Giustizia: a Natale in prigione ci si impicca. In silenzio di Paolo Comi Il Garantista, 28 dicembre 2014 Uno stava dentro per detenzione di droga. L'altro in attesa di giudizio. Siamo a 43 detenuti suicidi dell'inizio dell'anno. Frega niente a nessuno? Il giorno di Natale, alle 7 di mattina, Cataldo Bruni, di 31 anni, si è impiccato con una corda rudimentale nel carcere di Trani (provincia di Bari). Stava scontando una condanna per detenzione di sostanze stupefacenti: sarebbe uscito, per fine pena, a febbraio. Cataldo non ce l'ha fatta ad arrivare a febbraio. Ha preferito pagare con la vita la sua colpa. Qual era la sua colpa? Fare uso di cannabis. Qualcuno risponderà per questa morte? Qualcuno sa di avercela sulla coscienza? Se il Parlamento avesse trovato nei mesi scorsi il coraggio di fare l'amnistia, e l'indulto, Cataldo sarebbe vivo. Ma il Parlamento questo coraggio non lo ha avuto e non lo ha. Nella notte tra il 25 e il 26 dicembre Massimiliano Alessandri, 44 anni, si è suicidato nel carcere Pagliarelli di Palermo, impiccandosi con un lenzuolo. L'uomo aveva origini fiorentine, lavorava a Palermo come giardiniere, ed era in attesa di appello dopo una condanna in primo grado. Per la Costituzione era innocente. Qualcuno risponderà per questa morte? Qualcuno sa di avercela sulla coscienza? Se il Parlamento avesse trovato nei mesi scorsi il coraggio di fare l'amnistia, e l'indulto, o di riformare la carcerazione preventiva, in modo da impedire gli arresti e le detenzioni in attesa di giudizio, immotivate e illegali, Massimiliano sarebbe vivo. Ma il Parlamento questo coraggio non lo ha avuto e non lo ha. In 5 anni (2009-2014) ben 19 detenuti si sono tolti la vita nel periodo delle festività natalizie tra il giorno della vigilia di Natale e il giorno dell'Epifania. Con una frequenza doppia rispetto al resto dell'anno. I motivi vanno ricercati nell'accentuato senso di solitudine per la lontananza dalle famiglie (vedi "Natale Senza", il dossier compilato da "Ristretti Orizzonti" e che abbiamo pubblicato nell'edizione di ieri del "Garantista"), nella assenza di proposte "trattamentali" (con la sospensione dei corsi scolastici e delle attività lavorative) e nella riduzione, causa ferie, di un personale già sotto-organico durante il resto dell'anno (gli agenti di Polizia penitenziaria salvano la vita a centinaia di detenuti ogni anno, spesso togliendo loro letteralmente la corda dal collo). Qualcuno risponderà per queste morti? Qualcuno sa di avercele sulla coscienza? Da inizio anno salgono a 43 i detenuti che si sono tolti la vita: avevano un'età media di 40 anni, 37 sono italiani e 6 sono stranieri, 2 le donne. 37 detenuti si sono impiccati, 5 si sono asfissiati con il gas del fornelletto da camping in uso nelle celle, 1 si è dissanguato tagliandosi la carotide con una lametta da barba. Le carceri nelle quali si sono registrate più vittime sono Napoli Poggioreale (4) e Padova Casa di Reclusione (3). Questi dati sono forniti dall'Osservatorio permanente sulle morti in carcere, promosso da Radicali Italiani, Associazione "Il Detenuto Ignoto", Associazione "Antigone", Associazione A "Buon Diritto", Redazione "Radio Carcere", Redazione "Ristretti Orizzonti". Il problema è che questi dati non interessano a nessuno. I giornali, le televisioni, sono presi da problemi molto più grandi, relativi alla vita del ceto politico, o dei detentori del potere economico, o più spesso sono interamente assorbiti dal racconto delle mirabolanti imprese dei magistrati che scovano ovunque dei lestofanti, e ne riferiscono ai giornali con dovizia di particolari, ma purtroppo sono ostacolati da assurde leggi che rendono impossibili le punizioni esemplari e veloci dei presunti responsabili. Cosa che volete che importi cosa succede nelle carceri? Qualcuno si impicca? Beh, vuol dire che si sentiva in colpa. Se stava in carcere, qualche reato doveva pur averlo commesso, se no, state sicuri, non ci finiva. Noi gente per bene in carcere non ci siamo mai andati, come mai? Non c'è niente da fare. Gli intellettuali italiani ormai ragionano così, ragionano così i giornalisti, i politici, i professori. Difficile che il popolo possa ragionare in modo diverso. State tranquilli, nessuno risponderà per queste morti di Natale. Nessuno sa di avercele sulla coscienza? P.S. Resta qualche lumicino di speranza? Il Satyagraha che Marco Pannello e i radicali stanno conducendo proprio per cercare di far parlare delle carceri. E i discorsi del Papa. Stop Giustizia: carceri, nel 2014 lenta inversione di rotta… 10 mila detenuti in meno di Giorgia Gay Redattore Sociale, 28 dicembre 2014 In dieci mesi diecimila detenuti in meno, nuove leggi potenziano le misure alternative, depenalizzazioni. La Corte europea condanna l'Italia. E a dicembre la nomina del nuovo capo del Dap, dopo un'attesa di sei mesi. Nuove leggi, sentenze europee di condanna, inversioni di rotta, presenze in calo: il carcere è stato uno dei temi caldi di questo 2014. Nel corso dell'anno si è messo mano alle normative, sono stati corretti errori e si è abbattuto, anche se non del tutto, il sovraffollamento. Maggiore l'attenzione ai diritti dei detenuti, imposta dall'Europa, anche se manca ancora il garante nazionale. Leggi nuove e leggi abrogate. La legge Fini-Giovanardi sulle droghe è incostituzionale e va abrogata: a stabilirlo è la Corte Costituzionale, che nel mese di febbraio ha bocciato la legge che, dal 2006, equipara le droghe leggere a quelle pesanti, responsabile di molti ingressi in carcere. Parallelamente, il decreto legge "svuota-carceri", poi convertito in legge, ha ampliato l'utilizzo del braccialetto elettronico, imposto un maggior ricorso ai domiciliari, introdotto la messa alla prova. Il decreto ha stabilito pene più lievi e niente arresto in flagranza per il "piccolo spaccio"; libertà anticipata speciale per i detenuti che danno prova di un'effettiva rieducazione, fatto salvo chi si è macchiato di delitti di mafia e altri reati gravi; espulsione come misura alternativa alla detenzione per i detenuti stranieri per pene non superiori ai due anni. Ad aprile, il "ddl pene alternative" che contiene, tra l'altro, la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina e le norme sulla messa alla prova". Meno sovraffollamento. Il 2014 è stato segnato da una riduzione consistente del numero di detenuti: diecimila in meno in dieci mesi (dati al 30 settembre 2014). Dai 64.047 ristretti di fine novembre 2013 si è arrivati infatti a quota 54.195. Non è, però, ancora il momento di tirare il fiato, poiché i posti disponibili complessivamente nei 202 istituti sono solo 49.347 : resta un eccesso di 5 mila detenuti. Il calo ha riguardato perlopiù i detenuti stranieri e i non definitivi ed è riconducibile in larga parte al cambio di rotta imposto dalla sentenza Torreggiani pronunciata l'8 gennaio 2013 dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e all'inversione di tendenza della legislazione italiana. Il nuovo capo del Dap. Solo con il mese di dicembre è arrivata l'attesa nomina del nuovo capo del Dap: è Santi Consolo, che va a ricoprire un incarico rimasto vacante dal 27 maggio scorso. Classe 1951, siciliano, Consolo è stato sostituto procuratore ad Enna e Nicosia, giudice e sostituto procuratore generale a Palermo, infine procuratore generale a Catanzaro e Caltanissetta, ma nasce come magistrato di sorveglianza. Attenzione ai diritti umani, al benessere dei detenuti e al volontariato sono le sue parole d'ordine. Mauro Palma, dopo essere stato inserito nella rosa dei papabili a capo dell'Amministrazione penitenziaria, è stato nominato vicecapo. Chiusura degli Opg rinviata. Il primo aprile è scaduto il termine fissato dalla legge per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma gli Opg esistono ancora: il Governo ha infatti approvato un decreto di proroga per un altro anno e ha stabilito la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2015, pena il commissariamento delle regioni. Al momento (novembre 2014) sono 750 le persone ancora internate. Bambini in carcere. La vicenda del piccolo Giacomo, cresciuto in carcere con la madre condannata per reati gravi, ha riacceso i riflettori sulla situazione dei bambini in carcere e segnato una svolta: lo scorso ottobre la Corte costituzionale ha stabilito che la madre potrà essere ammessa alla detenzione domiciliare speciale. Secondo i giudici, infatti, a prevalere è "l'interesse del bambino". Secondo i dati aggiornati ad oggi del Dap, sono 40 bambini fino a tre anni presenti in carcere, mentre le mamme detenute sono 39. Giustizia: così il decreto legge Renzi-Orlando ha peggiorato la situazione delle carceri di Maria Brucale Il Garantista, 28 dicembre 2014 L'Europa richiama l'Italia, il governo è intervenuto molto male. Continua il sovraffollamento, mentre è di difficile interpretazione la norma sul "risarcimento". le richieste sono state respinte o sono ancora in attesa di una risposta Prima ancora che entrasse in vigore il decreto "Renzi-Orlando", il Garantista si era soffermato sull'evidente criticità di una legislazione approssimativa, farraginosa e, nella sostanza, inutile che - mossa da un impeto riparatore di mera forma - sputava fumo negli occhi di una Corte Europea assai ben disposta ad accontentarsi. La sentenza Torreggiani contro l'Italia, aveva rimarcato la drammaticità della situazione delle nostre carceri ed aveva posto delle linee guida intimandoci di predisporre un insieme di rimedi idonei a offrire una riparazione adeguata del pregiudizio derivante ai detenuti dal sovraffollamento carcerario. Oltre ad individuare lo spazio minimo da destinare ad ogni persona ristretta dentro a una cella, la sentenza "pilota" si soffermava su una serie di condizioni che rendono la detenzione disumana e, dunque, inaccettabile e contraria ai parametri europei. "La pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", grida la nostra Costituzione, ma nessuno la sente! E così, nel determinare la qualità delle condizioni di vita intramuraria, occorre verificare, oltre ai metri quadri di vivibilità in gabbia, anche la qualità della luce esterna, gli spazi per l'attività fisica, l'accesso allo studio e alla lettura, alle cure sanitarie, l'igiene, la possibilità di godere di acqua calda, di ambienti salubri, di privacy. L'Italia raccoglie le indicazioni di Strasburgo e sventola un programma di intenti di risarcimento e di cambiamento, urgente, immediato. L'Europa sospende la sanzione e proroga il tempo concesso. Ancora un anno per ripristinare (concetto suggestivo e ottimista, ripristino di uno status quo, meglio di no!) la legalità. Un anno per risarcire chi ha patito indebitamente una ingiustificabile afflizione suppletiva e rendere le carceri un luogo di pena che non mortifichi la dignità dell'uomo. 28 giugno, sei mesi fa. Il decreto Renzi è ormai in vigore e promette all'Europa il cambiamento. E come? Risarcimenti in denaro, ben 8 euro per ogni giorno di tortura, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10%. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più a 21 così ritardando l'ingresso dei non più "minori" nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. E subito caos. Gli uffici di sorveglianza, già traboccanti di istanze inesitate, vengono sommersi da una valanga di richieste. Ma come risarcire? La legge è ambigua e mal scritta: il "dies a quo"? Quando inizia il periodo di detenzione valutabile ai fini del risarcimento? Il pregiudizio deve essere attuale e perdurante? E se è cessato nel corso della carcerazione? La tortura cessata è dimenticata? Se una persona è stata dieci anni detenuta in uno spazio infimo, in condizioni igieniche disperate e da pochi giorni è stata trasferita in una struttura che offra tutte le condizioni per rendere la detenzione in linea con i dettami europei, per quella detenzione inumana ormai "cessata", nulla è dovuto? La carcerazione patita in custodia cautelare, può determinare una decurtazione della pena ormai definitiva? Chi verifica le condizioni di inumanità della carcerazione? Chi dà conto della fruizione dentro le celle di spazi adeguati? Di una detenzione decorosa? I primi, numerosi provvedimenti partoriti dagli uffici di sorveglianza dichiarano l'inammissibilità delle istanze: non sono corredate dalle indicazioni che specificano in cosa esattamente sia consistita la violazione delle norme Cedu. Provvedimenti pigri, in realtà, o solo non lungimiranti. I detenuti riproporranno le istanze, stavolta specificando la sofferenza patita che il magistrato dovrà comunque verificare interpellando la struttura penitenziaria. Il carico di lavoro aumenta a danno di tutti. Ma tant'è! Per il resto, una gran confusione. Sulla misura delle celle; sulla valutazione delle condizioni di vivibilità; sui criteri; sui soggetti deputati a specificare le condizioni di detenzione oggetto di accertamento e di ristoro. Ad Alessandria il pregiudizio può non essere attuale, a Roma deve esserlo. Per qualcuno nello spazio abitabile rientra il letto che puoi comunque utilizzare. Un camerone di quindici persone è giudicato "a norma" calcolando nello spazio vitale anche il letto, quindici letti affastellati. Tante pronunce quante teste, e intanto i detenuti aspettano. Grandissima parte delle istanze rimangono, invece, non decise. Immobili. Nel frattempo la Corte Europea respinge migliaia di ricorsi. Ormai in Italia i detenuti vengono risarciti, che senso avrebbe la tutela comunitaria? Sarebbe una duplicazione ormai indebita. La montagna ha, insomma, partorito il topolino. Ma l'anno di proroga è già a metà. I magistrati di sorveglianza constatano l'impossibilità di emettere provvedimenti armonici ed efficaci e - finalmente! - chiedono un'interpretazione autentica della normativa. Fioccano le interrogazioni parlamentari. Dal ministero della Giustizia arriva, per voce del vice ministro, ampia rassicurazione di interventi di chiarimento. La situazione, intanto, è peggiorata se si pensa che tanta dispersione di energie ha provocato una definitiva paralisi degli uffici e il sonno eterno di istanze di ogni genere volte all'ottenimento di permessi, benefici, misure alternative al carcere. Mesi per avere risposta, per ottenere la fissazione di un'udienza, il deposito di un provvedimento, l'accesso ai propri diritti. Gli istituti penitenziari sono ancora sovraffollati ed ospitano una popolazione di oltre il 20% superiore alle loro capacità. Lo spazio per persona raramente raggiunge i tre metri quadri, spazio ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio. Le celle spesso sono fatiscenti e non riscaldate; la doccia è in comune per numerosi reclusi, servita da modesta possibilità di acqua calda, quando c'è; non ci sono spazi adeguati alle attività sociali all'esterno della cella; pochissimi privilegiati svolgono attività lavorative; non c'è alcun rispetto per l'igiene dei luoghi; spazi piccoli e maleodoranti fungono insieme da bagno e cucina e contengono latrina, lavabo, secchio per l'immondizia, secchi per fare il bucato e un tavolino dove poggiare fornelletti per cucinare, stoviglie e le poche provviste che è consentito e possibile conservare; non ci sono acidi per pulire la latrina e il pavimento col rischio sempre incombente di malattie infettive; manca la minima privacy anche nell'uso della latrina perché è solitamente proibito chiudere la porta dall'interno; l'illuminazione artificiale non è conforme alle norme in materia; non è presente un sistema d'allarme che permetta al detenuto di contattare il personale di custodia in caso di necessità o di urgenza. D'estate il caldo è insopportabile e gli ambienti sono infestati da zanzare che stazionano infettandosi nelle latrine alla turca, nonché da mosche, blatte e formiche e non è consentito l'uso di insetticidi o di zanzariere; non c'è un frigo nelle celle né nei corridoi di pertinenza delle sezioni per cui è impossibile conservare il vitto. L'accesso alle opportunità tratta-mentali tutte patisce le conseguenze del sovraffollamento e così risulta pressoché virtuale la possibilità di incontrare psicologi, educatori, assistenti sociali, magistrati di sorveglianza; tempi lunghissimi di attesa sono necessari per visite specialistiche interne anche per patologie acute; struggenti sono i sacrifici imposti ai familiari che viaggiano per incontrare a colloquio i loro congiunti ristretti: tempi infiniti e mortificanti per accedere all'incontro, per pesare il cibo e il vestiario preparato con cura, per lasciare al loro caro il denaro da spendere all'interno del circuito; il vitto somministrato è scarso e di pessima qualità. Intanto l'Europa sta a guardare, in silenzio, aspetta mentre l'anno scorre sulla sofferenza dei detenuti, sulle loro attese, sulle loro speranze disilluse. Giustizia: Rita Bernardini "sulle carceri Orlando mente, i risarcimenti sono inaccessibili" di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 dicembre 2014 Intervista alla Segretaria di Radicali Italiani: "A Capodanno sarò con i detenuti di Sollicciano. Pannella riprende il Satyagraha". Nel giorno del suo sessantaduesimo compleanno, la segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini è al lavoro, come sempre. Inseparabile dal vecchio leader Marco Pannella col quale ha passato la notte della Vigilia e il giorno di Natale in visita nei carceri romani di Regina Coeli e di Rebibbia, "Ritina" (come la chiamano gli amici) ora si prepara a trascorrere il Capodanno tra i detenuti di Sollicciano, a Firenze, assieme al vicepresidente della Camera Roberto Giachetti. Un calendario fittissimo, quello delle "festività in carcere" santificato dai militanti radicali e accompagnato dall'iniziativa nonviolenta del Satyagraha, a cui "hanno finora partecipato, con uno o più giorni di sciopero della fame, oltre 800 cittadini fra i quali 236 detenuti". Il condottiero assoluto è sempre lui, Marco Pannella, che dall'alto dei suoi 84 anni, due tumori e 60 sigari al giorno "si prepara a riprendere, tra pochi giorni - annuncia Bernardini - il digiuno totale e lo sciopero della sete". La richiesta è la stessa - da anni e in solitaria, sostenuta solo, a più riprese, dall'attuale inquilino del Quirinale, Giorgio Napolitano: "Amnistia e indulto. Per far uscire la Repubblica italiana dall'illegalità di una giustizia inefficace e di un sistema penale che continua a violare i diritti e la dignità delle persone, checché ne dica il Guardasigilli Andrea Orlando". Bernardini, il ministro di Giustizia ha annunciato l'uscita dall'emergenza carcere. I dati che ha fornito appena prima di Natale mostrano un tasso di sovraffollamento minimo: 109,21%, a fronte del 162,52% di giugno 2010 e del 123,60% di soli sei mesi fa. Allora, qual è il problema? L'ho già detto al ministro: un discorso serio si può fare su basi di lealtà. Altrimenti si usa lo stesso trucco dell'acqua all'atrazina, resa potabile semplicemente innalzando i livelli di sostanza tollerata dal ministero della Salute. Se si vanno a spulciare le cifre pubblicate dallo stesso ministero di Giustizia, si vede che i posti realmente disponibili sono molti meno dei 49.494 dichiarati. Ci sono sezioni ancora non agibili perché da ristrutturare o perché manca il personale. Ma non solo: a Mamone, per esempio, in provincia di Nuoro, ci sono 392 posti disponibili e i detenuti sono 126. Lo stesso a Fossombrone, Ancona, e così via. Insomma, la media si abbassa con questi espedienti ma l'indice di sovraffollamento nella maggior parte dei casi è più alto di quello dichiarato. C'è poi un problema su come si calcolano i 3 metri quadri che ciascun detenuto deve avere a disposizione perché il posto sia considerato regolamentare: la Cassazione ha più volte ribadito che si deve calcolare la superficie calpestabile, al netto degli arredi. Eppure, la Corte europea dei diritti umani ha respinto 3.685 ricorsi presentati da detenuti che denunciavano condizioni di sovraffollamento. I giudici di Strasburgo hanno motivato i rifiuti dicendo di non avere motivi di ritenere che la legge varata dall'Italia sui rimedi preventivi e risarcitori non sia effettiva. Non sono entrati nel merito, ma si sono fidati delle legge italiana che prevede sconti di pena e risarcimenti pecuniari per coloro che sono stati reclusi in celle troppo affollate. Però perfino il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza in una lettera scritta a metà novembre al ministro Orlando ha denunciato l'impossibilità di dare giustizia a tutti coloro che hanno subito una detenzione inumana e degradante. Perché, spiegano i magistrati, le incertezze e le lacune del testo normativo creano complessità e farraginosità delle istruttorie, e gravi contrasti giurisprudenziali. Per esempio, alcuni uffici di sorveglianza hanno respinto i ricorsi con la motivazione che "il pregiudizio deve essere attuale". Ossia, non si potrebbe, secondo loro, chiedere un risarcimento per il sovraffollamento pregresso. La trafila del risarcimento interno, poi, è lunghissima: il detenuto ricorre al magistrato di sorveglianza, poi in caso di rifiuto si può rivolgere al tribunale di sorveglianza, infine in Cassazione. E solo allora potrà tornare a chiedere giustizia alla Corte europea dei diritti umani. Non solo: per avere gli 8 euro per ciascun giorno di sovraffollamento, bisogna invece seguire la strada della giustizia civile. Che come si sa è infinita. Il ministro ha anche detto che "se i 18.219 ricorsi pendenti in Italia fossero stati proposti a Strasburgo, lo Stato avrebbe dovuto pagare altre multe per 203 milioni di euro". Non è un buon risultato? Non capisco come faccia Orlando a dire di aver scongiurato il rischio, visto che il termine per presentare i ricorsi scade il 28 dicembre. Comunque è incredibile che si risparmi sulla pelle di chi ha subito un trattamento inumano da parte dello Stato. Voglio sperare che quei soldi risparmiati saranno utilizzati per ripristinare almeno la manutenzione ordinaria, attualmente inesistente. O per promuovere il lavoro, le attività trattamentali, o per evitare la detenzione a centinaia di chilometri dalle famiglie. O per il diritto alla salute. Perché, al di là delle buone intenzioni, nelle carceri italiane si muore ancora. Giustizia: "l'effetto Carminati" sulle carceri, il Dap toglie gli appalti alle coop dei detenuti di Emiliano Liuzzi e Annalisa Dall'Oca Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2014 Dopo dieci anni finisce il progetto delle mense: la cucina torna al Dap. Di eccellenze il sistema carcerario italiano ne vanta davvero pochine: prigioni sovraffollate, condizioni igieniche irrespirabili, diritti ridotti a zero. I condoni che i governi hanno venduto come la soluzione a tutti i mali, non hanno spostato di una virgola. Anche perché, vuoi per l'effetto di Mafia Capitale, vuoi per la mancanza di soldi, verranno a mancare il sostegno delle cooperative e, di conseguenza del lavoro. Dieci anni fa il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria aveva avviato una sperimentazione con 10 cooperative sociali, sovvenzionate dalla Cassa delle Ammende, che avrebbero dovuto gestire le mense di altrettante carceri puntando sulla professionalizzazione dei detenuti. E quella sperimentazione ha dato ottimi risultati: centinaia di detenuti hanno imparato un mestiere che poi li ha aiutati a reinserirsi in società a fine pena, all'interno di quelle stesse carceri sono nati centri di produzione capaci di sfornare prodotti così buoni da finire sul mercato, e la recidiva tra i detenuti che ci hanno lavorato è crollata dal 70% al 2%. Poi però è arrivata la burocrazia: i fondi non ci sono più, e il 15 gennaio prossimo, salvo contrordini dal ministero della Giustizia, le 10 cooperative saranno lasciate a casa. E la gestione delle mense di tutte le galere italiane tornerà sotto il controllo dello Stato. Il timore delle cooperative, però, è che a pesare sulla decisione di dismettere il progetto ci sia anche Mafia Capitale, che tra i suoi protagonisti annovera quel Salvatore Buzzi braccio destro di Massimo Carminati, che proprio in prigione fondò la coop sociale 29 giugno. "Non voglio pensare che quello che è successo a Roma possa incidere sul nostro futuro, non è che se domani arrestano un carabiniere poi chiude l'Arma, quindi non possiamo pagare tutti per il caso Buzzi", sospira Nicola Boscoletto, presidente di Giotto, una delle 10 coop in questione, che trasforma in pasticceri i detenuti del carcere di Padova. "Però la preoccupazione c'è", ammette Luisa Della Morte, numero uno della cooperativa Alice, che gestisce la piccola sartoria della casa di reclusione Bollate, "perché è facile puntare il dito contro tutti e dire avete lucrato anche se non è la verità, anche se ci sono persone che hanno speso anni a mettersi al servizio del prossimo". Il 17 dicembre il Guardasigilli Andrea Orlando ha ribadito che la revisione delle convenzioni con le cooperative sociali che in questi 10 anni hanno amministrato i centri cottura delle 10 prigioni italiane selezionate per il progetto - Torino, Ivrea, Trani, Siracusa, Ragusa, Rebibbia, Bollate, Rieti e Padova - è iniziata mesi fa, prima dello scandalo del cupolone romano, ed è legata a una questione di mancanza di risorse. Ma secondo le coop tornare al vecchio sistema non rappresenterà un risparmio per lo Stato. "Prima di tutto insegnare un lavoro ai detenuti fa sì che usciti di prigione possano ricollocarsi nella società, e questo si traduce in un vantaggio sia per i cittadini, in termini di sicurezza sociale, sia per lo Stato, che un carcerato ci costa 250 euro al giorno". E poi c'è il rischio che l'Europa sanzioni l'Italia perché il sistema attuale eroga ai detenuti che lavorano paghe troppo basse, da "sfruttamento": "Solitamente i pasti nelle carceri vengono preparati dai reclusi, assunti dal ministero e pagati con la mercede", spiega Silvia Polleri, presidente di Abc, che gestisce il centro cottura nella casa di reclusione di Bollate. "La mercede è lo stipendio erogato al carcerato per i lavori in economia, cioè lo scopino, che pulisce i corridoi, lo spesino, che raccoglie gli ordini di acquisto dei carcerati fuori dal carrello, lo scrivano, eccetera. La retribuzione però è calmierata, ad esempio un aiuto in cucina prende 300 euro al mese, mentre un cuoco 600. In più non sono occupazioni qualificanti, il lavoro è assegnato a rotazione, non c'è formazione". Il detenuto che lavora per le cooperative sociali, invece, ha un contratto: "Nel nostro caso", continua Polleri, "noi assumiamo con il contratto delle coop sociali full time, inizialmente a tempo determinato che poi diventa indeterminato. Quindi parliamo di un lavoro vero, qualificato e qualificante, che a tutti gli effetti fa curriculum". Se la ristorazione tornasse nelle mani dello Stato, però, si tornerebbe ai vecchi metodi anche nelle 10 carceri che li avevano abbandonati, alla mercede, insomma. "A tutti gli effetti una pazzia" commenta Polleri, "il progetto ha dato risultati così buoni che persino i direttori delle carceri hanno chiesto al ministro di non tornare indietro, di rinnovare la convenzione". Il 30 dicembre le cooperative incontreranno il ministro Orlando, è quella è l'unica speranza rimasta perché il lavoro nelle mense delle carceri continui. "Sarebbe assurdo buttare via ciò che di buono è stato fatto per quanto riguarda il sistema carcerario italiano". I panettoni sfornati dalla cooperativa Giotto sono finiti sulla tavola del Papa e del presidente della Repubblica, i dolci cucinati dai carcerati di Siracusa e Ragusa sono celebri e l'Abc, che oltre a preparare il pasto per 3 sezioni del carcere di Bollate ha aperto un servizio di catering, ha servito la Farnesina. Giustizia: se il burocrate odia i buoni esempi di Salvatore Bragantini Corriere della Sera, 28 dicembre 2014 L'errore del ministero della Giustizia di interrompere un esperimento positivo che coinvolgeva i detenuti di dieci penitenziari. Sul Corriere del 19 dicembre Luigi Ferrarella dà due notizie, una scoraggiante, l'altra incoraggiante, che delineano in chiaroscuro il funzionamento della nostra amministrazione pubblica, e in particolare del ministero della Giustizia. La notizia scoraggiante: il ministero, "in 10 carceri dove cooperative sociali sperimentano da 10 anni la gestione delle cucine, dice basta perché la Cassa delle Ammende non ha soldi, e dal 15 gennaio riprenderà all'interno le mense". Perché questa è una brutta notizia? Perché tali cooperative, insegnando ai detenuti una professione che potranno svolgere una volta liberi, aiutano il loro reinserimento nella società riducendo il rischio che tornino a delinquere (la "recidiva"). Nelle carceri in cui esse operano, la recidiva scende dal 70% nazionale al 12%; ciò dipende anche da altre cause, ma l'avviamento al lavoro, al lavoro vero, gioca un ruolo essenziale. Non c'è solo questo beneficio: le cooperative erano riuscite a ridurre i costi per l'amministrazione, al contempo esercitando, certo anche nel proprio interesse, un penetrante controllo di qualità sulle derrate in entrata, ponendo così fine a decenni di controlli, a dir poco, laschi. La colpa di queste cooperative è di esser state un successo, arrivando anche a svolgere un buon numero di servizi di catering all'esterno. Esse furono lanciate una decina d'anni fa come esperimento, finanziato sui fondi della "Cassa Ammende" perché lì c'era disponibilità; oggi questa non c'è più e la scelta ministeriale è di un'ottusa semplicità. Non siete più un esperimento, siete una realtà solida, quindi vi tagliamo fondi, essendo la Cassa Ammende, casualmente deputata a pagarvi, a secco! Così anche in queste 10 carceri i tassi di recidiva potranno finalmente allinearsi alle altre, esse non saranno più una mosca bianca, i detenuti non dovranno cambiare amici una volta usciti: il loro reinserimento nel giro sarà più facile! Anche i fornitori non dovranno più temere il controllo di qualità che le cooperative esercitavano: si tornerà indietro di 30 anni, al sistema, detto delle "mercedi", nel quale il detenuto, magari in pigiama, comunque privo di qualifiche e di adeguate attrezzature, inetto a mantenerle pulite ed efficienti, cucina per tutti. È un altro dei tanti danni inferti al Paese dalle vicende della cooperativa "29 giugno". Per fortuna, nelle pagine milanesi, Ferrarella ci dà anche una notizia incoraggiante. Alla Procura Generale di Milano, ove ben 27 tipi di registri non riuscivano a dialogare fra loro, due Fiamme Gialle e un dipendente del ministero hanno inventato, sviluppato, e infine regalato, una piattaforma software aperta in grado di consentire la "tracciabilità in diretta, la condivisione tra uffici interessati, l'indicizzazione dei dati archiviati e l'immediata elaborazione statistica, l'indipendenza dei dati dalla presenza fisica di questo o quell'operatore, la sostituzione dei registri cartacei. Tutto gratis per lo Stato". Ci rifiutiamo di credere che il problema stia proprio in quest'ultima frase. Lo Stato deve essere fiero che tre dipendenti pubblici, tre "scansafatiche" ci regalino una semplificazione che nessuno aveva pensato a chieder loro; ringraziamo Davide Carnevale, Luigi Cerullo e Damiano Franco, dotati di professionalità evidentemente ignote all'amministrazione, che però essa dovrà ora adeguatamente utilizzare. Ci sono tante persone con la capacità e la voglia di riscattare, grazie al lavoro, l'ottusità di tanti alti gradi delle burocrazie ministeriali, in questo caso pronta a strozzare in culla, impedendogli di crescere, il nuovo che essa stessa ha acconsentito a far nascere, e distratta invece nel sorvegliare i tanti scansafatiche che purtroppo esistono davvero. Si spera che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, premi i tre generosi inventori e "cambi verso" ai burocrati che vogliono farci tornare all'Italia carceraria magistralmente dipinta da De Andrè nel suo "Don Rafaè". Giustizia: tangenti, lo strabismo della riforma sulle pene di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2014 L'obiettivo del governo è far fare "un po' di carcere" a corrotti e corruttori, anche se patteggiano e restituiscono il maltolto. Ma tutto sta a intendersi sul termine corrotti: comunemente usato per indicare i pubblici ufficiali accusati di reati che vanno dalla concussione al peculato, dalla corruzione propria a quella in atti giudiziari, dall'induzione indebita al traffico di influenze illecite, in realtà il termine si riferisce, tecnicamente, solo a chi è indagato o imputato di "corruzione" e, nel ddl Orlando varato prima di Natale, solo di "corruzione propria" (articolo 319 Codice penale). Solo per questo reato, infatti, si è aumentata la pena (da 4-8 anni si passa a 6-10), stravolgendo la "piramide" della gravità dei delitti contro la pubblica amministrazione disegnata, neppure due anni fa, dalla legge Severino, in cui al vertice c'era la concussione, seguita da peculato, corruzione in atti giudiziari, corruzione propria, induzione indebita e via via gli altri, fino al traffico di influenze illecite. Il ddl Orlando, lasciando invariate le pene dei reati diversi dalla corruzione propria, ha creato una distonia sanzionatoria opinabile, sicuramente sbagliata rispetto al reato di corruzione giudiziaria, decisamente più grave, con ricadute paradossali sul patteggiamento e sulle sue conseguenze, a seconda di chi vi ricorra. Uno strabismo forse frutto di compromesso politico, destinato a essere corretto. Con l'aumento del minimo a 6 anni, la corruzione propria "supera" delitti più gravi come la corruzione in atti giudiziari e il peculato (da 4 a 10 anni). Nel complesso, la pena si avvicina, per gravità, alla concussione (6-12 anni), vertice della "piramide", e supera di netto l'induzione indebita (3-8 anni) che, con "la Severino", ha sostituito la vecchia "concussione per induzione", ritenuta da sempre più grave della corruzione, tant'è che all'epoca non mancarono polemiche per la riduzione della pena (da 4-12 anni a 3-8) e furono proposti (inutilmente) emendamenti, anche del Pd, per alzare il massimo a 10 anni. L'intervento minimalista del governo potrebbe rispecchiare la sua valutazione, discrezionale, sul maggior disvalore sociale della corruzione propria rispetto agli altri reati contro la pa. Ci si è mossi sull'onda dell'inchiesta mafia-capitale (in cui, a parte l'associazione mafiosa, è contestata solo la corruzione propria), senza tener conto né della cronaca giudiziaria (che registra anche altri reati) né delle indicazioni della giurisprudenza sulla necessità di un tagliando alla "Severino". Di recente, ad esempio, con la sentenza 51688/14 su Marco Milanese, la Cassazione ha detto che quella legge, nell'introdurre il "traffico di influenze illecite" (punito da 1 a 3 anni) ha di fatto derubricato condotte prima punibili come "millantato credito" (pena da 1 a 5 anni), "con il risultato paradossale che una riforma presentata all'insegna del rafforzamento della repressione dei reati contro la pa ha prodotto, almeno in questo caso, l'esito contrario" (Il Sole 24 ore del 12 dicembre). Nelle intenzioni del governo, l'aumento a 6 anni del minimo della pena per la corruzione propria dovrebbe garantire che i corrotti si facciano "un po' di carcere": anche se restituiscono il maltolto (condizione per patteggiare stabilita per tutti i reati contro la pa), gli indagati per corruzione propria, al netto delle riduzioni per attenuanti e patteggiamento, avranno infatti una pena superiore a 2 anni, senza sospensione condizionale. Quindi si faranno un paio d'anni di carcere (salvo ottenere l'affidamento in prova), a differenza di chi ha commesso peculato, induzione indebita o corruzione in atti giudiziari, che potranno continuare a patteggiare evitando il carcere. Giustizia: un difensore non deve essere mai intercettato, anche se è a sua volta indagato di Domenico Ciruzzi (Vicepresidente Unione Camere Penali) Il Garantista, 28 dicembre 2014 Mi preme ancora una volta ribadire la necessità di operare una modifica dell'articolo 103 del Codice di procedura penale - come proposta da tempo dall'Unione delle Camere penali - che ribadisca, con ulteriore chiarezza definitiva, il divieto di ascolto delle conversazioni tra difensore ed assistito. Divieto già esistente che, tuttavia, attesi gli intollerabili sconfinamenti giurisprudenziali (in particolare l'inaccettabile recentissima sentenza della II sezione della Corte di Cassazione) che rischiano di determinare sempre più numerose, illegittime captazioni negli studi professionali dei difensori, deve essere ulteriormente rafforzato dal legislatore con un'enunciazione che non dia spazio ad interpretazioni sempre più oltraggiose per la funzione difensiva. Torno sull'argomento, giacché - pur condividendo in larga parte le considerazioni da me espresse nel corpus di un precedente articolo in tema di garanzie di libertà del difensore - vi è chi ha giudicato "sconcertante" il mio intervento nella parte in cui rivendico il diritto al segreto delle comunicazioni anche per il difensore indagato che interloquisce nel proprio studio professionale, giungendo costui finanche a sostenere che simili mie affermazioni contribuirebbero ad ingenerare nell'opinione pubblica la convinzione che il garantismo sia una forma di complicità. Sul punto, mi limito ad evidenziare che ovviamente - come del resto emerge con chiarezza da una lettura serena ed imparziale dell'articolo - non ho mai preteso o richiesto l'immunità del difensore. Ho, di contro, evidenziato come la circostanza che un difensore sia eventualmente indagato non possa di per sé legittimare l'ascolto di tutte le conversazioni che lo stesso intrattiene nel proprio studio con tutti i suoi assistiti. Le garanzie e le libertà previste dal codice, in primis dall'art. 103, sono invero poste a tutela integralmente dei cittadini che non devono avere neppure il minimo timore che quanto riferito al difensore - nella sacralità del segreto professionale - possa essere "origliato" da chi sta svolgendo indagini nei loro confronti - o peggio ancora - veicolato sui media. Volendo essere didascalico al massimo, si pensi all'ipotesi di un difensore indagato per millantato credito. Questo può consentire di inserire microspie all'interno dello studio professionale del difensore ed ascoltare per diversi mesi i colloqui che questi - ma anche i suoi colleghi e collaboratori - intrattiene con i suoi 10, 50 o 100 clienti? O peggio ancora di ascoltare i colloqui che intervengano tra i suoi stessi collaboratori ed i rispettivi assistiti? Il malcapitato cittadino inquisito, ad esempio, per bancarotta, per terrorismo, per mafia, per peculato, perché dovrebbe essere privato dell'inviolabile diritto di poter interloquire con il proprio difensore nel segreto professionale, soltanto perché in ipotesi quell'avvocato è indagato per tutt'altre vicende? E questa la distinzione - chiara e facilmente percepibile - tra immunità dell'avvocato (incompatibile con uno Stato democratico) ed immunità della "funzione difensiva" che è invece sacra ed intoccabile e che non può essere assolutamente compressa sol perché quell'avvocato è indagato. Sul punto - dietro la visione secondo la quale se un avvocato non è indagato vigono i divieti sanciti dal codice, mentre se il difensore è indagato sarebbe possibile ascoltare i suoi colloqui con tutti gli assistiti -si registra un totale stravolgimento dell'essenza stessa delle libertà e delle garanzie previste dall'art. 103 c.p.p. che, nella distorta ottica citata ed in totale contraddizione con le premesse solennemente enunciate, finisce per diventare esclusivamente uno strumento a tutela della riservatezza dei colloqui degli avvocati. Di contro, occorre ancora una volta ribadire che le garanzie di libertà della funzione difensiva non sono poste a tutela dell'avvocato - per cui se il difensore è stato "cattivo" (è, cioè, indagato) possono essere pretermesse avendo questi mostrato di non esserne degno - ma a tutela dei cittadini che hanno diritto alla segretezza dei colloqui con il proprio difensore chiunque egli sia e di qualsiasi colpa questi si sia eventualmente macchiato. Mi sia consentita, infine, una breve precisazione. In un mio precedente articolo risalente a diversi anni fa - di cui mi ero persino dimenticato e che, per fortuna, solerti miei esegeti hanno riesumato - avevo denunciato l'ambiguità di alcuni cosiddetti "professionisti per bene" nell'interazione con il mondo criminale. Vi è stato chi ha sostenuto che vi fosse un contrasto tra quanto da me sostenuto in passato e la mia intransigenza nel ritenere vietate le intercettazioni nello studio professionale del difensore, anche qualora questi sia indagato. Sul punto, per amor di verità, devo rappresentare che l'intervento citato su queste stesse pagine non fu, come erroneamente ed inspiegabilmente riportato, in difesa dell'associazione "Libera" - verso cui peraltro nutro il massimo rispetto per la serietà dell'impegno nel sociale -ma costituiva invece un'analisi critica dei comportamenti della classe professionale borghese fino agli anni 80. Nel corso di tale intervento, peraltro molto apprezzato dallo stesso mio solerte citazionista, nel respingere un'opinione diffusa secondo cui gran parte della classe dirigente meridionale era del tutto collusa con la camorra, sottolineavo tuttavia che vi era stata una notevole responsabilità della borghesia nel rapportarsi con i disagiati del territorio ed, in particolare, così scrivevo: "È innegabile che in quegli anni (gli anni 80 ndr) vi fossero, accanto ai bagliori di piombo e sangue innocente, residuali connivenze consapevoli anche in settori istituzionali e professionali, dando luogo ad un vulnus criminale gravissimo; tuttavia, la quasi totalità delle istituzioni e della classe imprenditoriale e professionale non era consapevole di fornire un apporto diretto alla criminalità organizzata. Viceversa, in quegli anni era generalmente diffusa l'assoluta carenza di sensibilità ed attenzione da parte della borghesia dei colletti bianchi rispetto ai feroci effetti destabilizzanti prodotti dalla criminalità organizzata. Si fingeva, o ci si illudeva consapevolmente, di vivere in due mondi separati, non comunicanti, autoctoni. E quando inevitabilmente i due mondi entravano in contatto, si dispiegava sovente il più grave misfatto compiuto dalla classe dirigente meridionale dal dopoguerra in poi: l'ambiguità dell'interazione con il mondo criminale, la mancata assunzione di responsabilità di opporre, spiegandone le ragioni con pacatezza e tensione educativa, ma nel contempo con fermezza assoluta, dinieghi netti a proposte e richieste irricevibili; senza "se" e senza "ma", "si vedrà" e "forse anche". Anche miserabili interlocuzioni di tal fatta hanno contribuito ad incistare la società. In una realtà campana di povertà e di degrado in cui masse disagiate incontrano lo Stato per la prima volta sol quando impattano con il reclusorio di Poggioreale, il mondo dei colletti bianchi, al di là dei casi residuali e patologici di connivenza, avrebbe dovuto dare di più ai cittadini meno abbienti e più ignoranti anche attraverso interazioni corrette, educative e formative. Gli studi professionali di avvocati, commercialisti, notai, i giornalisti e le redazioni dei giornali, i magistrati, i vertici ed i funzionari degli assessorati e degli enti istituzionali sarebbero dovuti essere degli avamposti di legalità da cui il sottoproletariato utente, sovente innocente, doveva uscirne sconfitto nei suoi propositi irricevibili e non già fuorviato da una comunicazione ambigua, reticente, accomodante, confusa e furba. Dal dopoguerra in poi, alcuni professionisti cd. "perbene" (avvocati, giornalisti, commercialisti, medici, imprenditori, magistrati, politici et similia) - magari frequentatori di circoli esclusivi, con la faccia abbronzata dal tennis ed il culo sfondato dal burraco - hanno accolto nei loro studi masse di diseredati sovente senza offrir loro alcun insegnamento civico ed etico, diversamente dalla gran parte dell'avvocatura militante che, senza clamore, ha sempre svolto con sacrificio e dedizione la propria funzione. Se in cinquant'anni si fosse dedicata più passione e carità cristiana nelle professioni attraverso precise assunzioni di responsabilità, anche lessicali, almeno una piccola parte di poveri analfabeti forse non si sarebbe trasformata in criminali furbi e prevaricatori". E evidente che non c'è alcuna contraddizione. Ed invero, così come è necessario pretendere il rigore deontologico e culturale da parte dei professionisti, è necessario ed inderogabile pretendere il rigore nel rispetto delle regole poste a tutela del segreto dei cittadini negli studi professionali. Come Ulisse, dovremmo tutti incatenarci per resistere agli echi autoritari, affinché, pur nel rispetto delle investigazioni giudiziarie, i presidi costituzionali posti a tutela delle libertà di tutti i cittadini non siano mai preda delle sirene incantatrici. Giustizia: intervista a Ilaria Cucchi "Sì, a volte ho pianto, ma non mi fermerò mai" di Manuela Saraceno Il Garantista, 28 dicembre 2014 Incontro Ilaria Cucchi in un quartiere popolare di Roma, un luogo vivace ma allo stesso tempo dimenticato: il Pigneto. Tra uno spritz, un boccone e brevi interruzioni di gente comune che le si avvicina per un abbraccio o una semplice parola di conforto, inizia la nostra chiacchierata. L'abbiamo vista in tv, nel programma "Questioni di famiglia" in onda su RaiTre. Come è andata nei panni dell'inviata? Per me è stata un'esperienza bellissima, anche se breve. Mi ha trasmesso emozioni molto forti e mi ha consentito di raccontare le storie quotidiane di gente comune. Purtroppo la trasmissione è stata chiusa perché gli ascolti sono andati male, ma sono felice di averne fatto parte e per questo devo ringraziare coloro che mi hanno voluta lì. È stata scelta come inviata perché in quel momento faceva notizia? Non credo, anzi escludo assolutamente qualunque tipo di strumentalizzazione da parte loro. La proposta di RaiTre è arrivata a fine settembre 2014, quindi prima della sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Roma. Eravamo quattro inviati, tutti con la propria storia alle spalle. Probabilmente questi cinque anni e ciò che è successo a Stefano mi hanno reso una persona diversa da quella che ero prima, più diretta, più sensibile a certi temi. Credo che siano questi i motivi per cui mi hanno scelta. Si è avuta l'impressione che una volta ottenuta la partecipazione alla trasmissione il caso Cucchi sia finito nel dimenticatoio. È così? Intende dire che è come se dopo l'inizio della trasmissione io abbia smesso di pensare a mio fratello? Alcuni hanno mosso anche questa critica. La hanno accusata di utilizzare la vicenda di Stefano per fare carriera in tv... Intanto ti dico che non ho mai utilizzato la trasmissione per pubblicizzare alcunché. La mia pagina ufficiale conta qualcosa come trentacinquemila visualizzazioni, e ciò senza che io l'abbia mai sponsorizzata o pubblicizzata. Mi hanno accusata di strumentalizzare la morte di mio fratello. È vero, ho strumentalizzato la morte di Stefano, ma non per sete di successo! L'ho fatto perché fino a cinque anni fa non sapevo, ad esempio, quale fosse la realtà delle carceri; come tante persone ne avevo sentito parlare distrattamente, ma avevo sempre pensato che in fondo fosse qualcosa che non mi avrebbe mai riguardato. Dopo quello che è successo a Stefano ho capito che non potevo più far finta di niente e che d'indifferenza si può morire. Il mio compito - è l'unico senso che posso dare a quello che mi è capitato - è fare in modo che tanti sappiano e che sempre meno persone decidano di voltarsi dall'altra parte. Se strumentalizzare serve a questo, ben venga. Quali iniziative state pensando di realizzare per ricordare Stefano? Intanto a pochissimi giorni dalla sentenza, e questo forse non tutti lo sanno, abbiamo dato inizio ad un progetto meraviglioso che interessa i licei romani. Quasi ogni giorno racconto la mia esperienza a ragazzi che mi ascoltano in silenzio per ore e che sono veramente straordinari; sono loro che arricchiscono me, e non il contrario, perché mi regalano la speranza che prima o poi le cose cambieranno. Inoltre per mantenere vivo il ricordo di Stefano, grazie all'aiuto del Comune di Roma e della Regione Lazio, stiamo cercando di portare avanti un progetto importante che dovrebbe chiamarsi "La Casa di Stefano". Io e la mia famiglia possediamo un vecchio casale che si trova a San Gregorio da Sassola. È un luogo al quale siamo particolarmente legati, perché apparteneva a mio nonno e perché è lì che è sepolto mio fratello. L'idea è quella di creare un luogo in cui i ragazzi che escono dalle comunità di recupero per tossicodipendenti possano trovare un futuro, possano trovare delle motivazioni e quindi anche un lavoro. È tutto ancora a livello embrionale, però la nostra idea è questa. Come avete vissuto in famiglia i giorni di custodia cautelare di Stefano? Ti posso parlare delle sensazioni di quei sei giorni. La prima è stata quella di rabbia nei confronti di Stefano per averci traditi; per noi, in quel momento, il vero problema non era la possibile reclusione in carcere, ma la droga. Ciò che credevamo uscito per sempre dalle nostre vite in realtà era tornato e forse anche in maniera peggiore di prima. Dopo la rabbia c'è stata la preoccupazione per Stefano chiuso in carcere, per come poteva vivere quei momenti, per quello che lo aspettava. In un'intervista ha dichiarato che "Stefano è morto perché la giustizia non è uguale per tutti". Di cosa è morto Stefano? Stefano è morto di ingiustizia, perché subito dopo essere stato pestato nei sotterranei del Tribunale, è stato per circa un'ora in un'udienza davanti a un pubblico ministero ed a Giudici che non l'hanno guardato in faccia, che non hanno ascoltato la sofferenza della sua voce. Loro dicono che guardavano dall'altra parte e quindi non hanno visto l'imputato che era in quell'aula, io ho ascoltato la registrazione dell'udienza e ti assicuro che dalla voce di Stefano si capisce benissimo che sta male, che è sofferente. Più volte si scusa, perché non riesce a parlare, eppure queste persone lo hanno mandato in carcere come "albanese senza fissa dimora" sulla base di un verbale sbagliato, in cui l'unica cosa esatta era il suo nome: Stefano Cucchi. Stefano era lì, davanti ai loro occhi ed è morto perché abbiamo una giustizia che non si preoccupa neanche di guardare in faccia chi sta mandando in carcere. È considerata una donna forte, ma le è mai capitato di perdere le speranze? Mai, assolutamente mai. Anzi dopo ogni batosta la volontà di non fermarmi, di non abbassare la testa, aumenta sempre di più. Paradossalmente è così. Sarò un'ingenua, ma credo che arriverà il momento in cui finiranno le ingiustizie, in cui qualcuno si renderà conto che non si può continuare in eterno a negare l'evidenza. Devo confessare però, che subito dopo la sentenza del 31 ottobre di quest'anno, dopo cinque anni nei quali difficilmente avevo versato una lacrima perchè sentivo di non potermi fermare a piangere, ho avuto un momento nel quale ho voluto, per qualche tempo, vivere quelle mie sensazioni e quel mio dolore insieme ai miei affetti, in maniera intima. Ciò non vuol dire che io mi sia arresa o che intenda farlo. Io non mi fermo. Ha dichiarato che la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Roma rappresenta un "fallimento dello Stato". Crede ancora nella giustizia e nelle Istituzioni? Ci credo, perché la giustizia non è quella che ha conosciuto Stefano e non è quella che abbiamo conosciuto noi in primo grado. Non ce l'ho con i giudici, altrimenti non andrei in quelle aule per chiedere giustizia, dico semplicemente che quelle indagini erano sbagliate e tutte volte ad affermare una verità precostituita. Per questo motivo ha fatto un esposto nei confronti di Paolo Arbarello, consulente dei pm nell'inchiesta sulla morte di Stefano? Ho fatto un esposto perché questa persona si è presa gioco di noi. A incarico appena ricevuto, già dichiarava alle telecamere del Tg5 che era un caso di colpa medica e che sarebbe stato suo compito dimostrarlo. Quelli erano segnali chiari, non doveva essere un caso di responsabilità dello Stato, doveva sembrare una morte naturale, al massimo una morte per colpa medica, ma sicuramente non bisognava tirare in ballo altri tipi di responsabilità. Questo perché chiedere allo Stato di inquisire e giudicare sé stesso è una delle cose più difficili che si possa fare, significa chiedere di ammettere che il sistema non funziona. A proposito di colpa medica, è vero che avete accettato dall'ospedale Sandro Pertini un risarcimento milionario? È vero, abbiamo accettato questo risarcimento perché rappresenta un riconoscimento della responsabilità medico-sanitaria. Nel momento in cui ci è stato proposto l'accordo ci era stato chiesto di estenderlo anche agli altri imputati e di rinunciare ad ogni diritto anche per i futuri gradi di giudizio. Bene, noi abbiamo accettato a condizione che l'accordo non riguardasse gli altri imputati e che ci fosse consentito di continuare la nostra battaglia processuale. Abbiamo fatto ciò perché siamo convinti che ci siano delle responsabilità scomode, che continuiamo a pretendere che vengano accertate. Segue con particolare attenzione il caso Magherini. Riccardo, come Stefano, rientra nell'immaginario collettivo tra coloro che "se la sono cercata". Crede che il suo caso, nonostante le molte testimonianze ed i video, avrà gli stessi risvolti di quello di suo fratello? Credo di no, credo che siamo in un momento di svolta, prima di tutto nell'immaginario collettivo. Se è vero che la gente per proteggersi tende sempre a dire "beh lui in fondo se l'è cercata, era un tossicodipendente e gli è capitato", oggi sempre più persone si rendono conto che non è così, che siamo tutti potenzialmente a rischio. Ricordo il 3 marzo di un anno fa, quando morì Riccardo. Ricordo che non si parlò di quella vicenda e che io stessa, in un primo momento, fui perplessa perché passò la notizia di un ragazzo che era morto perché fatto di cocaina. Oggi fortunatamente la gente si ribella, non ci sta più. Vengono fatti i video e le persone sono disposte ad intervenire anche in prima persona. Ci sono tante testimonianze e non si possono ignorare. Alla famiglia Magherini, così come alla mia ed a quelle di molte altre vittime del sistema, viene fatta una doppia violenza. Le nostre famiglie sono chiamate in prima persona, nonostante il dolore e la drammaticità dell'evento, a mettersi sul fronte se vogliono sperare di arrivare alla verità; ci viene chiesto di farci carico del compito che spetterebbe invece allo Stato ed alle Istituzioni: quello di fare chiarezza. Prendi il caso di Stefano, per dimostrare a tutti che le cose stavano in maniera diversa, che non si trattava di una morte naturale, abbiamo dovuto fare quelle foto. Se non le avessimo fatte, staremmo ancora a parlare di caduta dalle scale. Il Procuratore Capo di Roma, Giuseppe Pignatone, ha garantito che studierà tutto il fascicolo di Stefano, ed in presenza di nuovi elementi si è reso disponibile a riaprire le indagini. Finalmente verranno accertate le responsabilità? Il vento sta cambiando? Sono felice di questo, però so cosa è stata la nostra vita per cinque anni, per cinque anni siamo stati presi in giro! Mi auguro che questa volta ci sia la volontà e la forza di cambiare il vento, di fare in modo che finalmente la verità su queste morti sia più importante di tutto, più importante di questi meccanismi che a noi vittime non devono appartenere e non devono riguardare. Cosa pensa della proposta di liberalizzare le droghe leggere? Mi fa terribilmente paura. Qualcuno, forse anche tu, ti spettavi una risposta diversa da me. Io sono una madre, ho due bambini: Giulia che ha sei anni, e Valerio che ne ha dodici ed inizia ad uscire con i suoi amici. Per lui inizia la crisi preadolescenziale. Ci riflettevo stamattina, è tutto molto più precoce rispetto a quando ero bambina io, adesso la sola idea che mio figlio possa incappare nelle amicizie sbagliate, e questo può succedere comunque, e possa ottenere la droga in modo semplice, possa usarla, mi fa venire la pelle d'oca. Forse hanno ragione quelli che dicono che le droghe leggere vanno liberalizzate, ma da mamma mi fa paura. In tanti si aspettavano che io dicessi che Stefano è morto perché esistevano quelle leggi. Ci tengo a precisare che sono contenta che non esista più la legge Fini-Giovanardi, ma non dirò mai che Stefano è morto a causa di quella legge. La Fini-Giovanardi esisteva, Stefano ne era a conoscenza ed ha commesso un errore: l'ha violata. Era giusto, quindi, che fosse arrestato, quello che non doveva succedere è tutto il resto che non c'entra nulla con le leggi che esistevano in quel momento. Avete ricevuto sin da subito grande solidarietà, soprattutto dalla gente comune; quanto questo vi ha aiutato e vi aiuta a combattere la vostra battaglia? È stato fondamentale, perché quando accadono queste vicende si viene immediatamente assaliti dalla sensazione di essere soli. Il sostegno delle persone comuni ci ha reso più sopportabile la solitudine, e l'indignazione della gente, la presa di posizione delle persone, hanno consentito che non si stendesse un velo sulla vicenda di Stefano, come quasi sempre accade in questi casi. Come avete accolto la notizia che il Comune di Roma intitolerà una strada a Stefano? È meraviglioso, il mio sogno è che Via Golametto, quella piccola stradina che porta alla Città Giudiziaria, venga intitolata: Via Stefano Cucchi. In tal modo tutti gli avvocati, le forze dell'ordine, gli agenti penitenziari, tutti coloro che passano lì ogni mattina, potrebbero ricordarsi di Stefano, dell'ultimo tragitto che ha fatto a piedi nella sua vita. Che lavoro faceva e che lavoro fa ora, e in che cosa la sua vita è cambiata, se è cambiata, dopo ciò che è successo a Stefano? Continuo a fare esattamente quello che facevo prima, lavoro nello studio di famiglia, mio papà è geometra ed io faccio l'amministratore di condominio. La mia vita da questo punto di vista non è cambiata, la porto avanti magari con più fatica di prima, però è rimasta assolutamente la stessa. In più mi sono investita di un ruolo secondo me importantissimo, quello di farmi portatrice di queste realtà e lo faccio perché da quando ho capito di cosa stiamo parlando non riesco più a voltarmi dall'altra parte. C'è ancora la tv ed il giornalismo nel futuro di Ilaria Cucchi? Chiaramente non sono una giornalista, né pretendo di essere considerata tale. Nel corso di questi cinque anni ho capito quanto i mezzi di informazione siano fondamentali nelle nostre vicende, perché se non ci fosse l'informazione pubblica queste storie finirebbero tutte e immediatamente nel dimenticatoio, nel silenzio. Quello che posso dirti è che in me c'è la ferma volontà di utilizzare tutti i mezzi che mi saranno concessi per continuare a parlare di quanto è accaduto a Stefano. Giustizia: morti in carcere, sul caso Lonzi pm chiederà la terza archiviazione in 11 anni di David Evangelisti Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2014 Il giovane morì l'11 luglio 2003 al carcere delle Sughere di Livorno dove stava scontando 9 mesi di reclusione per tentato furto. Altre due inchieste nel 2004 e nel 2010 si erano concluse senza risultati. La madre: "È stato pestato". Ora dovrà pronunciarsi il gip Otto costole rotte, due buchi in testa e un polso fratturato. Ma ufficialmente deceduto per cause naturali. A distanza di oltre 11 anni restano ancora parecchi interrogativi e zone d'ombra sulla morte in carcere a Livorno del 29enne Marcello Lonzi: "massacrato di botte" secondo la madre Maria Ciuffi, morto per cause naturali secondo le inchieste giudiziarie del 2004 e del 2010 (entrambe concluse con l'archiviazione). La Procura di Livorno - ha reso noto l'associazione "Il Detenuto Ignoto" - ha confermato l'intenzione di chiedere l'archiviazione per l'inchiesta aperta nel 2013 a seguito di un esposto della stessa Ciuffi (nel mirino della madre i primi soccorsi al figlio e l'esame autoptico). Adesso c'è grande attesa per la decisione del gip Beatrice Dani. Lo scorso giugno il tribunale di Livorno aveva respinto la richiesta di archiviazione avanzata dal pm Antonio Di Bugno, disponendo altri sei mesi d'indagini. Se però da una parte la Procura conferma la propria intenzione di chiedere la chiusura del caso, dall'altro la signora Ciuffi promette ancora battaglia: "Io non mollo - ha dichiarato a ilfattoquotidiano.it - presenterò nei prossimi giorni l'istanza d'opposizione alla richiesta d'archiviazione. Mio figlio ha diritto a avere un processo". I legali della 62enne livornese avranno adesso 10 giorni di tempo per presentare l'istanza. Il gip dovrà poi decidere se accogliere la richiesta d'archiviazione, disporre il rinvio a giudizio oppure fissare ulteriori nuove indagini: "Mi auguro che la decisione possa arrivare entro la prima metà del 2015?, afferma Alessandro Gerardi, avvocato di Ciuffi e legale dell'associazione "Il detenuto ignoto". Lonzi, detenuto presso il carcere "Le Sughere", morì l'11 luglio 2003: entrato nella struttura detentiva il 1 marzo, avrebbe dovuto scontare 9 mesi di reclusione per tentato furto. Perchè è morto? La signora Ciuffi sostiene che il figlio sia deceduto in seguito a un violento pestaggio subito all'interno del carcere. Le inchieste giudiziarie del 2004 e del 2010 si sono però entrambe concluse con l'archiviazione: "Nel primo caso - ricorda la madre - si è parlato di morte naturale, nel secondo di grande infarto. È assurdo: le conseguenze delle percosse sul corpo di Marcello sono evidenti, basta guardare le foto". Nel corso degli anni Ciuffi ha diffuso su internet gran parte delle 22 foto choc ritraenti il cadavere del figlio: "Sangue, lividi, escoriazioni, mandibola spaccata e due buchi in testa: Marcello è stato selvaggiamente pestato", ribadisce. Lo scorso novembre - un po' come avvenuto per il caso Cucchi - la maxi-riproduzione di alcune di queste foto furono esposte dalla stessa Ciuffi davanti a Montecitorio. "Vi sembra che Marcello sia morto per cause naturali?", ha più volte chiesto provocatoriamente la donna mostrando le foto a giornalisti e telecamere. L'esposto presentato nel 2013 da Ciuffi mira a far luce sulle operazioni di soccorso e sull'autopsia. Nel mirino Alessandro Bassi Luciani, il medico legale che effettuò l'esame autoptico e i medici della casa circondariale Gaspare Orlando e Enrico Martellini. Secondo l'accusa sarebbero state commesse "fatali imperizie" e omissioni: "Tutti elementi - precisa a ilfattoquotidiano.it l'avvocato Gerardi - che poi avrebbero portato a dire che la morte di Lonzi è avvenuta per cause naturali. Siamo invece convinti che Marcello sia morto a seguito di percosse". Gli aspetti da chiarire sarebbero ancora molti: "Il cadavere - sottolinea Gerardi - ha lo sterno sfondato: come si può dire che ciò sia dovuto alle manovre di rianimazione?". La signora Ciuffi ricorda inoltre quanto emerso a seguito della riesumazione del cadavere, avvenuta nel 2006: "L'autopsia certifica due costole rotte ma qualche anno più tardi si è scoperto che le costole rotte erano otto. È stato detto il falso". Come si comporterebbe la donna se il gip decidesse di accogliere l'ennesima richiesta di archiviazione? "Come ve lo devo dire che non mollerò mai? Sono pronta anche a rivolgermi a altre Procure, e se c'è bisogno anche alla Corte europea dei diritti dell'uomo". Poi l'affondo: "Non mi fermerò davanti a niente per avere giustizia. Qui c'è qualcuno che vuol nascondere la verità". Abruzzo: negli 11 Istituti di pena ci sono 1.886 detenuti, 384 in più rispetto alla capienza Il Centro, 28 dicembre 2014 Visita del parlamentare di Sel Gianni Melilla nel carcere di Pescara il giorno di Natale, nell'ambito del "Satyagraha di Natale con Marco Pannella". Melilla è stato accompagnato dal direttore e dal comandante della polizia penitenziaria e ha di voler confermare l'impegno per migliorare la condizione dei detenuti e del personale della polizia penitenziaria e amministrativa. "In Abruzzo negli 11 istituti di pena vi sono 1.886 detenuti, 384 in più rispetto alla capienza regolamentare di 1.502: di essi 205 sono extracomunitari. A Pescara ve ne sono 250 di cui una settantina in attesa di giudizio e gli altri definitivi", sono i numeri snocciolati dal deputato secondo cui le recenti misure legislative hanno migliorato di molto il sovraffollamento. Nel carcere di Pescara alcune delle attività lavorative sono innovative come la digitalizzazione, la produzione di dolci, e la produzione di pane semi integrale. "Ma il personale di polizia penitenziaria deve sottoporsi a turni di lavoro pesanti e stressanti. È stato istituito positivamente il servizio psichiatrico e l'assistenza sanitaria piena di 24 ore". Per Melilla resta la necessità di una radicale riforma del sistema penitenziario per attuare il dettato costituzionale della rieducazione dei detenuti al fine di evitare che quando escono dal carcere possano tornare a delinquere. "La previsione di misure di clemenza, più volte richiamate dal Papa, dal presidente della Repubblica e dai radicali, con in testa Marco Pannella, può essere una scelta giusta", - ha concluso, "se accompagnata da investimenti sull'edilizia penitenziaria, sulla formazione professionale dei detenuti, e sul miglioramento delle condizioni di lavoro del personale penitenziario a partire dalla copertura piena degli organici". Siracusa: deputata Pd sponsor di una Cooperativa sociale per il servizio mensa in carcere www.nuovosud.it, 28 dicembre 2014 "Anche per il carcere di Siracusa, le convenzioni con le Cooperative che svolgono il servizio mensa negli istituti penitenziari vanno ripristinate". Così la deputata del Pd Sofia Amoddio, all'indomani della conferenza stampa del Ministro della Giustizia che ha annunciato la decisione di sospendere e verificare tutti i progetti di cooperative finanziati dalla Cassa per le ammende. Il carcere di Cavadonna - spiega Amoddio - è uno dei dieci istituti italiani scelti che nel 2003 hanno avviato progetti di gestione delle mense in carcere attraverso cooperative sociali. Il Progetto comportò la ristrutturazione degli impianti delle cucine e l'affidamento e la gestione a cooperative sociali che, in questi anni, hanno formato professionalmente i detenuti affiancandoli a professionisti e mettendoli nella condizione di svolgere il servizio di vitto interno per le case circondariali, in cambio di regolari contratti di lavoro e stipendi. Una esperienza molto positiva che ha portato al miglioramento del vitto somministrato ai detenuti, ad un importante risparmio economico per lo Stato e soprattutto si è rivelato un grande strumento di rieducazione dei detenuti. Tagliare questo servizio perché ritenuto troppo costoso rappresenterebbe, a mio avviso, una scelta sbagliata che non tiene conto di tutti gli aspetti positivi. Le cooperative sociali hanno fatto risparmiare lo Stato in termini di manutenzione delle strutture, di acquisto di prodotti, di paghe dei detenuti, di spese di mantenimento. A Siracusa, la cooperativa Arcolaio oltre a svolgere un servizio per la comunità, è diventata, nell'arco di pochi anni, una delle realtà più importanti nella produzione dolciaria e gestisce anche un servizio di catering eccellente, con prodotti biologici". Un progetto virtuoso che si inserisce pienamente nel tentativo di applicare il dettato costituzionale della rieducazione della pena". "Il tema del lavoro in carcere va difeso con forza - conclude Sofia Amoddio - e gli scandali romani legati alle cooperative non possono mettere in discussione un progetto che mira al reinserimento sociale di molti detenuti e che si è dimostrato vantaggioso anche per le Casse dello Stato". "Per questo motivo ho presentato una interrogazione urgente al Ministro della Giustizia per fare luce su questa vicenda". Macomer (Nu): carcere chiuso, le proposte del Comune per il riutilizzo della struttura di Tito Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 28 dicembre 2014 Il sindaco chiede al Ministero un nuovo impiego della struttura. Tra le ipotesi, l'utilizzo per progetti alternativi alla detenzione. Con il trasferimento dei detenuti e del personale, il carcere è chiuso e in abbandono. La struttura rischia di finire preda di ladri e bersaglio di atti di vandalismo che in meno di un anno la trasformerebbero in uno scheletro vuoto. Costruirne uno uguale oggi costerebbe dai 15 ai 18 milioni di euro. L'amministrazione comunale avanza una nuova proposta di impiego che tra le altre cose ipotizza il mantenimento a Macomer del nucleo cinofili della polizia penitenziaria e l'utilizzo per attività legate ai progetti alternativi alla detenzione per detenuti già condannati e in possesso dei requisiti per essere ammessi a questo tipo di regime penitenziario. Le interlocuzioni intercorse tra il senatore Giuseppe Luigi Cucca, della Commissione giustizia, e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e tra il sindaco Antonio Succu e il presidente della Regione Pigliaru, hanno creato i presupposti per una nuova proposta alla quale hanno lavorato il sindaco e la giunta comunale. Il documento è stato inviato al ministro Orlando, al presidente Pigliaru, al senatore Cucca e ai parlamentari della provincia di Nuoro Roberto Capelli e Michele Piras. Le proposte del Comune incontreranno questa volta interlocutori più attenti? Difficile dirlo. La struttura del carcere appartiene al Demanio statale, che potrebbe non curarsi della manutenzione. L'edificio è nato per essere un carcere e in quanto tale non può essere riconvertito, se non demolendolo per costruirne uno diverso. Il trasferimento dei detenuti, avvenuto poco più di dieci giorni fa, ha lasciato la struttura vuota. Le iniziative per impedirne la chiusura si sono scontrate con un muro di gomma. "L'improvviso e frettoloso provvedimento di chiusura - scrive il sindaco Succu nella proposta inviata al ministro Orlando - appare il frutto di una programmazione burocratica occasionale, ingiustificata sul piano dei contenuti più strettamente funzionali e insensibile (si potrebbe dire grossolanamente indifferente) rispetto agli aspetti umani e di dignità di vita dei detenuti e del personale che (soprattutto nel caso del carcere di Macomer) viene unanimemente indicato, dentro e fuori dal carcere, come esemplare per affidabilità nel lavoro e per umanità nei confronti dei detenuti". La nota del sindaco si sofferma poi sulle conseguenze economiche che la chiusura del carcere ha avuto su Macomer, soprattutto sull'indotto che ruotava attorno alla struttura, per chiedersi infine quali risparmi abbia realizzato allo Stato la chiusura del carcere di Macomer. Poi un cenno sulla funzionalità. "La struttura carceraria - si legge - viene unanimemente considerata come un esempio positivo nel più generale panorama italiano delle carceri. La sua dimensione "media" capace di ospitare circa 90 detenuti, le celle a due posti (con servizio igienico separato) di circa 15 mq, la capacità di essere sia un carcere orientato e compatibile con le politiche di apertura verso l'esterno e con un elevato grado di sicurezza, ne hanno fatto un modello interessante nel panorama delle strutture della Sardegna". Infine la proposta di utilizzo, che ipotizza anche la possibilità di revocare il provvedimento di chiusura o di utilizzare la struttura per realizzare un centro che sostituirà gli ospedali psichiatrici giudiziali. Napoli: una finta cella in piazza per spiegare cos'è il carcere di Riccardo Polidoro (Responsabile "Osservatorio Carcere" dell'Ucpi) Il Garantista, 28 dicembre 2014 A Piazza dei Martiri, nel "salotto buono" di Napoli, domani mattina sarà installata dalle 10.30 una finta cella: accoglierà i cittadini che vorranno verificare il percorso detentivo, dall'ingresso in istituto fino alla stanza assegnata. Dove potranno restare chiusi per un minuto. L'iniziativa si intitola appunto "Detenuto per un minuto", e prevede la distribuzione di materiale sulle condizioni di vita all'interno del carcere. È organizzata dalla Camera penale di Napoli con la sua Onlus "Il Carcere possibile" e dal Garante dei Diritti dei detenuti del Consiglio regionale della Campania, in collaborazione con il Provveditorato campano dell'Amministrazione penitenziaria e con la direzione della Casa circondariale di Sant'Angelo dei Lombardi. Un progetto che si inserisce nella "Giornata per la legalità della pena", manifestazione per il rispetto dei principi costituzionali e delle norme in materia di esecuzione. Perché una cella in piazza? Perché turbare lo shopping delle feste di Natale con una presenza certamente non piacevole? La finalità è duplice. Si vuole da un lato ricordare a tutti l'esistenza del carcere come istituzione che svolge una pubblica funzione, dall'altro evidenziare la gravissima emergenza che affligge i nostri istituti penitenziari. L'opinione pubblica si preoccupa se le scuole non funzionano, perché pensa alla qualità dell'istruzione dei loro figli. Si preoccupa se gli ospedali non funzionano, perché pensa che le malattie vadano curate. Ritiene il diritto all'istruzione e il diritto alla salute principi costituzionali inviolabili. Allo stesso modo si preoccupa di una "sicurezza sociale" sempre più debole e chiede pene esemplari, che vadano scontate: la cosiddetta "certezza della pena". Non si preoccupa affatto però se le carceri italiane, come denunciato dalla Corte europea dei Diritti dell'uomo, sono per la maggior parte "incostituzionali", perché l'esecuzione della pena consiste in trattamenti contrari al senso di umanità e non tende alla rieducazione del condannato. Non si preoccupa dunque della "qualità della pena". "Certezza" e "qualità", invece, sono due principi che devono essere invocati insieme, perché la pena spesso non è "certa" proprio perché non è garantita la sua "qualità", cioè l'esecuzione con le modalità previste dalla legge. Riteniamo che la funzione della "pena", che non deve essere esclusivamente il carcere, sia sottovalutata e non sia stata compresa la sua importanza per un miglioramento sostanziale delle stesse condizioni di vita dei cittadini liberi. Domani 29 dicembre, se siete a Napoli, dedicate dunque "un minuto" alla nostra iniziativa, perché l'illegalità delle carceri italiane riguarda tutti. Massa Carrara: il Sottosegretario Ferri in visita all'Istituto penale minorile di Pontremoli www.cittadellaspezia.com, 28 dicembre 2014 Ieri mattina il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri ha visitato l'Istituto Penale Minorile di Pontremoli per fare i propri auguri alle detenute minorenni, alla polizia penitenziaria e a tutti gli operatori sociali che hanno trascorso le festività nella struttura carceraria. La visita è stata inoltre occasione per parlare dell'ultima iniziativa delle ragazze, le quali, con il supporto degli operatori, hanno avviato un'interessante esperienza editoriale redigendo un giornalino che ha l'obiettivo di dare periodica notizia delle attività, degli impegni e delle iniziative che si svolgono nell'istituto. Un modo spontaneo ed originale per raccontare le emozioni di una realtà che sta davvero arricchendo quanti le ruotano attorno, nonché l'intera comunità pontremolese. A margine della visita Ferri ha evidenziato infatti come l'Istituto abbia saputo crescere in questi anni affermando un modello unico per la qualità del percorso rieducativo garantito alle ragazze minorenni (alcune già genitori) che merita di essere sempre di più sostenuto e che può essere di esempio per tante simili realtà. Il Sottosegretario ha poi concentrato la propria attenzione sullo stato del sistema penale minorile evidenziando la necessità di una riforma. Ferri ha dichiarato che "Occorre, inoltre, migliorare l'inserimento del reo-minore nel mondo del lavoro attraverso attività di volontariato e di apprendistato, seguendo l'esempio delle realtà più virtuose, già attive nel nostro Paese. "Allo stesso modo", ha proseguito Ferri, "il Servizio Sanitario Nazionale deve garantire una distribuzione capillare sul territorio di comunità terapeutiche che possano, sinergicamente agli istituti carcerari, assistere il minore in questa delicata e decisiva fase". "Insomma, anche in questo settore, il lavoro da fare non manca, ma sono fiducioso che il Governo saprà lasciare un segno positivo. Lo sono ancor piú oggi dopo aver potuto apprezzare ancora una volta la volontà, le capacità e l'impegno che in un istituto come quello di Pontremoli sanno garantire ottimi risultati". Tempio Pausania: il carcere vive la magia del palcoscenico, appuntamento il 30 dicembre di Giuseppe Pulina La Nuova Sardegna, 28 dicembre 2014 È tutto pronto per l'inaugurazione del "Teatro dello scambio", l'evento clou della programmazione culturale natalizia del carcere di Nuchis. Tutto avverrà con il classico cliché della rappresentazione teatrale. In questo caso sarà duplice, perché due sono le date programmate: il 30 dicembre e il 3 gennaio. L'attesa, all'interno della struttura penitenziaria, è comprensibilmente forte. Con l'apertura ufficiale del teatro si corona un sogno e si porta a compimento un progetto che ha richiesto tante energie: da quelle finanziarie, necessarie per provvedere alle spese, a quelle professionali di esterni e detenuti, senza la cui generosità tutto sarebbe oggi ancora in alto mare. Ma ci sono volute anche la caparbietà della direttrice dell'Istituto, Carla Ciavarella, e del suo staff (il comandante Piero Masciullo, la dottoressa Marianna Madeddu e l'équipe di educatori) per infondere l'entusiasmo necessario. Guai, poi, a dimenticare il ruolo fondamentale di Alessandro Achenza, che nella realizzazione del progetto ha messo anima e corpo, tant'è che è grazie a lui, all'associazione Trait d'Union di cui è presidente, al responsabile Mof, Raimondo Nurra, e a due determinatissimi ospiti della struttura (Vincenzo Fasano e Antonio Pagano), che, lavorando duro per otto ore al giorno e ininterrottamente per un mese, tutto può dirsi ora a posto. È stata davvero una grande impresa e grande sarà la sorpresa di chi, assistendo il 30 dicembre all'inaugurazione (entrambi gli spettacoli inizieranno alle 19), vedrà l'opera compiuta. Utilizzando al massimo la capienza della struttura, vi potranno trovare posto 170 spettatori, per la metà detenuti, per il resto ospiti esterni. Fra le tante autorità, compreso il vescovo della diocesi di Tempio-Ampurias, monsignor Sebastiano Sanguinetti, che presenzierà all'inaugurazione, non dovrebbe mancare il sindaco di Golfo Aranci, la cui amministrazione ha concretamente dimostrato di credere nel progetto. Ma perché "Teatro dello scambio"? Lo spiega in un certo modo Achenza: "Nelle fasi di ultimazione del teatro - dichiara - sono state impiegate maestranze, professionalità e attività commerciali della città". Vale a dire che il carcere ha offerto delle opportunità economiche alla città e che se è vero che l'uno si attende di ricevere non poco dall'altra, questo è anche in grado di ricambiare le attenzioni che può ricevere. Il classico "do ut des", in poche parole, per un progetto che, come si può dire in questi casi, va ben oltre il perimetro delle mura in cui è materialmente contenuto. Le pièce che verranno rappresentate vedranno protagonisti anche alcuni attori del "Contenitore delle arti", compagnia teatrale che fa sempre capo ad Alessandro Achenza. Un impegno totale di cui Achenza, forse per risolvere anticipatamente possibili malintesi, tiene a sottolineare le ragioni: "Non sono entrato nel teatro per assolvere la classica mansione da cittadino coscienzioso; non è questo che ha mosso i miei passi; ho voluto, piuttosto, dare valore a un progetto che si propone di arricchirci tutti attraverso le nostre reciproche differenze". Fa così riflettere anche il titolo del progetto che richiama una nota canzone di Gaber: "La libertà non è uno spazio libero". Verità incontestabile, che accomuna sottilmente due mondi (quello dei carcerati e quello di chi è fuori) che tendono solitamente ad escludersi e che ora, grazie alla magia di un palcoscenico, potranno provare a sentirsi meno distanti. Napoli: per la comunità Sant'Egidio pranzo e doni agli ospiti dell'Opg di Secondigliano di Claudia Sparavigna Roma, 28 dicembre 2014 L'ondata di gelo alle porte apre il periodo più difficile per senza tetto e clochard che devono ripararsi dai rigori dell'inverno. E dunque mai momento fu più indovinato per proseguire con l'usanza dei pranzi di solidarietà promossi dalla Comunità di Sant'Egidio per le festività natalizie. Ieri i volontari della Comunità hanno servito il pranzo agli "ospiti dell'Opg di Secondigliano, alla presenza del Cardinale Crescenzio Sepe, del Capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo e del presidente della Corte d'Appello di Napoli. Antonio Bonaiuto. Oltre al pranzo, i 60 internati che hanno prese parte a questo momento di condivisione e solidarietà hanno ricevuto in dono dei pigiami e un regalo personale dal parte del cardinale Sepe, le ormai tradizionali sigarette. "E' ormai tradizione - ha detto il presule -in questo momento di familiarità, anche offrire un piccolo pasto o una sigaretta sono momenti di gioia. Abbiamo l'obbligo di far sentire la nostra presenza, che sia vicinanza non solo oggi ma con un lavoro fatto giorno per giorno con i volontari e con gli operatori impegnati in un settore così particolare". Il Cardinale ha concluso il suo discorso con la frase che ormai lo contraddistingue come un marchio di fabbrica: "a maronna c'accumpagna!". Tra una battuta, una chiacchiere, una risata e qualche canzone napoletana questa giornata di mezza festa si è conclusa con l'arrivo di Babbo Natale che ha distribuito i regali. Il direttore dell'Opg di Secondigliano, Carlo Brunetti, in carica da appena un mese, ha spiegato di aver trovato un ottimo staff che quotidianamente lavora per mandare avanti la struttura dove sono ospitati circa novanta persone. "La chiusura degli Opg è prevista per il 31 marzo - spiega Antonio Mattone della Comunità di Sant'Egidio - e se, come ci auguriamo. questa data verrà mantenuta potrebbe essere una delle ultime occasioni di incontro in questa struttura. Resta aperto, invece. il problema di come si attrezzeranno i Dipartimenti di Salute Mentale per assistere queste persone fragili e problematiche". Le attività della Comunità di Sant'Egidio per portare un raggio di sole e un barlume di speranza a quanti durante le feste di Natale sono in difficoltà termineranno il 6 gennaio ma il calendario è fitto e denso di impegni. I volontari si occuperanno ancora dei detenuti, dei poveri, degli immigrati, dei rom, portando la loro solidarietà a tutti quelli che ne hanno bisogno. Il cardinale Sepe oggi sarà impegnato in Curia, dove si terrà il tradizionale pranzo per i poveri offerto dal Cardinale ogni anno. Sassari: a Bancali detenuti a pranzo con le famiglie, per una domenica il carcere a festa di Vannalisa Manca La Nuova Sardegna, 28 dicembre 2014 Si è ripetuto anche quest'anno l'evento di Natale: per una domenica il carcere vestito a festa. Il Natale è momento di gioia anche per chi ha commesso un reato e si trova rinchiuso in carcere per cercare di redimersi. Il Natale è festa religiosa, di riflessione comunitaria, un'occasione per stare in famiglia. Ma chi è detenuto questo "lusso" non può permetterselo. Accadono però anche i "miracoli" terreni, grazie alla iniziativa e alla volontà di tanti. Anche quest'anno, infatti, per la quarta volta consecutiva, nel carcere di Bancali si è respirata aria di casa. L'affetto aiuta e l'immaginazione fa dimenticare almeno per la durata di un pranzo che la festa si svolge dentro ben precise quattro mura. Ma in un luogo di malinconia, l'altro giorno a diventare protagonista è stato il sorriso dei figli a padri reclusi. Per un giorno, domenica 21 dicembre, il pranzo dei detenuti si è svolto come in famiglia, con mogli e figli minori seduti tutti insieme a tavola nel carcere di Bancali. Così, la sala mensa della struttura penitenziaria è diventata un grande ristorante grazie all'organizzazione della area educativa, della Caritas diocesana con Gaetano Galia, e della Camera penale di Sassari. Le famiglie coinvolte erano dieci e dieci sono stati i tavolini separati. L'occasione per accarezzare i visi, per parlarsi negli occhi. Con dolcezza. In tutto a tavola si sono accomodate sessanta persone, accolte dai volontari, dagli educatori, dagli agenti di polizia penitenziaria che quel giorno si tolgono la maschera della serietà e si mettono quella della informalità. Un menù di tutto rispetto: antipasti vari, gnocchetti al ragù di cinghiale, crespelle con peretta filante, agnello, polpette di carne di cinghiale, cinghiale al sugo, patate, verdure miste, funghi, cream caramel, pandoro farcito con crema chantilly, caffè, bibite. Niente alcol, naturalmente. Gli operatori come sempre, in queste occasioni, erano tutti volontari. "Ed è stato bello - ha commentato don Galia, vedere gli educatori, compresa la responsabile fare i camerieri, i cuochi erano due chef professionisti e anche loro si sono prestati volontariamente, i detenuti della cucina che hanno fatto serenamente e gratuitamente gli "straordinari", anzi ci hanno tenuti fortemente ad essere coinvolti". Ed è stato bello vedere tutti i detenuti - anche quelli che non avrebbero ricevuto parenti - che si sono dati gran daffare alla realizzazione di questo evento. Tutti con grande entusiasmo e disponibilità. Una giornata particolare per i carcerati che sin dalle prime ore del mattino si sono mostrati in ansia nell'attendere il momento di vedere la propria moglie e lo sguardo dei figli piccoli. E l'emozione si è accesa ancora di più nell'osservare i bambini con gli occhi lucidi che appena hanno visto i loro genitori finalmente insieme gli si sono letteralmente attaccati al collo quasi a non volersi più staccare. La piccolina che voleva stare per tutto il pranzo a mangiare rimanendo in grembo al padre. E poi, la bellezza di vederli seduti ad un tavolo, tutti composti, in un contesto di normalità e dopo il pranzo, osservare i papà giocare con i loro piccoli nel piazzale esterno alla sala pranzo. Situazioni di vita sana, ma naturalmente rare. Il saluto finale con un velo di tristezza: tutto è stato bello ma è durato poco. Le mogli, con andare faticoso e stanco, ma anche ricco di fedeltà e di amore, sono arrivate anche da Cagliari, chi con tre e chi con quattro marmocchi, per mantenere la continuità d'affetto tra i figli e il loro papà. L'area educativa ha provveduto che ogni bambino avesse il suo regalo. Così che la giornata sia stata un evento speciale da portare nel cuore e ricordare a casa mentre si gioca. Roma: a Rebibbia nasce una biblioteca con 150 titoli per bimbi e madri detenuti Ansa, 28 dicembre 2014 Nel carcere di Rebibbia, a Roma, è nata una biblioteca dedicata ai piccoli reclusi (0 - 3 anni) e alle mamme detenute nel penitenziario. L'iniziativa è stata realizzata dall'associazione "A Roma Insieme-Leda Colombini" che ha partecipato e vinto un bando finanziato con il ricavato dei fondi dell'8 per mille raccolti dalla Chiesa valdese. La biblioteca è stata appositamente studiata per uno spazio di ridotte dimensioni e multifunzionale con mobili e complementi d'arredo colorati, interamente in cartone ondulato, pieghevoli e di facile montaggio. Quattro le librerie, di cui una verticale e tre orizzontali, per permettere la presa diretta dei libri anche ai più piccoli, tre i tavoli rotondi con venti sedie a misura di bambino per poter leggere insieme alle loro mamme o alle operatrici durante i laboratori. In collezione circa 150 titoli rivolti ai bambini da 0 a 3 anni, selezionati con cura da esperti del settore e adatti sia per le mamme detenute che per i loro figli. L'obiettivo principale del progetto era quello di far scoprire da vicino alle mamme le potenzialità degli albi illustrati, attraverso letture e attività ludico-creative, da sperimentare poi autonomamente con i propri bambini, incentivando una relazione positiva tra grandi e piccoli in un contesto difficile come quello carcerario. "Il progetto - racconta la curatrice, Giulia Franchi - puntava prima di tutto al conseguimento di una fruizione autonoma della biblioteca da parte delle mamme; nei sei incontri che si sono svolte nel nuovo ambiente, abbiamo presentato una selezione di albi accompagnata da suggerimenti per la lettura e da attività di laboratorio (percorsi tematici sul colore, sul corpo umano, sugli animali ecc.). La risposta che abbiamo avuto sia dalle detenute che da parte dei piccoli è stata entusiasmante e il risultato finale si può dire che sia stata la scoperta da parte delle mamme che i libri sono pezzetti di esperienza da portare per sempre con se nel percorso della propria vita". "Dare la possibilità alle mamme recluse di conoscere e praticare l'importanza della lettura ad alta voce, di imparare a ritagliarsi un tempo per raccontare, per leggere una filastrocca il cui ritmo, anche se le parole saranno ancora sconosciute - spiega Gioia Cesarini Passarelli, presidente dell'Associazione "A Roma, Insieme-Leda Colombini" - sarà in grado di rasserenare, di dare piacere e amore, è un atto importante. Soprattutto in un luogo come il carcere. Dove è difficile trovare serenità e calore. Ma quelle mamme e quei bambini hanno il diritto di un tempo dedicato, hanno diritto a "nutrire la mente" e il cuore dei loro piccoli, perché abbiano uguali opportunità". India: Federica Mogherini su marò; il caso può incidere su relazioni con l'Unione europea La Presse, 28 dicembre 2014 In un'intervista a Repubblica l'Alto rappresentante per la politica estera europea spiega che la vicenda dei fucilieri Latorre e Girone può avere effetti anche sulla lotta globale contro la pirateria, in cui l'Ue è fortemente impegnata. Il braccio di ferro tra Italia e India sul caso dei due marò detenuti nel paese asiatico non si placa. E può condurre ad un ulteriore peggioramento dei rapporti diplomatici, anche a livello continentale. Lo dimostrano le parole dell'ex ministro degli Esteri italiano, ora Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea, Federica Mogherini, che in un'intervista a Repubblica sostiene che i continui rinvii da parte indiana nell'affrontare la vicenda di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone possono "incidere sulle relazioni" tra Ue e Nuova Dehli. La responsabile della diplomazia Ue esprime oggi "un pensiero di vicinanza" ai due fucilieri della Marina accusati dell'omicidio di due pescatori indiani, ed auspica che si trovi presto una soluzione alla vicenda, di cui si è già occupata in Italia da ministro degli Esteri. "Nella mia nuova posizione continuo a seguire da vicino" il caso - afferma Mogherini - "che mi sta molto a cuore, in contatto con il governo italiano". Si tratta di una vicenda che, al di là degli aspetti personali - sostiene l'Alto Rappresentante Ue - "può anche incidere sulle relazioni Ue-India e sulla lotta globale contro la pirateria in cui l'Ue è fortemente impegnata". Nel corso dell'intervista a Repubblica l'ex ministro degli Esteri afferma che, nei mesi in cui è stata a capo della Farnesina, sono state messe in campo "le procedure preliminari all'arbitrato, che hanno richiesto più tempo del previsto". Intanto - si spiega - il governo indiano ha inviato un messaggio che da una parte segnala un atteggiamento di apertura, ma dall'altro ribadisce che "la magistratura darà su questo caso un giudizio indipendente", sottolineando quindi che il caso dei marò non può essere risolto con il dialogo tra esecutivo italiano e indiano. Questo, dopo che il ministro degli Esteri di Nuova Dehli, Sushma Swaraj, nei giorni scorsi aveva riconosciuto davanti al parlamento che il governo indiano sta esaminando una proposta italiana per arrivare ad una soluzione del caso Latorre e Girone. Arabia Saudita: "guida pericolosa" di Michele Giorgio Il Manifesto, 28 dicembre 2014 Due saudite rischiano una condanna senza precedenti per avere infranto il divieto di guida per le donne. Saranno processate davanti a una corte anti-terrorismo. Il regno dei Saud, ai primi posti per violazioni dei diritti umani e politici, gode dell'impunità grazie al silenzio-assenso di Europa e Usa. È l'unico Paese al mondo a vietare la guida alle donne. Ma l'Arabia saudita, custode oltre che della Mecca e di Medina anche degli interessi occidentali in Medio Oriente e stretta alleata della superpotenza americana, passerà alla storia anche come lo Stato dove due giovani - Loujain Hathloul, 25 anni, e Maysaa al Amoudi, 33 anni, solo per aver deciso di mettersi al volante, saranno processate per "terrorismo". Lo denunciano amici delle due donne e attivisti dei diritti umani, sottolineando che i giudici potrebbero sentenziare pene davvero pesanti, oltre ogni aspettativa. Loujain e Maysaa peraltro hanno già battuto un "record" nazionale: la detenzione più lunga per avere guidato. Sono in carcere da quasi un mese. Non era mai accaduto alle altre saudite che prima di loro avevano deciso di opporsi a una assurdità che non ha alcun legame con l'Islam e che è figlia della sottocultura tribale che domina il regno dei Saud. Nessuna legge formale vieta alle donne di guidare in Arabia Saudita ma i religiosi ultraconservatori hanno emesso fatwe (editti) molto rigidi in materia e le autorità "civili" non rilasciano le patenti di guida. Nel 1990, cinquanta donne furono arrestate per aver guidato. Si videro confiscare i passaporti e in non pochi casi persero il lavoro. Più di 20 anni dopo, nel 2011, una donna è stata condannata a dieci frustate per essersi messa a volante (il re ha poi annullato la sentenza). Loujain Hathloul e Maysaa al Amoudi sono piuttosto note nei social network. La prima ha ben 228mila follower su Twitter, la seconda oltre 130mila. Insieme hanno creato un programma su Youtube a favore del riconoscimento del diritto delle saudite alla guida, una battaglia che per loro è simbolica della lotta per il conseguimento di altri diritti negati alle donne, come quello a votare o viaggiare senza farsi obbligatoriamente accompagnare da un "tutore". Lanciata oltre un anno fa - ad ottobre del 2013 sedici donne furono state fermate mentre erano al volante e hanno poi dovuto pagare multe salate - la petizione che chiede di eliminare il divieto di guida ha raccolto migliaia di firme. Anche molti uomini hanno esortato le loro compagne ad infrangere il divieto e a postare le loro immagini mentre guidano sotto l'hashtag #IwillDriveMyself. Successi che non hanno scosso le gerarchie religiose wahabite, vicine dal punto di vista dottrinale al salafismo radicale che ispira i leader dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Loujain Hathloul, il primo dicembre, ha perciò deciso di schiacciare l'acceleratore della trasformazione e di tentare di andare in auto dagli Emirati in Arabia saudita, grazie ad una patente ottenuta a Dubai. Ma è stata arrestata dalle guardie di frontiera che poi hanno fermato Maysaa al Amoudi, saudita anche lei ma trasferitasi negli Emirati, per aver difeso e portato del cibo a Loujain. "Il loro caso sarà discusso davanti ad un tribunale antiterrorismo", ha riferito allarmato un attivista. Il timore è che l'asse monarchia-gerarchie religiose abbia l'intenzione di dare una lezione molto dura alle due "automobiliste illegali" in modo da scoraggiare altre donne. Gli avvocati sono pronti a ricorrere in appello contro il probabile pugno di ferro dei giudici. Le corti antiterrorismo sono state istituite ufficialmente per giudicare i membri di organizzazioni armate legate ad al Qaeda ma in questi ultimi anni ha inflitto lunghe pene detentive anche ad attivisti per i diritti umani, dissidenti politici e critici del governo. Quest'anno hanno condannato a morte per sedizione un importante esponente religioso della minoranza sciita, lo sceicco Nimr al-Nimr, una voce critica del potere dei Saud, e fatto sbattere in carcere un avvocato per i diritti umani di spicco, Walid Abul-Khair, con l'accusa di incitamento. Human Rights Watch avverte che "le autorità saudite sono impegnate in attività repressive nei confronti di persone che criticano pacificamente il governo su Internet", usando la legge anti-cybercrime in modo da condannare cittadini sauditi per tweets pacifici e commenti sui social media. Centinaia di persone di recente sono state arrestate come "sospetti terroristi". E migliaia sono i prigionieri di coscienza. Le donne, denuncia da parte sua Amnesty International, continuano a subire gravi discriminazioni, nonostante alcuni segnali di riforma, e ben poco conta il fatto che una di loro sia stata nominata vice ministro. Pesano sempre le disposizioni che regolano il divorzio e la custodia dei ?gli, l'assenza di una legge che criminalizzi la violenza sulle donne e i pesanti abusi che subiscono le lavoratrici domestiche di fatto non sono riconosciuti dallo Stato. Inoltre i musulmani sciiti e i praticanti di altre confessioni sono presi di mira e i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono violati. Leggi poco chiare sono impiegate per reprimere la libertà di espressione. Tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono sistematici e condotti nell'impunità. Tra i metodi usati ci sono pestaggi, scosse elettriche, sospensione per gli arti, privazione del sonno e insulti. Sono comminate con frequenza regolare condanne alla fustigazione. La pena capitale è applicata in maniera estensiva. Molte decine di persone sono messe a morte ogni anno, tra queste anche minorenni. Di fronte a ciò i governi europei ed americano, tranne qualche rara eccezione, rimangono in silenzio, fingono di non vedere, pur di non compromettere i rapporti con la potente famiglia reale Saud, garanzia da molti decenni degli interessi occidentali in Medio Oriente.