la ricostruzione della relazione interpersonale e del legame sociale, e promovendo il dialogo e la comunicazione. L'obiettivo dell'Ufficio infatti è quello di dare risposte concrete al senso di insicurezza della collettività e contribuire all'innalzamento degli standard di coesione sociale attraverso la soluzione consensuale dei conflitti sia in fase prevenzione primaria che secondaria. Il programma della Tavola rotonda prevede: "Gli esperti e la comunità: percorsi di giustizia penale e mediazione sociale attuati e attuabili sul territorio. Quale futuro?" e la premiazione del Concorso per le scuole "Un logo per medi@re" rivolto a tre istituti superiori della città di Viterbo al fine di promuovere un percorso di sensibilizzazione sui temi della "mediazione" e di coinvolgere gli studenti nella creazione del futuro "logo" dell'Ufficio. Il percorso di nove incontri volti alla sensibilizzazione su "regole e mediazione", realizzato nelle scuole Paolo Savi, S. Rosa e Orioli, e il concorso "Un logo per medi@are" sono stati curati dalla dottoressa Viola Buzzi. Durante la premiazione saranno illustrati i risultati e i lavori dei ragazzi che hanno partecipato, alla presenza degli studenti, dei docenti referenti e dei Presidi dei relativi istituti. "Sarà un momento di confronto sui risultati intermedi - spiega l'assessore provinciale alle Politiche sociali, Andrea Danti - che lasciano emergere la necessità di un consolidamento del servizio svolto dall'Ufficio di giustizia riparativa e mediazione penale e sociale avviato grazie alla collaborazione tra Regione Lazio, l'amministrazione provinciale, l'osservatorio "Mediazione penale e giustizia riparativa" del Dipartimento dell'amministrazione Penitenziaria istituito dal settembre 2013 presso la Provincia di Viterbo. Una ottima intuizione che ha dato la possibilità di far nascere un soggetto molto utile, ma che, numeri alla mano, ha bisogno di essere consolidato. Vista la bontà del lavoro svolto, la nostra amministrazione fin quando avrà ancora le possibilità di operare sarà al fianco di questo Ufficio. Importante è stato anche il coinvolgimento dei ragazzi delle scuole che attraverso il loro operato hanno potuto dare una mano concreta alla diffusione di questo servizio senza dimenticare l'importante operato di sensibilizzazione fatto". La tavola rotonda sarà coordinata dalla Dottoressa Maria Pia Giuffrida - ex dirigente generale dell'amministrazione penitenziaria e presidente dell'Osservatorio nazionale sulla giustizia riparativa e la mediazione penale del Dap, le conclusioni affidate all' avvocato Marco Grazioli - avvocato del Foro di Roma - presidente Centro studi Epikeia. In programma gli interventi: dell'assessore Politiche sociali e Sport della Regione Lazio Rita Visini, Dottoressa Maria Claudia Di Paolo - provveditore amministrazione penitenziaria del Lazio, Carmela Cavallo - Tribunale per i minorenni di Roma, Giudice Maurizio Pacioni - presidente tribunale di Viterbo, On. Angiolo Marroni - Garante dei detenuti del Lazio, Dottoressa Albertina Carpitella - magistrato di sorveglianza di Viterbo, Dottoressa Teresa Mascolo - direttore Casa circondariale di Viterbo, Avvocato Alessandro Bruni - Concilia, conciliazione, mediazione, arbitrato, Avvocato Pasquale Lattari - coordinatore ufficio "In mediazione" di conciliazione e riparazione in ambito minorile della provincia di Latina, mediatore, responsabile scientifico Ente formazione mediatori, Andrea Danti - Assessore Servizi sociali della Provincia di Viterbo. La dottoressa Irene Mancini - responsabile dell'Ufficio giustizia Riparativa e mediazione penale e sociale relazionerà sui risultati raggiunti dall'ufficio. Roma: editoria e carcere nel progetto "Segnalibro", il 5 dicembre nel teatro di Rebibbia www.romatoday.it, 2 dicembre 2014 Verrà presentato il prossimo 5 dicembre, presso il Teatro del Carcere di Rebibbia, il progetto "Segnalibro", diretto da Fabio Cavalli e Laura Andreini Salerno, e realizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno con il sostegno della Fondazione Roma-Arte-Musei. L'iniziativa, il cui scopo sociale è quello di creare un collegamento stabile fra il mondo dell'editoria e il carcere, prevede l'offerta di un piano formativo pilota di alta specializzazione a venti detenuti del carcere romano di Rebibbia N.C. - laureati e laureandi - con l'obiettivo di realizzare eBook accessibili (formato L.I.A. per lettori non vedenti e ipovedenti) da immettere nella filiera commerciale. "Occorre sensibilizzare le Istituzioni pubbliche e private riguardo alla necessità di investire risorse ed intelligenze nell'offerta ai cittadini reclusi di un impiego professionale, sia durante la detenzione che dopo la liberazione", dichiara l'ideatore del progetto "Segnalibro", Fabio Cavalli. "È utile - prosegue Cavalli - garantire a loro ed alle loro famiglie la sicurezza di un lavoro dignitoso, ed alla società nel suo insieme la maggior garanzia di un abbattimento del tasso di recidiva criminale". "In Italia - conclude l'ideatore del progetto - sono centinaia i detenuti iscritti ai corsi universitari, oltre quaranta a Rebibbia N.C.. Su di loro le istituzioni fanno un investimento che può essere ripagato, inserendoli in processi produttivi qualificati. "Accademia" e "bottega" si possono integrare anche in carcere, e creare posti di lavoro, accettando la sfida di un mercato professionale in crescita come quello dell'editoria digitale". L'iniziativa "Segnalibro" viene realizzata in collaborazione con la Fondazione L.I.A. (Libri Italiani Accessibili) e con l'Associazione Italiana degli Editori (A.I.E.), in occasione della manifestazione "Più Libri più Liberi" (Fiera nazionale della piccola e media editoria). Gli obiettivi generali del progetto sono molteplici: sensibilizzare gli editori riguardo alla produzione di materiale editoriale relativo alle attività teatrali, agli studi e alla ricerca sui temi della giustizia e del reinserimento sociale dei detenuti; organizzare laboratori di reading e scrittura creativa in carcere che coinvolgano editori e scrittori di fama; promuovere la raccolta di libri universitari da fornire alla biblioteca del carcere e ai corsisti dei corsi di Laurea attivati all'interno della prigione. Mondo: pena di morte, esecuzione imminente per due malati mentali di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 2 dicembre 2014 Uno negli Stati Uniti, la cui pena capitale è fissata per il 3 dicembre. L’altro in Bielorussia, potrebbe essere messo a morte in qualsiasi momento. Entrambi soffrono di turbe psichiche, ma nemmeno questo ha impedito la condanna. La Comunità di Sant’Egidio si mobilita per evitare loro il patibolo. E chiede di sottoscrivere l’appello. Il 30 novembre, Giornata mondiale in ricordo della prima abolizione della pena di morte in uno Stato (il Granducato di Toscana nel 1786), duemila città del mondo hanno aderito all’iniziativa "Città per la vita" della Comunità di Sant’Egidio, illuminando un monumento contro il boia. Dal Colosseo di Roma al Cristo Redentore di Rio de Janeiro, da Lisbona a Betlemme, da Boston a Manila, da Hong Kong a tante capitali africane, in un’alleanza che ha unito amministrazioni locali e società civile. Ogni anno, il numero di adesioni cresce, così come avanza il cammino per cancellare la pena di morte dalla faccia della Terra. Lo scorso 21 novembre, la III Commissione delle Nazioni Unite ha votato una nuova risoluzione per una moratoria sulle esecuzioni con 114 voti a favore su 193, cioè quattro in più rispetto a quella del 2012. Del resto, quando nel 1945 venne fondata l’Onu, solo 8 degli allora 51 Stati membri avevano abolito la pena capitale dal proprio ordinamento, mentre ora il numero degli abolizionisti per tutti i reati è 95, che sale a 137 considerando i Paesi che l’hanno abolita nella prassi. Anche Papa Francesco è recentemente intervenuto per sostenere questo cammino verso la vita: "Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà", ha detto, "sono chiamati a lottare per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia". Proprio in questi giorni arriva dalla Comunità di Sant’Egidio un appello a mobilitarsi, sottoscrivendo e diffondendo la petizione, contro due omicidi di Stato. Per Scott Panetti, 56 anni, è già iniziato il conto alla rovescia che lo porterà, il 3 dicembre, al patibolo nel braccio della morte di Huntsville, in Texas. Lo Stato americano in testa per il numero di esecuzioni ucciderà per iniezione letale un malato di mente per un assassinio di 22 anni fa. Nel 1992, Scott Panetti si rade i capelli a zero, indossa una divisa militare ed esce di casa. Va nell’abitazione dei suoceri e li uccide per aver dato rifugio all’ex moglie e alla figlia di tre anni, che l’avevano lasciato per i suoi comportamenti violenti legati all’alcool. Poi si consegna alla polizia dicendo di aver agito sotto il controllo del "Sergente" e "le risate del demonio". Al processo, si presenta con un vestito viola da cowboy e rifiuta l’avvocato per difendersi da solo; chiama a deporre alcuni testimoni morti da anni, insieme al Papa, Gesù Cristo e John Fitzgerald Kennedy. Negli 11 anni precedenti l’omicidio, infatti, era già stato ricoverato 14 volte per problemi psichiatrici e aveva una diagnosi per schizofrenia. L’ex moglie stessa, scrisse alla Corte che Scott, nonostante gli avesse distrutto la vita, non doveva essere condannato a morte a causa delle sue condizioni mentali. Eppure, la scelta dei giudici fu per la pena capitale. Nel 2004, il giorno prima dall’esecuzione, l’iniezione venne bloccata, mentre nel 2007 la Corte Suprema concesse il riesame del caso. L’anno dopo, il verdetto fu però il ripristino della pena capitale perché, disse il giudice, "Panetti era malato di mente quando commise il crimine e lo è ancora adesso. Ma aveva chiaro il nesso tra il suo crimine, la sentenza prevista per quel crimine e il nesso causale retributivo tra il primo e la seconda". Tuttora, il dead man walking, "il morto che cammina" come chiamano negli Usa i detenuti nel braccio della morte, sente le voci ed è convinto che la direzione del carcere gli abbia impiantato un sistema d’intercettazione nei denti. Per l’annullamento della sua condanna, si sono appellati al Governatore Rick Perry psichiatri, ex togati, pubblici ministeri, l’Unione Europea, pastori evangelici e vescovi cattolici. Eppure, senza che il suo stato mentale fosse riesaminato, la scorsa settimana la Corte d’appello del Texas ha confermato l’omicidio di Stato per il 3 dicembre, con un voto di stretta misura dei giudici (5 a 4). Il New York Times ha scritto in un editoriale: "Una società civile non dovrebbe mettere a morte nessuno. Ma certamente non può pretendere di aderire ad alcuno standard morale accettabile di colpevolezza se uccide qualcuno come Scott Panetti". L’altro appello lanciato dalla Comunità di Sant’Egidio riguarda invece la Bielorussia del dittatore Lukashenko, l’unica nazione in Europa che continua a uccidere per legge e dove vige ancora il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, e le notizie filtrano dalle prigioni tramite i parenti dei giustiziati o le organizzazioni internazionali molto tempo dopo la morte del detenuto. Per questo si sa che è imminente, ma non se ne conosce la data, l’esecuzione di Eduard Lykov, 53 anni, un uomo con evidenti turbe mentali e da sempre dedito all’alcool, accusato di aver commesso cinque omicidi. Il suo processo ha suscitato dubbi, specialmente per i consigli dei suoi avvocati, che ad alcuni parvero più propensi ad accorciare i tempi del procedimento che a difendere seriamente l’imputato. Potrebbe essere ucciso in qualsiasi momento, senza preavviso. Il 30 novembre, per Eduard e gli altri detenuti nel braccio della morte, la Comunità di Sant’Egidio ha promosso una veglia di preghiera nella chiesa dei Santi Elena e Simone a Minsk, la capitale bielorussa. Stati Uniti: in Texas fra tre giorni un malato mentale verrà giustiziato di Stefano Pasta La Repubblica, 2 dicembre 2014 Nel mondo i Paesi abolizionisti sono la maggioranza, ma la pena di morte continua ad essere comunque una pratica diffusa. Nella Giornata internazionale contro le esecuzioni capitali, dalla Comunità di Sant’Egidio arriva l’appello per Scott Panetti, un uomo con evidenti e accertati scompensi psichici, per cui è stata fissata l’esecuzione per il 3 dicembre. La sua vicenda ha riacceso il dibattitto negli Stati Uniti. Duecentocinquanta anni fa, Cesare Beccaria consegnava alle stampe "Dei delitti e delle pene", in cui, applicando la fiducia nella ragione all’azione penale, definiva "assurda" la pena di morte, cioè quando le leggi "per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinano un pubblico assassinio". Per il giurista milanese, dichiararsi contro l’omicidio di Stato era combattere "per la causa dell’umanità". Ventidue anni dopo, il 30 novembre 1786, il Granducato di Toscana, primo al mondo, aboliva la pena di morte dalla propria legislazione. La maggioranza del mondo è abolizionista. Ora la situazione è ben diversa: il 21 novembre, alla Terza Commissione delle Nazioni Unite, 114 Stati, tre in più di due anni fa, hanno votato a favore dell’abolizione; i Paesi abolizionisti sono una netta minoranza rispetto ai mantenitori e oggi, Giornata mondiale contro la pena di morte, 2000 città di tutti i continenti illuminano uno dei propri monumento per dire che "non c’è giustizia senza vita". È l’iniziativa "Città per la vita" della Comunità di Sant’Egidio, che unisce Roma e il suo Colosseo con New York, Madrid con Città del Messico, Tokyo con Nairobi. L’esecuzione fissata per il 3 dicembre. Sempre da Sant’Egidio arriva l’invito a mobilitarsi per Scott Panetti, a cui restano tre giorni di vita e che è un simbolo dell’ingiustizia della pena capitale. È un malato di mente per cui è scattato il conto alla rovescia verso il patibolo. Il Texas, lo Stato americano in testa per il numero di esecuzioni, si prepara a metterlo a morte nel carcere di Huntsville il prossimo 3 dicembre, per iniezione letale. Quest’uomo di 56 anni è stato condannato perché 22 anni fa uccise con un fucile da caccia i suoceri in presenza dell’ex moglie. Ma sulla salute mentale di Panetti non ci sono dubbi: ha una diagnosi di schizofrenia e prima dell’omicidio era stato ricoverato 13 volte per disturbi psichiatrici. Al processo del 1995, chiese di potersi difendere da solo, presentandosi davanti ai giudici in abito viola da cowboy e chiedendo di chiamare a deporre, nell’ordine, il Papa, Gesù Cristo e John Kennedy. Ancora oggi, ripete che la sua condanna è il frutto di una "guerra spirituale" tra "i demoni e le forze delle tenebre da un lato, e dall’altro Dio, gli angeli e le forze della luce". La petizione al Governatore del Texas. Nel 2007, il giorno prima della data fissata per l’esecuzione, la Corte Suprema concesse un riesame del caso, senza però annullare la condanna a morte. La scorsa settimana, la Corte d’appello del Texas ha invece confermato l’omicidio di Stato, con un voto di stretta misura dei giudici (5 a 4). La Comunità di Sant’Egidio chiede di non arrendersi e invita tutti a sottoscrivere la petizione al governatore Rick Perry. In ogni caso, la vicenda di Scott Panetti e della sua malattia mentale ha riacceso il dibattito negli Usa, dove la pena di morte è legale in 32 Stati. Il New York Times, il 23 novembre scorso ha preso posizione con un editoriale dai toni decisi: "Una società civile non dovrebbe mettere a morte nessuno. Ma certamente non può pretendere di aderire ad alcuno standard morale accettabile di colpevolezza se uccide qualcuno come Scott Panetti". Una sentenza che divide. Per l’annullamento della sua condanna, si sono mossi psichiatri, ex togati, pubblici ministeri, pastori evangelici e vescovi. Anche l’Unione europea aveva scritto al governatore del Texas per chiedere clemenza perché "l’esecuzione di persone malate di mente è in contrasto con i criteri ampiamente riconosciuti dei diritti umani" secondo la normativa internazionale e la stessa Costituzione americana. Ma è bastato il documento di una pagina del giudice distrettuale per annullare la richiesta di una nuova perizia psichiatrica. In una delle motivazioni del dissenso alla sentenza della Corte d’Appello, la giudice Elsa Alcala, una dei 4 togati su 9 che ha votato contro la conferma della pena capitale, ha fatto mettere a verbale: "Consentirà l’esecuzione irreversibile e costituzionalmente non permissibile di una persona incapace di intendere e di volere". Haiti, 30 detenuti evadono da carcere a Saint Marc, fermato funzionario del penitenziario La Presse, 2 dicembre 2014 Ad Haiti circa 30 detenuti sono fuggiti da un carcere di Saint Marc, a nord della capitale. Lo hanno reso noto funzionari di polizia. I prigionieri sono riusciti a recidere le sbarre, a saltare in una vicina chiesa cattolica e a fuggire nella notte, secondo quanto ha riferito Charles Roubins, investigatore della polizia nazionale di Haiti. Le autorità stanno ancora cercando di determinare il numero di detenuti fuggiti. Nessuno è stato ricatturato. Un funzionario è stato fermato con il sospetto di aver favorito l’evasione, secondo quanto ha riferito Roubins. Saint Marc è una città portuale a circa 100 chilometri a nord della capitale. Svezia: carceri minorili, l'Onu bacchetta anche i primi della classe di Mattia Rosini www.west-info.eu, 2 dicembre 2014 Anche la Svezia non rispetta i diritti umani. Una recente sessione del Comitato Onu contro la tortura ha fortemente criticato Stoccolma per il trattamento riservato ai detenuti under-18. Spesso tenuti in isolamento tanto nelle guardiole delle stazioni di polizia quanto nei centri di detenzione, anche se sono in attesa di giudizio. Una pratica, sottolinea il report delle Nazioni Unite, che viola la Convenzione Onu sulla tortura. Che stabilisce che i minori di 18 anni non possono passare in isolamento più di 22 ore nell'arco di una giornata. I limitatissimi contatti con altre persone hanno gravi conseguenze sui ragazzi. Uno studio indipendente denuncia i frequenti casi di depressione, tentato suicidio e mancato reinserimento nella società per i giovani ex-detenuti che hanno passato troppo tempo in isolamento.