Figli lontani: basterebbe un po’ di tecnologia per avvicinarli Il Mattino di Padova, 1 dicembre 2014 Ma non basta punire il detenuto? Bisogna per forza distruggere anche la vita della sua famiglia? Queste non sono domande retoriche, sono purtroppo domande che hanno un fondamento concreto nella realtà, e la testimonianza di un detenuto in carcere a Padova, che ha i figli a Catania e li deve crescere per corrispondenza, lo spiega bene. Eppure, basterebbe poco per cambiare la qualità della vita di queste famiglie: basterebbe, per esempio, permettere a chi ha la famiglia lontana di comunicare via Skype. Nella Casa di reclusione di Padova ora si può fare, ed è una boccata di ossigeno e di umanità che andrebbe estesa a tutte le carceri. Le nostre famiglie che colpa hanno oltre a quella di amare una persona che è detenuta? Mi chiamo Luca, ho 33 anni, sono di Catania. Non voglio raccontare oggi le mie scelte di vita sbagliate, che mi hanno portato a rovinare da piccolo la mia esistenza, incominciando dal mio primo arresto da minorenne, per andare a finire a tanti anni che ho fatto di carcerazione. Oggi però voglio parlare delle difficoltà che ha un detenuto con la sua famiglia quando subisce un trasferimento lontano da casa. A me mi arrestano nel 2008 per rapine commesse al Nord Italia, mi spiccano un mandato di cattura a Catania, mi portano in carcere e dopo un paio di giorni dall’interrogatorio mi trasferiscono a Bolzano, a 1.600 km di distanza da casa. Per mia "fortuna" avevo dei processi da definire in Sicilia, quindi mi portano in un anno e mezzo a fare più di 23 spostamenti di carcere, ma paradossalmente li facevo volentieri, perché potevo vedere i miei figli, la mia ex compagna e mio padre anziano, purtroppo mia madre invece, per problemi di salute, sono sette anni che non la posso vedere. All’inizio della mia ultima carcerazione ho lasciato i miei due figli piccoli, che avevano 5 e 6 anni, purtroppo, come racconto sempre agli studenti delle scuole superiori, che incontriamo in carcere, io i miei figli li sto crescendo per corrispondenza, perché non mi hanno dato la possibilità di crescerli davvero da vicino, vista la lontananza che ci separa, da Catania a Padova. Io li ho cresciuti, se questo si può dire crescere dei figli, per lettera e con dieci minuti di telefonata alla settimana, da dividere tra la mia ex compagna, i miei genitori anziani e appunto i miei figli, ecco che per questo motivo credo di essere un estraneo per loro, anche se mi chiamano papà. Vi racconto brevemente una telefonata che ho avuto tempo addietro con loro, in particolare con mio figlio più piccolo, io gli dico: "Ciao amore mio, come stai?", e lui mi risponde: "Ciao zio! Scusa! Ciao papà!", vedete questo mi ha fatto riflettere, forse è stato un istinto da parte di mio figlio a chiamarmi zio, perché purtroppo non sono stato vicino in tutti questi anni ai miei figli, in sostanza questa lontananza ha portato a un "non rapporto", io non conosco loro e loro non conoscono il proprio padre. Vorrei portare a riflettere sul fatto che nel nostro Paese esistono delle leggi che prevedono che un detenuto dovrebbe stare il più vicino possibile a casa, ma questo nella maggior parte delle volte non accade. Io penso che per una mia scelta di vita sbagliata, con tutte le conseguenze possibili, tra cui processi, condanne, è giusto che io paghi per i miei errori, ma le nostre famiglie oltre ad avere la colpa di amare una persona che è detenuta, che colpa hanno? Ho la sensazione che in questo modo in cui non ti danno la possibilità di stare vicino ai tuoi cari, si crea rabbia da parte nostra e anche da parte dei nostri famigliari, e si potrebbe creare altra delinquenza, e non perché lo dico io, ma ci sono ricerche che dicono che i figli di persone detenute per il 30% sono a rischio di delinquere come ha fatto il proprio genitore. Spero che questa battaglia per l’affettività che stiamo facendo porti dei frutti, perché altri figli come quelli miei non abbiano un genitore per corrispondenza. Luca Raimondo Sono stato il primo del carcere a fare un colloquio via Skype Dopo tanti anni di carcerazione ho voglia di esprimere la mia gioia per aver rivisto la mia famiglia, dopo il profondo disagio vissuto durante tutto questo tempo della mia detenzione. Sono stato il primo detenuto della Casa di Reclusione di Padova a poter vedere i miei familiari tramite Skype, mentre aspettavo che sul video scuro del pc apparissero in loro volti ho rivissuto in un flash back tutta la mia storia dal momento dell’arresto ad oggi. Era da tanto tempo che non vedevo mia moglie e mia figlia. Ho rivisto me stesso quel giorno maledetto, il 31 maggio 2007. Fui arrestato vicino a Milano, ricordo che in quel momento, subito dopo che fui ammanettato, mi parve di essere in una realtà virtuale. Non riuscivo a capire cosa volessero da me. Quel giorno ero strafatto di cocaina e di alcool. Quando sono entrato nella Questura mi sono svegliato da quel lungo delirio e ho capito che non si trattava affatto di un gioco. Era la realtà che mi arrivava addosso con una violenza bestiale. Dopo aver saputo le accuse ho capito che per me era finita, che non avevo più scampo. Le accuse erano gravissime, mentre mi interrogavano rivedevo tutto il film del mio ultimo pezzo di vita. In quel momento non ascoltavo più nulla, sentivo le domande come se fossero dei rumori che mi laceravano l’anima e pensavo solo a una cosa, a mia figlia e a mia moglie che avrei perduto per chissà quanto tempo. Rivedevo tutte le mie illusioni, tutto un film che ora mi appariva come qualcosa che non poteva appartenere a me, qualcosa da cui volevo fuggire per tornare indietro. Dopo l’interrogatorio mi tennero lì ammanettato, in un corridoio degli uffici della Questura per tutta la notte. All’indomani mi ritrovai in carcere a Lecco. Entrato nella cella d’isolamento mi parve di entrare in un tunnel lunghissimo che non finiva mai, da cui non vedevo la luce. Non avevo alcuna preoccupazione per me, pensavo solo al dolore che avevo dato alla mia famiglia, per colpa mia avrebbero vissuto anni di dolore per la nostra lontananza. Mia figlia ne sarebbe rimasta segnata per sempre, era attaccatissima a me. L’avvocato mi diceva che rischiavo grosso, io mi preoccupavo per i miei cari. Temevo che li avrei persi. In quel periodo girava la voce che da Lecco ci avrebbero trasferiti chissà dove e io speravo che avere la famiglia lì vicina avrebbe indotto l’istituzione a non mandarmi lontano da casa. Mi sbagliavo, nessuno si preoccupò dei miei familiari, arrivò anche per me l’ora del trasferimento. In quel momento venni assalito da un’ansia terribile, ma mantenevo la speranza che mi portassero almeno in un carcere migliore dove si potessero fare colloqui decenti con i familiari. Mi portarono invece nel supercarcere di Opera, fui messo in una cella spoglia e buia. Non c’era neanche la branda, per circa venti giorni ho dormito con il materasso per terra. Questo incubo è durato undici mesi. Da lì fui trasferito alla Casa di reclusione di Bollate, dove mi trovai molto meglio, si potevano incontrare tante persone che venivano dall’esterno, si poteva lavorare e confrontarsi con la società civile. Andava tutto bene, incontravo la mia famiglia, avevamo tanta speranza, ma mi trasferirono anche da li, per motivi di giustizia riguardanti fatti vecchi. Fui spedito a Spoleto, da li a Perugia, ad Ancona e a Fermo. Ormai avevo perso la speranza di rivedere mia moglie e mia figlia. Facevo sempre istanze al Ministero per tornare a Bollate o per essere trasferito vicino a casa, ma non ricevevo mai risposta positiva. Vivevo la mia carcerazione in maniera negativa, temevo di perdere l’affetto dei miei familiari e loro viceversa temevano di perdere me. Finalmente è successo che sono stato trasferito a Padova. Qui ho cominciato un nuovo percorso di risocializzazione, entrando a far parte del corso di scrittura e del Gruppo di discussione, due attività culturali della redazione di Ristretti Orizzonti. E qui la Direzione ha recepito molte segnalazioni della redazione, che funziona un po’ come osservatorio dei problemi delle persone detenute. Così è stata data a tutti la possibilità di fare due telefonate straordinarie al mese, che mi permettono di parlare con mia figlia e mia moglie più spesso. Inoltre hanno introdotto l’utilizzo della tecnologia di Skype per dare la possibilità a tutti coloro che non riescono a fare i colloqui di rivedere i propri familiari. Io ho avuto la fortuna di essere il primo a utilizzare questo tipo di videochiamata. Quando mi hanno comunicato che potevo chiamare la mia famiglia mi sono sentito di toccare il cielo con un dito. Mi sono avviato vero l’area dei colloqui pieno di ansia. Mi sono seduto davanti allo schermo e vedevo solo un buio totale. È bastato un attimo, però, per restituire luce ai miei occhi, scaldare il mio cuore. È stata un’emozione indescrivibile rivedere le persone a me più care. Non vedevo coloro che amo più della mia vita da tanti mesi. È stata davvero una magia. Ziu Amarildo Gli ergastolani a Gratteri: dateci il "diritto di amare" Ansa, 1 dicembre 2014 "La legalità prima di pretenderla, bisogna darla. È difficile educare qualcuno alla legalità attraverso la sofferenza fine a se stessa, inflitta a chi come me è destinato a morire in carcere, condannato alla pena di morte viva". È uno dei passaggi di una lettera aperta indirizzata al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, scritta dal detenuto ergastolano Carmelo Musumeci che ha voluto affidare al giornalista Carmelo Sardo durante la presentazione nel carcere di Padova di "Malerba" che racconta la storia del killer di mafia Giuseppe Grassonelli, anche lui condannato all’ergastolo e coautore del libro. Musumeci, che è uno dei 1.200 detenuti ergastolani cosiddetti ostativi, la cui pena non scadrà mai e che non hanno possibilità di beneficiare di alcun permesso, si definisce "uomo ombra" e si rivolge a Gratteri a proposito delle sue proposte di riforma della giustizia, indicandolo come "ministro ombra" del governo Renzi. "Il carcere - osserva il detenuto - dovrebbe servire a tirare fuori tutto quanto c’è di buono di una persona, invece in Italia tira fuori il peggio dei prigionieri e dei loro guardiani". L’ergastolano fa parte della redazione "Ristretti orizzonti" che opera, grazie a un gruppo di volontari, all’interno del carcere di Padova. E per tentare di alleviare le sofferenze degli ostativi, la redazione composta prevalentemente da detenuti ostativi, lancia la campagna per la liberalizzazione dell’affettività in carcere. Una raccolta di firme per far sì che anche nelle carceri italiane come in quelle di diversi paesi europei, venga permesso ai detenuti di avere colloqui con un po’ di intimità con le loro famiglie e telefonate meno rare. Su questo tema Musumeci chiede a Gratteri di riconoscere ai detenuti il "diritto di amare". Giustizia: "messa alla prova", in sei mesi già 5mila domande per evitare il processo di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2014 Gli imputati giocano la carta della messa alla prova per sospendere il processo e ottenere l’estinzione del reato. Nei primi mesi di applicazione della nuova possibilità - introdotta dalla legge 67/2014 e operativa dal 17 maggio scorso - sono state quasi 5mila le istanze arrivate sui tavoli degli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe). Per l’esattezza, secondo i dati al 31 ottobre scorso del ministero della Giustizia che monitorano le domande, a chiedere di essere "messi alla prova" sono stati 4.798 imputati (o indagati). Di questi, solo 109 stanno già svolgendo il "programma di trattamento", che include i lavori di pubblica utilità. La maggior parte delle istanze - metà delle quali arrivate dopo l’estate - è all’esame degli assistenti sociali degli Uepe, incaricati di elaborare i programmi e di individuare le strutture per i lavori di pubblica utilità: strutture che rischiano di non avere abbastanza posti, anche per il ritmo con cui crescono le domande. Lo strumento La messa alla prova offre agli imputati e agli indagati per i reati meno gravi la possibilità di evitare il processo e di mantenere la fedina penale pulita, se accettano una serie di impegni, legati al risarcimento del danno e al lavoro di pubblica utilità. "Si tratta di un istituto - chiarisce Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano - già sperimentato nel processo minorile, dove però i numeri sono bassi rispetto a quelli con cui si confronta il tribunale ordinario". L’estensione dello strumento agli adulti nasce da una proposta di legge parlamentare, promossa, in primo luogo, da Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia della Camera: "La messa alla prova - spiega - da un lato è un’occasione di recupero per chi ha sbagliato una sola volta, dall’altro contribuisce a ridurre il contenzioso penale, permettendo ai giudici di concentrarsi sui delitti che creano più allarme". Un’esigenza sentita, visto il numero dei procedimenti penali: quelli con autore noto che iniziano in tribunale sono circa 1,3 milioni l’anno. Come sta funzionando A chiedere la messa alla prova finora sono stati soprattutto gli imputati del Centro e del Nord Italia: qui si concentrano circa 3.800 domande su 5mila. "Le istanze sono più numerose nei tribunali più efficienti - ragiona Roia, dove gli imputati non possono contare sulla prescrizione". Molte richieste arrivano da chi ha provocato un incidente stradale per ubriachezza; gli altri reati per cui è stata chiesta la messa alla prova sono soprattutto furto, spaccio di piccole dosi o lesioni. "Spesso sono reati - dice Bianca Berio, responsabile Uepe di Genova, Savona e Imperia - che nascono da comportamenti superficiali, in buona parte attribuiti a imputati con meno di 30 anni". Sono gli Uepe a gestire i passaggi chiave della messa alla prova, a partire dall’elaborazione del programma da sottoporre al giudice. "Per farlo è necessario svolgere un’indagine sociale - precisa Rita Andrenacci, responsabile Uepe del Lazio - per conoscere gli imputati e le loro condizioni di vita. È un’attività complessa, che richiede da tre a sei mesi". Tempi che rischiano di rallentare la marcia della messa alla prova, se gli uffici non verranno rafforzati. "Ora - continua Andrenacci - siamo alla fase iniziale, ma a breve dovremo anche occuparci di seguire gli imputati durante lo svolgimento della messa alla prova". Il nodo è poi "individuare le strutture che accolgano gli imputati - spiega Angela Magnino, responsabile Uepe del Piemonte -. Noi stiamo indicando gli enti con cui siamo in contatto per il lavoro di pubblica utilità già previsto per la guida in stato di ebbrezza". Si tratta di un canale che molti uffici stanno sfruttando, ma non tutti gli enti - perlopiù Comuni, associazioni di volontariato, comunità - sono pronti a inserire imputati per i vari tipi di reato. Senza contare che le strutture spesso non riescono a far fronte ai costi assicurativi e di sicurezza per farli lavorare. E mancano le indicazioni per stringere nuove convenzioni: dovevano arrivare dal ministero della Giustizia con un regolamento atteso entro metà agosto, ma non ancora varato. Un segnale di aiuto agli Uepe potrebbe venire dalla legge di stabilità per il 2015, in discussione alla Camera. Con un emendamento del Governo, votato la scorsa settimana, è stata abrogata l’esenzione dalle spese di notificazione per le cause di scarso valore (fino a 1.033 euro) di fronte al giudice di pace: ora a pagare sarà chi chiede la notifica. Una misura che dovrebbe portare allo Stato circa 5 milioni l’anno, che saranno destinati agli Uepe. Ammesso chi rischia fino a 4 anni di carcere, di Fabio Fiorentin La possibilità di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova - prevista dalla legge 67/2014 e operativa dal 17 maggio scorso - è aperta solo agli indagati e agli imputati per i reati meno gravi. Si applica infatti se il reato è punito con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni (sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria); inoltre, si applica per alcuni delitti specifici, tra cui violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, rissa e furto. Il beneficio non può essere concesso più di una volta. Sono poi esclusi dalla messa alla prova i delinquenti “qualificati” (abituali, professionali e per tendenza). Inoltre, se il beneficio viene revocato o se la prova ha esito negativo, è possibile riproporre la domanda. Alcuni giudici ammettono la “messa alla prova parziale”, cioè solo per alcune imputazioni, con stralcio degli altri capi. La richiesta di sospensione del processo con messa alla prova può essere presentata oralmente o per iscritto, personalmente dall’imputato o dal suo avvocato. Quanto ai tempi, può essere proposta finché non siano formulate le conclusioni o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta va presentata al Gip entro 15 giorni. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l’atto di opposizione. La messa alla prova può essere chiesta anche nel corso delle indagini preliminari; in questo caso l’istanza è trasmessa dalla cancelleria del giudice al Pm, per il parere. Se il Pm dà il consenso, il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio. Altrimenti l’imputato può ripresentare la richiesta prima dell’apertura del dibattimento di primo grado. In alcuni tribunali è invalsa la prassi di “rimettere in termini” gli imputati in processi in corso già in fase avanzata per consentire un più ampio accesso al beneficio. All’istanza vanno allegati il programma di trattamento, predisposto d’intesa con l’Ufficio dell’esecuzione penale esterna (Uepe), o la richiesta di elaborare il programma, che deve indicare gli impegni assunti dall’imputato, anche con riguardo al risarcimento del danno e al lavoro di pubblica utilità. Prima di decidere, il giudice può acquisire informazioni anche da polizia giudiziaria, Uepe o altri enti pubblici e valuta l’istanza anche alla luce del domicilio dell’imputato, per tutelare la persona offesa. Se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento, il giudice decide sulla richiesta sentite le parti e la persona offesa. Il procedimento non può essere sospeso per più di due anni, quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, o per più di un anno se è prevista la sola pena pecuniaria. L’imputato e il Pm, anche su istanza della persona offesa, possono ricorrere per Cassazione contro l'ordinanza; ma il ricorso non ha effetto sospensivo. L’esito positivo della prova estingue il reato. Giustizia: veto degli alfaniani, sulla riforma della prescrizione il Governo ora frena di Liana Milella La Repubblica, 1 dicembre 2014 Il Csm vuole battere in efficienza il governo sulla giustizia. Legnini sfida Renzi e Orlando. Mentre premier e ministro non riescono a mantenere la promessa sulla prescrizione fatta dopo la sorpresa del processo Eternit nel nulla per la prescrizione scaduta. Oggi se ne occuperà il consiglio dei ministri, ma già Ncd punta i piedi e col vice ministro della Giustizia Costa dice "o vanno avanti anche le intercettazioni, o non se ne fa niente". Finirà con un emendamento al testo Ferranti già in discussione alla Camera. Per un governo che annaspa sulla giustizia, il vice presidente del Csm Giovanni Legnini vuole correre. In vista del plenum con Napolitano del 22 dicembre, Legnini vuole chiudere i fascicoli su Palermo, la nomina del procuratore, e su Milano, lo scontro Bruti-Robledo. In settimana sviluppi caldi. Sulla prescrizione invece siamo a un punto morto. Chi dopo Eternit si aspettava una riforma ad horas dovrà fare i conti con molti passaggi parlamentari. Un inghippo che colpisce un tema che i magistrati vogliono, ma che la politica teme. Oggi Andrea Orlando porta il caso in consiglio dei ministri. Il testo è quello già approvato il 29 agosto - prescrizione bloccata in primo grado ma poi due anni per l’appello e uno per la Cassazione - nell’ambito di un corposo ddl sul processo penale. Testo mai arrivato in Parlamento. Alla Camera invece hanno marciato le proposte Ferranti, M5S e Sc, e il 16 dicembre sarà pronto il testo base. Il governo è a un bivio, o fa un emendamento, oppure un nuovo ddl con la sola prescrizione che si affiancherebbe alle altre proposte. Ma Ncd punta i piedi e vuole le intercettazioni, con una stretta sulla pubblicazione. Dice Enrico Costa: "Anticipiamole e mettiamole nel ddl sulla diffamazione". Ieri sera lo stralcio era divenuto improbabile. Non resta che l’emendamento del governo al testo della Camera. Tra i vari passaggi, Camera, Senato e forse una nuova Camera, ci vorrà almeno un anno. Nel frattempo i processi continueranno a "morire", e le promesse pure. Proprio i tempi lunghi infastidiscono Legnini al Csm. Ai suoi consiglieri indirizza un messaggio chiaro: "Dobbiamo chiudere entro Natale la partita della procura di Palermo e il caso Milano. Ci aspetta un anno difficile, con 500 nomine da fare, e non possiamo perdere un solo minuto". Nomine frutto del pensionamento anticipato (da 75 a 70 anni) deciso dal governo. Legnini non chiede slittamenti, anche se al Csm si rincorrono voci di una possibile proroga invece che al 2015, al 2016 o al 2017. Improbabile che Renzi dica sì. Palermo e Milano. Oggi i tre candidati per la procura di Palermo, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, di Messina Guido Lo Forte, e Franco Lo Voi di Eurojust, saranno "interrogati" dalla quinta commissione. Entro mercoledì, come ha chiesto Legnini, il voto. È probabile che tutti e tre siano votati, sarà decisivo il plenum del 10 dicembre. La gara è tra Lari e Lo Voi. Potrebbe vincere Lo Voi che è ben visto dai laici. Anche la partita di Milano si gioca in settimana. Legnini, che ha visto Bruti e Robledo, ha chiesto di chiudere perché Bruti è in proroga alla procura e il Csm deve decidere sulla richiesta di restare fino alla pensione. Incombe la decisione del procuratore generale Ciani sull’avvio di un’azione disciplinare che, stando a "radio Csm", potrebbe riguardare Robledo e non Bruti. Giustizia: riforma della prescrizione in Consiglio dei ministri, ma non c’è accordo di Silvio Gentile Il Messaggero, 1 dicembre 2014 Il decreto legislativo che disciplina la non punibilità delle condotte di lieve entità e la delega sul civile. Sono le misure in materia di Giustizia, contenute nel pacchetto sul processo penale, che oggi dovrebbe esaminare il Consiglio dei ministri. Resta il nodo della prescrizione, questione che, quasi sicuramente, sarà stralciata. Il Cdm dovrà valutare lo stralcio delle norme sulla prescrizione e la questione è soprattutto politica, con un inevitabile confronto nella maggioranza. Perché il centrodestra vorrebbe affrontare la materia scottante senza distinguerla da un altro tema fondamentale: quello delle intercettazioni, già contenuto nell’originario disegno di legge approvato in consiglio ad agosto e mai approdato in parlamento. Il testo presentato oggi prevede che la decorrenza della prescrizione si fermi per massimo due anni dopo il deposito della la sentenza di condanna di primo grado e per massimo di un anno dopo quella di appello. Il condizionale è d’obbligo, dopo il via libera, il testo "base" dovrebbe essere trasmesso alla commissione giustizia della Camera, dove sono già pendenti tre provvedimenti del Pd, di M5s e di Scelta civica. In alternativa, il governo potrebbe depositare un emendamento alle proposte già sul tavolo della commissione. Lo schema, che incide sulle condotte di "particolare tenuità", dà attuazione alla legge delega 67/2014 sulla messa alla prova e le misure alternative al carcere. Il provvedimento prevede che possa scattare l’archiviazione per tenuità del fatto per tutti i reati sanzionati con una pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni o con una sanzione pecuniaria, prevista da sola o in aggiunta al carcere. Sono compresi alcuni reati contro il patrimonio, come furto semplice, danneggiamento, truffa, ma anche violenza privata o minaccia per costringere a commettere un reato. L’archiviazione scatterebbe in qualsiasi fase del procedimento, ma la quota maggiore è attesa in fase di indagini preliminare. Per semplificare il procedimento si prevede che siano anticipati gli scambi di memorie, si rafforzi il principio di immediata, provvisoria efficacia delle sentenze di primo e secondo grado e quello di sinteticità degli atti. Inoltre sono rimodulati i tempi processuali per evitare impugnazioni strumentali, con la revisione del giudizio camerale in Cassazione. Vengono inoltre estese le competenze del tribunale delle imprese a concorrenza sleale, pubblicità ingannevole e class action. E si istituisce il tribunale per la famiglia, attribuendogli competenze sui diritti delle persone, in particolare i minori, e della famiglia, tra cui separazioni, divorzi, contenzioso per crisi delle relazioni familiari. Giustizia: "Amnistia per la Repubblica", il Satyagraha di Natale con Marco Pannella www.radicali.it, 1 dicembre 2014 Noi sottoscritti abitanti il territorio italiano ci uniamo alla lotta nonviolenta del leader radicale Marco Pannella affinché nel nostro Paese si affermi la legalità nell’amministrazione della Giustizia (da anni straziata insieme alla vita di milioni di persone a causa dell’irragionevole durata dei processi penali e civili) e si rimuovano le cause strutturali che fanno delle nostre carceri luoghi di trattamenti inumani e degradanti. Noi siamo convinti che l’amnistia e l’indulto siano gli unici provvedimenti strutturalmente in grado, da subito, di riportare nella legalità costituzionale e sovranazionale il nostro Paese. Non siamo soli: cerchiamo di far vivere con il nostro Satyagraha le parole contenute nel messaggio solenne del Presidente Napolitano al Parlamento, quelle pronunciate da Papa Francesco il 23 ottobre scorso in occasione dell’incontro con i delegati dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, e quelle - chiarissime - pronunciate dal gruppo di esperti Onu sulla detenzione arbitraria a seguito di una visita ispettiva effettuata in Italia nel luglio scorso. Per questo, nel partecipare al Satyagraha - e nell’ambito della battaglia centrale volta ad ottenere un provvedimento di amnistia e di indulto - indichiamo i seguenti obiettivi: Sanità in carcere: garantire le cure ai detenuti; Immediata scarcerazione di Bernardo Provenzano; Introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura; Abolizione dell’ergastolo a sostegno della campagna di Nessuno Tocchi Caino; No alle deportazioni in corso dei detenuti dell’alta sicurezza; Diritto alla conoscenza: 1) conoscibilità e costante aggiornamento dei dati riguardanti le carceri 2) conoscibilità dei dati riguardanti i procedimenti penali pendenti; Rendere effettivi i risarcimenti ai detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti; Abolire la detenzione arbitraria e illegale del 41bis; Nomina immediata del Garante Nazionale dei Detenuti; Per gli Stati Generali delle Carceri, preannunciati dal ministro della Giustizia, prevedere la presenza anche dei detenuti. Per aderire al Satyagraha, che avrà inizio dalla mezzanotte di mercoledì 3 dicembre 2014, ti preghiamo di riempire il questionario che troverai cliccando sul link sottostante. Puoi aderire con uno o più giorni di sciopero della fame, o con altre forme di lotta nonviolenta. Fra le prime adesioni, quelle di Rita Bernardini, Valter Vecellio, Don Enzo Chiarini, Laura Arconti, Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Irene Testa, Alessandra Terragni, Francesca Terragni, Davide La Rosa, Clelia Di Donna, Carlo Loj, Giusi Nibbi, Giovanni De Pascalis, Diego Sabatinelli, Ilari Valbonesi, Maurizio Buzzegoli, Michele Migliori, Deborah Cianfanelli, Sergio Rovasio, Paola Di Folco. Giustizia: progetto "Terzo tempo", con l’Uisp lo sport entra negli istituti di pena minorili Comunicato stampa Uisp, 1 dicembre 2014 Prosegue l’azione del progetto Uisp Terzo tempo che, grazie al sostegno della Fondazione con il Sud e l’onlus Enel cuore, mira alla riqualificazione di spazi per la pratica motoria all’interno delle strutture detentive, avviando contemporaneamente un programma di attività non solo sportive, di formazione e di inserimento lavorativo. Sono questi gli istituti di pena minorili coinvolti: "Paternostro" di Catanzaro; "Nisida" di Napoli; "Pratello" di Bologna; "Quartuccio" di Cagliari; "Malaspina" di Palermo; "Bicocca" di Catania. "A Catanzaro si è da poco concluso il primo ciclo formativo del progetto: "Ho visto cose che non conoscevo", sono le parole di Francesco, uno dei ragazzi dell’Istituto penale, che riassumono l’obiettivo del laboratorio stesso e che quotidianamente persegue l’equipe dell’Istituto, per dare concreta attuazione alla finalità rieducativa della pena - si legge nella rivista "Libera-Mente", periodico d’informazione e attualità della Comunità ministeriale e Cdp di Catanzaro - Mostrare cose diverse rispetto a quelle conosciute e che probabilmente hanno inciso sul percorso deviante, per guidare verso modelli socialmente validi, che è appunto la funzione assegnata alla pena. All’interno dell’Istituto penale di Catanzaro la Uisp è ormai presente da oltre vent’anni. Il progetto "Terzo tempo" prevede la realizzazione di una serie di attività, tra le quali rientra la formazione ai ragazzi presenti in istituto, articolata in tre cicli, e affidata ad Antigone, un’associazione nazionale la cui finalità è lo studio, la ricerca e la sensibilizzazione culturale sul tema del diritto, dei diritti, della giustizia, delle pene. Finalità che persegue anche attraverso l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione e sull’esecuzione penale presente in tutte le regioni. Il percorso fatto sin qui, ha visto la partecipazione anche dell’area educativa dell’Istituto penale, degli operatori del Comitato Uisp di Catanzaro e del mediatore linguistico culturale, che ha facilitato la comunicazione e l’interazione con i ragazzi stranieri presenti in aula". Martedì 10 dicembre verrà posto un altro importante tassello del progetto Uisp a Bologna: verrà, infatti, inaugurata la palestra ristrutturata grazie a Terzo tempo. Insieme ai rappresentanti dell’Uisp, Fabrizio De Meo, responsabile nazionale del progetto, e Fabio Casadio, presidente Uisp Bologna, ci saranno i rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria e del tribunale dei minorenni, ma soprattutto ci saranno i ragazzi dell’istituto che usufruiranno delle migliorie realizzate negli spazi del "Pratello". La cerimonia inizierà alle 11, ci sarà la consegna della targa e un buffet preparato dal laboratorio di cucina interno al carcere. La seconda fase del progetto prevede l’acquisto dei materiali sportivi, mentre l’attività sportiva proseguirà ancora con calcio e pallavolo, e a breve partirà anche il basket. "A Napoli un esempio di sport sociale teso al recupero dei giovani alla devianza c’è ed è molto amato: è Pino Maddaloni che ha vinto la medaglia d’oro e nella sua palestra offre una concreta alternativa a quello che sembra il percorso predestinato per chiunque nasca e cresca in quella periferia di Napoli - si legge sempre all’interno di Libera-Mente. Allo sport, ai suoi valori e ai suoi buoni esempi, fa ricorso anche Terzo tempo, per trasmettere consapevolezza dell’importanza delle regole come strumento di crescita e convivenza sociale. Regole il cui rispetto è imprescindibile sia nello sport che nella vita. In ambito sportivo significa giocare senza voler ottenere a tutti i costi la vittoria; proprio come nella vita, in cui bisogna accettare i propri limiti e le sconfitte, trovando sempre la forza di migliorarsi. Da qui lo stesso titolo dell’intervento che, rifacendosi al rugby, è una metafora della possibilità di rinascere anche dopo una sconfitta". Lunedì 24 novembre nell’istituto penale minorile di Nisida si è tenuto l’incontro dei ragazzi con Enrico Maria Artale, regista del film "Il terzo tempo", storia di disagio giovanile e di riscatto attraverso lo sport. Era presente anche l’attore protagonista del film, Lorenzo Richelmy, insieme agli operatori Uisp nell’ambito del progetto. Giustizia: giovedì il direttore dell’Aisi audito in Copasir su operazioni Farfalla e Rientro Adnkronos, 1 dicembre 2014 In agenda a palazzo San Macuto nuova audizione Minniti, entro Natale relazione conclusiva indagine. L’obiettivo è fare chiarezza, non lasciando spazio a dubbi. Prosegue l’indagine del Copasir sulle presunte operazioni Farfalla e Rientro, che in passato avrebbero portato agenti del Sisde, in accordo con il Dap, ad avere accesso a informazioni con detenuti reclusi al 41bis. Nella mattinata di giovedì 4 dicembre si terrà a palazzo San Macuto l’audizione del generale Arturo Esposito, direttore dell’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna). Il lavoro del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, presieduto da Giacomo Stucchi, proseguirà con l’audizione - probabilmente già venerdì o comunque nella settimana dal 9 al 12- del sottosegretario Marco Minniti, autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, che tornerà a Palazzo San Macuto per un ulteriore confronto con i parlamentari del Copasir. Poi la parola passerà al relatore dell’indagine, il vice presidente del Copasir, Giuseppe Esposito che, in sinergia con gli altri membri del Comitato, traccerà le conclusioni dell’indagine che sarà trasmessa al Parlamento. La relazione, spiegano le stesse fonti, dovrebbe arrivare entro Natale. Mercoledì 3 dicembre, invece, si terrà la relazione annuale del Copasir, di competenza del presidente Stucchi, come previsto dalla legge 124. Illustrata al Comitato, la relazione sull’attività sarà successivamente inviata al Parlamento. Giustizia: l’opera di Vittorio Grevi, il diritto senza compromessi e come missione civile di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 dicembre 2014 Bisogna rassegnarsi all’evidenza e, a 4 anni dalla morte del giurista Vittorio Grevi, ammettere che un suo affettuoso collega peccò di ottimismo quando previde che la sua mancanza avrebbe "lasciato non un grande vuoto, ma un grande pieno". Non è andata così. Basta lo spettacolo appena offerto da un Parlamento incapace di uscire da logiche di stretta appartenenza politica nell’elezione dei giudici costituzionali di propria competenza, o nella designazione dei componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura, per far ricordare anche agli smemorati la ragione per la quale il più autorevole processual-penalista italiano è sempre rimasto fuori dagli organi costituzionali. Ostracizzato in politica da chi vedeva come fumo negli occhi il suo bagaglio scientifico non etichettabile. Ma nemmeno mai appoggiato da chi, su sponde allora d’opposizione, in fondo diffidava della sua autonomia di giudizio non piegabile ai diktat di partito o anche solo ai sussurrati "consigli" para-istituzionali. Non "affidabile" quanto quegli accademici che su ogni passaggio della vita pubblica centellinano le loro valutazioni a seconda di quanto la geometria del posizionamento li avvicini di più alla benevola riconoscenza di chi potrà avere voce in capitolo su un incarico agognato, una cattedra desiderata, una collaborazione editoriale prestigiosa. Un azzeccato silenzio sui progetti di legge più sulla cresta dell’onda, o una parola in più di plauso al sciocchezzaio populista più in voga, non sono mai stati la specialità di uno dei tre soli italiani della "Fondation internationale pénale et pénitentiaire", professore di procedura penale in cattedra da ordinario a 29 anni, uno dei padri del nuovo codice, influente commentatore di questioni giuridiche su "Il Giorno" e dal 1988 sul "Corriere della Sera", autore di testi come Nemo tenetur se detegere e Libertà dell’imputato e Costituzione, fondatore e a lungo segretario dell’"Associazione tra gli studiosi del processo penale", direttore o condirettore delle riviste "Cassazione penale" e "Rivista italiana di diritto e procedura penale", curatore con Giovanni Conso di basilari commentari e compendi. Degli oltre mille scritti per il Corriere 1988-2010, in 22 anni di collaborazione con via Solferino, ora Simone Lonati, Carlo Melzi d’Eril, Paolo Renon, Paola De Pascalis e Adelaide Corbetta curano per le edizioni della "Fondazione Corriere della Sera" una raccolta di una sessantina di testi selezionati per temi omogenei. E per data: perché oggi son capaci tutti di registrare la moria di processi causata dalle leggi che ne hanno accorciato la prescrizione, ma nel 2005 non erano tanti quelli che, all’interno dell’accademia, si esponevano senza timore nel prevedere con chiarezza che "il sistema processuale non riuscirà a reggere i nuovi e più angusti termini di prescrizione" e "per molti reati anche gravi sarà di fatto garantita l’impunità ai loro autori nell’impossibilità di concludere i giudizi nei termini abbreviati". Grevi approfondiva il diritto penitenziario e portava già dentro le carceri i suoi studenti (molti dei quali oggi magistrati e avvocati dal proverbiale timbro di rigore e competenza) quando la giurisprudenza evolutiva di Strasburgo era lungi dall’imporsi, e quando spendersi per davvero per i diritti anche di chi è prigioniero calamitava le peggiori ondate di qualunquismo. All’entrata in vigore del nuovo codice fu tra i primi e tra i pochi a mettere in guardia dalle suggestione esterofile e dalla facile mistificazione di chi cianciava di processo "alla Perry Mason". E quando nemmeno era immaginabile la transumanza di legioni di magistrati in politica, già nel 1989 additava l’indispensabilità di "uno statuto del magistrato" capace di dare ai cittadini "un segnale non equivoco che consenta ai magistrati di essere liberi dai condizionamenti", derivanti tanto dalla plateale appartenenza a partiti politici quanto alla più subdola "contiguità con centri di potere politico ed economico magari meno trasparenti di un partito politico". Perché in effetti c’è "una cosa semplice su cui tutti - scrive nella prefazione l’amico ed ex ministro della Giustizia e dell’Interno, Virginio Rognoni - possiamo consentire: davvero io credo che essere fedele al proprio lavoro, scrupoloso e continuo nello sforzo di studio e ricerca, sia già un primo e prezioso servizio che l’uomo di scienza offre alla sua collettività". Milano: chi sì dà fuoco e chi si impicca, i disperati nella bolgia dell’Ipm Beccaria di Marinella Rossi Il Giorno, 1 dicembre 2014 Celle allagate, panini farciti col sangue. Viaggio nei segreti dell’istituto dove ai detenuti normali si mescolano ragazzi con gravi problemi psichiatrici, creando una miscela esplosiva. Quattordici giovani sono stati trasferiti d’urgenza. Chi si dà fuoco, e non per scherzo, chi si impicca, chi ingoia pane sangue e bresaola, chi allaga la cella e brandisce cavi elettrici. Chi mena incendia nasconde lamette. Ma non è Alcatraz anni Venti, è il Beccaria 2014. In una cronaca degli ultimi dieci giorni d’inferno. "Mi do fuoco, se mi condannano, mi do fuoco". Parole di rabbia disperata che affida, mentre aspetta la sentenza, alle guardie carcerarie. Non saranno solo parole: il verdetto, la condanna per un paio di furti e spaccio di sostanze stupefacenti, il rientro dentro il carcere minorile. Diciassette anni e un accendino, in cella: nessuno lo ferma o riesce a fermare. La promessa è mantenuta. J.A., tunisino, la mente attraversata da fantasmi e allucinazioni, trasforma sé e i suoi stracci in una torcia. Perde i sensi, finisce al Grandi Ustionati di Niguarda, le condizioni sono disperate. Giorni senza conoscenza. Il corpo ricoperto per il 70-80 per cento di ustioni di secondo e terzo grado. La sua sofferenza non giustifica più un piantonamento in ospedale, che dopo un paio di giorni viene revocato. E Jiulite è là: il suo corpo bendato fa da segnale luminoso alla discesa in quella piccola bolgia che l’istituto di pena per minori Cesare Beccaria non vorrebbe essere, ma combatte, per non esserlo, una battaglia troppe volte persa. Storie e voci di dentro. Fresche, dal 20 novembre in poi, che, per motivi chiusi dentro la coscienza-incoscienza di quei 41 ragazzi al momento ospiti, segna un giorno spartiacque, una nuova alba di ostilità, aggressioni, episodi autolesivi, tentativi di suicidi. Il 20 novembre, e dopo un paio di settimane di minacce di suicidio, è J.A. ad avvicinare il tentativo a un progetto riuscito. Poi, tre o quattro giorni dopo, ecco un giovane italiano (sigle del nome non pervenute). Ha diciassette anni e mezzo, è dentro per spaccio. Si impicca, senza dire un perché. Gambe e piedi danzano per qualche secondo nel vuoto, i compagni si accorgono, urlano, chiamano aiuto, ma intanto lo tengono su, riescono a staccare, persino prima dell’intervento della guardie, il laccio improvvisato stretto al collo. Il ragazzo finisce in un reparto di neuropsichiatria per tre o quattro giorni, lo si rimette in sesto. Poi torna al Beccaria. Gli agenti di custodia devono vigilare - ora il giovane è mal visto da tutta la sezione - che non siano altri a fargli del male. "Gliel’hanno giurata - dice una voce di dentro, lo vogliono ammazzare di botte". Sequenza inarrestabile. Su quarantuno ragazzi attualmente presenti (e dopo il trasferimento in massa di quattordici avvenuto proprio per allentare la tensione nei giorni scorsi), dodici di loro hanno problemi di tipo psichiatrico. Ma un centro clinico dedicato non c’è, uno psichiatra, in pianta stabile, non c’è. Ci sono una psicologa, un aiutante, e gli agenti: chiamati a supplire, sedare, improvvisare, evitare il peggio. In mensa, solo una settimana fa: un giovanissimo schizofrenico apre il suo panino con la bresaola, poi si taglia col coltello i polpastrelli, fa sgorgare il sangue, ci condisce il salume, richiude il panino, lo addenta. Davanti ai compagni. Quel ragazzo era stato inviato per tre volte al pronto soccorso, i suoi gesti di autolesionismo incontrollabili, "con la speranza - mette nero su bianco il Coordinatore regionale Sappe Lombardia per i minori, Iolanda Tortù - di un ricovero per Tso (che l’ospedale San Carlo si è rifiutato di fare)". Un calmante, invece gli avevano dato, poi via, si torna in carcere, fino alla bresaola insanguinata. Di notte, al Beccaria, non va molto meglio: c’è chi si sveglia in preda a incubi mefistofelici. "Diceva che vedeva il diavolo e che voleva ammazzarsi", racconteranno i compagni di cella. Il ragazzo tira colpi cadenzati con il capo contro il muro. Gli agenti lo immobilizzano fino all’arrivo di un medico, da fuori, perché non si uccida a testate. Calci e pugni alle guardie, forse, sono eventi ordinari che scorrono nella quotidianità del Beccaria, ma chissà cosa passava per la testa di quel giovanotto, che - non avendo potuto suonarle a un altro - sputa e dà calci agli agenti e il giorno dopo si vendica freddamente: scardina le prese di corrente, estrae con perizia i fili, li prolunga, allaga la cella e si fa trovare con i cavi in mano, cercando improbabili trattative come in un telefilm di serie b. "O mi fate uscire o metto i fili elettrici in acqua". Con quale conseguenza, per lui? Probabilmente mortale. Per il carcere al collasso, il collasso dell’intero impianto elettrico. Ivrea (To): gli amministratori eporediesi in visita al carcere hanno incontrato i detenuti di Federico Bona www.localport.it, 1 dicembre 2014 "Sindaco, un Assessore e quattro Consiglieri in carcere": potrebbe essere il titolo a effetto per commentare quanto avvenuto nei giorni scorsi a Ivrea, ma non ci sono di mezzo tangenti o irregolarità amministrative: semplicemente il Primo cittadino eporediese Carlo della Pepa, accompagnato dall’Assessre Augusto Vino e dai Consiglieri Francesco Comotto, Maurizio Perinetti, Erna Restivo e Alberto Tognoli, si è recato in visita alla Casa circondariale di Ivrea per incontrare una rappresentanza delle persone detenute nell’istituto; all’iniziativa hanno partecipato anche la Magistrata di Sorveglianza, la direttrice della struttura, gli Educatori, il personale del servizio sanitario, agenti della polizia penitenziaria e volontari della Associazione "Tino Beiletti". "L’incontro - riferisce Armando Michelizza, garante del comune di ivrea per i diritti delle persone private della libertà personale - ha consentito di conoscere e registrare i problemi e le difficoltà esistenti ma, soprattutto, ha fatto registrare una forte richiesta, da parte delle persone recluse, di avere un ruolo attivo e positivo durante la detenzione; anche per poter sperare in un futuro lontano dai rischi di recidiva". È stata forte e insistentemente ripetuta la richiesta "Fateci fare qualcosa di utile a noi e alla comunità". A tutti è apparsa chiara, necessaria e urgente la necessità di rivedere la modalità di svolgimento della detenzione. "È inderogabile - prosegue Michelizza - la realizzazione di una offerta formativa e di attività che riguardino tutte le persone detenute che si dichiarano disponibili. Significativa è stata la ripetuta disponibilità espressa dalle persone detenute di partecipare anche ad attività di volontariato". Il Comune di Ivrea che, al pari di altri Comuni della zona, da anni ha dimostrato capacità di partecipazione alla costruzione di occasioni "lavorative" per persone detenute (stage, tirocini e cantieri lavoro) ha espresso ancora una volta la propria disponibilità a ricercare ed organizzare ulteriori occasioni di impegno. La Magistrata di Sorveglianza, Sandra Del Piccolo e la Direttrice del carcere, Assuntina Di Rienzo, anche in questa occasione, hanno confermato il loro impegno e la loro condivisione dei percorsi riabilitativi attraverso un rapporto sempre più stretto e aperto fra la comunità esterna e quella detenuta. "In qualità di Garante dei diritti delle persone detenute in carcere - conclude Michelizza, esprimo un grande ringraziamento a tutti i partecipanti, nessuno escluso, a questa occasione di confronto fra cittadini che, con diverse condizioni e responsabilità, hanno sinceramente cercato di individuare proposte e disponibilità per l’interesse e il bene comune. È stata, per me, una lezione di educazione civica e di cittadinanza partecipata e attiva. Sono contento di vivere in una Città che considera il suo carcere un quartiere della città e non un ghetto". Avellino: i detenuti-studenti "lasciano" il carcere di Bellizzi per studiare sul campo www.irpiniareport.it, 1 dicembre 2014 Saranno impegnati in alcune misurazioni esterne per sei appuntamenti. Il gruppo di ospiti della casa circondariale, che frequentano i corsi per il diploma di scuola superiore all’interno del penitenziario, sarà protagonisti del progetto insieme agli alunni del plesso di via Morelli e Silvati delle classi 4A e 4B. I docenti dell’istituto tecnico Isis "De Sanctis - D’Agostino" di Avellino, in sinergia con i docenti del plesso del medesimo istituto sito all’interno del Penitenziario di Bellizzi Irpino, hanno sviluppato una singolare e pionieristica esperienza di studio con un progetto dal titolo "Topografia e Agronomia - Tecniche miste per il rilievo". Esperienza innovativa proprio perché, in tale attività, gli alunni della sede carceraria affiancheranno gli alunni della sede centrale nelle fasi di rilievo e successiva restituzione grafica della gloriosa azienda agricola "Torrette", di proprietà dell’istituto. La collaborazione richiesta agli alunni, per rilevare l’azienda di notevole estensione, mira ad incentivare il loro processo di crescita culturale e personale. La possibilità per gli alunni della sezione penitenziaria di poter mettere a frutto quanto studiato, oltre a relazionarsi con una possibile futura attività lavorativa, è soprattutto l’occasione per ritagliarsi un momento di nuova dignità sociale. L’iniziativa è stata condivisa con il dirigente scolastico prof. Pietro Caterini, con il direttore dell’istituto Penitenziario dott. Paolo Pastena e con i magistrati di sorveglianza, che i promotori dell’iniziativa ringraziano per la fattiva collaborazione. Nell’attività saranno interessati alcuni insegnanti dell’istituto, sia quelli che svolgono le lezioni nella casa circondariale sia coloro che operano nel plesso di via Morelli e Silvati. Si tratta di Bianca Manna, Alfonsina Nazzaro, Claudio Galasso, Francesco Recupito, Carlo Sibilia e Massimo Gaeta. Salerno: Corso di "primo soccorso" presso la Casa Circondariale di Sala Consilina Salerno Notizie, 1 dicembre 2014 È riuscito ad interessare e ad appassionare i detenuti della Casa Circondariale di Sala Consilina il Corso di Primo Soccorso cominciato sabato 22 novembre 2014 e conclusosi sabato 29 novembre 2014. I temi trattati nel Corso sono stati: trasmissione degli elementi base per poter, in situazioni di emergenza, intervenire nel modo giusto, ma senza arrecare ulteriori danni all’infortunato, permettendogli di attendere al meglio il soccorso qualificato; diffusione delle norme di Primo Soccorso rivolte alla prevenzione degli incidenti e di quegli errori che potrebbero causare gravi conseguenze, come nei casi degli eventi traumatici, se non trattati adeguatamente (in particolare sono state affrontate le seguenti problematiche: perdita di coscienza, escoriazioni, lussazioni, fratture, ustioni, emorragie); le tecniche da adottare in caso di perdita di coscienza o arresto cardiocircolatorio (Bls) e in caso di soffocamento da inalazione di corpo estraneo (manovre di disostruzione delle vie aeree). I detenuti della Casa Circondariale di Sala Consilina hanno partecipato con molta attenzione e sono rimasti entusiasti dopo essere stati coinvolti attivamente nelle manovre operate durante il corso. Le lezioni sono state tenute, a titolo gratuito, dai Volontari del Gruppo di Croce Rossa Italiana di Sala Consilina, Giuseppe D’Alessandro e Annamaria Romano. La Responsabile dell’area educativa della Casa Circondariale di Sala Consilina, dr.ssa Monica Innamorato ha ringraziato vivamente l’operato del Gruppo della Croce Rossa Italiana di Sala Consilina. Napoli: un condannato a morte incontra i detenuti di Poggioreale, grazie a Sant’Egidio di Vincenzo Esposito Corriere del Mezzogiorno, 1 dicembre 2014 Edward McCarty, 22 anni nel braccio dell’iniezione, incontra i detenuti grazie a Sant’Egidio. Per ventidue anni è stato chiuso nel braccio della morte del carcere dell’Oklahoma, il terzo Stato Usa con la percentuale più alta di pene capitali. Curtis Edward McCarthy ha vissuto per oltre due decenni con l’incubo che ogni suo giorno sarebbe stato l’ultimo. L’iniezione letale epilogo unico possibile. E invece il miracolo. L’Fbi iniziò a indagare su alcuni membri della polizia dell’Oklahoma e scopri che le prove in base alle quali McCarty era stato condannato per il delitto di una sua amica, erano state falsificate. Nuovo processo e poi la libertà. "Una donna della polizia scientifica aveva detto alla giuria che i test sul mio Dna combaciavano con quelli dell’assassino. Era spergiuro. Aveva falsificato le prove. Nel braccio della morte, c’erano persone che avevano commesso crimini orribili, ma anche altri che, come me, erano innocenti". Ieri mattina, grazie alla Comunità di Sant’Egidio l’uomo scampato all’ingiustizia, ha voluto incontrare sessanta detenuti nel carcere di Poggioreale. L’insolito colloquio è stato aperto dai saluti del direttore Antonio Fullone e introdotto da Antonio Mattone, il portavoce della Comunità di Sant’Egidio. Erano presenti anche il comandante e il cappellano don Franco Esposito. Quindi Curtis ha cominciato a raccontare. Ha parlato della gente povera che si incontra nei bracci della morte, dell’allontanamento improvviso dai suoi affetti e dalla sua famiglia. Ma anche delle sue responsabilità. Non certo per i crimini di cui era accusato e da cui è stato scagionato dopo la prova del Dna, ma per aver vissuto la sua giovinezza da sbandato , cominciando a drogarsi, a fare piccoli furti, magari come alcuni di quelli che erano presenti all’incontro che lo ascoltavano con gli occhi sgranati e in un grande silenzio. Fino al braccio della morte. Tante le domande dei detenuti, che si sono seguite a ripetizione. "A chi chiedevi aiuto nel braccio della morte, a Dio?"; "Sei stato risarcito?"; "Credi ancora nella giustizia?"; "Come puniresti chi ha fornito le prove false e se fosse davanti a te che gli diresti?". E ancora. "Sei d’accordo con la pena di morte ai pedofili?". "La mia uscita dalla galera - ha detto Curtis - non ha portato felicità a nessuno. La mia vita era ormai rovinata". Curtis gira il mondo con la Comunità di Sant’Egidio per parlare della crudeltà e della inutilità della pena di morte che inoltre fa altre vittime innocenti come era lui. Sono infatti 144 le persone riconosciute innocenti. Quasi tutte dopo la sedia elettrica. "Non sono stato risarcito - ha detto Curtis - non posso lavorare ma ho trovato una donna che amo e uno scopo di vita nella battaglia contro la pena capitale". "Per noi oggi rappresenti un modello, una speranza", gli ha detto un detenuto e un forte applauso ha scosso la sala. Curtis partecipa a questi incontri con altri innocenti che sono stati condannati a morte ma anche con familiari delle vittime che non cedono alla tentazione della vendetta. Un incontro si inserisce nella Giornata Internazionale Città per la vita, Città contro la pena di morte ideato dalla Comunità di Sant’Egidio che vedrà domani più di 1900 città del mondo illuminare i loro monumenti più belli per dire no alla pena di morte. A Napoli il Comune illuminerà il Maschio Angioino. Immigrazione: Spessotto (M5S); no ad espulsione giovane italiano detenuto in Cie Bari Ansa, 1 dicembre 2014 Origini serbe ai 18 anni non avrebbe fatto documenti italiani. La parlamentare di M5S Arianna Spessotto è intervenuta sulla vicenda di un giovane di origini serbe, nato a Napoli ma da oltre dieci anni residente in Veneto, con un passato molto difficile, raggiunto nelle settimane scorse da un decreto di espulsione e che ora si trova nel Cie di Bari in attesa dell’esecuzione del provvedimento prefettizio. Pare che al compimento del 18° anno quando avrebbe dovuto fare richiesta di cittadinanza italiana ma che per vari problemi non l’abbia fatto. "Emra - dice la parlamentare - è nato, cresciuto e vissuto in Italia e in Italia deve restare. La sua casa è a San Donà di Piave e non è ammissibile che venga espatriato in un Paese - la Serbia - dove non è mai stato, lontano dai suoi affetti. Emra non ha violato alcuna norma di ingresso e soggiorno in Italia. È ingiustamente detenuto nel Cie a Bari e sta molto male, per cui ci stiamo impegnando anche a livello parlamentare per farlo tornare a casa". Secondo Spessotto, nell’ordinanza "sono state commesse diverse grossolane irregolarità" e a firmarla "non è stato il Prefetto di Venezia, come prescritto dalla legge, ma un funzionario che ha oltretutto inserito nell’ordinanza il numero di passaporto della madre di Emra che, a differenza del ragazzo, ha la cittadinanza serba". Ricorda quindi che il giovane ha bisogno di cure "e nelle sue condizioni non è in grado di resistere a lungo dentro al Centro di Identificazione ed Espulsione di Bari". "Le istituzioni - conclude - non possono ignorare questa gravissima situazione che vede vittima un cittadino italiano a tutti gli effetti. Come portavoce del M5S, mi unisco all’appello lanciato dall’associazione senza frontiere Lgbte affinché venga fatta giustizia nei confronti di Emra: chiederò per questo l’annullamento dell’ordinanza di espulsione al Prefetto di Venezia e agiremo in seno al Parlamento affinché il ragazzo possa tornare a casa nel più breve tempo possibile, in attesa di chiarire la situazione". Giordania: Fratelli musulmani in carcere, processati in base alla legge sul terrorismo Nova, 1 dicembre 2014 I 20 militanti dei Fratelli musulmani arrestati nelle ultime settimane in Giordania, saranno processati in base alla legge contro il terrorismo. Secondo quanto rivela l’emittente televisiva "al Jazeera", si tratta dei militanti islamici arrestati con l’accusa di contrabbandare armi con i palestinesi. L’accusa delle forze di sicurezza di Amman rivolte nei loro confronti è quella di aver formato una cellula terroristica all’interno del regno hashemita. La maggior parte delle persone arrestate fanno parte del sindacato degli ingegneri giordani e sono stati fermati al ritorno da un corso di addestramento alle armi sostenuto a Gaza dove si erano recati nell’ambito di una visita di solidarietà organizzata con la popolazione locale.