Giustizia: report europeo chiede l'accesso a internet e il diritto all'affettività per i detenuti www.osservatorioantigone.it, 20 dicembre 2014 Nel febbraio 2013 è stato presentato a Roma l'Osservatorio Penitenziario Europeo. Attivo in 8 paesi (Francia, Grecia, Italia, Lettonia, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Spagna) monitora e analizza le attuali condizioni dei vari sistemi penitenziari nazionali e dei relativi sistemi delle alternative alla detenzione, confrontandole con le norme internazionali rilevanti per la protezione dei diritti fondamentali dei detenuti, in particolare le Regole Penitenziarie Europee (Epr) del Consiglio d'Europa. Dal lavoro svolto in questi mesi, pubblicato sul sito www.prisonobservatory.org, emerge come nessuno di questi paesi abbia pienamente abbracciato la filosofia del Consiglio d'Europa o violando invece molte delle sue raccomandazioni. Tuttavia i lavori dell'Osservatorio Penitenziario Europeo individuano anche delle "buone pratiche" che, in sintonia con la filosofia del Consiglio d'Europa, potrebbero essere da ispirazione per altri paesi. Tra queste alcune in particolare sembrano parlare al sistema penitenziario italiano dove, ancora ad oggi, sembrano un miraggio: l'accesso a internet e il diritto all'affettività in carcere. Per sostenere il principio di normalizzazione e per ridurre gli effetti deleteri della carcerazione le Regole Penitenziarie Europee del Consiglio d'Europa sottolineano come la vita in carcere dovrebbe avvicinarsi "il più possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera" (Regola 5) e che tutta la detenzione dovrebbe "essere gestita in modo da facilitare il reinserimento nella società libera delle persone che sono state private della libertà" (Regola 6). Seguendo queste indicazioni la Francia ha avviato dal 2007 un progetto "Cyber Bases" che prevede un accesso sorvegliato a Internet, al fine di "colmare il divario digitale e l'analfabetismo". I detenuti possono, previa autorizzazione del direttore, navigare in Internet attraverso vari siti preselezionati. "Cyber bases" è anche usato come parte della formazione. Le Epr sottolineano anche il dovere delle autorità di facilitare "i contatti con il mondo esterno" e di "permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali", "fornendo loro l'assistenza sociale appropriata allo scopo" e consentendo loro di beneficiare di "visite familiari intime per un periodo prolungato", pari ad esempio a 72 ore (Regola 24-4/5 e Commentario alle Epr). In questa direzione in Scozia è stato predisposto un sistema di "visite virtuali" ai detenuti finanziato dallo Scottish Prison Service (Sps) e sviluppato con Apex, una cooperativa di ex-detenuti. I visitatori non hanno bisogno di una particolare autorizzazione: la visita virtuale è una modalità alternativa ai colloqui ordinari pensata per chi ha difficoltà a spostarsi e deve essere prenotata con almeno un giorno di anticipo a un apposito numero di telefono. I visitatori devono poi recarsi presso gli uffici Apex ad Aberdeen con un documento di identità dotato di fotografia. Le chiamate sono limitate a un'ora. In Francia invece si è deciso di creare, in carcere, spazi che consentano ai detenuti di incontrare i loro parenti in luoghi in cui è rispettata la massima privacy. Decisione nata come conseguenza diretta dell'advocacy di ex detenuti che, negli anni 80, hanno avuto il coraggio di portare la loro testimonianza per dar prova della frustrazione sessuale che si vive in carcere e del dolore che essa crea. Due diverse strutture sono disponibili: le unità per le visite famigliari (Uvf), appartamenti arredati composti da 2 o 3 camere, dove i detenuti sono autorizzati a ricevere uno o più parenti per un periodo che va alle 6 alle 72 ore, e le stanze per le visite intime (parloirs familiaux), piccole stanze di circa 10 metri quadrati, in cui i detenuti possono ricevere visitatori senza sorveglianza per mezza giornata. Sono dotate di doccia, un divano letto, un tavolo, delle sedie, un televisore e alcuni elettrodomestici come ad esempio un bollitore o una caffettiera. Queste stanze sono principalmente usate per sostituire le unità per le visite famigliari quando l'architettura carceraria non consente la costruzione di Uvf. "Il lavoro dell'Osservatorio Europeo sulle prigioni - dichiara Alessio Scandurra di Antigone, coordinatore del progetto - ci aiuta a mettere in rete informazioni sui sistemi penitenziari dei Paesi dell'Unione Europea, analizzando le tante carenze ma, attraverso la rilevazione delle buone pratiche, offre anche soluzioni a problemi che, da anni, attendono risposta". "Dotare dell'accesso internet i detenuti - prosegue Scandurra - così come favorire i rapporti con i loro familiari, non può che favorire il reinserimento a fine pena, rispondendo alle regole Europee e al nostro dettato Costituzionale". "L'obiettivo è che, a partire da questo lavoro, si apra nelle istituzioni un dibattito sui temi che qui si sollevano". A partire dagli esempi di buone prassi riuniti nel rapporto "Dalle prassi nazionali alle linee guida europee: Iniziative interessanti nella gestione penitenziaria", lo European Prison Observatory suggerisce dieci raccomandazioni chiave volte a migliorare gli standard sui diritti umani. Esse si basano sui due principi fondamentali delle Regole Penitenziarie Europee di normalizzazione e di responsabilizzazione. 1. Lo sviluppo di una democrazia rappresentativa in carcere in Inghilterra e Galles è stata vantaggiosa per i detenuti, per il personale e per la società in generale. Lo sviluppo di un dialogo costruttivo aiuta a migliorare le relazioni tra personale e detenuti; è trasformativo per i detenuti e porta ad una riduzione generale della tensione in tutta l'istituzione. I direttori di carcere in tutta l'Ue devono essere incoraggiati a promuovere lo sviluppo di Prison Councils in tutti gli istituti. 2. In tutta l'Ue, perquisizioni personali intime e isolamento dovrebbero essere vietati. Le perquisizioni delle celle dovrebbero essere effettuate solamente in presenza del detenuto. 3. Lo sviluppo di pratiche di mediazione e riparazione in carcere, alternative rispetto all'uso di procedimenti disciplinari, è quasi completamente assente in tutti gli stati coinvolti nell'Osservatorio. Si raccomanda che l'Ue documenti buone prassi di mediazione come pratica di riparazione, e diffonda attivamente tale ricerca ai sistemi penali degli stati membri. 4. Il carcere di Grendon nel Buckinghamshire, Inghilterra, dimostra con mezzo secolo di esperienza come l'efficacia della sicurezza dinamica e un approccio terapeutico nel portare avanti una migliore qualità della vita in carcere conducano a tassi di recidiva inferiori. L'Ue dovrebbe incoraggiare lo sviluppo di una sperimentazione e di una valutazione del modello di Grendon in ogni stato membro. 5. La Polonia ha dimostrato che il dare ai detenuti gli stessi diritti democratici degli altri cittadini agisce come simbolo di cittadinanza e di partecipazione sociale continuata senza mettere in discussione la sicurezza. L'Ue dovrebbe promuovere il suffragio universale dei detenuti, come mostrato in Polonia, per favorire la responsabilizzazione e la normalizzazione dei detenuti al fine di rafforzare la democrazia in Europa. 6. La maggior parte dei detenuti proviene dalle comunità più svantaggiate dell'Unione Europea e molti sono residenti in carceri che si trovano lontane dalla famiglia e dagli amici. In queste circostanze, il mantenimento delle relazioni essenziali può essere difficile, perché le visite possono essere molto costose per le famiglie a basso reddito; ciò può essere sentito come un peso per coloro che vanno in visita a parenti detenuti. Venire incontro alle spese di viaggio della famiglia e degli amici che vivono di sussidi sociali, come nell'Assisted Prison Visits Scheme in Inghilterra, Galles e Scozia, dovrebbe essere una pratica standard in tutta l'Ue. 7. Quando dei componenti della famiglia vanno in visita a detenuti, la necessità di privacy e la possibilità di avere intimità sono di primaria importanza. La ricerca sulle stanze private per le visite in Francia mostra come esse siano apprezzate da parenti e amici, e come migliorino i legami familiari senza compromettere la sicurezza. La ricerca indica anche che se ai detenuti sono concesse visite private la tensione in carcere si riduce. Il sistema francese delle unità per le visite famigliari (Uvf) dovrebbe essere attuato in tutte le carceri francesi e sperimentato nelle carceri di tutti i paesi dell'Ue. 8. La tecnologia digitale offre la possibilità di mantenere il contatto con la famiglia e con gli amici anche quando viaggiare non è possibile. In tutta l'Ue, coloro che non sono in grado di viaggiare per andare in visita a detenuti (a causa della distanza, della malattia, della disabilità o dell'età) trarrebbero vantaggio dall'adozione dei sistemi di visite video, come sviluppati da Apex e dal Prison Service scozzese. La tecnologia necessaria è sicura e a basso costo. L'Ue dovrebbe promuovere lo sviluppo di ‘visite video' in tutti gli stati membri. 9. C'è un bisogno urgente di colmare il divario digitale per coloro che stanno scontando pene detentive a medio e lungo termine. Il XXI secolo è stato testimone di una rivoluzione digitale. La velocità del cambiamento è tale che i detenuti possono essere tagliati fuori da questi sviluppi e essere come risultato vittime di un significativo svantaggio sociale. Vi è necessità di istituire un programma completo di cyber-accesso sicuro in tutta l'Ue, come è stato sperimentato nel sistema penale francese. La tecnologia per rendere sicuro tale accesso e per bloccare alcuni siti è disponibile. 10. L'accesso a corsi di studio avanzati dovrebbe essere la norma in tutta l'Unione Europea. L'Italia fornisce dimostrazione del fatto che l'accesso alla formazione universitaria può essere trasformativo per l'individuo in termini di riflessione su se stesso e di sviluppo personale e, inoltre, che esso può ampliare le opportunità di lavoro dopo l'uscita dal carcere. Giustizia: Cassazione; 3 mq calpestabili per ogni detenuto, oppure è trattamento inumano Ansa, 20 dicembre 2014 Tre metri quadrati calpestabili per ogni detenuto. È la Cassazione a mettere nero su bianco il requisito minimo, facendo esplicito riferimento alla giurisprudenza europea, in particolare alla sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti umani (Cedu) nel gennaio 2013 ha condannato l'Italia per il sovraffollamento delle carceri. Dopo quella pronuncia il governo era dovuto correre ai ripari con un piano d'azione, stabilendo anche - attraverso il decreto convertito ad agosto - un risarcimento per i detenuti che abbiano scontato la pena in una situazione contraria al senso di umanità. Con 54mila detenuti, il sovraffollamento si è drasticamente ridotto rispetto ai livelli precedenti alla sentenza Cedu. E la stessa Corte Europea ha respinto oltre 3.500 istanze presentate dopo la sentenza pilota. Ma esiste ancora una discrepanza con i posti regolamentari (circa 49mila). La Cassazione si è pronunciata sul ricorso del ministero della Giustizia contro la decisione di un magistrato di sorveglianza di Venezia che, dopo il reclamo di un detenuto e nonostante l'opposizione dell'amministrazione penitenziaria, ne aveva disposto il "trasloco" in una cella "con superficie calpestabile pro capite non inferire a tre metri quadrati". Il magistrato veneziano aveva osservato nella sua ordinanza che "sempre o quasi sempre" e "anche senza tenere conto dell'ingombro costituito da letto, armadio e lavabo", lo spazio assicurato al detenuto e ai suoi compagni di cella era inferiore al limite al di sotto del quale si parla di trattamento "inumano e degradante". Pur prendendo atto, come sostenuto dall'avvocato dello Stato, che "nessuna norma di legge prevede l'indicazione numerica della superficie che deve avere la cella per poter essere considerata adeguata e sufficiente al trattamento umano del detenuto", il giudice di sorveglianza ha richiamato la sentenza Torreggiani, sulla determinazione dello spazio vitale minimo, al di sotto del quale c'è una violazione dell'articolo 3 della Cedu. Un orientamento condiviso dalla prima sezione penale (presidente Maria Cristina Siotto, relatore Massimo Vecchio) della Cassazione, con la sentenza n. 53012: "Nel sancire il divieto di tortura, delle pene e dei trattamenti umani e degradanti, l'articolo 3 della Convenzione non ha tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto", e anche l'ordinamento penitenziario parla solo di "spazio sufficiente"; ma questo significa che spetta al giudice "accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione", in base agli "standard giurisprudenziali". Giustizia: quando non diremo più "marcisci in cella!" di Francesco Lai (componente della Giunta dell'Unione Camere penali) Il Garantista, 20 dicembre 2014 Tutto dimostra che le misure alternative al carcere sarebbero un grande affare. Sia sul piano economico, sia su quello politico e culturale. 10 mila detenuti per i quali si applichino le misura alternative sarebbero un risparmio di 210 milioni all'anno per lo Stato. Qual è l'ostacolo? L'ostacolo principale ti culturale. Quella fetta sempre più grande di opinione pubblica che invoca l'aumento delle pene, che desidera che il condannato stia dietro le sbarre, stia male, sia tagliato fuori dalla società. Loro pensano che sia una garanzia per la propria sicurezza. Non è vero. Le misure alternative al carcere come strumento di contrasto al sovraffollamento degli istituti penitenziari ma non solo. I risultati di una ricerca condotta dal Centro nazionale per il volontariato e dalla Fondazione volontariato e partecipazione, presentati alcuni giorni fa alla Camera dei Deputati, confermano una volta di più come l'esecuzione della pena all'esterno delle mura carcerane sia un obiettivo verso il quale il nostro legislatore debba tendere sempre più incisivamente in un'ottica di riforma del sistema penitenziario. I dati divulgati in occasione dell'evento "La certezza del recupero. I costi del carcere ed il valore delle misure alternative" non lasciano spazio a dubbi interpretativi di sorta. La popolazione carceraria conta oggi 54.428 detenuti, circa il 10% in più rispetto alla capienza delle strutture ospitanti. Il costo complessivo del sistema penitenziario ammonta a 3 miliardi di euro all'anno e quello per ogni detenuto, al netto delle spese sanitarie, a poco più di 120 euro al giorno. Si è ipotizzato che, qualora 10.000 detenuti venissero trasferiti alla pena alternativa da quella carceraria, si risparmierebbero ben 577 mila euro al giorno, cioè a dire, in proiezione, 210 milioni di euro all'anno. Con un evidente decongestionamento degli istituti e conseguenti benefiche ricadute rispetto al cronico dramma del sovraffollamento un incremento in termini occupazionali. Investire di più e meglio nelle misure alternative, dunque. Negli ultimi anni, a dire il vero, abbiamo assistito ad un cospicuo impiego di risorse per la realizzazione di nuove carceri o per la ristrutturazione di altre già esistenti. Molto minore e stata l'attenzione dedicata in favore dell'esecuzione penale esterna, tanto che gli stessi dirigenti Uepe sono stati i primi a dolersene, quasi che la reclusione intramuraria costituisca il principale momento di espiazione della pena e non, come dovrebbe, quello residuale e eccezionale. L'extrema ratio. Vero è che il problema non è di agevole soluzione per chi è chiamato ad occuparsene in ambito politico. Non sono pochi gli ostacoli che portano ad un progressivo sfoltimento del numero dei detenuti, con contestuale aumento del ricorso alle misure alternative. Vi sono certamente problemi di ordine pratico. Ad esempio, i volontari che operano all'interno degli istituti, in applicazione dell'art. 78 dell'Ordinamento penitenziario, sono oggi circa 10 mila. E svolgono un'opera meritoria, un lavoro oscuro di straordinaria importanza e, sia consentito, nobiltà. Perchè sono coloro che quasi quotidianamente si rapportano con i detenuti, li ascoltano, tentano di valorizzarne le attitudini. E sono tra i pochi che li fanno sentire ancora degli esseri umani, parte integrante di una società che parrebbe averli dimenticati. Il rovescio della medaglia a tutto questo sta però nell'esiguità del numero dei volontari che operano negli Uffici locali per l'esecuzione esterna della pena. Sono pochissimi ed in tal senso il nostro legislatore bene farebbe a rivedere l'art. 78 dell'Ordinamento penitenziario, attualmente dai più ritenuto eccessivamente restrittivo sull'impiego dei volontari nelle misure alternative. Ostacoli di ordine pratico, si diceva. E questi sono solo alcuni. Altro problema, senza dubbio quello più rilevante, è dato da quelli che sarebbe forse errato definire ostacoli ma più propriamente vere e proprie barriere di tipo culturale, notoriamente radicate nella nostra società. L'idea che chi ha commesso un crimine debba "marcire in galera" è sempre viva ed attuale nella percezione collettiva, insieme all'immagine del carcere intesa come luogo del dimenticatoio nel quale recludere i malvagi e, se possibile, recidere ogni loro contatto con il mondo esterno. Carcere, reclusione come sinonimi di sicurezza per il cittadino comune. Il tentativo di rimuovere queste ataviche resistenze culturali al problema è certamente compito della politica ma non solo. Il mondo accademico. Quello giudiziario, quello associativo, molto possono fare in questo senso. Ad esempio, spiegando che la percentuale di recidiva è sensibilmente inferiore in coloro che scontano la pena tramite una misura alternativa rispetto a chi passa il suo tempo a contare i giorni e le ore all'interno di una cella. Il che significa, dati alla mano, che la funzione rieducativa e di reinserimento di una pena eseguita interamente all'interno degli istituti penitenziari è pressoché inesistente. E che è necessario finanziare le strutture per l'esecuzione penale esterna. Eppure vi sono forze politiche, alcune delle quali rappresentate in Parlamento, che fanno della "carcerizzazione", dell'aumento delle pene, il motivo della loro esistenza, di conquista facile del consenso. Non fa certamente buona politica giudiziaria un governo che un giorno parla della necessità di risolvere il problema del sovraffollamento ed il giorno dopo in poche ore licenzia un ddl con cui aumenta il trattamento edittale per determinati reati sull'onda emotiva determinata dal contingente scandalo giudiziario. Un modo di procedere che sa di schizofrenico. E che non tiene conto che ciò che fonda la giustizia, e dunque anche la pena, è l'educazione. Non la vendetta. Giustizia: sempre meno Paesi per la pena di morte (anche se l'Europa se ne infischia) di Sergio D'Elia (Segretario Associazione "Nessuno tocchi Caino") Il Garantista, 20 dicembre 2014 In Italia è passato del tutto inosservato il fatto che, due giorni fa, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite è tornata a chiedere di porre fine all'uso della pena di morte con una nuova Risoluzione che invita gli Stati a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell'abolizione della pratica. La notizia, totalmente censurata, è che la nuova Risoluzione è stata adottata con il numero record di 117 voti a favore, sei in più rispetto alla Risoluzione del 2012, e il più basso dei voti contrari, 38, tre in meno rispetto alla volta scorsa. Degni di nota sono stati la co-sponsorizzazione, per la prima volta, della Sierra Leone e, in particolare, il voto a favore per la prima volta del Niger, frutto di una missione nel Paese di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale guidata da Marco Pannella e che si è svolta dal 19 al 21 novembre. Insieme al Niger hanno per la prima volta votato a favore anche Eritrea, Figi, Guinea Equatoriale e Suriname. Come ulteriore fatto positivo è da segnalare anche il passaggio dal voto contrario all'astensione di Bahrein, Myanmar, Tonga e Uganda. Tutti riconoscono che il nuovo voto al Palazzo di Vetro, il quinto in sette anni, non è altro che la registrazione della evoluzione positiva e ormai irreversibile in atto nel mondo verso la fine dello Stato-Caino e del superamento del fasullo e arcaico principio dell'occhio per occhio. Nessuno pare riconoscere e ricordare che questo risultato è stato determinato dalla scelta dialogica e creativa di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale di proporre - sin dall'inizio e da soli - la moratoria delle esecuzioni come passaggio chiave per giungere all'abolizione. Voglio ricordare che nel 1994, la prima volta che fu presentata a New York - dal Governo Berlusconi e con Emma Bonino delegata a rappresentarlo sul tema -, la proposta italiana di moratoria fu battuta per otto voti sol perché 21 Governi europei, abolizionisti duri e puri al proprio interno, decisero di astenersi in sede Onu. Il mitico Paolo Fulci, l'allora ambasciatore italiano all'Onu, ancora non se ne fa una ragione. Il ruolo, a dir poco inconcludente, dell'Unione Europea andrebbe descritto per filo e per segno. Ne risulterebbe infranto il luogo comune di un'Europa in prima linea nella lotta alla pena di morte nel mondo. Dopo la vicenda del 1994, l'iniziativa "fallì" di nuovo nel 1999, non perché fu sconfitta ai voti, ma perché all'ultimo minuto venne da Bruxelles l'ordine di ritirare la risoluzione già depositata dall'Unione Europea in quanto tale. Per Paolo Fulci, all'epoca ancora protagonista al Palazzo di Vetro delle battaglie dell'Italia contro la pena di morte, fu una "scusa" quella di chi allora disse che non c'erano i voti. Con quasi quindici anni di ritardo - e chissà quanti condannati, nel frattempo, impiccati o fucilati - la Risoluzione Onu prò moratoria è stata per la prima volta approvata nel dicembre 2007. L'esito del voto - 104 a favore e 54 contrari - ha confermato l'attendibilità delle previsioni che Nessuno tocchi Caino aveva continuato a elaborare, documentare nei suoi rapporti annuali e regolarmente e ufficialmente fornire ai Governi membri dell'Unione Europea. Il successo l'iniziativa italiana nel 2007 - fortemente voluta dal Governo di Romano Prodi - è stato anche il frutto di come noi radicali abbiamo "vissuto", dato corpo - letteralmente! - alla campagna per la Moratoria nel suo ultimo miglio, nell'anno che ha preceduto il voto all'Onu. Nessuno ormai ricorda lo sciopero della sete di otto giorni intrapreso da Marco Pannella per salvare la vita di Saddam Hussein e subito convertito sull'obiettivo più generale della Moratoria Universale perché non venisse dissipato un tragico momento quale è stata la sua impiccagione, con l'immensa carica di scandalo e sollevazione dell'opinione pubblica anche araba che quell'evento aveva suscitato. Nessuno ricorda lo sciopero della fame "a oltranza", formula inedita nella tradizione radicale, che dirigenti e militanti radicali hanno condotto - a due riprese e per complessivi 89 giorni - per chiedere il rispetto della parola data, della legalità e del diritto che gli stessi Governi europei avevano fissato, decretato e assunto davanti ai loro parlamenti. Dopo il successo - indiscutibilmente Radicale - del 2007, siamo stati aiutati solo dal Governo italiano e dalla sua straordinaria rete diplomatica, dal governo norvegese e da quello svizzero, mentre l'Unione Europea, in quanto tale, ha scelto di sostenere campagne più ideologiche contro la pena di morte e organizzazioni abolizioniste meno "radicali" della nostra e conservatrici, di fatto, dello status quo. Ciò nonostante, abbiamo continuato a favorire moratorie e abolizioni nel mondo e a cercare nuovi co-sponsor e altri voti a favore della Risoluzione Onu, riuscendo, negli ultimi due anni, a guadagnare almeno quattro dei nuovi Paesi sostenitori - Ciad, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone nel 2012 e Niger quest'anno - grazie a missioni compiute in questi Paesi da Nessuno tocchi Caino e dal Partito Radicale. Abbiamo continuato la nostra opera di formiche, inermi ma non inerti, poveri di averi e mezzi potenti ma capaci, quando tutto pare essere disperante e immutabile, di essere noi per primi speranza e dare corpo alla riforma e al cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Giustizia: a pagare per lo scandalo di "Mafia Capitale" saranno i detenuti Vita, 20 dicembre 2014 Il ministero della Giustizia sospenderà la sperimentazione lavorativa delle cooperative in dieci carceri italiane. Una scelta letta come conseguente all'inchiesta romana sulle cooperative. Una marcia indietro che sarebbe deleteria non solo per i detenuti e i percorsi sperimentali di anni, ma anche per le casse dello Stato e la qualità della vita nelle Case di reclusione. "Se un commercialista sbaglia non si persegue l'intera categoria. Lo stesso vale per qualunque altra professione. Invece con le cooperative sociali, dopo "Mafia Capitale", si è deciso di farla pagare all'intero settore. In particolare a chi, come noi, lavora da anni in carcere". A parlare è Nicola Boscoletto, responsabile della cooperativa Giotto, che insegna un mestiere ai detenuti del carcere di Padova. Ed in effetti quello che sta succedendo dopo l'esplosione del caso Buzzi della Cooperativa "29 giugno" a Roma è che insieme all'acqua sporca si getti via anche il bambino. Il ministero della Giustizia, in 10 carceri dove cooperative sociali sperimentano da anni la gestione delle cucine, dice basta per mancanze di fondi. Nel 2003 il Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, avvia una sperimentazione in dieci penitenziari in tutto il Paese, da Torino a Bollate, da Padova a Rebibbia nuovo complesso e casa di reclusione fino a Trani e Siracusa. Con il finanziamento del Dap si ristrutturano a fondo gli impianti delle cucine e si affida la gestione a cooperative sociali che devono formare professionalmente i detenuti. Che significa lunghi periodi di formazione, affiancamento a professionisti, gestione con criteri di efficienza, adeguamento agli standard di qualità e sicurezza, fino all'inserimento dei detenuti in articolo 21 e misure alternative alla detenzione. E stipendi altrettanto veri, allineati al contratto collettivo nazionale. La sperimentazione prende il via nel 2004. Dal 2009 il finanziamento non viene più erogato direttamente dal Dap, ma dalla Cassa delle Ammende, l'ente del Ministero della Giustizia che finanzia i programmi di reinserimento in favore di detenuti. Risultati? La gestione d'impresa si nota, eccome. La qualità dei pasti decolla. Il ricorso al cosiddetto sopravvitto, i generi che i detenuti possono acquistare con il proprio denaro, si abbatte. Anche il Dap è soddisfatto. L'ex capo del dipartimento Giovanni Tamburino il 17 marzo 2014 dopo un incontro con i direttori delle dieci carceri dichiara: "Bisogna confrontarsi con l'oggettività che danno i direttori, che vedono le cose concrete, pratiche, quotidiane. Il giudizio è fortemente positivo: non si torna indietro, anzi si va avanti". Con l'esplicito intento di passare dalla fase sperimentale a una strutturale e di diffondere l'iniziativa anche in altri istituti. Nel frattempo Tamburino con il cambio di governo decade dall'incarico. E nonostante i solleciti delle Cooperative e dei direttori a rinnovare l'affidamento del servizio che scade a fine 2014, da via Arenula giunge solo un assordante silenzio. Le Cooperative scrivono due lettere, a luglio e ottobre, al ministro Orlando per discutere la questione. Nessun riscontro. Fino a questi giorni. Come risposta, una proroga di quindici giorni, fino a metà gennaio, che non lascia presagire nulla di buono. Secondo quanto scrive Luigi Ferrarella, cronista giudiziario del Corriere, è "lo scandalo delle Coop sociali di Roma fatto pagare ai detenuti che lavorano". In effetti la prefigurata cessazione dell'affidamento è qualcosa di ben poco razionale. Come scrivono i direttori in una lettera al Dap del 28 luglio scorso, le Cooperative hanno fatto risparmiare in termini di manutenzione delle strutture, di acquisto di prodotti, utenze, mercedi (le paghe dei detenuti), spese di mantenimento. Ma il guadagno sostanziale "è in termini trattamentali". "I detenuti assunti dalle cooperative", scrivono i direttori, "hanno avuto modo di sperimentare rapporti lavorativi "veri" che li hanno portati ad acquisire competenze e professionalità decisive per il loro reinserimento sociale". Non solo. Sul mercato la manodopera vale circa 3,60 euro, mentre le coop sociali ricevono dallo Stato meno di 2 euro tra gettone e sgravi fiscali. Quindi per le casse statali questa marcia indietro che non conviene. Giustizia: il lavoro dei detenuti è risparmio per tutti, ma l'appalto non verrà rinnovato di Eugenio Andreatta www.ilsussidiario.net, 20 dicembre 2014 Una tipica storia all'italiana. Di burocrazia italiana, nel migliore dei casi. Non volendo pensare male. Un esempio di sussidiarietà all'incontrario. Parliamo di un progetto realizzato da più di dieci anni da Cooperative sociali, che dà risultati straordinari, porta qualità, fa risparmiare lo Stato, motiva le persone. E che, a quanto pare, va chiuso al più presto. Accade in dieci carceri italiane. Nel 2003 il Dap, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, avvia una sperimentazione in dieci penitenziari in tutto il Paese, da Torino a Bollate, da Padova a Rebibbia nuovo complesso e casa di reclusione fino a Trani e Siracusa. Con il finanziamento del Dap si ristrutturano a fondo gli impianti delle cucine e si affida la gestione a Cooperative sociali che devono formare professionalmente i detenuti. In sostanza si trasformano i cosiddetti lavori domestici - scopino, spesino, cuciniere, lavapiatti, sussidi diseducativi poco qualificanti e di nessun impatto sul recupero delle persone - in lavoro vero. Che significa lunghi periodi di formazione, affiancamento a professionisti, gestione con criteri di efficienza, adeguamento agli standard di qualità e sicurezza, fino all'inserimento dei detenuti in articolo 21 e misure alternative alla detenzione. E stipendi altrettanto veri, allineati al contratto collettivo nazionale. La sperimentazione prende il via nel 2004. Dal 2009 il finanziamento non viene più erogato direttamente dal Dap, ma dalla Cassa delle Ammende, l'ente del Ministero della Giustizia che finanzia i programmi di reinserimento in favore di detenuti. Risultati? La gestione d'impresa si nota, eccome. La qualità dei pasti decolla. Il ricorso al cosiddetto sopravvitto, i generi che i detenuti possono acquistare con il proprio denaro, si abbatte. Anche il Dap è soddisfatto. L'ex capo del dipartimento Giovanni Tamburino il 17 marzo 2014 dopo un incontro con i direttori delle dieci carceri dichiara: "Bisogna confrontarsi con l'oggettività che danno i direttori, che vedono le cose concrete, pratiche, quotidiane. Il giudizio è fortemente positivo: non si torna indietro, anzi si va avanti". Con l'esplicito intento di passare dalla fase sperimentale a una strutturale e di diffondere l'iniziativa anche in altri istituti. Nel frattempo Tamburino con il cambio di governo decade dall'incarico. E nonostante i solleciti delle cooperative e dei direttori a rinnovare l'affidamento del servizio che scade a fine 2014, da via Arenula giunge solo un assordante silenzio. Le cooperative scrivono due lettere, a luglio e ottobre, al ministro Orlando per discutere la questione. Nessun riscontro. Fino a questi giorni. Come risposta, una proroga di quindici giorni, fino a metà gennaio, che non lascia presagire nulla di buono. Secondo Luigi Ferrarella, cronista giudiziario del Corriere, è "lo scandalo delle coop sociali di Roma fatto pagare ai detenuti che lavorano". In realtà la prefigurata cessazione dell'affidamento è qualcosa di ben poco razionale. Come scrivono i direttori in una lettera al Dap del 28 luglio scorso, le cooperative hanno fatto risparmiare in termini di manutenzione delle strutture, di acquisto di prodotti, utenze, mercedi (le paghe dei detenuti), spese di mantenimento. Ma il guadagno sostanziale "è in termini trattamentali". "I detenuti assunti dalle cooperative", scrivono i direttori, "hanno avuto modo di sperimentare rapporti lavorativi "veri" che li hanno portati ad acquisire competenze e professionalità decisive per il loro reinserimento sociale". Risultati che però "rischiano di essere del tutto vanificati". Anche la commissione voluta dal ministro Cancellieri e presieduta da un esperto internazionale come Mauro Palma era giunta in precedenza alle stesse conclusioni: "Va incrementato il numero delle sperimentazioni già esistenti", scrivono i saggi incaricati di elaborare proposte per cambiare il modello carcerario. Anzi, bisogna passare "dalla fase della sperimentazione alla messa a sistema del servizio". Si potrebbe obiettare che la Cassa delle Ammende non è l'ente adeguato a sostenere economicamente questo impegno. Ma sono le stesse linee guida per l'utilizzo dei fondi della Cassa, risalenti a due anni fa, a prevederlo, quando parlano di progetti che svolgono servizi necessari agli istituti penitenziari, gestiti anche da parte di enti privati. Allora, si dirà, sarà una questione di soldi. Non ci sono fondi, occorre fare tagli dolorosi, seppur a malincuore. Ma anche qui è Ferrarella a dare le cifre in due righe: "Sul mercato la manodopera (per una giornata alimentare che costa 12 euro) vale circa 3,60 euro, mentre le coop sociali ricevono dallo Stato meno di 2 euro tra gettone e sgravi fiscali". Non basta? Allora aggiungiamoci pure una mannaia che potrebbe costare milioni di euro ai contribuenti. Tanto per cambiare, viene da Bruxelles. Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che il detenuto in esecuzione di pena va pagato come il lavoratore libero. Altrimenti è lavoro forzato. Concreta, concretissima la possibilità di una nuova Torreggiani, la sentenza del gennaio 2013 sul sovraffollamento. E anche in questo caso i numeri sono impressionanti. Parliamo di circa 25mila detenuti che fino ad oggi hanno svolto lavori domestici le cui retribuzioni sono ferme agli anni Novanta. Un esperto come Emilio Santoro ha calcolato che, se i ricorsi cominciano ad arrivare alla Corte europea, il risarcimento per i diritti umani violati dovrà ammontare a 25-26 euro per ogni giorno lavorativo. Oltre naturalmente ai 3-4 euro di paga mancante. E anche senza uscire dai patri confini, c'è già una sentenza della Corte d'Appello di Roma risalente al marzo scorso che condanna il ministero della Giustizia a rifondere 10mila euro a un detenuto impiegato come giardiniere e 5.700 a un altro recluso che lavorava in lavanderia perché i compensi con cui venivano retribuiti erano fermi ai minimi sindacali in vigore vent'anni fa. Una strada senza ritorno, quella dei lavoretti (forzati) che non recuperano le persone e ci espongono alle sanzioni comunitarie e non. Da parte loro le cooperative non vogliono credere che la parola fine sia già scritta e che tutto ciò risponda a un disegno. Il 17 dicembre hanno nuovamente scritto al ministro Orlando, al suo capo di gabinetto, il magistrato Giovanni Melillo e al nuovo capo del Dap, il magistrato Santi Consolo. Ma chissà se nei palazzi romani c'è ancora voglia di ingranare la retromarcia, lasciando spazio al buonsenso, alla corretta gestione e a un pizzico di sussidiarietà. Giustizia: perché fermare l'esperienza positiva delle cooperative in carcere? di Chiara Rizzo Tempi, 20 dicembre 2014 Affidare il vitto interno ai detenuti li ha nel recupero, ha migliorato la qualità e consentito risparmi. Ora i direttori delle carceri temono venga bloccata per questioni di budget. Da dieci anni è in corso una sperimentazione in dieci carceri italiane: altrettante cooperative sociali sono state chiamate ad assumere dei detenuti, a formarli e a svolgere il servizio di vitto interno per le Case circondiariali, in cambio di regolari contratti di lavoro e stipendi. Si è trattato di un'esperienza che i dieci direttori delle carceri coinvolte, per la prima volta autori di una lettera congiunta indirizzata al ministero della Giustizia e all'amministrazione penitenziaria (Dap), lo scorso 28 luglio hanno definito "oltremodo positiva, come dimostrano i risultati". I direttori hanno testimoniato essere migliorata la "qualità del vitto somministrato ai detenuti", aver avuto un risparmio rispetto alle spese e, soprattutto, essere stato questo un ottimo strumento di rieducazione dei detenuti. Intorno a tutti i dieci progetti sono nate realtà imprenditoriali (servizi di catering a Bollate, aziende di cucina che producono panettoni a Padova, taralli a Trani, dolciumi tipici a Siracusa e Ragusa) molto apprezzate anche dai consumatori esterni. Queste attività, però, oggi sono a rischio: i progetti erano in scadenza il prossimo 31 dicembre. Giovedì sera il ministero della Giustizia, la Cassa ammende e il Dap hanno inviato ai dieci direttori delle carceri coinvolte una circolare in cui si spiega che il servizio di vitto interno proseguirà sino al 15 gennaio, poi verrà sospeso. Cosa accadrà? E perché si è giunti a questa decisione, se solo lo scorso 17 marzo in una riunione con i direttori l'allora capo del Dap, Giovanni Tamburino, sosteneva che "il giudizio è fortemente positivo, non si torna indietro, ma si va avanti"? Salvatore Pirruccio, direttore della casa di reclusione di Padova, spiega che "parrebbe che dal 15 gennaio del vitto se ne occuperà direttamente il carcere. Eppure il servizio di confezionamento pasti va avanti da dieci anni e funziona bene, perciò auspico che questa vicenda si possa ricomporre, che si trovi un'altra via senza tornare alla situazione precedente all'avvio di questa esperienza-esperimento. Le ragioni che hanno spinto il ministero ad agire così sono economiche. Perché il servizio funziona, ma ovviamente costa. E in un momento in cui l'Italia ha dei problemi economici, si cerca di tagliare". I detenuti sono stipendiati dalle cooperative, che per il servizio di vitto interno erano pagate dall'amministrazione carceraria. Ora cosa accadrà a questi detenuti sotto contratto? Pirruccio ipotizza: "Succederà che i detenuti impiegati per il vitto saranno riassunti dall'amministrazione penitenziaria e pagati con le mercedi, ovvero un piccolo gettone, inferiore ai prezzi di mercato, usato in tutte le altri carceri per i lavori svolti all'interno. Io penso di riuscire a riassumere tutti i 13 detenuti che lavorano a Padova per il vitto interno, ma con questo sistema delle mercedi verranno sicuramente pagati meno. Vedremo con gli altri direttori se nei prossimi giorni si potrà fare qualcosa per cambiare la decisione del ministero". Racconta Mauro Mariani, direttore del Nuovo complesso di Rebibbia: "In varie riunioni tenutesi con l'amministrazione penitenziaria si è cercato di capire se si sarebbe potuto estendere la prassi positiva del vitto con le cooperative a tutti gli istituti. In passato l'esperimento era stato prorogato di volta in volta e ci si chiedeva, visto che è stata un'esperienza positiva, se metterla a regime. Ma c'è un problema di budget: circa dieci milioni di euro. Anche l'ex direttore del Dap Tamburino aveva anticipato che si voleva fare una revisione dei costi". Il direttore si dice dispiaciuto, perché conferma che "l'esperienza è stata positiva per la qualità del servizio e perché sono stati messi al lavoro dei detenuti con delle paghe più alte. I detenuti sono stati assunti e formati professionalmente: c'è stato un servizio più adeguato di cui abbiamo usufruito. Dal 15 gennaio riassumeremo parte di quegli stessi detenuti, pagandoli con le mercedi: d'altra parte, il carcere deve continuare a cuocere i cibi. La qualità del servizio delle cooperative era medio alta, a differenza di quella che avviene all'interno". Da Milano, Massimo Parisi, il direttore della Casa di reclusione di Bollate, ipotizza una via diversa: "Da diverso tempo si cerca di capire come mantenere queste attività. Probabilmente per trasformare i progetti in un sistema a regime si dovrebbe indire un bando, quindi sono dell'opinione che la Casse delle ammende si stia muovendo su questa linea per passare ad una gestione strutturale dei vitti interni da parte delle cooperative". Le cooperative sono preoccupate. Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio sociale Rebus, spiega che "all'amministrazione penitenziaria e al ministero non manca nessuno strumento per risolvere il problema e per non far morire queste realtà positive. Di fronte a questa decisione, noi delle cooperative rimaniamo increduli ma ancora disponibili a cercare di non buttare via tutto ciò che di positivo è stato realizzato. Dieci anni fa quando il ministero ha chiesto di iniziare, si era partiti con la gestione della cucina interna, ma ci venne ordinato di allargare le attività anche all'esterne. Da noi si fa il panettone, a Milano si fa il catering, a Trani i taralli. Così abbiamo investito e ampliato; ma ora non si può chiederci di stare seduti ancora su una sedia con tre gambe. Il profit e il non profit e gli enti locali continuano a fare la loro parte, ma il titolare di queste attività, che è lo Stato, non può andarsene via. Sarebbe segno di una decadenza inarrestabile". Giustizia: intervista a Cesare Mirabelli "cooperative a rischio per colpa di Mafia Capitale" www.ilsussidiario.net, 20 dicembre 2014 C'è inquietudine nel mondo delle cooperative sociali che operano nel settore carceri. Come ha denunciato un articolo pubblicato da ilsussidiario.net, da mesi il ministero della Giustizia tace sul rinnovo dei contratti delle cooperative in scadenza con la fine dell'anno, salvo alcuni giorni fa aver annunciato un prolungamento solo fino al 15 gennaio. Cosa questa che inquieta ancora di più i responsabili delle cooperative, perché lascia tutti nell'incertezza, quasi a significare l'ultima spiaggia, poi più niente. Cosa c'è dietro questo silenzio. Problemi burocratici, problemi economici o qualcos'altro? È un dato di fatto che le cooperative impegnate nelle carceri italiane da più di dieci anni hanno svolto un lavoro prezioso lodato dalle amministrazioni carcerarie stesse, nel percorso rieducativo dei detenuti. Secondo Cesare Mirabelli, docente di diritto costituzionale nella Pontificia Università Lateranense di Roma, contattato da ilsussidiario.net, "le cooperative sociali pagano oggi il prezzo dello scandalo romano che ha colpito le stesse cooperative. C'è probabilmente una esigenza adesso di verificare tutta la limpidezza di quel mondo, una esigenza giusta, ma attenzione che sia una verifica seria e non di chiusura di quello che c'è di buono". Professore, come giudica il fatto che il ministero da mesi non risponda alle richieste delle cooperative impegnate nel settore carcerario di rinnovo dei contratti? Le ragioni possono essere molteplici, ad esempio un completamento delle procedure di revisione o ci può essere una interruzione di servizio anche solo per motivi burocratici. C'è chi denuncia che lo scandalo delle cooperative sociali romane adesso lo si voglia far pagare ai detenuti, è una ipotesi realistica? Può effettivamente esserci una cautela maggiore che nel passato nel rivedere l'intero settore per distinguere chi ha un contenuto positivo da chi ha invece un contenuto negativo. Questo purtroppo è un effetto di ritorno di questa caduta di immagine che la vicenda romana ha determinato. Non pensa che però così si innesta un meccanismo punitivo per tutto il settore Ritengo che sia comprensibile una esigenza di verifica, potrebbe piuttosto essere non comprensibile l'opposto, cioè un non approfondimento nel distinguere il buono dal cattivo. Qualcun altro si è invece chiesto se la Cassa delle Ammende, che dal 2009 finanzia i programmi di reinserimento dei detenuti, non sia l'ente adeguato a sostenere economicamente questo impegno. Che ne pensa? Innanzitutto si attinge dove sono le risorse. Aver preposto la Cassa delle Ammende poi (le sue entrate sono costituite dai proventi delle manifatture carcerarie ma anche e soprattutto dalle sanzioni pecuniarie disposte dai giudici e dagli importi relativi alla vendita dei corpi di reati, ndr.) è in qualche modo simbolico, usare cioè le sanzioni in quanto queste cooperative tendono a partecipare a processi di rieducazione. Questi progetti sono una attività produttiva di impiego dei detenuti, è una finalità altamente positiva e fa parte di un percorso di reinserimento. A proposito di finalità positive delle cooperative in questa opera di rieducazione, come pensa che questi progetti possono migliorare le condizioni di tutti coloro che sono impegnati nelle carceri, dalla polizia agli educatori ai psicologi? Avere dei percorsi lavorativi è essenziale perché consente di rendere attivi i detenuti, consente di dare anche una preparazione a un lavoro che può essere svolto dopo aver scontato la pena. E consente naturalmente una ricaduta positiva a tutti coloro che operano nelle carceri. Il sistema carcerario italiano è stato spesso punito dalla Corte europea per quanto riguarda i diritti umani dei detenuti, non pensa che questa nuova problematica che concerne il diritto al lavoro dei carcerati possa innescare nuove reprimenda? Diciamo che il diritto del lavoro c'è anche per i non carcerati, che ci sia una attività lavorativa per i detenuti certo ma attenzione a non enfatizzare questo in maniera tale che ci sia un atteggiamento reattivo dei tantissimi giovani che non hanno commesso alcun reato e che sono oggi a spasso. La cooperazione sociale ha un grande ruolo che va salvaguardato dalle aggressioni interne, come purtroppo abbiamo visto a Roma dove si sono visti casi di sfruttamento o illecito. Ma certamente il detenuto ha diritto alla cittadinanza come tutti e questo va salvaguardato nel suo diritto al lavoro. Giustizia: il manicheismo assoluto dell'inchiesta "Mafia Capitale" di Francesco Petrelli (Segretario dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 20 dicembre 2014 I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l'indagine "Mafia Capitale", esplosa a Roma i primi di dicembre con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l'armamentario affinato nell'ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l'art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: "date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo": nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell'enfatizzazione mediatica dell'indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l'indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L'ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall'azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l'affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l'orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura anti-mafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell'unico pensiero che tutti i media pontificando avallano ("Mi conferma - chiede al ministro un po' stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata - che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L'Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l'avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all'accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l'Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po' naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. "Mafia Capitale" è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall'ombra del suo ministero: "con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro". Non c'è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l'indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l'esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell'ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l'avvocato insegua l'indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza anti-mafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull'onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l'indagine "Mafia Capitale" pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani. Giustizia: processo Stasi, una sentenza equa… che scontenta tutti di Tiziana Maiolo Il Garantista, 20 dicembre 2014 Una sentenza equa, quella che ha condannato Alberto Stasi alla pena di 16 anni di carcere. Per almeno due buoni motivi. Perché la corte d'assise d'appello, al quarto processo, ha dovuto svolgere con cura quelle indagini che erano state abbondantemente trascurate nella fase preliminare. E quindi è arrivata, oltre ogni ragionevole dubbio, a quelle prove di colpevolezza che erano state meno lampanti nei processi precedenti. Ma la sentenza è equa anche dal punto di vista della quantificazione della pena, impeccabile dal punto di vista procedurale, ma anche sul piano umano. I giudici non hanno evidentemente voluto infierire su un ragazzo giovane, che si è reso responsabile di un delitto tremendo, ma nei cui confronti va applicato quell'articolo della Costituzione che prevede il recupero della persona. Questa sentenza, una volta tanto così sensata, così equilibrata, pare non piacere quasi a nessuno. Né ai colpevolisti, che vorrebbero sempre ergastoli e magari la pena di morte, perché in certe persone alberga sempre lo spirito delle tricoteuses, che sferruzzavano garrule sotto la ghigliottina. Ma ha scontentato anche gli innocentisti, che si sono fidati (e perché non andrebbero dovuto?) delle due precedenti sentenze di assoluzione e hanno continuato a ritenere di trovarsi per l'ennesima volta di fronte a un processo indiziario. Alberto Stasi è così antipatico che vien voglia di difenderlo magari solo per quello. Sembra una vittima predestinata, con la sua apparente freddezza, la sua sessualità "particolare", la sua legnosità che pare stridere con la luminosità di Chiara, la sua fidanzata assassinata, la vittima vera. Ma difendere i diritti di Alberto l'antipatico, oltre che quelli che Chiara, avrebbe dovuto spingere gli investigatori a essere particolarmente scrupolosi, severi con se stessi e con l'indagato. Avrebbe voluto dire non trascurare prima di tutto la questione della camminata di Alberto nella casa in cui Chiara è stata trovata morta in un lago di sangue e in particolare sulle scale. Avrebbe voluto dire che la questione delle scarpe pulite e anche con una suola diversa dalle impronte trovate in mezzo al sangue avrebbe dovuto essere centrale, e comportare indagini approfondite anche a costo di essere più lunghe. Si sarebbe dovuto lavorare di più e meglio sul movente. Chiunque uccide ne ha una ragione: una rapina andata male o un litigio tra fidanzati sono spesso, purtroppo, motivo sufficiente. Chiunque abbia conosciuto Chiara dice che la ragazza non avrebbe mai aperto la porta di casa a uno sconosciuto, soprattutto in pigiama e nel deserto di ferragosto. E quel sistema di allarme acceso e spento più volte nel corso dell'intera notte fa pensare proprio a un litigio tra innamorati. Il che naturalmente non è sufficiente a provare la colpevolezza. Per questo le indagini avrebbero dovuto essere accuratissime. Ma il punto cruciale è sempre lo stesso. Se non c'è la confessione (vedi il caso di Massimo Bossetti, in carcere da sei mesi per l'omicidio di Yara), o le intercettazioni (che consentono agli investigatori di stare in ufficio piuttosto che a consumare le suole delle scarpe facendo le indagini) o addirittura la pappa pronta (spesso avvelenata) del "pentito" di turno, difficilmente si risolvono certi delitti. Il che significa che stiamo vivendo in un mare di omicidi, spesso consumati all'interno della famiglia, che colpiscono le donne, madri, mogli, fidanzate e che rischiano di non essere mai risolti. Si sospettano mariti e fidanzati, a volte i figli. Ma la prova non si trova mai. Non c'è una vera volontà di trovarla. Più comodo lavorare sulle insinuazioni, sulle indiscrezioni fatte filtrare ad arte. E contare sulla scarsa professionalità di tanti magistrati pronti a mettere il timbro della colpevolezza senza magari aver neppure letto le carte. E la cosa più atroce è che, pur dopo la sentenza, In questa babele di ingiustizie, rimane sempre quel dubbio: e se fosse innocente? Vale anche per Alberto, naturalmente. Giustizia: caso Yara. L'avvocato di Bossetti "basta sciocchezze tv, così rovinate un uomo" di Antonello Micali Il Garantista, 20 dicembre 2014 A sentire Claudio Salvagni, l'avvocato di Massimo Giuseppe Bossetti, muratore 44enne e padre di tre figli e finora unico accusato dell'uccisione della tredicenne Yara Gambirasio, ogni qualvolta la difesa mette a segno un colpo a suo favore, ecco uscire nuove notizie spacciate come prove o indizi mirabolanti che puntualmente incastrano ulteriormente il proprio assistito e che poi, alla fine, sarebbero meno che indizi. Non un fatto personale della Procura certo, ma il risultato dell'effetto perverso della spettacolarizzazione di queste notizie. Il classico corto circuito media-giustizia tanto dibattuto in questi giorni di ira dello stesso presidente dell'Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, che annuncia misure e contromisure, che tende a celebrare i processi soprattutto in tv, innescando nell'opinione pubblica e forse anche negli stessi inquirenti, anche inconsapevolmente, una pressione che un tempo non c'era. Come non c'erano tutti quei moderni presidi della scienza e della tecnologia che consentono è vero riscontri prima inimmaginabili, ma che si portano appresso anche tutti i limiti di indagini che non dovrebbero mai rinunciare anche ai modelli investigativi classici fatte dalle persone, gli inquirenti, con le persone, gli indagati. Avvocato, sicuramente lei si riferisce anche all'ultima notizia che vorrebbe che il furgone immortalato nelle telecamere intorno al centro sportivo di Brembate Sopra il giorno della scomparsa di Yara Gambirasio sarebbe proprio quello di Giuseppe Massimo Bossetti. Le perizie della procura che, hanno scomodato pure Iveco, non ci mettono nemmeno il dubbio. E cosa proverebbe? A parte il ribadire che io sono ancora della scuola di chi pensa che le prove si formano in dibattimento, il mio assistito ha sempre dichiarato che passava da quelle parti e per vari motivi… insomma ci passava, lo ha ammesso sempre. Insomma era di strada per lui. Sì ma gli investigatori dicono anche che, a differenza di quanto detto da Bossetti che era passato solo per acquistare delle figurine per i figli, quel giorno avrebbe gironzolato per 50 minuti nella zona… Anche questo lo vedremo in tribunale; certo è che se lo dicono avendo a disposizione solo due immagini la vedo difficile. Vede tutti questi casi che finiscono nei talk show hanno in comune che molto spesso vengono veicolate giorno dopo giorno nei vari polpettoni di informazione, elementi che il più delle volte sono destituiti da ogni minimo fondamento, oppure vengono interpretati a favore, di volta in volta dell'accusa (più spesso) o della difesa (si veda ad esempio nel caso del piccolo Loris Stival le notizie che nei primo giorni davano per assodato che il piccole fosse stato oggetto di abusi e che non era vero, ndr). E tutto ciò, sempre prima che questo avvenga nei luoghi deputati dalla legge. E poi spesso non si tratta nemmeno di indizi. D'altronde se non fosse davvero così credo che la procura avrebbe già rinviato a giudizio, e questo non è ancora avvenuto… Ci sarà un perché… Non si è lesinato in tutti questi mesi, con grave danno della tranquillità e dell'immagine di una famiglia ora distrutta, che si aggiunge a quella cui va tutto il mio rispetto della piccola vittima, a spacciare, come prove o scoop che fossero il fatto che Bossetti si facesse le lampade o che nel suo pc si fossero trovate le parole "sesso" o tredicenni", senza spiegare che è impossibile contestualizzare la ricerca a ritroso; ovvero se i due termini siano stati digitati nel motore di ricerca insieme, in un lasso di tempo enorme tra l'altro… E soprattutto anche da chi… come anche che sui veicoli in uso al mio cliente non è stato trovato nulla che rimandi alla povera Yara. Quindi alla fine l'unica prova regina rimane al momento quella del dna rinvenuto sui leggins della povera ragazzina che gli esami hanno detto appartenere a Bossetti? Vede anche nel caso del Dna, se si avesse una visione meno distorta e amplificata del caso, si dovrebbe parlare di indizio tuttalpiù. Perché quando ci sono alcuni elementi di dubbio sullo stesso tema come quello avanzato dagli stessi tecnici del Ris non viene data nessuna eco dai media? Mi spiego meglio, non ci sarebbe dubbio sull'appartenenza, ma sul fatto che in un contesto di devastazione (il corpo della ragazza) quella traccia di dna, per quanto piccolissima e unica, sarebbe invece contraddittoriamente "meravigliosa", perfetta ed abbondante… Quantomeno un'anomalia e che rimanda a certi pensieri… Tipo che la scienza non basta a tutto. E mi auguro che il modello di questa indagine (per i cui sofisticati accertamenti genetici sono stati spesi oltre 7 milioni di euro) non diventi, come auspicato in questi giorni da molti addetti ai lavori, un modello investigativo addirittura europeo… Certo il giro d'affari non mancherebbe. E sarebbe milionario. E guardi che sono uno che non ama la dietrologia. Beh così si torna al caposaldo finora della vostra difesa sull'argomento: le ipotesi del complotto e della contaminazione del dna per trasporto…. E chi ce l'avrebbe trasportato? Al momento non posso dirle altro, sennò dovrei rimangiarmi quanto detto prima, che le prove si formano al processo, fatto in cui credo fermamente e, perché no, anche un possibile effetto "sorpresa". Il mio compito non è quello di scoprire il colpevole, quello spetta alla procura, bensì quello, nel difendere il mio cliente, di insinuare dubbi al fine di scoprire la verità, qualunque essa sia. Insomma, dopo secoli di civiltà giuridica mi trovo a disagio a dover considerare relativo quello che per noi è un capo fermo: l'onere della prova, che secondo la legge è un principio generale secondo il quale chi vuole dimostrare l'esistenza di un fatto ha l'obbligo di fornire le prove per l'esistenza del fatto stesso. Prove, non indizi (anche se molti e supportati dalle moderne tecnologie e dalle esigenze del mainstream mediatico) e spesso nemmeno quelli. Giustizia: che razza di civiltà… che non vede l'ora di mettere al rogo Veronica Stival? di Renato Farina Tempi, 20 dicembre 2014 Anche se fosse condannata, l'esposizione al linciaggio non è prevista dal codice. Non sarà una forma di tortura per indurre a una confessione e farla finita Veronica, la madre di Loris, ha detto al marito: "Non abbandonarmi!". L'ha abbandonata. Non è possibile sostituirsi a lui, ai suoi pensieri. Ma a me è dispiaciuto. Non avvicinate per favore questo mio piccolo dolore rispetto allo strazio degli angeli e di ogni madre di ieri di oggi e di domani per quella morte di un bambino, per il suo assassinio, e quel buio tremendo che scende sul mondo a causa di un delitto di questo genere. È così evidente che non c'è paragone. Ma mi fa male lo stesso questo rifiuto, fosse anche l'abbandono di una madre sciagurata. Non so tanto spiegarmi il perché. Forse inconsciamente mi ostino a credere sia innocente. Forse mi influenza la Costituzione secondo cui fino al terzo grado di giudizio vale la presunzione di innocenza, e qui non siamo neanche a mezzo grado. Ma non è questo, non è questo. E che cos'è allora? Sono malato di perdonismo? Lo escludo. Se fosse dimostrata la colpevolezza di quella madre, se fosse chiaro il deliberato consenso al gesto efferato, la caricherei dell'ergastolo. E se fossimo nell'Ottocento sarei stato magari per la ghigliottina (spero di no). Ma vorrei che il marito le tenesse la mano. Gliela terrei io. Sono matto? Il papà di Loris, il signor Stival, ha lasciato intendere in un primo tempo che Veronica sia colpevole (ora manifesta dubbi, la definisce "madre perfetta"). Senza dubbi invece i parenti di lui e di lei nell'individuare Veronica come assassina. Ma perché queste opinioni altalenanti sono state amplificate dai mass media? È stato per avvalorare la certezza della colpevolezza, per compiacere la procura, così che diano elementi per altri articoli, per tenere tutto in prima pagina. Da cui le certezze crudeli delle folle libere e prigioniere, unite stavolta nella lotta alla donna infame. E perché - dopo averle provocate - farsi eco anche delle urla contro Veronica rimbalzate nelle celle di Catania al suo arrivo? È l'unico caso in cui la voce dei galeotti è apprezzata, e allora le si dà risonanza, quando fanno processi molto rapidi ai presunti criminali, sulle ali del parere collettivo che arriva da fuori. Ma che ne sanno loro? Che ne sanno tutti? In base a quale diritto? A quello della pancia? Dei reclusi si favoleggia sempre l'umanità. Ma anche l'infallibilità nell'individuare i colpevoli di delitti atroci puniti secondo il codice carcerario. E stavolta i carcerati hanno gridato "devi-morire", come la folla fuori dalla procura (Infallibilità fasulla. Ho in mente il caso di Filippo Pappalardo, il padre di Ciccio e Tore, i ragazzini di Gravina caduti in una cisterna, arrestato sulla base di prove ultrasicure malamente equivocate da pm e gip, poi quasi sbranato dai carcerati di Velletri. Gli urlavano giorno e notte. Fu tenuto iper-segregato. Ed era innocentissimo. E la moglie separata lo accusava di essere il colpevole di tutto! Un prete mio amico non lo abbandonò, dovette sopportare persecuzioni, ma resistette, e non lo abbandonò). C'è di certo qualcuno che non ha abbandonato Veronica. Ma è il circo della curiosità senza amore e senza odio che ha già ingaggiato come pupazzi le persone già citate, offerte in pasto a psicologi, criminologi, opinionisti. Non abbandonano Veronica, proprio no. Lo fanno per carpire qualsiasi parolina detta a deputati e senatori corsi da lei e sarebbe bene stessero zitti, invece di regalarsi, grazie al privilegio di visitare le carceri, un momento di popolarità ormai rarissimo per i politici. Altre domande impopolari. Perché è stato consentito dalle autorità lo scempio con il passaggio del corteo con la reclusa esposta come sul carretto dell'epoca del terrore? Anche se fosse già stata condannata, questa esposizione al linciaggio, non è prevista dal codice. Ma qui somiglia tanto a una forma di tortura voluta per indurre a una confessione per farla finita. Che razza di civiltà è la nostra dove invece del silenzio si esibisce il grido contro la strega, si prepara il rogo, prima ancora di avere prove, certezze, perché si vuol esibire la propria purezza contro l'orrida madre? La purificazione attraverso l'odio non esiste. Vogliamo dircelo? Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; urge rafforzare Ufficio Sorveglianza Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2014 "L'Ufficio di Sorveglianza di Cagliari registra ancora una grave sproporzione tra numero di magistrati e lavoro da espletare. Ci sono detenuti che aspettano da due anni che venga loro riconosciuta la libertà anticipata per buona condotta e altri che aspettano mesi prima avere una risposta per poter fruire di un permesso". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", osservando che "il mancato riconoscimento della libertà anticipata e dei permessi blocca il percorso riabilitativo del detenuto impedendogli, tra l'altro, l'accesso alle misure alternative". "L'assegnazione delle premialità previste dall'ordinamento penitenziario e dalle più recenti norme che tendono a favorire l'utilizzo delle pene alternative alla detenzione come l'affidamento in prova - sottolinea Caligaris - ricadono quasi interamente sull'Ufficio di Sorveglianza. Quello di Cagliari però deve occuparsi non solo dei cittadini privati della libertà di Uta, ma anche di quelli di Iglesias. Lanusei, Oristano-Massama e delle colonie penali di Isili e Is Arenas. Una mole di lavoro che si è moltiplicata insieme al crescente numero dei ristretti. La conseguenza è deleteria soprattutto per quei detenuti che stanno seguendo un percorso riabilitativo e comportamentale positivo. La mancata revisione del fine pena ha risvolti negativi proprio sul reinserimento sociale". "Il cumulo di istanze e il susseguirsi di novità normative - evidenzia la presidente di SDR - inducono anche a dover rivedere più volte la stessa richiesta. Talvolta si è verificato che un detenuto si è visto considerare inammissibile un'istanza di affidamento in prova con associati i lavori di pubblica utilità perché non è stato tenuto nella dovuta considerazione che la misura alternativa prevedeva non un lavoro esterno, da retribuire, ma l'impegno di accudire un genitore infermo a cui è corrisposta la pensione idonea al mantenimento di entrambi". "Occorre inoltre riconsiderare l'imprescindibile ruolo di ascolto del Magistrato di Sorveglianza. Troppo spesso, nonostante i detenuti chiedano di poter effettuare un colloquio per rappresentare la propria condizione, l'istanza resta inevasa o si verifica con un eccessivo ritardo che incide negativamente sullo stato emotivo del cittadino privato della libertà. È quindi improcrastinabile rafforzare l'Ufficio del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari affinché sia possibile dare risposte meditate ma più celeri a quanti stanno scontando la pena anche per evitare - conclude Caligaris - che le celle continuino a riempirsi quando ciò non è indispensabile potendo trovare modalità di esecuzione penale extra-muraria e ridurre i costi di mantenimento che gravano sullo Stato". Prato: protocollo d'intesa tra Asl 4 e direzione Casa circondariale per evitare i suicidi Il Tirreno, 20 dicembre 2014 L'intesa mette in moto una serie di misure di prevenzione visto l'alto numero di detenuti che tentano di togliersi la vita. Firmato il protocollo di intesa territoriale tra l'Azienda sanitaria pratese e la direzione della Casa circondariale di Prato per la prevenzione e la gestione della dimensione suicidaria. Il suicidio è un fenomeno grave che rappresenta un problema di salute pubblica. In ambito penitenziario si verifica con maggiore frequenza rispetto agli altri ambienti, pertanto è necessario che in carcere siano adottate misure idonee di prevenzione. Il protocollo, redatto sulla base delle linee di indirizzo regionali, prevede una fase di screening/valutazione del rischio suicidario del "nuovo giunto" nel penitenziario, all'inizio della detenzione e la successiva presa in carico del detenuto risultato a rischio. La fase di accoglienza è effettuata da una equipe multidisciplinare (sanitari, educatori, psicologi, psichiatri ed addetti alla custodia) ed è mirata ad individuare con tempestività i bisogni sociali e di salute (generale, psicologica e psichiatrica) del detenuto. In questa fase sono individuati precocemente interventi di tipo terapeutico, specialistico, logistico e di sorveglianza. La presa in carico prevede la strutturazione di un progetto terapeutico personalizzato individuando: i bisogni psico-sociali del soggetto; le figure professionali necessarie al processo di cura e assistenza. Il progetto terapeutico personalizzato è strutturato su aree di criticità e di intervento : area psicologica e psichiatrica (eventuale presa in carico da parte dello psichiatra e/o supporto psicologico continuativo o intervento psicoterapico); area delle dipendenze patologiche (valutazione tossicologica ed eventuale presa in carico da parte del Ser.T.); area sociale/educativa (attivazione di risorse personali, socio-familiari, relazionali e di competenze lavorative); -area trattamentale (garantire una sufficiente qualità di vita in carcere); area della sicurezza: attivare, mantenere o revocare i presidi di sorveglianza; area del rispetto dei diritti del detenuto: riducendo il più possibile il "gap" tra "dentro e fuori". Durante tutta la detenzione è previsto un monitoraggio del rischio suicidarlo. Il processo di screening/valutazione del rischio con conseguente processo di accoglienza e attivazione dello staff multidisciplinare può essere applicato, oltre che al nuovo giunto, anche a qualsiasi altro detenuto (già ristretto), in caso di gesto autolesivo e/o tentativo di suicidio; in fasi particolari della detenzione (sopraggiunte notizie negative dalla famiglia, eventi avversi personali, notizia di trasferimento ad altro carcere, sopravvenuta condanna definitiva di notevole entità, nuove ordinanze restrittive, rigetti di misure alternative); fase immediatamente successiva alla comunicazione dell'esito del processo; condizione di Isolamento; etero-aggressività, episodi di discontrollo degli impulsi. Protocollo di Intesa: scheda approfondimento La prevenzione del suicidio rappresenta un'attività diretta a tutelare la salute e la vita delle persone detenute, che richiede di considerare l'insieme complesso dei fattori di rischio e le interazioni tra profili sanitari e sociali della popolazione ristretta e problematiche situazionali dell'ambiente penitenziario. L'Organizzazione Mondiale della Sanità individua, nella popolazione generale, le seguenti categorie a rischio di suicidio: i giovani maschi, le persone con disturbi mentali, le persone socialmente isolate, i soggetti con problemi di abuso di sostanze psicoattive ed i soggetti con precedenti suicidari. Nelle carceri tali categorie sono sovra-rappresentate (Who e Iasp, 2007). Ciò significa che la popolazione carceraria può essere considerata di per sé una popolazione con una particolare vulnerabilità bio-psico-sociale. La gravità e l'attualità del problema sono sentenziate dagli studi epidemiologici nelle carceri italiane: circa 10 suicidi su 10.000 detenuti contro lo 0,6 su 10.000 persone nella popolazione libera; circa 150 tentativi di suicidio su 10.000 detenuti contro lo 0,5 su 10.000 persone nella popolazione libera (Council of Europe Annual Penal Statistics, 2010). Ogni anno si registra mediamente 1 suicidio ogni 924 detenuti nelle carceri italiane a fronte di 1 suicidio ogni 20.000 persone abitanti in Italia; e ancora: 1 suicidio ogni 283 detenuti in regime di 41-bis, 1 tentato suicidio ogni 70 detenuti, 1 atto di autolesionismo ogni 10 detenuti, 1 sciopero della fame ogni 11 detenuti, 1 rifiuto delle terapie mediche ogni 20 detenuti (Dati del Dap su elaborazione del Centro Studi di "Ristretti Orizzonti", 2010). L'Italia detiene il primato europeo per quanto riguarda lo scarto tra suicidi nella popolazione carceraria e quella libera (Council of Europe Annual Penal Statistics, 2010). Nelle carceri toscane, negli ultimi anni, circa 4 detenuti su 100 hanno tentato il suicidio almeno una volta. Nel 2013, secondo il sindacato Uil-Pa, nelle carceri toscane sono occorsi 101 tentativi di suicidio. Per quanto riguarda l'autolesionismo, circa il 10% dei detenuti ha messo in atto almeno una volta azioni autolesive. Tali dati confermano l'importanza dell'avvio di un progetto di prevenzione del suicidio nei penitenziari. I seguenti dati epidemiologici attestano quanto la prevenzione sia importante infatti nel 2013: media detenuti presenti n. 714; Suicidi n.1; Tentati suicidi n.43; Gesti autolesionistici n. 175. Nel 2014 (dopo l'attivazione del progetto): media detenuti presenti dall'01.01.2014 al 30.06.2014 n. 708, dal 01.07.2014 al 16.12.2014 n. 645; Suicidi n. 0; Tentati suicidi n. 15; Gesti autolesionistici n. 162. Come si può osservare la messa in atto di una procedura di accoglienza e presa in carico del soggetto a rischio, è associata ad una riduzione netta dei tentativi di suicidio. Modena: la Garante regionale; nessuna utilità dall'internamento a Castelfranco Emilia Agi, 20 dicembre 2014 Nella Casa di reclusione di Castelfranco Emilia "non si può rinvenire alcuna forma reale di utilità tanto per gli internati quanto per la collettività": a ribadirlo è il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, dopo che il personale del suo ufficio nel pomeriggio di ieri ha visitato la struttura in provincia di Modena per effettuare colloqui con gli internati e per partecipare alla funzione religiosa per le festività natalizie, aperta alla partecipazione della società civile. Il numero delle presenze è tendenzialmente stabile: sono un centinaio le persone in regime di internamento, mentre quelle detenute in regime di custodia attenuata, in ragione del loro stato di tossicodipendenza, "si contano sulle dita di una mano, e da ultimo - spiega Bruno - si rileva che è stata chiusa anche la lavanderia in cui lavoravano. Da anni ormai - prosegue - sebbene la denominazione sia quella di casa di reclusione, il tratto caratterizzante è, nei fatti, quello della casa di lavoro" dove "l'internato dovrebbe lavorare, con il lavoro che ne dovrebbe caratterizzare il percorso di responsabilizzazione. Tuttavia, questo "continua a non accadere - conclude in garante dell'Emilia Romagna - e continuano a mancare progetti di lavoro effettivo e remunerato, lavorando le persone per lo più nelle mansioni alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, a rotazione per periodi limitati ed in mansioni tipicamente domestiche, poco qualificanti". Bologna: la Garante; conferenza stampa presentazione convezioni Comune-Associazioni Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2014 Martedì 23 dicembre alle 11.00 in Sala Savonuzzi a Palazzo d'Accursio si terrà una Conferenza stampa indetta dall'Ufficio del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna. Alla Conferenza stampa saranno presentate le Convenzioni, in fase di rinnovo, tra il Comune di Bologna e le Associazioni di volontariato "L'Altro Diritto", "Il Poggeschi per il Carcere" e "Streccapogn", per la realizzazione di attività a favore delle persone ristrette presso il Carcere Dozza e l'Ipm Pratello. Le Associazioni, già attive da tempo sul territorio di Bologna e provincia, lavorano in stretta collaborazione con l'Ufficio del Garante per la tutela e la promozione del pieno esercizio dei diritti delle persone nei luoghi di privazione della libertà. Con questo atto di rinnovo, si intende proseguire nell'obiettivo di implementare gli strumenti di tutela dei diritti e l'offerta di opportunità in favore della popolazione detenuta. Interverranno: Elisabetta Laganà, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale - Comune di Bologna Claudia Clementi, Direttrice della Casa Circondariale Dozza Alfonso Paggiarino, Direttore dell'Istituto Penale Minorenni Pratello Emilio Santoro, Presidente dell'Associazione "L'Altro Diritto" Paola Piazzi, Presidente dell'Associazione "Il Poggeschi per il Carcere" Davide Bochicchio, Presidente dell'Associazione "Streccapogn". Rossano Calabro (Cs): seconda edizione di "Musica oltre le sbarre", concerto in carcere Cosenza Cronaca, 20 dicembre 2014 Sarà un concerto originale, il prossimo previsto dal cartellone della X edizione de "La Città della Musica" che si tiene oggi sabato 20 dicembre, alle ore 10.00, presso la sala polivalente del Penitenziario di Rossano. Anche quest'anno, visto il successo e l'interesse dimostrato nella scorsa edizione, approda la seconda edizione di "Musica oltre le sbarre", iniziativa promossa dal Centro Studi Musicali G. Verdi e dal suo direttore artistico, Maestro Giuseppe Campana. Il concerto sarà eseguito dalla Orchestra Giovani dell'istituto comprensivo di Cassano allo Jonio diretto dalla preside Mena Galizia che si è fatta portavoce del la valenza educativa di un percorso musicale valido e qualificato per i loro giovani allievi in un interscambio con la popolazione detenuta. "Questi momenti di festa - afferma il direttore Carrà - sono molto delicati nella vita degli istituti perché viene fuori la solitudine e la mancanza di affetti. Questa iniziativa, come le numerose altre svolte nel carcere di Rossano, realizzata gratuitamente con il contributo di volontari e associazioni esterne, aiuta ad avvicinare il territorio alla popolazione carceraria e crea una sorta di legame con chi vive "al di là del muro". Quale miglior veicolo dunque se non la musica per superare almeno idealmente barriere e steccati? Al tempo stesso, la musica deve diventare lo strumento, essa stessa, per fare capire che è possibile riprendersi la vita dopo aver commesso un delitto; anzi, lo strumento di comunicazione con chi ora è dentro ma si ritroverà prima o poi nuovamente nella società di fianco a noi. Dimostrare che il carcere può essere il luogo dove ritrovare sé stessi e, dunque, che la detenzione diventa l'inizio di un nuovo cammino grazie al continuo lavoro degli operatori penitenziari e agli affetti lasciati "oltre le sbarre" consentendo di trascorrere qualche ora senza il peso della solitudine che accorcia ancora di più lo spazio della cella". Verona: speranze e ricordi, l'attesa del Natale in carcere si fa teatro di Marta Bicego Verona Fedele, 20 dicembre 2014 I fiocchi di neve, in carcere, possono essere tanti pezzetti di nastro adesivo bianco. Il gesto di fissarli con pazienza, uno dopo l'altro, su un grande pannello nero a fare da scenografia equivale a rendere concreta l'attesa per un evento speciale. Che si tratti di una nevicata, magari fa prima dell'anno ad annunciare l'arrivo dell'inverno; della visita inaspettata da parte di una persona cara, della lettera o di un pacchetto ricevuti da un familiare oppure da un amico. Indipendentemente dalla fede che ognuno ha, e dalle varie umanità che si possono incontrare nella Casa circondariale di Montorio, l'attesa riempie le giornate nella solitudine delle celle. Ed è allora che, anche una rappresentazione teatrale, può diventare la maniera per liberare dalla tristezza e dalla malinconia. Nel giorno di Santa Lucia, e quale augurio di fine anno, un gruppo di detenuti e di detenute delle sezioni prima, seconda, quarta e femminile che dallo scorso luglio frequentano ogni giovedì pomeriggio, per due ore, il laboratorio di teatro voluto dalla direzione del carcere e organizzato dall'associazione Le Falìe con il sostegno della Fondazione San Zeno, hanno voluto fare e condividere un regalo. Tra racconti di vita, libera improvvisazione, approfondimento su I racconti di Kolyma dello scrittore Varlam Tichonovic Salamov è nata là rappresentazione "l'attesa della neve" messa in scena nella cappella del carcere. Le vicende dell'autore russo, per vent'anni internato a causa di motivi politici tra prigioni e gulag della regione del Magadan nella Siberia Orientale in cui centinaia di migliaia di prigionieri vissero in condizioni al limite dell'umanità dagli anni Venti agli anni Sessanta, si sono intrecciate con le vicissitudini dei carcerati di oggi. "In questi mesi l'area 4 è divenuta il luogo in cui inventare storie di teatro" spiega Alessandro Anderloni che conduce il laboratorio, affiancato da Isabella Dilavello. "Non volevamo portare qui un copione già fatto - prosegue -, ma scriverlo assieme ai detenuti". L'obiettivo è portare la compagnia a recitare in un vero teatro, la prossima primavera. Perché però, nel frattempo, non inscenare qualcosa per Natale? "La richiesta è nata nel gruppo teatrale. In poche settimane abbiamo preparato questa rappresentazione, tra le difficoltà e le turbolenze inevitabili che si vivono in questo luogo di segregazione. È la prima volta che si presentano, davanti a un pubblico. In punta di piedi, per imparare a raccontare" dice Anderloni. Davanti al palcoscenico allestito nella cappella, si sono seduti visitatori esterni e gruppi di carcerati e di carcerate a fare da spettatori. Hanno sorriso, si sono commossi, hanno scherzato. In un clima di emozione misto all'attesa. Stretti in lunghi tabarri scuri, gli attori hanno iniziato a narrare le loro storie, stando seduti in semicerchio su degli sgabelli di legno. Tra ricordi delle abitudini di casa e i pensieri rivolti ai familiari lontani, c'è il tempo per scherzare: accennando una partita a fiammiferi o citando le gesta del vecchio amico Bo, personaggio dalle gesta leggendarie. C'è il tempo per commuoversi, guardando una fotografia o stendendo su una gamba dei fazzoletti colorati, come se fossero delle carezze sul volto di ciascuna delle figlie. Allo strillo della "chiusura", alle porte delle celle si fa un giro di chiave. È allora che arrivano i cristalli di neve a illuminare il buio. Ogni detenuto si libera del mantello; l'attesa è finita: la notizia dell'arrivo dei pacchi da casa porta con sé altra speranza. Ma il dono più grande lo fanno i detenuti, con una serie di auspici che riguardano il futuro: "Vorrei ritornare a essere un uomo libero e recuperare il tempo perduto, soprattutto con mia mamma" confessa uno. "Niente è più doloroso di non poter fare una passeggiata lungo la riva del fiume in cui sono nato" aggiunge un altro. "Vorrei trascorrere il Natale con la mia famiglia" auspica un altro ragazzo ancora. "Grazie Gesù che ora sei qui - intona un uomo accompagnato dalla chitarra. Grazie a te le mie mani non tremano più". Per ogni detenuto, raccontare di sé è stata una conquista. "Mi aspettavo molto", confessa il direttore del carcere Maria Grazia Bregoli a fine spettacolo, "ho visto ancora di più di quando mi sarei aspettata. E siamo solo al debutto". Per certi aspetti, il piccolo saggio è stata una liberazione. "In carcere il Natale è il giorno più lungo, difficile, complicato dell'anno. Le feste non passano mai, Per questo il laboratorio - conclude Anderloni - il laboratorio di teatro non si interrompe. Soprattutto nei giorni di festa". Immigrazione: a Milano accordo Prefettura-Comune, i rifugiati resteranno in via Corelli di Nicola Palma Il Giorno, 20 dicembre 2014 Il Centro di via Corelli ospiterà i profughi in arrivo dalle zone di guerra anche nel 2015. C'è l'accordo tra Prefettura e Comune per la proroga della convenzione in scadenza il 31 dicembre: le parti dovrebbero vedersi a inizio settimana prossima per formalizzare la decisione e stabilire i nuovi termini dell'intesa. Detto altrimenti: resta da capire per quanto tempo ancora l'area di proprietà demaniale sarà adibita a struttura di ricovero per rifugiati e non come centro di identificazione ed espulsione di extracomunitari clandestini. La conferma era nell'aria. Almeno per due motivi. Il primo: la riconversione dei locali è stata ultimata solo a fine ottobre; di conseguenza, non avrebbe senso tornare indietro dopo soli due mesi. Il secondo: gli arrivi di disperati in fuga da Africa e Medioriente continuano, anche se in misura nettamente inferiore rispetto alle ondate registrate nei mesi estivi. Quindi, l'ex Cie resta strategico per le politiche dell'accoglienza (concentrate pure tra via Aldini e Casa Suraya di via Salerio) messe in campo da Palazzo Marino, che vorrebbe farne, come più volte auspicato dalla Giunta Pisapia, una sorta di hub per lo smistamento dei flussi migratori. "Il modello sta funzionando - conferma l'assessore alla Sicurezza, Marco Granelli - e ci aspettiamo una conferma dal Governo". In via Corelli dormono ogni notte circa 150 persone, in particolare famiglie siriane con bambini. Il turnover è piuttosto rapido: ogni tre-quattro giorni, gli ospiti riescono a partire per le destinazioni finali (Germania, Svezia e Olanda) con treni dalla Stazione Centrale oppure con le auto dei parenti giunti apposta per accompagnarli in Nord Europa. Certo, a volte va male, come raccontano all'ex Cie: capita che i siriani vengano fermati alla frontiera tedesca e rispediti in Italia così come succede che qualche trafficante senza scrupoli si faccia pagare in anticipo senza poi presentarsi all'appuntamento. Alla fine, però, quasi tutti riescono a espatriare. Facendo posto agli altri. Ecco i numeri degli arrivi tra il primo ottobre 2013 e il 30 novembre 2014: siamo a quota 51.123 tra siriani (stragrande maggioranza), curdi, palestinesi ed eritrei (in diminuzione negli ultimi mesi), di cui 11.980 bambini. In pochissimi scelgono di rimanere nel nostro Paese: solo 60 le richieste d'asilo. Quasi uno su mille. India: caso marò, quanta retorica di Daniela Ranieri Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2014 Nessuno si preoccupa di come passeranno il Natale gli altri 3.000 detenuti come loro per reati comuni nelle carceri straniere?. L'importante è chiamarli "i nostri ragazzi": dà subito l'idea che si tratti di giovani figli della Patria, mandati a liberare un popolo oppresso da un regime odioso e incappati nella sciagura di finire prigionieri del nemico. Tanto, cosa siano i "marò" e cosa facciano esattamente, nessuno lo sa. Però sono "nostri" , e si sono imbattuti nelle regole assurde di un Paese che, ma tu guarda, considera reato l'omicidio. Presa confidenza con la retorica del caso, si può chiamarli per nome, Massimiliano e Salvatore, come Napolitano quando li ricevette al Quirinale per le feste di Natale 2012 con gli onori che si riservano agli eroi (e bacio presidenziale) e come Giulio Terzi, allora ministro degli Esteri, che li riaccolse nel febbraio 2013 rifiutandosi poi di rimandarli indietro come promesso appena avessero votato alle elezioni (poi glieli abbiamo dovuti restituire, altrimenti non ci ridavano l'ambasciatore). Insomma, basta che passi il messaggio che siano nostri soldati mandati a difendere qualcosa di più grande dei confini nazionali, cioè la pace, la democrazia e forse la stessa civiltà occidentale. I due marò, giusto per ricordarlo, erano due "super addestrati" fucilieri della Marina, prestati, secondo un'idea geniale dell'allora ministro della Difesa La Russa, a una petroliera privata, la Enrica Lexie, contro i pirati dell'Oceano Indiano. I quali, furbi, non si palesano mai in questa vicenda. Al loro posto, vengono accoppati due pescatori indiani, Ajesh Binki e Valentine Jelastine, proprio, sostiene l'India, dai nostri due marò, a bordo da pochi mesi. Ma siccome i due negano, per l'Italia sono innocenti, e per una strana allucinazione collettiva da allora ricoprono il ruolo che più ci mancava: quello di vittime fisiche di imperscrutabili disegni mondiali contro di noi, oltre che fulgidi esempi di prodi combattenti della parte giusta del mondo. E così come ogni Natale da tre anni a questa parte ci facciamo una bella doccia di retorica patria, coi politici di destra e di sinistra che fanno a gara a chi gli vuole più bene, e molti giornali che cinicamente li usano per dare torto ai giustizialisti, ai pacifisti, ai terzomondisti, agli attendisti e a quelli che non hanno le palle di sparare a caso dai ponti delle petroliere. Ormai i "nostri due marò" è diventato il frammento di una prece, il verso di una poesia da far imparare ai bambini, un articolo della Costituzione su cui giurare. "Dobbiamo trovare il modo di riportare a casa i due marò", disse Emma Bonino. "Parlato ora con il Ministro degli Esteri indiano dei nostri Marò", disse Federica Mogherini. "Subito i marò in Italia", disse Paolo Gentiloni. "L'unica via per riportare a casa i nostri due ragazzi è una azione tenace e riservata", disse Napolitano; tenace e riservata come quella con cui quest'anno, nel 69° anniversario della Liberazione, ha monitato con voce rotta: "Desidero non far mancare una parola su come fanno onore all'Italia i nostri due marò ingiustamente detenuti", desiderando invece farla mancare al pm minacciato dalla mafia Nino Di Matteo, che si ostina a servire lo Stato e non è nemmeno imputato d'omicidio. Appena insediato, Renzi annunciò di volerli chiamare come "primo atto", cioè prima di Obama, della Merkel, del Papa, giusto per non lasciare la propaganda sciovinista al de-strame costantemente allertato contro gli sgarri alla madrepatria: la nipote del Duce, il responsabile politico di tutto il casino La Russa - il quale, concorde la Meloni, aveva trovato la soluzione diplomatica: che Del Piero rifiutasse di andare a giocare al calcio in India - e i berlusconiani, che implicitamente ci ricordano che la Giustizia è il cancro della democrazia. Nessuno si preoccupa di come passeranno il Natale gli altri 3.000 detenuti come loro per reati comuni - contrabbando, detenzione di droga, pedofilia - nelle carceri straniere. Ma adesso che la Corte indiana ha rifiutato l'estensione del permesso a Latorre che si sta curando qui dopo un ictus e ha rifiutato a Girone una licenza natalizia, Napolitano si è detto "fortemente contrariato", e Gentiloni finanche "irritato". E cosa si può fare? Il direttore de il Giornale Sallusti dice che un "capo supremo, i suoi uomini, se è il caso, se li va a prendere personalmente, sfidando protocolli, sovranità, diplomazie", in sostanza Napolitano dovrebbe fare un blitz nel Kerala. In fondo, l'India ha solo un miliardo di abitanti e la bomba atomica. Però ha ragione, è Natale e si può fare di più per i due marò. Si potrebbe farli intervenire in diretta nell'ultimo discorso di fine anno di Napolitano. Fare una fiction su di loro coi due pescatori indiani interpretati da Beppe Fiorello e Gabriel Garko che si sparano da soli. Oppure potremmo chiedere a tutti gli indiani che conosciamo, cioè Kabir Bedi, di mediare presso la Corte Suprema indiana. Possiamo immaginare la tremenda situazione dei due uomini e delle loro famiglie. Mentre della tragedia dei due indiani e dei loro cari, per fortuna, non sappiamo niente. India: caso marò, il governo indiano ammette di "avere allo studio" una soluzione 9Colonne, 20 dicembre 2014 Segnali positivi giungono dall'India sulla vicenda dei due marò, i fucilieri italiani accusati dell'omicidio di due pescatori indiani e detenuti nel Paese dal febbraio del 2012. L'India ha ammesso per la prima volta di "avere allo studio" una proposta italiana per la soluzione della vicenda dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone che porterebbe alla risoluzione della crisi diplomatica tra i due Paesi. Lo ha rivelato in una risposta scritta inviata ieri al Parlamento dal ministro degli Esteri Sushma Swaraj. Due membri del Partito comunista indiano (Cpi) del Rajya Sabha (la Camera alta del Parlamento), M.P. Achuthan del Kerala e D.Raja del Tamil Nadu, avevano presentato al governo una interrogazione sulla vicenda dei militari italiani bloccati in India. In essa si chiedeva "se è un fatto che il governo italiano ha cercato una soluzione consensuale alla vicenda da tempo in sospeso dei due militari italiani accusati di omicidio di due pescatori indiani nel 2012 al largo delle coste del Kerala". E, in caso di risposta positiva, si intendeva sapere "a che punto è il caso oggi e quale è la reazione del governo indiano alla proposta del governo italiano su di esso". Nella risposta scritta inviata ieri sera al Parlamento, il ministro Swaraj ha risposto sinteticamente "si'" alla prima domanda e sostenuto, riguardo alla seconda, che "la questione è attualmente all'esame della Corte suprema dell'India. Mentre la proposta del governo italiano è attualmente "all'esame del (nostro) governo". Margelletti (Cesi): non c'è capo accusa, marò detenuti irregolarmente Massimiliano Latorre e Salvatore Girone "sono detenuti in India irregolarmente": lo afferma in una intervista a Libero Andrea Margelletti, presidente del Centro di Studi internazionali (Cesi), esperto di analisi geopolitica ed ex consigliere dei ministri Giampaolo Di Paola e Mario Mauro: "Senza un capo d'accusa non c'è ragione che i due fucilieri debbano essere trattenuti in India", "il governo indiano non ha ancora specificato un capo d'accusa, ovvero non ha detto le ragioni formali per cui i due militari sono costretti a stare in India contro la loro volontà", "è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Non lo sarebbe in nessuno stato di diritto. E credo sia bene chiarire che i processi si fanno nei tribunali, ma si fanno. Soprattutto è assolutamente necessario ed è doveroso che due persone che si vedono limitate nella loro libertà abbiano la contezza del perché questo formalmente avviene". E aggiunge: "Non si può fare niente. Se non attendere quello che sta facendo il governo italiano, ovvero mettere in atto tutte le sue capacità. La risoluzione è difficilissima e davvero molto complicata perché, dal momento in cui non c'è un capo d'accusa, ho idea che da parte degli organi indiani vi sia totale mancanza di malafede". Siria: Osservatorio Diritti Umani; padre Dall'Oglio è in un carcere dell'Isis ad Aleppo Aki, 20 dicembre 2014 Padre Paolo Dall'Oglio, scomparso il 29 luglio dello scorso anno in Siria, sarebbe "vivo e detenuto in un carcere dello Stato islamico" (Isis) nella provincia di Aleppo. È quanto sostiene il presidente dell'Osservatorio siriano per i Diritti umani, Rami Abdel Rahaman, interpellato da Aki-Adnkronos sulla sorte del gesuita le cui tracce si sono perse a Raqqah, roccaforte del califfato nella Siria settentrionale. Abdel Rahaman ha invece affermato di "non avere alcuna notizia" riguardo le due giovani italiane Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite anche loro in Siria quasi sei mesi fa mentre seguivano progetti umanitari ad Aleppo. Il presidente dell'Ong con sede a Londra ha spiegato di aver appreso da fonti vicine all'Isis che Dall'Oglio, il cui rapimento non è mai stato rivendicato, "è stato trasferito in un sobborgo della provincia di Aleppo, in una zona controllata dai jihadisti" dell'Isis. Secondo Abed Rahaman, sarebbero in corso "trattative complesse per il suo rilascio, con una richiesta di riscatto spropositata". Per questo, le trattative "si interrompono e poi riprendono" di frequente, ha detto l'attivista, che non ha voluto rivelare chi le conduca. "Abbiamo inoltrato da tempo la richiesta di una prova ai suoi rapitori - ha continuato - ad esempio un video del religioso, ma non ci è mai stato consegnato alcunché". A fine luglio, a un anno della scomparsa, la famiglia del gesuita italiano ha rivolto un appello ai rapitori, chiedendo di "avere la dignità di farci sapere della sua sorte". "Vorremmo riabbracciarlo, ma siamo anche pronti a piangerlo", dicevano i familiari. Vescovo Aleppo: Dall'Oglio detenuto dall'Isis? tutto è possibile "Tutto è possibile, anche se non abbiamo alcuna notizia a riguardo. Non posso confermare né smentire. La situazione ad Aleppo è molto complicata ed è molto difficile avere notizie e verificarle". Lo ha affermato al Servizio informazione religiosa (Sir) monsignor Jean-Clement Jeanbart, arcivescovo greco melkita di Aleppo, in merito alla notizia diffusa poco fa da Aki-Adnkronos International secondo cui padre Paolo Paolo Dall'Oglio, scomparso il 29 luglio dello scorso anno in Siria, sarebbe "vivo e detenuto in un carcere dello Stato islamico" (Isis) nella provincia di Aleppo. Analogo commento anche da parte di padre Georges Abu Khazen, vicario apostolico latino della città siriana, per il quale, se la notizia venisse confermata, "proverebbe, innanzitutto, che il religioso è vivo". È stato il presidente dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, Rami Abdel Rahaman, a dichiarare ad Aki che il gesuita sarebbe vivo e in mano all'Isis e che sarebbero in corso difficili trattative per la sua liberazione. Il ministro Gentiloni: non abbiamo conferme Una nuova voce, come al solito però non verificabile direttamente, sembra poter riaccendere la speranza sulla sorte di Padre Paolo Dall'Oglio. Il gesuita romano, scomparso nel nord della Siria nel luglio del 2013, sarebbe vivo e si troverebbe in un carcere dello Stato islamico (Isis) tra Raqqa e Aleppo, secondo quanto hanno detto all'Ansa fonti locali. Ma il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni dice che non ci sono conferme. "Purtroppo non sembra che ci siano conferme a queste notizie", ha detto il responsabile della Farnesina a Rainews24 rispondendo ad una domanda sulle notizie provenienti dalla Siria. "Non abbiamo la possibilità di confermare", ha aggiunto. Interpellate via Skype da Raqqa, le fonti citano un ex detenuto nella prigione dell'Isis in questa città che, liberato due settimane fa, ha affermato di aver sentito dai suoi carcerieri che Dall'Oglio era stato trasferito nella prigione di Tabqa, al confine tra la regione di Raqqa e quella di Aleppo. Non vi è nessuna possibilità, tuttavia, di avere una prova concreta della veridicità di questa ennesima indicazione, dopo le molte che si sono rincorse a partire dalla scomparsa del religioso, nella stessa Raqqa, il 29 luglio dello scorso anno, che lo hanno dato per ucciso o in buona salute. Così come nessuna notizia si ha su Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani volontarie di cui si sono perse le tracce la fine di luglio e i primi di agosto scorsi nella regione tra Aleppo e Idlib. Diverse fonti avevano concordato nei mesi scorsi nel dire che il religioso era tenuto prigioniero in un luogo di detenzione dell'Isis nella provincia di Raqqa. In precedenza altre, tra le quali nell'agosto del 2013 l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), avevano affermato che era stato ucciso dai suoi carcerieri. "Caro Paolo, ti vogliamo bene e continuiamo con insistenza e speranza ad aspettarti", è il messaggio diffuso dalla famiglia di Padre Dall'Oglio dal sito a lui dedicato il 17 novembre scorso, in occasione del suo sessantesimo compleanno. Mentre alla fine di luglio, nel primo anniversario dalla scomparsa, gli stessi congiunti avevano rivolto un appello ai sequestratori per avere notizie sicure sulla sua sorte, dicendosi pronti "a riabbracciarlo, ma anche a piangerlo". Come per gli ostaggi italiani, nulla si sa di altri quattro religiosi siriani rapiti nella primavera del 2013: i vescovi ortodossi Bulos Yazigi e Yuhanna Ibrahim, un sacerdote armeno-cattolico e uno greco-ortodosso. Padre Paolo ha vissuto decenni in Siria, dove ha fondato la comunità monastica di Mar Musa per il dialogo tra cristiani e musulmani, prima di essere espulso nel 2012. Nell'estate dello scorso anno era tornato nel nord del Paese, e precisamente a Raqqa, nelle mani dello Stato islamico, per tentare una difficile mediazione per il rilascio di alcuni attivisti siriani fatti prigionieri. Ma, secondo diverse testimonianze, ha finito per essere catturato egli stesso da questa organizzazione. Pakistan: dopo strage scuola sospesa moratoria pena morte, presto decine di impiccagioni di Maria Grazia Coggiola Ansa, 20 dicembre 2014 I boia delle prigioni pachistane sono pronti a impiccare decine di terroristi islamici nei prossimi giorni dopo il via libera alle esecuzioni decisa dal governo all'indomani del massacro di oltre 130 bambini a Peshawar. Due militanti sono già stati mandati alla forca stasera nella prigione di Faisalabad, nella provincia centrale del Punjab. Il governo conservatore del premier Nawaz Sharif intende mostrare la massima durezza dopo il brutale massacro di tre giorni fa definito come "l'11 settembre pachistano". In queste ore sono state intensificate anche le operazioni dell'esercito nei distretti tribali pasthun, molto probabilmente anche in collaborazione con gli Usa, come dimostra l'attacco di un drone pilotato dalla Cia contro un sospetto covo del mullah Fazlullah, leader del Ttp, sulla linea del confine tra Pakistan e Afghanistan. Nei penitenziari di Rawalpindi, di Faisalabad, Karachi e della provincia nord occidentale di Khyber Pakhtunkhwa fervono i preparativi ed è stata rafforzata la sicurezza per paura di rappresaglie dei fondamentalisti. Il capo dell'esercito, il generale Raheel Sharif, ha dato il via libera all'impiccagione di sei jihadisti che da anni sono nel braccio della morte per attentati contro obiettivi militari. Tra questi ci sono appunto due militanti di primo piano saliti sul patibolo nel pomeriggio. Si tratta dell'ex medico militare dell'organizzazione terroristica Lashkar-e-Jhangvi, noto come il dottor Usman, considerato la mente di uno spettacolare attacco al quartiere generale dell'esercito nel 2009 a Rawalpindi costato la vita a 11 militari. Il secondo è invece Arshad Mehmood, accusato di aver pianificato un attacco suicida nel 2003 contro l'allora presidente e generale Pervez Musharraf. Sempre in queste ore è arrivato il segnale verde per l'esecuzione di 22 terroristi detenuti in diverse carceri e anche questi in attesa nel braccio della morte dopo la moratoria decisa nel 2008 dall'allora presidente Asif Ali Zardari, vedovo della statista Benazir Bhutto (il cui padre Zulfiqar Ali Bhutto era stato deposto e impiccato nel 1979 dopo il golpe del generale Muhammad Zia-ul-Haq). Secondo una fonte locale, 85 persone sono pronte a salire al patibolo, mentre il ministro della Giustizia sta esaminando ora altri 378 casi. La decisione di porre un termine alla moratoria è stata criticata da Amnesty International. "La pena di morte - ha detto il vicedirettore dell'area Asia Pacifico David Griffith - non è una risposta al terrorismo e non lo è mai stata". Ancor prima del brutale attacco, le forze armate avevano fatto pressione sul premier conservatore Nawaz Sharif perché introducesse una legge di emergenza anti terrorismo oltre alla fine della moratoria. Da allora oltre 8.500 criminali, tra cui dei jihadisti irriducibili, sono stati condannati a morte con una sentenza definitiva, ma la loro esecuzione è stata sospesa. Solo una volta, nel novembre 2012, un soldato condannato alla pena capitale da una corte marziale è salito sulla forca, tra le critiche della comunità internazionale e dei gruppi di difesa dei diritti umani. Intanto, sempre in reazione al feroce attacco talebano di martedì, continuano i raid aerei e le retate contro sospetti estremisti islamici, in particolare nel distretto tribale di frontiera del Nord Waziristan (dove da metà giugno è in corso la campagna militare anti talebana) e nella Khyber Agency. L'esercito ha fatto sapere di aver ucciso oggi oltre 30 ribelli in una operazione nella valle di Tirah, una delle roccaforti dei fondamentalisti, e una decina di altri militanti in retate a Karachi e nella provincia del Baluchistan. Stati Uniti: George Stinney, colpevole solo di essere nero, finì sulla sedia elettrica a 14 anni di Daniele Zaccaria Il Garantista, 20 dicembre 2014 Appena lo hanno sollevato per legarlo alla sedia elettrica i boia si sono accorti che era così piccolo e magro che non riuscivano neanche a stringere i lacci di cuoio sulle braccia e a sistemare gli elettrodi lungo il corpo. Pesava 40 chili ed era alto poco più di un metro e mezzo. Così hanno dovuto mettergli alcune copie della Bibbia sotto il sedere finché non hanno trovato la posizione giusta per farlo morire come si deve. Anche la maschera che abitualmente copre il volto dei condannati era troppo grande e larga, durante l'esecuzione è caduta giù più volte, mostrando ai 40 testimoni che assistevano al supplizio, tra cui i parenti delle vittime, le orribili smorfie di chi sta morendo tra atroci sofferenze sotto delle scariche elettriche a oltre 2500 volt. Quando è stato giustiziato dallo Stato del South Carolina, George Julius Stinney aveva appena 14 anni: è il più giovane condannato a morte nella storia recente degli Stati Uniti. Le poche immagini che circolano oggi in rete mostrano il viso di un bambino afroamericano dallo sguardo triste e rassegnato, diventato il simbolo della feroce persecuzione giudiziaria subita dai neri d'America. Erano le 19 e 30 del 16 giugno 1944 quando il medico del penitenziario di Columbia registra il decesso del condannato per arresto cardiaco. Dopo settanta anni la giustizia Usa recita finalmente il mea culpa: il giudice Carmen Mullen ha infatti annullato ieri la condanna, ritenendo il processo una farsa crudele in cui sono stati violati i diritti elementari dell'imputato sanciti dalla Costituzione: "L'esecuzione di George Stinney è la più grande ingiustizia che io abbia mai visto nella vita", ha commentato Mullen con i media. Il processo avvenne mentre il paese viveva in un odioso clima di segregazione razziale in uno Stato tra i più intolleranti e giustiziasti nei confronti della comunità nera vittima di pregiudizi e discriminazioni quotidiane. Stinney fu accusato dell'omicidio di due bambine bianche di 7 e 11 anni, Mary Emma Thames e Betty June Binniker, trovate in un fossato non distante dalla sua abitazione con segni di violente percosse alla testa con fratture profonde, a poche centinaia di metri fu rivenuta una sbarra di ferro, con ogni probabilità l'arma del delitto. Com'è possibile che un ragazzo così esile abbia potuto commettere un crimine talmente brutale? Ma George è stata l'ultima persona a vederle vive il giorno prima dell'omicidio. Abitavano a Alcolu, un sobborgo operaio nella contea di Claredon dove i quartieri dei bianchi e dei neri erano separati dai binari della ferrovia. Le due bambine erano uscite di casa per raccogliere dei fiori e avevano attraversato il giardino degli Stinney con la bicicletta scambiando due parole con George. Questa è la "prova" nelle mani degli investigatori e rimarrà l'unica fino al giorno della condanna. Dopo una sbrigativa indagine la polizia non perde tempo convinta di aver trovato il colpevole perfetto, si precipita nell'abitazione del ragazzino e lo arresta davanti gli occhi increduli dei genitori. La notizia occupa le prime dei giornali locali con titoli da Ku Klux Klan, il padre viene licenziato su due piedi dalla segheria dove lavorava mentre tutta la famiglia è costretta a lasciare la città per paura di linciaggi e rappresaglie lasciando George completamente abbandonato a se stesso nei suoi 80 giorni di prigionia. Il giudice che si occupò dell'affare negò ai familiari persino la possibilità di testimoniare in suo favore: "La corte reputò una cosa normale separare un bambino dai propri genitori e approfittare della sua giovane età per ottenere una sentenza di condanna a tutti i costi" spiega Mullen, sottolineando come gli avvocati che gli furono assegnati d'ufficio non fecero praticamente nulla per smontare un impianto accusatorio del tutto inconsistente e non chiamando nessun testimone. In carcere George viene costretto a confessare l'omicidio di Mary e June, ma di quella confessione non è mai stata trovata traccia in un nessun verbale scritto, lo stesso imputato ha poi negato di essersi mai accusato del delitto. Come durante l'autopsia non è stata trovata traccia di violenze sessuali sui corpi delle bambine, violenze in un primo momento evocate nel rapporto delle forze dell'ordine. Il processo fu naturalmente una farsa, durò due ore e mezza, la giuria composta da soli bianchi ci mise meno di dieci minuti per spedire il 14enne diritto verso la sedia elettrica: "Che Dio abbia pietà della sua anima", le lapidarie parole pronunciate dal giudice Phillip Henry Stoll. Alcune organizzazioni umanitarie protestarono con il governatore del South Carolina Olin Dewitt Talmudge che rifiutò di accordare la grazia a Stinney. "Avrei voluto che mia madre e mio padre fossero ancora qui per poter vivere questa giornata in cui è stata ristabilita la giustiza, mio fratello è stato ucciso senza alcuna ragione, era troppo giovane e non gli hanno dato alcuna chance", dice visibilmente commossa la sorella Amie Ruffner contattata telefonicamente dal sito di informazione Wtlx.com. La vicenda di George Julius Stinney è stata raccontata in Carolina Skeletons dallo scrittore David Stout che nel 1988 ha ricevuto il premio Edgard Allan Poe come migliore primo romanzo e nel film "Un colpevole ideale" realizzato dal regista John Erman nel 1991. Stati Uniti: per il presidente Obama la chiusura di Guantánamo è di priorità nazionale Ansa, 20 dicembre 2014 "La prigione di Guantánamo mina la nostra sicurezza nazionale, riducendo le nostre risorse, deteriorando i rapporti con i nostri alleati e incoraggiando gli estremisti violenti. Chiudere il carcere è una priorità nazionale". Lo afferma il presidente americano Barack Obama, il quale ha firmato la legge annuale sulla Difesa, riferisce una nota della Casa Bianca. Il provvedimento di più di 500 miliardi di dollari, estende le restrizioni alla chiusura del super carcere di Guantánamo. Il divieto di trasferire detenuti negli Usa, in vigore dal 2011, è stato rinnovato, nonostante le ripetute opposizioni del presidente. "Invito i membri di entrambe le parti a lavorare con noi per porre fine a questo capitolo della storia americana", ha insistito Obama. Con questa legge, il Congresso ha vietato al Pentagono di trasferire detenuti sul territorio Usa, per essere giudicati, curati o imprigionati; i repubblicani sostengono che rischierebbero di essere rilasciati da un giudice e quindi costituiscono una minaccia alla sicurezza nazionale. Al momento, nel super carcere di Guantánamo, aperto 13 anni fa, dopo gli attentati dell'11 settembre, rimangono rinchiusi 136 detenuti. Stati Uniti: Guantánamo, Obama e i detenuti ripudiati da tutti di Barbara Ciolli www.lettera43.it, 20 dicembre 2014 Dopo il disgelo con Cuba, gli Usa vogliono rilasciarne decine. "No" delle carceri americane. All'estero nessuno vuole accoglierli. Si attiva il Vaticano. Tra i desideri di Barack Obama per l'anno nuovo c'è, al primo posto, la chiusura del campo di torture legalizzate, promessa al suo arrivo alla Casa Bianca e, suo malgrado, mai completata. È ancora più dura che togliere l'embargo all'isola dei Castro. Il presidente degli Usa sa di avere poco tempo, prima dell'insediamento, nel 2015, delle maggioranze repubblicane a Camera e Senato. Dunque spinge l'acceleratore al massimo, alla ricerca di alleanze e consenso tra l'opinione pubblica. La prigione dei sospetti terroristi nella base navale americana a Cuba è stata tra gli argomenti di punta nell'ultimo incontro, nella Santa sede, tra il segretario di Stato americano John Kerry e il suo omologo vaticano, Pietro Parolin, braccio destro di Francesco che tanta voce in capitolo ha avuto nella mediazione tra Obama e la famiglia Castro degli ultimi mesi. A Kerry il presidente degli Usa ha ordinato di "lavorare sodo sulla chiusura di Guantánamo". "Vuole vedere assolutamente maggiori progressi e vuole anche che il Congresso rimuova le restrizioni imposte, per andare avanti su questo fronte", ha annunciato il suo team anti-terrorismo. L'ultimo desiderata è come l'erba voglio: Camera e Senato hanno sempre bloccato i progetti per trasferire i sospetti terroristi nelle prigioni Usa, figuriamoci se il Congresso sarà interamente controllato dai repubblicani. Nel 2009 Obama firmò un ordine esecutivo sulla "chiusura appena possibile di Guantánamo, non oltre un anno dalla data di questo ordine". Il termine è clamorosamente scaduto, ma il suo mandato continua. E, negli ultimi due anni, pare pronto a tentare il tutto per tutto. Smantellare la struttura? Più complesso del previsto. L'ordine esecutivo di Obama prevedeva anche la revisione di tutti i casi dei prigionieri a Guantánamo e delle loro condizioni di detenzione, lo stop ai procedimenti di fronte alle commissioni militari e la fine all'uso della detenzione segreta per lunghi periodi di tempo e delle "tecniche rinforzate d'interrogatorio". Buone intenzioni a parte, smantellare la struttura si è poi rivelato parecchio più complesso del previsto, non solo per l'ostruzionismo dei repubblicani. A parole, in tanti erano d'accordo con il presidente, per tacitare lo scandalo mondiale delle torture. Ma in pochissimi - anche tra l'opinione pubblica e anche tra i democratici - sono disposti a far entrare negli Usa i sospetti terroristi dell'11 settembre e di altre stragi, per regolari inchieste, regolari processi e regolari detenzioni. Già nel maggio successivo, cinque mesi dopo l'annuncio, Obama rivedeva i suoi passi, ripristinando i processi delle commissioni militari e dichiarandosi d'accordo alla detenzione a tempo indeterminato e senza processo per i detenuti più pericolosi. Parallelamente, l'amico personale e procuratore generale Eric Holder - dimissionario nel 2014 - disponeva indagini sulla distruzione delle registrazioni degli interrogatori ai detenuti all'estero. E il trasferimento negli Usa di cinque detenuti accusati di partecipazione agli attacchi dell'11 settembre processati da un tribunale federale ordinario anziché dalle Commissioni militari. Obama indicava inoltre il penitenziario di Thomson, nell'Illinois, come possibile sito per i non rimpatriati nei Paesi d'origine. Tra il 2009 e il 2012, tutte le frenate di Obama sarebbero rimaste tali. Le riforme tentate con Holder, viceversa, affossate dal Congresso e dal Pentagono o bloccate dal governo. Una cinquantina di carcerati a Guantánamo vengono dichiarati "non processabili né rilasciabili". Il Pentagono conferma il diritto di detenzioni a tempo indeterminato anche in caso di assoluzione da parte delle Commissioni militari. Senza dare spiegazioni, il Dipartimento della Giustizia annuncia lo stop ai processi per "la distruzione, da parte di personale della Cia, delle registrazioni filmate degli interrogatori dei detenuti". A esclusione di due casi, anche le inchieste in merito vengono sommariamente chiuse. E fallisce il rientro, per il processo ordinario, dei cinque imputati per la strage delle Torri gemelle. Dal 2012 Obama ha tentato di aggirare il muro contro muro interno facendo rimpatriare, nei rispettivi Paesi, i soggetti non più ritenuti pericolosi, nell'ottica di favorire una lenta e obliqua chiusura del campo. Ma anche questo sentiero si è dimostrato lastricato da ostacoli. Per motivi di sicurezza, la metà yemenita dei prigionieri di Guantánamo non è potuta rientrare nella terra infestata da al Qaeda. Sono poi nati contenziosi con i Paesi d'origine che non rivogliono indietro alcuni detenuti. Cassata la chiusura, il Congresso Usa ha infine posto restrizioni ai trasferimenti, negando, negli ultimi mesi, anche un campo di prigionia sul territorio nazionale. A Obama non è rimasto che la questua all'estero per far ospitare gli ex di Guantánamo come "rifugiati". L'Uruguay, per esempio ha accettato di prenderne sei, dopo i 16 trasferiti nel 2014 in altri Stati tra i quali la Georgia, la Slovacchia e l'Arabia Saudita. Dai quasi 800 del 2006, nel carcere di massima sicurezza aperto nel 2002 restano in 136: 67 sarebbero rilasciabili. La Casa Bianca ha diffuso nomi e profili dei potenziali rifugiati, ma nessuno li vuole in casa propria. Anche in Italia l'opinione pubblica grida contro la vergogna dei prigionieri torturati a Guantánamo, però, con l'allarme Isis, sarebbe disposta ad accoglierli da rifugiati? La rete diplomatica vaticana nel mondo può essere molto utile, per le "soluzioni umanitarie adeguate" chieste dagli Usa per i paria in tuta arancione.