L'amore entra dentro l'Assassino dei Sogni. Nona parte Ristretti Orizzonti, 18 dicembre 2014 Testimonianza di un Uomo Ombra al seminario di Ristretti Orizzonti sugli affetti in carcere del primo dicembre 2014. "Oggi pensavo che la mia mente è popolata di sogni. Il mio cuore di persone che ama. Io invece sono solo in compagnia della mia ombra". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Nel frattempo che ascolto il mio cuore scambia qualche coccola con mia figlia. Amore. E recupera qualche bacio e qualche carezza, che ha perso in tutti questi anni. Sei tutto quel che ho. Chissà quando gli capiterà di passare un'altra giornata come questa. Sei tutto quello che voglio. I nostri due cuori si scambiano la loro energia. Sei tutto quello che sono. E si riempiono uno dell'altro. Intanto prende la parola la parlamentare Gessica Rostellato. Voglio ringraziare i detenuti che oggi hanno parlato, ma anche quelli che non hanno parlato ma che magari spesso leggo nella vostra rivista Ristretti Orizzonti, la leggo sempre con molto piacere e mi lascia sempre delle emozioni che difficilmente riesco a spiegare, perché il carcere è un mondo sconosciuto per chi è fuori purtroppo. Ringrazio anche le figlie che hanno parlato perché immagino che non debba essere facile esternare i propri sentimenti di fronte alle persone, però è stata una emozione veramente grande e di questo vi ringrazio, anzi, lo so che è difficile, però chiedo anche a voi un impegno maggiore anche nel parlare di più di queste cose, perché la gente fuori veramente non capisce che cosa significa il carcere e non ha sufficiente sensibilità per i detenuti, per cui io mi impegno come parlamentare a fare la mia parte (…) Quando sono venuta a conoscervi la prima volta è stata molto forte e sicuramente una delle esperienze più forti che io ho avuto in questo anno e mezzo di legislatura, proprio perché ha cambiato totalmente la mia idea sul carcere, sul mio modo proprio di vedere e di pensare il carcere (…) Volevo condividere con voi l'emozione che mi ha lasciato la prima volta che sono venuta in carcere e voi mi avete fatto due richieste. Io sinceramente mi aspettavo che mi chiedeste delle carceri più grandi, le celle più grandi, una riduzione di pena, invece voi mi avete chiesto due cose: una era di poter lavorare all'interno del carcere e una era quella di poter vivere più serenamente in modo più intenso gli affetti con le vostre famiglie, e questa cosa mi ha colpito molto. Mi ha colpito molto però, appunto, poi ho capito sono necessarie queste due cose molto più degli spazi della cella di per se stessi, perché purtroppo in Parlamento abbiamo solo parlato di quello, abbiamo parlato solo di quanto è grande una cella, ma non abbiamo parlato di tutto il resto. (…) Non si parla mai appunto di affetti. Io credo che la frase che avete messo nel volantino di oggi "carceri più umani significa carceri che non annientino le famiglie" sia vera. Una volta uno di voi mi ha detto "la famiglia è importante, noi dobbiamo mantenere i contatti perché la mia famiglia è l'unico motivo che mi permette di rimanere in vita ed è l'unica cosa che ritroverò quando uscirò di qui". Allora penso appunto agli ergastolani che è normale, hanno dei momenti di sconforto che possono portarli anche a pensare di mettere fine alla loro vita, però spesso, appunto, non lo fanno per non dare un ulteriore dolore alla loro famiglia, perché è già un dolore enorme non avere questa persona vicino, se poi gli danno l'ulteriore dolore della morte diventa veramente insostenibile. Per cui anche in quel caso, come dite voi, una telefonata può salvare la vita. Quando sono accanto a mia figlia non posso che pensare anche a mio figlio. Anche lui è l'amore del mio cuore. E lo amo tanto quante sono le gocce nell'oceano. Tanto quanti sono i granelli di sabbia nel deserto. Tanto quante sono le stelle nell'universo. Tanto quanti sono sulla terra i chicchi di riso. Tanto quanti sono i fiori nel mondo. Anche lui insieme a mia figlia è il sole che riscalda e illumina la mia vita e la mia cella. Da giovane non amavo la vita perché la vita non mi aveva mai dato nulla di buono. Spesso l'avevo anche odiata. Fin quando non sono arrivati i miei figli, che hanno portato l'amore nel mio cuore. Li amo più di qualsiasi cosa. Persino più dell'amore. Ad un tratto il mio cuore si zittisce perché deve intervenire Agnese Moro, la figlia dello Statista ucciso dalle brigate rosse. Ad Agnese voglio tanto bene. Mi ha scritto anche la prefazione di un libro che devo ancora pubblicare. E mi viene in mente una delle prime lettere che le avevo scritto tanti anni fa. Ciao Agnese, scusa il tu, ma mi trovo meglio. Hai un bellissimo nome che mi ricorda un bel romanzo sulla resistenza dal titolo "Agnese va a morire". Chi sono? Sono un "uomo ombra", un ergastolano ostativo, un cattivo e colpevole per sempre, con la passione della scrittura. Scrivo, fra l'altro, come li chiamo io, racconti noir sociali carcerari per attirare l'attenzione sulle carceri e sulle numerose morti che accadono dentro le loro mura. Sono pure un attivista, da tanti anni, per l'abolizione dell'ergastolo, e spesso nei miei articoli ho citato tuo padre. Perché ti scrivo? Ho letto e sono rimasto colpito dal tuo articolo: La giustizia non è fatta dal " … ti punisco", è fatta dal "ti riporto insieme con noi …". Poi smetto di pensare ed inizio ad ascoltare le parole di Agnese. Io vengo qui perché siete così buoni nessuno nella mia vita mi tratta così bene come quando sono qui. È sempre importante per me venire, vengo sempre molto volentieri perché imparo tantissime cose importanti che mi aiutano a vivere in maniera più responsabile e più seria. Abbiamo sentito questa mattina tante cose umanissime e anche un po' terribili. Credo che nessuna cosa possa essere più efficace dei racconti di queste coraggiose figlie che hanno accettato di dividere con noi le loro difficoltà e le loro sofferenze. Io in qualche modo qualcosa posso intuire della vostra situazione, perché mi ricordo di quanto era stato brutto per me quando mio padre era prigioniero delle Brigate Rosse, non poter sapere niente di lui, e mi domandavo continuamente "che gli starà succedendo, mangerà?", uno poi conosce le manie delle persone, le loro debolezze e questa impossibilità di avere delle notizie certe, continue di qualcuno che ami è una cosa terribile, quindi immagino, per me si è trattato tutto sommato per pochi giorni, immagino che cosa possa essere portarsi questa cosa per tanti e tanti anni. Quando Agnese finisce di parlare mia figlia mi sussurra "Papà, la signora Moro è molto brava e penso che ti voglia tanto bene". Io le sorrido. E mi viene in mente che mia figlia ha il mio stesso cuore ed io ho il suo. Continua... Giustizia: la beffa dei risarcimenti per "detenzione disumana", accolti 87 su settemila di Dario Paladini Redattore Sociale, 18 dicembre 2014 I detenuti possono chiedere rimborsi per aver subito le conseguenze del sovraffollamento. Oltre 18 mila le istanze presentate: quasi tutte le 7.351 esaminate (su oltre 18 mila) sono state dichiarate inammissibili per carenza di documentazione. Su cui però non c'è alcuna indicazione certa. Questa storia ha il sapore della beffa: verso i detenuti italiani e verso l'Unione Europea. Dal giugno scorso, infatti, i detenuti italiani che sono stati o sono ancora reclusi in condizioni disumane (ossia hanno meno di tre metri di spazio a testa), possono chiedere un risarcimento allo Stato, grazie al decreto legge 92. Al 27 novembre 2014 risultavano presentate 18.104 istanze, ma solo in 87 casi i giudici di sorveglianza hanno riconosciuto il danno e il relativo risarcimento. E le altre domande? 10.753 erano ancora pendenti, mentre quelle definite erano 7.351. E qui si capisce perché siamo di fronte alla beffa: tra quelle definite, infatti, solo 129 sono state rigettate (vale a dire, il giudice ha accertato che non c'è stata detenzione disumana), mentre ben 6.395 domande (ossia l'87% di quelle esaminate) sono state dichiarate inammissibili. Perché? La risposta è contenuta in un documento del ministero della Giustizia, che riporta i dati del lavoro di 54 dei 58 uffici di sorveglianza: "La maggior parte delle istanze è stata definita per inammissibilità non in quanto non meritevole di trattazione, ma solo in quanto non opportunamente documentata dai detenuti e si sta già creando un flusso di impugnazioni di tali decisioni verso la Corte di Cassazione". In altri termini, i detenuti non sono stati in grado di dimostrare che hanno vissuto in celle sovraffollate. Sembra un paradosso, visto che l'Italia, con la sentenza Torreggiani, è stata pesantemente multata e "redarguita" dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Tanto che ha tempo fino a giugno 2015 per rendere le carceri più umane. Il problema sta nel fatto che non sono state ancora definite con precisioni le procedure e la documentazione per ottenere il risarcimento e quindi ogni tribunale di sorveglianza agisce come meglio crede. Tra l'altro, proprio nel novembre scorso, la Corte Europea ha respinto i 3.564 ricorsi avanzati negli ultimi anni dai detenuti italiani contro il sovraffollamento. Secondo i giudici europei, i rimedi risarcitori introdotti in Italia sono validi e i ricorrenti possono ora ottenere giustizia dai tribunali nazionali. A quanto pare non è così. Sono gli stessi giudici italiani a lanciare l'allarme. Il 13 novembre scorso, il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza (Conams) ha scritto una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando per denunciare che "a causa delle incertezze e lacune del testo normativo, dei gravi contrasti giurisprudenziali, della complessità delle istruttorie e della assoluta inadeguatezza delle risorse e dei mezzi di cui dispongono gli Uffici di sorveglianza, è facile prevedere che sarà molto esiguo il numero dei casi decisi e risolti secondo gli standard prescritti dalla Giustizia europea in termini di effettività, rapidità ed efficacia dei rimedi accordati". Parole confermate dai dati in possesso dallo stesso ministero. In particolare, poi, il Conams chiede che sia fatta chiarezza sull'interpretazione dell'articolo 35 (modificato questa estate con la legge che istituisce il risarcimento) e dell'articolo 69 dell'ordinamento penitenziario che prevedono che il risarcimento possa esserci solo quando il pregiudizio è attuale e grave. E così se ora un detenuto è recluso in condizioni migliori non può chiedere il risarcimento per gli anni passati? I magistrati di sorveglianza chiedono anche "l'indicazione esplicita del rito processuale da adottare con l'auspicio di un modulo procedimentale snello e rapido" e più personale per smaltire tutte queste pratiche. La lettera del Conams dimostra, in altre parole, che dopo la sentenza Torreggiani l'Italia, per quanto riguarda i risarcimenti, ha combinato un pasticcio. Tanto che i giudici scrivono al ministro che se la situazione non cambia non potranno "adempiere al mandato conferito dal legislatore, con il paventato rischio che lo Stato italiano si presenti al redde rationem europeo nella primavera 2015 senza le carte in regola, con il marchio di avere per anni sottoposto i propri detenuti a trattamenti disumani e degradanti e di non essere riuscito in tempi ragionevoli a ristorarli dei danni patiti neppure con i benefici minimali contemplati dalla legge 117/2014". Giustizia: ricorsi-beffa per "detenzione disumana". Antigone: speriamo nella Cassazione Redattore Sociale, 18 dicembre 2014 La magistratura di sorveglianza sta sbagliando, commenta il difensore civico dell'associazione, Simona Filippi, alla notizia dei dati sulle sole 87 istanze accolte tra le 7 mila esaminate. "Si rischia un altro mega ricorso a Strasburgo". "La magistratura di sorveglianza sta adottando una politica sbagliata. Confidiamo nei ricorsi in Cassazione". È il commento di Simona Filippi, avvocato e difensore civico dell'associazione Antigone, di fronte ai dati sugli appena 87 detenuti che hanno ottenuto un risarcimento per le condizioni di detenzioni nelle carceri sovraffollate, a fronte di ben 18mila istanze presentate e di oltre 7 mila esaminate. "C'è qualcosa che non torna - aggiunge. E ci auguriamo che la Cassazione si pronunci in linea con le indicazioni che ci vengono dall'Unione europea dopo la sentenza Torreggiani". L'Italia infatti è accusa di violare l'articolo 3 della Corte europea dei diritti dell'uomo. "Il rischio è che tra un anno i detenuti italiani tornino a fare ricorsi alla Corte di Strasburgo perché di fatto nel loro Paese non viene riconosciuto il diritto al risarcimento. Non dimentichiamo, inoltre, che è vero che le carceri ora sono meno sovraffollate, ma ci sono ancora tante persone rinchiuse in condizioni disumane, con celle che ospitano il doppio dei detenuti previsti". Il 26 dicembre, inoltre, scade il termine per gli ex detenuti che vogliono presentare domanda di risarcimento. Il decreto legge 92 del giugno scorso, infatti, dà sei mesi di tempi a chi è fuori di fare istanza nei Tribunali civili. Ai tribunali di sorveglianza, infatti, deve rivolgersi solo chi è ancora in carcere. "Vedremo che cosa succede anche su questo fronte - aggiunge Simona Filippi - Non mi aspetto però nulla di buono, visto quel che sta avvenendo nei tribunali di sorveglianza". Giustizia: 500mila € al giorno risparmio utilizzando misure alternative invece del carcere di Giorgia Gay Redattore Sociale, 18 dicembre 2014 Le proiezioni di Centro nazionale per il volontariato e Fondazione volontariato e partecipazione. Potenziando le comunità di accoglienza possibili 1.500 nuovi posti di lavoro. A fine novembre negli istituti di pena erano presenti 54.428 detenuti. I detenuti in eccesso sono oltre 5mila. "Con altri diecimila detenuti in misura alternativa il risparmio per il sistema penitenziario sarebbe di 577mila euro al giorno e si attiverebbero 1.500 posti di lavoro nelle realtà di accoglienza". La proiezione è contenuta nel report "La Certezza Del Recupero. I costi del carcere e il valore delle misure alternative" presentato ieri a Roma da Centro nazionale per il volontariato e Fondazione volontariato e partecipazione. La ricerca rientra tra le attività del gruppo di lavoro di cui fanno parte Cnv, Seac, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Caritas, Sesta Opera San Fedele di Milano, Padre Nostro di Palermo, Associazione Papa Giovanni XXIII, che punta a ottenere l'istituzionalizzazione delle comunità di accoglienza e il riconoscimento delle misure alternative. I numeri del carcere. A fine novembre negli istituti di pena erano presenti 54.428 detenuti, di cui un terzo stranieri e oltre la metà (36.962) in attesa di giudizio. Anche se la situazione è migliorata, il sovraffollamento permane. Sono 5.119 i detenuti in eccesso, con forti squilibri territoriali: un istituto su cinque ospita il 60 per cento in più di detenuti rispetto alla capienza. La situazione più critica è in Puglia, mentre Trentino Alto Adige, Valle d'Aosta e Sardegna sono le realtà più virtuose. Il sovraffollamento riguarda quasi esclusivamente le case circondariali, "che raccolgono in prevalenza imputati in attesa di giudizio e per pene minori, più immediatamente disponibili per pene alternative" chiarisce il report. Ogni detenuto costa 123,78 euro al giorno, escluse le spese sanitarie, per un costo annuo totale di 2,977 miliardi. "Le spese per il personale coprono l'82 per cento del costo detenuto - è spiegato nel rapporto -, mentre il costo netto di mantenimento a persona è inferiore ai 10 euro". Al 30 novembre, i condannati o imputati in esecuzione penale esterna erano 31.045, in larga parte italiani (14,4 per cento gli stranieri nei servizi sociali, 12,3 per cento in semilibertà e 20,6 per cento sul totale degli arresti domiciliari). In particolare, quasi ventimila sono gli affidamenti in prova al servizio sociale, semi-libertà o detenzione domiciliare (9.273 giunti alla misura alternativa dallo stato di detenzione). Abbattere i costi con le misure alternative. "La risoluzione al problema del sovraffollamento deve svilupparsi su due assi portanti - è scritto nel report: da una parte la riduzione del numero di detenuti, dall'altra la redistribuzione tra gli istituti". L'urgenza è dunque di mandare in misura alternativa subito gli oltre cinquemila detenuti in eccesso e approfittare dei posti lasciati vuoti per alleggerire le situazioni più critiche. Senza questa redistribuzione, l'alternativa è di mandare in misura alternativa 9.671 detenuti. Tenendo conto però dell'esigenza di non recidere i legami familiari, le proiezioni parlano di un minimo di 5.723 detenuti interessati dalla manovra. Gli estensori del report ammettono che con questi numeri il risparmio iniziale sarebbe nullo, poiché il costo-detenuto andrebbe alle realtà di accoglienza, senza la possibilità di incidere sulle spese fisse del sistema detentivo. Ma sarebbe comunque l'avvio di un processo virtuoso che, ad esempio, "al 10millesimo detenuto trasferito a pena alternativa consentirebbe un risparmio netto per l'intero sistema di 577mila euro al giorno". Le potenzialità del volontariato. In questa partita le organizzazioni di volontariato possono avere un ruolo cruciale. Sono 274 quelle che già operano nel mondo carcerario ma, secondo una rilevazione della Fondazione volontariato e partecipazione e dal Cnv, altre 1.747 sarebbero disponibili a impegnarsi nel settore, 2.457 a partecipare a progetti di sensibilizzazione, 3.403 ad accogliere detenuti o ex detenuti per il reinserimento e il recupero. Giustizia: negli Uepe solo 102 volontari impegnati su 10mila, il paradosso sta nella legge di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 18 dicembre 2014 La denuncia delle associazioni impegnate nel volontariato penitenziario: "Abbiamo chiesto più volte al ministro Orlando di rivedere l'ordinamento penitenziario, ma niente". E presentano un documento sulle proposte per i decreti attuativi della legge delega. Sono circa diecimila i volontari che lavorano dentro il carcere, ma sono solo 102 in tutta Italia quelli impiegati fuori dagli istituti per l'esecuzione penale esterna. Un paradosso legato a un ostacolo legislativo che non permette di far lavorare le persone provenienti dal mondo dell'associazionismo anche per le misure alternative. "Da tempo chiediamo al ministro Orlando di intervenire su questo tema, ma non abbiamo ottenuto nessuna risposta. Eppure si tratta solo di una questione di volontà politica". A denunciarlo è Guido Chiaretti, presidente di Sesta opera S. Fedele Onlus nel corso della conferenza stampa organizzata ieri a Roma, dal Centro nazionale per il volontariato e la fondazione Volontariato e partecipazione, per presentare i dati del dossier "La certezza del recupero". "Dal 2004 abbiamo un protocollo d'intesa con l'Uepe, l'ufficio per l'esecuzione penale esterna - spiega Chiaretti - ma per ora a Milano siamo riusciti a impiegare solo 15 volontari. La situazione non è rosea neanche nelle altre città. Il numero maggiore di volontari lo troviamo in Liguria, dove sono 25, numero comunque risibile rispetto alle potenzialità di questo mondo. Mentre in città grandi come Roma, Napoli e Palermo, non c'è neanche un volontario occupato nell'esecuzione penale esterna". Il problema risiede nelle restrizioni contenute nell'ordinamento penitenziario: se infatti l'articolo 17 e 18 della legge 354 permettono alla società civile di entrare in carcere e svolgere attività di volontariato, per le misure alternative vale l'articolo 78, riferito agli assistenti volontari, molto più restrittivo. "Se per una richiesta relativa all'articolo 17 la risposta arriva nel giro di un paio di settimane - spiega ancora Chiaretti - nel caso dell'articolo 78 si aspetta oltre un anno. E io così ho perso molti volontari che voleva offrire gratuitamente la loro opera. Questo è un paradosso assurdo, tanto più a fronte della ristrettezza di risorse in cui operano gli uffici dell'esecuzione pensa esterna, per i quali il ministero spende solo 500mila euro l'anno. Sono per primi i dirigenti Uepe a chiederci di alzare la voce su questo che è un mondo invisibile". Nel corso della conferenza stampa è stato presentato anche un documento sulla riforma delle pene detentive non carcerarie, una serie di osservazioni e proposte sui decreti attuativi della legge delega n.67 del 2014 che sono in fase di emanazione. Tra questi, in particolare, si chiede appunto di riformare gli arti 17 dell'ordinamento penitenziario e l'articolo 120 del regolamento del 2000 "per consentire l'accesso della comunità esterna all'azione rieducativa in affiancamento agli Uepe". "Lo scopo di queste modifiche - si legge ancora nel documento - è consentire la crescita numerica del volontariato penitenziario specificamente dedito a supportare i condannati alle misure alternative". Sono in tutto 31.045 i condannati o imputati che scontano o attendono la pena attraverso misure alternative al carcere, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova nei servizi sociali. Quasi 20 mila di loro si trovano in affidamento in prova al servizio sociale, in semi-libertà o in detenzione domiciliare. Quelli giunti alla misura alternativa al carcere dallo stato di detenzione sono 9.273. Le misure alternative coinvolgono soprattutto gli italiani e questo proprio per l'assenza di una residenza da eleggere a domicilio. Gli altri interventi richiesti sono, innanzitutto verificare le strutture di accoglienza per i detenuti per fare in modo che ci sia la possibilità di eseguire le pene alternative, fondamentali per un reale recupero. Molti detenuti, soprattutto stranieri, non possono infatti accedere alle misure alternative perché non hanno un domicilio. Secondo le associazioni questo problema si potrebbe aggirare autorizzando le comunità di accoglienza al recupero dei detenuti con appositi protocolli e convenzioni. Si chiede poi un piano di risorse immediato su questo tema, ma anche investire sul lavoro dei detenuti. "Vogliamo che il lavoro del volontariato dentro e fuori dal carcere sia finalmente riconosciuto dal ministero - aggiunge Edoardo Patriarca, deputato Pd e presidente del Centro nazionale per il volontariato. ma anche che siano riviste le regole di questo impegno. Il nostro secondo obiettivo è battersi perché le misure alternative siano realmente favorite e intensificate. Non solo perché abbattono la recidiva ma perché così si potrebbero produrre fino a 1500 nuovi posti di lavoro". Secondo Patriarca le misure alternative sono anche un grande risparmio per lo Stato. Un dato ben spiegato dal report illustrato da Giulio Sensi di fondazione Volontariato e partecipazione. "Al cittadino i detenuti costano 200 euro al giorno - aggiunge Giorgio Pieri della Comunità Giovanni XXIII - un costo esagerato che si potrebbe aggirare investendo di più nelle misure alternative. Ma per fare questo serve innanzitutto un cambiamento nella piramide dei valori". Giustizia: prescrizione più lunga per tutti i reati, nel testo della Commissione alla Camera di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2014 La posizione in Commissione accentua le differenze nella maggioranza. Il viceministro Costa (Ncd): l'equilibrio si troverà nel testo del Governo. Alla Camera si scoprono le carte sulla prescrizione. Ma la maggioranza si conferma divisa. E rischia di avvicinarsi la "tempesta perfetta" sull'intreccio tra lavori parlamentari e proposte del Governo. Ieri alla commissione Giustizia della Camera è stato presentato il testo base messo a punto dai relatori (Sofia Amoddio, Pd, e Stefano Dambruoso, Scelta civica). Ed è un testo che, se in parte accoglie l'impostazione del Governo, la sorpassa nel segno di una maggiore rigidità. Perché oltre a intervenire sul congelamento dei termini, due anni dopo la condanna di primo grado e uno dopo il deposito di quella in appello, come previsto nel progetto messo a punto dal ministero della Giustizia e approvato dal Consiglio dei ministri il 29 agosto, stringe le maglie anche sulla durata complessiva. Scelta quest'ultima accantonata da parte del Governo. Il disegno di legge sul quale ieri la discussione a Montecitorio è stata accesa, impedendone di fatto l'adozione, rinviando al seguito in agenda già oggi, prevede infatti l'aumento dei termini di prescrizione per tutti i reati. A cambiare è infatti la regola base introdotta dalla ex Cirielli. Se infatti oggi la prescrizione è, di norma, pari al massimo della pena prevista per legge, il testo base presentato dai relatori prevede che i termini siano pari al massimo della pena aumentato di un quarto. Un esempio, per capire. Reato di bancarotta fraudolenta punito con pena massima di 10 anni: oggi si prescrive in 10 anni, pari al massimo di sanzione, domani potrebbe prescriversi in 12 e mezzo, massimo della pena più un quarto. In più viene alzata da 6 a 7 anni la prescrizione minima per i reati, mentre resta ferma a 4 per le contravvenzioni. Ma i relatori vanno anche oltre il Consiglio dei ministri di venerdì scorso con le misure anticorruzione. Se infatti il tandem Renzi-Orlando ha previsto un aumento di 2 anni sia nel minimo sia nel massimo della pena per corruzione, il disegno di legge discusso ieri raddoppia tout court i tempi per l'estinzione del reato. Non colpendo solo la corruzione ma anche la concussione, l'induzione indebita, il crollo di costruzioni, il disastro doloso. Una decisa stretta. Che non vede però unita la maggioranza. Ncd prende le distanze, con il viceministro alla Giustizia Enrico Costa che assicura: "il punto di equilibrio si troverà nel testo del Governo. Occorre certo evitare che troppi processi siano bruciati dalla prescrizione, ma l'allungamento dei termini non può significare anche un prolungamento dei tempi necessari per arrivare a sentenza. Oggi la data della prescrizione è anche stimolo per il giudice a fare presto". E Alessandro Pagano componente Ncd in commissione Giustizia della Camera, a proposito del testo dei relatori, parla apertamente di "fuga in avanti". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, mentre ancora si aspetta la presentazione in Parlamento (quasi certamente alla Camera) del disegno di legge con le norme su anticorruzione e congelamento della prescrizione, già mette le mani avanti e, quanto a sovrapposizioni con il testo di fonte parlamentare, sottolinea come "il nostro provvedimento ha un perimetro più ampio. In ogni caso, sarà l'ufficio di presidenza della commissione a valutare". E se alla Camera le acque sono agitate anche al Senato monta lo scontento. Francesco Nitto Palma (FI) presidente della commissione Giustizia, perde la pazienza a proposito dell'inerzia del Governo. "Non possiamo aspettare in eterno - attacca. Ho l'impressione che da parte di questo Governo non ci sia una grande conoscenza delle dinamiche parlamentari. Basti pensare che interventi sulla criminalità economica rischiano di essere in discussione sia alla Camera sia al Senato". Così, se Orlando invita il Senato intanto ad affrontare il disegno di legge sulla criminalità economica (con la riforma del falso in bilancio e le misure contro la criminalità organizzata) in commissione si puntano i piedi e non si intende buttare via il lavoro già compiuto sull'anticorruzione. Giustizia: noi penalisti, intercettati e pedinati, ecco perché protestiamo di Vincenzo Comi (Consiglio direttivo Camera Penale di Roma) Il Garantista, 18 dicembre 2014 Tira una brutta aria nei corridoi della Procura di Roma, aria di giustizialismo. Forze conservatrici premono per scardinare i lucchetti delle garanzie di chiunque sia coinvolto in un'inchiesta giudiziaria. Trovano terreno fertile e una sponda forte in una situazione di drammatico malfunzionamento del sistema. Il processo, insomma, vuole essere visto come strumento di difesa sociale. La politica rincorre la piazza, proponendo riforme improntate solo alla ricerca di un facile consenso. È incapace di rivendicare il proprio ruolo di legislatore e abdica a favore della magistratura che approfitta e supplisce con gravi conseguenze. Non mancano gli esempi di tale deriva. Le proposte di riforma della prescrizione sono solo la punta dell'iceberg. Si vorrebbe interrompere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado senza prevedere un termine processuale in spregio al principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Si pensi alla strategia di allargare a nuovi reati la disciplina processuale prevista per i reati di mafia, e la contestazione a valanga dell'aggravante dell'articolo 7 del dl 152/91. Sono modi per pregiudicare il rapporto di equilibrio tra cittadino e Stato. Si tenta un rafforzamento delle incrostazioni inquisitorie e la riduzione delle garanzie assicurate dal principio del giusto processo. Si vuole pregiudicare il contraddittorio nella formazione della prova, unico metodo di accertamento dei fatti che sia espressione del modello accusatorio. La disciplina dell'esecuzione penale è un altro esempio di scempio dei diritti fondamentali mentre le condizioni delle carceri italiane si aggravano quotidianamente. In questa dinamica il rischio gl'ave è il pregiudizio delle garanzie della difesa, la messa in discussione del ruolo di garanzia dell'avvocato, della sua indipendenza e autonomia: il pregiudizio del diritto inviolabile consacrato nell'articolo 24 Cost. Questo rischio è concreto e attuale in questi giorni a Roma, dove negli atti dell'inchiesta "mafia capitale", abbiamo letto di pedinamenti e intercettazioni di difensori che non risultano indagati nell'inchiesta, oltre che intercettazioni di comunicazioni tra presenti all'interno di studi legali, comportamenti che possono essere presi solo in situazioni eccezionali e che esigono una presa di posizione forte. Questi atti pregiudicano il legittimo rapporto tra difensore e cittadino improntato alla riservatezza. Ogni cittadino che si reca in uno studio di un penalista avrà sempre il legittimo sospetto di essere intercettato (qualcuno dopo la diffusione delle notizie sull'inchiesta romana me lo ha chiesto esplicitamente). Così come è chiaro, ma oltremodo inaccettabile, l'illegittima spettacolarizzazione e diffusione di atti di indagine non ancora neppure conosciuti dagli indagati. Alla sponda mediatica costruita dagli investigatori per la ricerca di un consenso personale e politico, e subita da alcuni giornalisti piegati ai desiderata degli inquirenti, noi rispondiamo rivendicando i diritti fondamentali di tutti i cittadini, per i quali quotidianamente ci battiamo nelle aule giudiziario. In queste condizioni è devastante l'effetto di condizionamento che l'alto livello mediatico produce sulla serenità del giudice chiamato a valutare la fondatezza di un'accusa (il giudice dovrebbe essere terzo e imparziale secondo l'articolo 111 della Costituzione). L'assemblea della Camera Penale di Roma del 16 dicembre 2014 ha deliberato lo stato di agitazione di tutti i penalisti romani e ha delegato il Direttivo a raccogliere tutte le notizie necessarie e a denunciare ogni violazione dei diritti fondamentali, ulteriori azioni di protesta saranno decise per contrastare ogni forma strumentale e distorta di esercizio della giurisdizione e di violazione del diritto di difesa. Giustizia: pronti a dare battaglia… se si limita la nostra libertà, si limita quella di tutti di Domenico Ciruzzi (Vicepresidente Unione Camere Penali) Il Garantista, 18 dicembre 2014 Mi preme ribadire pubblicamente la piena solidarietà e la totale condivisione di intenti - già espressi ieri con la presenza dell'Ucpi nelle persone del presidente Migliucci, del segretario Petrelli e del sottoscritto all'assemblea indetta dalla Camera Penale di Roma - per la battaglia di civiltà che la stessa sta portando avanti, unitamente all'Ucpi. Alcuni fatti emersi da inchieste degli ultimi tempi sembrano riportarci d'improvviso in epoche assai buie; pedinamenti degli avvocati, intercettazioni tra difensori ed assistiti, studi professionali imbottiti di microspie, segreto istruttorio che - come un ponte levatoio - si "alza" e si "abbassa" a seconda che lo stesso sia funzionale all'investigazione, finanche la libera stampa che, in una repentina inversione dei ruoli, funge da "agente provocatore". In generale, negli ultimi tempi, sembrano essere stati riesumati i "vecchi arnesi" dell'armamentario inquisitorio più allarmante. Ma non è il tema, pur rilevantissimo, del rapporto di interazione tra media e indagine che in questa sede intendo affrontare. C'è un tema, forse ancora più importante, su cui sono costretto ancora una volta, mio malgrado, a tornare: la costante violazione e mortificazione delle garanzie di libertà del difensore e, quindi, di tutti i cittadini. L'art. 103 comma 5 del codice di rito prevede, come dovrebbe essere noto, il divieto di intercettare le conversazioni tra il difensore e l'assistito. Una norma che racchiude un principio fondamentale non solo di ordine processuale ma, soprattutto, di civiltà giuridica e di libertà per la funzione difensiva, nell'interesse dell'assistito che ha diritto all'assoluta segretezza nella sua interlocuzione con il difensore. Violare una nonna di tale rilevanza significa inquinare l'investigazione e, conseguentemente, la ricerca della verità processuale che avverrà nella successiva fase dibattimentale. Intercettare i colloqui tra difensore ed assistito significa, altresì, aggirare uno dei principi cardine del processo di qualsiasi Stato democratico: il diritto dell'indagato di non rispondere, di mentire, in ossequio al millenario principio del nemo tenetur se detergere. Il cittadino inquisito - colpevole o innocente che sia all'esito del percorso protetto del processo - è sempre e comunque solo, braccato dall'apparato repressivo dello Stato. Ha un unico spazio di libertà, di segretezza: l'interlocuzione con il proprio difensore. È uno spazio - già minimo - vitale che non può essere compresso in alcun caso. Ciò che sorprende ed allarma è che tale "sacralità" dei colloqui difensivi sia in generale frequentemente vilipesa dai pubblici ministeri che dovrebbero di contro educare al rispetto assoluto delle garanzie di libertà del difensore la stessa procura generale operante. E sovente i giudici avallano tale inaccettabile cultura autoritaria in dispregio delle norme vigenti. In ragione di ciò i cittadini mentre ricevono una miriade di giuste sollecitazioni sulla tutela dell'indipendenza ed autonomia della magistratura (sempre difesa dall'avvocatura), ricevono di contro informazioni fuorvianti - amplificate dai media - sulla tutela delle prerogative della difesa. Non ci si stancherà mai di ripetere che l'assoluto ed inderogabile divieto - una autentica immunità della funzione - di sottoporre ad intercettazione le conversazioni tra il difensore e l'assistito è stato recentemente ribadito anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1/2013. Immunità della funzione che - si badi bene - deve ritenersi operante anche nell'ipotesi in cui sia indagato anche l'avvocato atteso che (e prescindendo dalle sempre possibili iscrizioni strumentali del difensore nel registro degli indagati) tale dato non può consentire, ad esempio, di effettuare intercettazioni ambientali negli studi professionali, ascoltando tutte le conversazioni ed i colloqui che quell'avvocato ha con tutti i suoi assistiti. La giurisprudenza della Suprema Corte, successiva alla decisione della Corte Costituzionale, sembrava aver finalmente fatto propri tali principi. Ed invece, in data 18 giugno 2014, è intervenuta una ulteriore pronuncia della S.C. (II sez. penale) che ha operato un inaccettabile stravolgimento interpretativo, enucleando un principio di diritto assolutamente antitetico rispetto al dictum della Corte Costituzionale. Il sogno è che si sedimenti un humus culturale in forza del quale il Pm, l'ufficiale di Pg, ed ancor più il Gip, provino un'istintiva avversione - se non un vero e proprio orrore (lo stesso orrore che si prova, ad esempio, di fronte all'inserimento in un processo di una prova falsificata) - verso tali manifeste violazioni delle prerogative di libertà dell'avvocato. Una rivoluzione culturale che - all'interno della magistratura e delle forzo di polizia - faccia sì che siano gli stessi colleghi a deplorare ed a stigmatizzare un simile illegittimo e assai vile modus operandi. Ma le rivoluzioni culturali - è ben noto -richiedono tempo e, sovente, ricambio generazionale. L'urgenza del problema è tale - anche in considerazione dell'ondivaga giurisprudenza sul punto - da richiedere un immediato intervento legislativo. Una riforma che, in modo chiaro e preciso, sancisca definitivamente il divieto di ascolto delle conversazioni tra difensore ed assistito. Già al congresso di Venezia dell'Unione Camere Penali, la Camera Penale di Napoli aveva presentato una mozione (accolta all'unanimità) con cui si proponeva una modifica legislativa dell'art. 103 c.p.p. già precedentemente predisposta dall'avvocato Renato Borzone dell'Ucpi. Ritengo, di contro, che il progetto di riforma a cui starebbe attualmente lavorando il Governo sia non soltanto inadeguato ma, addirittura, idoneo a peggiorare la situazione ed a comprimere ancor di più gli spazi di libertà (e, quindi, di effettività) della funzione difensiva, in quanto demanda al Pm ogni valutazione sull'utilizzabilità o meno della conversazione. Ciò è inaccettabile in quanto è proprio il pm il primo soggetto a cui deve essere posto il divieto di ascoltare le conversazioni tra difensore ed assistito. In caso contrario, la libertà e l'effettività della difesa saranno ovviamente gravemente compresse in quanto la controparte (il Pm) potrà ascoltare in tempo reale le strategie difensive, articolando su di esse lo svolgimento delle indagini o l'impostazione accusatoria, o peggio ancora, potrà, ergersi ad arbitro (assumendo, pertanto, la doppia inconciliabile veste di arbitro e competitori della deontologia del difensore. Nell'attesa che intervenga la citata riforma nei termini individuati, l'Unione delle Camere Penali vigilerà ed, in presenza di palesi violazioni del 103 c.p.p., inonderà di esposti le autorità giudiziarie competenti e gli organi di governo della magistratura. Giustizia: "No Tav" colpevoli, ma non terroristi di Filomena Greco Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2014 Dopo la sentenza per i fatti accaduti a Chiomonte manifestazioni e incidenti, tra cui un attacco informatico agli uffici della Procura. Assolti per il reato di attentato con finalità terroristiche. Condannati a tre anni e sei mesi per fabbricazione e trasporto di armi, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. La sentenza della Corte d'Assise di Torino a carico dei quattro militanti No Tav coinvolti nell'attacco al cantiere di Chiomonte nella notte tra il 13 e il 14 maggio dell'anno scorso è arrivata in mattinata, ieri, nell'aula bunker del carcere Le Vallette di Torino, tra gli applausi e le urla - "Libertà, libertà" - delle decine di sostenitori del movimento presenti. Tra loro anche le famiglie dei quattro ragazzi, detenuti dal 9 dicembre scorso. "A questo punto - commenta Claudio Novaro, tra gli avvocati della difesa - valuteremo se e quando chiedere la misura di scarcerazione e presenteremo appello. La cosa fondamentale è che siano cadute le ipotesi di reato più gravi e che i giudici abbiano inflitto una pena adeguata ai reati realmente commessi". Sulla sentenza interviene il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi: "Mi auguro - ha sottolineato Lupi - che i Pm facciano ricorso in secondo grado e li ringrazio perché hanno avuto coraggio", esprimendo poi solidarietà alle aziende come la Cmc minacciate. La sentenza è stata poi seguita, nel pomeriggio, da una manifestazione dei No Tav a Bussoleno e da una serie di incidenti come ad esempio l'attacco informatico al sito internet della procura di Torino, rivendicato da Anonymous, l'occupazione dell'autostrada del Frejus e di un treno all'altezza di Novara. Quella di ieri, comunque, era una sentenza attesa e in qualche modo anticipata dall'intervento, la scorsa primavera, della Cassazione che aveva annullato il provvedimento di carcerazione preventiva a carico dei quattro imputati emesso dal Tribunale della libertà. I fatti per i quali sono stati giudicati Niccolò Blasi, Mattia Zanotti, Chiara Zenobi e Claudio Alberto risalgono alla primavera del 2013, un attacco al cantiere dell'Alta velocità in cui non ci furono feriti né tra gli operai né tra le forze dell'ordine, ma durante il quale venne danneggiato un compressore. Per quei fatti la procura di Torino, con i pm Andrea Padalino e Antonio Rinaudo , per la prima volta, aveva formulato un'ipotesi di reato di matrice terroristica, ipotesi caduta in fase di giudizio. Un reato contestato anche ad altri tre militanti No Tav, in carcere da luglio scorso, che andranno incontro, con ogni probabilità, ad un nuovo processo. Il Tribunale ha riconosciuto a Ltf un diritto di indennizzo, rimandando però ad un altro procedimento, in sede civile, la definizione dei danni mentre nulla è stato riconosciuto all'Avvocatura dello Stato e al sindacato di polizia che si erano costituiti parte civile per danno d'immagine collegato al reato di terrorismo. Giustizia: i Pm con l'ossessione degli anni di piombo di Piero Sansonetti Il Garantista, 18 dicembre 2014 La sentenza che manda assolti i ragazzi della No Tav ci regala un po' di serenità. C'erano due buone ragioni per non essere sereni. La prima era la sorte di questi quattro giovani (Claudio Alberto, Niccolò Blasi, Mattia Zanotti e Chiara Zenobi ), impegnati nella battaglia contro il nuovo tunnel del Moncenisio, e che erano giunti fino a commettere delle illegalità pericolose in questa loro battaglia, usando anche bottiglie molotov, che davvero non sono una bella cosa, e che erano stati presi di punta da alcuni Pubblici ministeri i quali li avevano accusati di una enormità: terrorismo. Terrorismo come quello dell'Isis, che taglia le teste, come quello di una volta, delle Brigate Rosse, che avevano ucciso Moro. Terrorismo come quello dei fascisti e dei servizi segreti, che mettevano le bombe nelle banche e nelle stazioni e uccidevano a caso decine di persone. Terrorismo aveva detto il Pm, perché avevano incendiato un compressore, con una molotov, e aveva chiesto per loro 10 anni di carcere. Non solo, ma per la gravità delle accuse aveva ottenuto che l'autorità carceraria predisponesse per i quattro ragazzi un regime di carcere duro: isolati, senza contatti coi parenti, una specie di 41 bis, come i mafiosi (e chi legge questo giornale sa che noi pensiamo che nemmeno i mafiosi andrebbero messi al 41 bis perché il 41 bis è una schifezza anticostituzionale e che viola i diritti universali della persona). La seconda preoccupazione era più generale. Non riguardava solo i quattro imputati ma tutti noi. Quando la magistratura arriva ad usare la clava dell'accusa di terrorismo per fare lotta politica, per "interpretare" il suo ruolo, allora vuol dire che la democrazia è debole, che lo Stato di diritto è in pericolo. È un classico dei "regimi" accusare di terrorismo i dissidenti. Una consuetudine del fascismo, del comunismo sovietico, di quello che è stato il castrismo. Se il copione si ripete bisogna allarmarsi. Sentite cosa ha dichiarato, recentemente, in una intervista a un giornale antimafia, il procuratore Caselli, che è stato un simbolo della magistratura di sinistra, e che poi ha guidato l'offensiva del Pm contro i No Tav. Ha detto, proprio riferendosi ai quattro ragazzi della Val di Susa: "Vi invito a riflettere su quanto è accaduto a maggio quando un commando di oltre venti persone mascherate, di notte, distribuite in gruppi collegati fra loro da un comando unificato, che si muovevano con una divisione dei compiti rigorosa hanno compiuto un'aggressione di carattere paramilitare contro il cantiere mettendo gravemente a rischio l'incolumità di chi vi si trovava, poliziotti e operai. Il gip, giudice terzo indipendente dall'accusa, ha dimostrato la piena sussistenza degli estremi della finalità di terrorismo. Criticate pure, ma ogni considerazione deve partire dal quadro in fatto e in diritto tracciato dal gip. Prescinderne vuol dire fare propaganda: non siamo intervenuti con misure coercitive contro una passeggiata dei valligiani in Clarea". Ora per fortuna una Corte è giunta a smentire Caselli. Benissimo, ma quei quattro sono stati tenuti un anno intero al carcere duro. Qualcuno protesta? Mi ricordo che una decina d'anni fa, quando andò al potere Berlusconi, le città italiane si riempirono di quelli che si chiamavano i girotondi, che gridavano al regime, parlavano di fascismo, di totalitarismo. Eppure Berlusconi aveva una forte opposizione in Parlamento, e solitamente non varava leggi per arrestare la gente (casomai il contrario...), né accusava nessuno di terrorismo. Mi piacerebbe vedere qualche girotondo anche adesso, per chiedere che sia ristabilito lo Stato di diritto, per proporre che sia limitato il potere dei Pm. Temo che nessuno mi accontenterà, e se i girotondi torneranno in piazza sarà per chiedere più carcere. Giustizia: dove sono finiti i terroristi? di Livio Pepino Il Manifesto, 18 dicembre 2014 C'è un giudice a Torino! C'è voluto un anno, un anno - non dimentichiamolo - di carcere duro in condizioni di isolamento, un anno di massacro mediatico, un anno di repressione finanche delle idee di chi solidarizzava, un anno di assordante silenzio di gran parte dei giuristi e degli intellettuali. Ma, alla fine, la Corte di assise di Torino ha detto, senza mezzi termini, che l'"attacco al cantiere di Chiomonte" del 14 maggio 2013 non ha niente a che fare con il terrorismo. Sono rimasti i reati (incontestati) di danneggiamento seguito da incendio e di porto di bottiglie molotov, per cui è stata inflitta una pena tutt'altro che mite. Ma il nodo centrale - per gli imputati, che rischiavano dieci anni e più di carcere, e per il Movimento No Tav, criminalizzato da questa vicenda nella sua interezza - era l'attentato con finalità di terrorismo. Già la Cassazione, il 15 maggio, aveva smontato, nel giudizio cautelare, l'imputazione. Ma i pubblici ministeri avevano insistito: anche con la richiesta, nei giorni scorsi, di una nuova misura cautelare con la stessa imputazione nei confronti di altri tre imputati, regolarmente emessa dal gip. Per questo la sentenza della corte d'assise, composta - è bene sottolinearlo - anche da giudici popolari (un pezzo di popolo italiano), è importante. Il fatto contestato consiste, come noto, in un "assalto" al cantiere della Maddalena realizzato da una ventina di persone nel corso del quale alcuni componenti del gruppo avevano incendiato un compressore mentre gli altri ostacolavano l'intervento delle forze di polizia con il lancio di sassi e di "artifici esplosivi e incendiari". I pubblici ministeri hanno motivato la contestazione di terrorismo, da un lato, con l'asserita attitudine del gesto a intimidire la popolazione e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria e, dall'altro, con l'affermata idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al Paese ("è indubbio che azioni violente come quella della notte di maggio arrechino un grave danno al Paese quanto all'immagine - in ambito europeo - di partner affidabile". Evidente l'evocazione della categoria del terrorismo non per riconoscere reati contrassegnati da caratteristiche specifiche ma per stigmatizzare fatti ritenuti di particolare gravità e, per questo, meritevoli di più intensa riprovazione sociale. Ché la connotazione terroristica di un atto - secondo il comune sentire e una giurisprudenza consolidata - ha necessariamente a che fare col sovvertimento dell'assetto democratico dello Stato e con la destabilizzazione dei pubblici poteri mentre l'affermazione secondo cui la mancata realizzazione di una linea ferroviaria comporterebbe "un grave danno per il Paese" e per la "sua immagine di partner europeo affidabile" sfiora il grottesco. Eppure l'operazione era stata avallata anche dai giudici della cautela e salutata in termini trionfalistici da tutta la grande stampa. Forse per l'autorevolezza della Procura torinese, che non aveva mancato di supportare l'iniziativa con termini enfatici che evocavano addirittura la guerra. Certo per la progressiva caduta nel nostro Paese, con riferimento al conflitto sociale, della cultura delle garanzie, accompagnata dalla costruzione, legislativa e giurisprudenziale, di una sorta di diritto penale del nemico in cui quest'ultimo va perseguito, senza esclusione di colpi, per quel che è più ancora che per le sue azioni specifiche. A contrastare la deriva sono stati in pochi a fianco del Movimento No Tav (capace, da parte sua, di reggere lo scontro anche quando è parso che ad essere messa sul banco degli imputati fosse la stessa opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione). Oggi è intervenuto un segnale nuovo. C'è un giudice a Torino! Un giudice consapevole che il proprio compito è - secondo una autorevole definizione - "assolvere in assenza di prove anche quando l'opinione pubblica vuole la condanna e condannare in presenza di prove anche quando l'opinione pubblica vuole l'assoluzione". Non è poca cosa. Ed è auspicabile che aiuti a comprendere che quella del Tav è una grande questione politica irrisolta e non una questione di ordine pubblico. Giustizia: delitto Garlasco, così un pigiama e una bicicletta hanno ribaltato due assoluzioni di Giusi Fasano Corriere della Sera, 18 dicembre 2014 La chiamano "doppia conforme". Che in giuridichese significa due assoluzioni. Ecco. Dopo una "doppia conforme" è difficile, molto difficile, ribaltare il verdetto. E invece è successo. Dopo aver imboccato per due volte la strada della salvezza, Alberto Stasi stavolta ha davanti a sé un orizzonte nero. Diventato sempre più scuro man mano che cresceva il numero delle udienze di questo processo d'appello bis. Il procuratore generale Laura Barbaini e la parte civile hanno praticamente ricominciato tutto daccapo. Dall'analisi della scena del delitto, alle nuove perizie sulla camminata di Alberto all'interno della villetta di Chiara. E anche se sono passati sette anni da quel 13 agosto 2007, più di una volta è stato come se le indagini fossero partite adesso. Per quello che hanno scoperto e per gli approfondimenti che hanno dato risultati diversi da quelli precedenti. La camminata, l'indizio più potente. Le consulenze precedenti avevano sempre offerto una "via d'uscita" ad Alberto: come aveva sostenuto la sua difesa, magari si era anche sporcato le scarpe camminando sul pavimento sporco di sangue, ma aveva poi rilasciato quelle macchie usandole per ore prima di consegnarle ai carabinieri. Nel processo che si è concluso ieri c'è stata però una differenza fondamentale: il perito ha riprodotto l'ambiente calpestato da Alberto compresi i due gradini della scala che porta in cantina, dove Chiara è stata trovata morta. Su quei gradini c'era molto sangue. Ovvio che la prova ha dato risultati meno favorevoli all'imputato. Praticamente impossibile non sporcarsi le scarpe, a questo punto. Tanto più che stavolta gli esperimenti sono stati condotti anche sui tappetini della macchina. Tutti positivi al test della ricerca del sangue perché Alberto ci ha messo i piedi sopra appena uscito dalla villetta di Garlasco, quindi senza aver usato le scarpe e senza avere possibilità di rilasciare le macchie ematiche prima di consegnarle agli inquirenti. Nel motivare la sentenza i giudici potrebbero seguire il ragionamento della parte civile. E cioè: Alberto ha ucciso Chiara in prima mattinata e poi ha finto di ritrovarla morta ma quando ha dato l'allarme non è entrato in casa. Ed è per questo che aveva le scarpe pulite e che ricordava Chiara con la faccia bianca: perché l'ha vista l'ultima volta buttandola giù dalle scale e non dopo, quando il volto non era bianco perché il sangue era colato sul viso. Sulla scena di questo delitto c'è la famosa "bicicletta nera da donna" vista da una testimone davanti alla casa di Chiara quel 13 agosto 2007. Nell'appello bis il colpo di scena: Gian Luigi Tizzoni, l'avvocato della famiglia Poggi, scopre che c'è qualcosa che non quadra sui pedali delle biciclette di Alberto. Quella nera da donna li ha tutti e due puliti, su uno di quella bordeaux sequestrata subito dopo il delitto c'è invece Dna di Chiara. Tizzoni ipotizza uno scambio. Nel dibattimento l'attenzione si sposta soltanto sulla bici bordeaux. Tutti testimoni e i documenti confermano: la bicicletta bordeaux ha pedali che non sono quelli originali. Quindi l'ipotesi d'accusa è che qualcuno abbia smontato da un'altra bicicletta i pedali sporchi del Dna di Chiara per rimontarli su una bici che in quei giorni, subito dopo il delitto, non era sott'accusa perché non "nera da donna" come aveva rivelato la testimone. In questo processo la dottoressa Barbaini ha passato molte ore a guardare e riguardare verbali di sequestro e fotografie. Documenti perduti in una mole impressionante di altre carte ma che hanno rivelato nuovi indizi. Per esempio una delle foto di Chiara sulla scala. Il procuratore generale ha notato l'impronta di una mano insanguinata sul pigiama rosa della ragazza, mai vista da nessuno. E ha avuto la certezza che l'assassino si sia lavato le mani in bagno dove, sul portasapone, sono state trovati sia il Dna di Chiara sia le impronte di Alberto. Giustizia: contro Veronica Panarello ombre e sagome, ma qual è il movente? di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 18 dicembre 2014 Dunque, adesso dovremmo avere capito perché Veronica ha ucciso. "Il movente del delitto del piccolo Loris va ricercato in un profondo stato di disagio psicologico della signora Veronica Panarello, disagio che risale a epoche lontane e che però ha avuto esplicazioni anche in epoche recenti". Sono le parole del procuratore di Ragusa, Carmelo Petralia, che coordina le indagini sull'omicidio di Santa Croce Camerina. Però, se dovessimo considerare tutte le persone che manifestano uno stato di profondo disagio solo per questo come potenziali assassini, hai voglia, fai una lista lunga chilometri. Il giudice per le indagini preliminari Maggioni, che ha firmato l'arresto di Veronica, aveva sottolineato la "cinica condotta tenuta" dalla donna e la "evidente volontà di volere infliggere alla vittima sofferenze, con un'azione efferata, rivelatrice di un'indole malvagia e priva del più elementare senso d'umana pietà". Sono parole pesanti e dure che fanno a pugni con quelle di un'intervista di ieri del marito di Veronica: "Dieci anni assieme, e mai una stranezza. A me e ai due bimbi non ha mai fatto mancare niente". Mai una stranezza. La casa pulita, i figli sempre in ordine, i colloqui con le maestre, i pasti cucinati con cura e affetto. E poi un matrimonio per amore, un figlio avuto per amore. Il quadro che esce dal racconto di Davide Stival è quello di una famiglia unita e felice. Se Veronica Panarello era fuori di testa, sapeva nasconderlo proprio bene. Eppure, il procuratore Papalia ha sposato la tesi della premeditazione, come sinora esposta dalle conclusioni dei pubblici ministeri Petralia e Rota, per cui la donna non avrebbe agito d'impulso e in un momento d'ira. Il procuratore Papalia sembra convinto di avere trovato il bandolo di questa matassa, e anzi rovescia il possibile paradigma di un gesto improvviso di oscura follia nella premeditazione. Tre scenari: "Ipotesi A, sia la fase volitiva che esecutiva del delitto e anche quella dell'occultamento del cadavere interamente riconducibile alla condotta della signora. Ipotesi B, in cui sia la fase volitiva che esecutiva siano riconducibili alla signora e vi sia un intervento, quindi sotto il profilo di concorso nel reato nella fase di occultamento, con qualcuno che avrebbe potuto aiutarla. Ipotesi C, una partecipazione di altri o altro soggetto sia alla fase volitiva, sia a quella esecutiva ed anche all'occultamento". In parole povere, premeditazione in ogni possibile scenario degli eventi, e l'unico dubbio del procuratore è se ci sia stato un complice o meno, solo per nascondere il corpo di Loris oppure per tutta la vicenda. L'affannosa ricerca del "secondo telefono" che avrebbe dovuto svelarci i mille misteri di questa storia - telefonate segrete, l'esistenza di un amante, caterve di sms -, e poi finalmente trovato, non ha aggiunto una minima certezza. Dove eravamo quella mattina, lì siamo rimasti. O meglio, finora si è andati per esclusione. L'orribile risvolto sessuale, sul quale nei primi giorni c'è stata una rincorsa dei mezzi di informazione all'effettaccio - segni di violenza, segni di violenza perduranti nel tempo - è sfumato. Il possibile gesto di vendetta o ritorsione contro la famiglia, è sfumato. L'incidente o chissà cosa con un ragazzetto amico del piccolo, è sfumato. Rimane, come sempre, la madre. Basterebbe questo? E perché dovrebbe bastare un quesito posto così: Se non lei, chi altri? Quello che con certezza finora emerge "nei dintorni" dell'inchiesta è l'atteggiamento non amorevole, diciamo così, della famiglia nei confronti di Veronica. La madre, intercettata a parlare con la nonna, si dice convinta che Veronica abbia ucciso il bambino perché odiava tanto lei. E l'una e l'altra donna sembrano ingigantire ogni dettaglio della sequenza di eventi di quella mattina per dare addosso a Veronica. Il nonno, poi, anche lui intercettato, si limita a mormorare implacabile: "Buttana". La cosa l'ha colta, il procuratore Papalia, parlando di un vissuto personale di profondo disagio nei rapporti con la famiglia d'origine come "una possibile concausa della determinazione omicida". La causa l'avrebbe già spiegata. Ma davvero si può uccidere il proprio figlio per far dispetto alla propria madre? Davide Stival appartiene forse a quella razza di mariti che non si rendono conto che la casa sta prendendo fuoco. Gente che si spacca la schiena, come lui in giro sempre con il camion, per un qualche sogno ravvicinato, il mutuo da pagare. Sono tutti, i mariti delle madri che un giorno uccidono i figli e spesso se stesse, "gran lavoratori". Persone laboriose. Persino premurose. Incapaci a capire quello che sta succedendo. Stival, che avrebbe riconosciuto in alcune sequenze di telecamere della zona l'automobile di Veronica dalle parti del Mulino Vecchio dove è stato ritrovato il corpo di Loris, ha dato addosso alla moglie. Dice che non può non credere a quello che va spiegando la procura, ci si aggrappa. Nello stesso tempo, non riesce a darsi una ragione degli eventi, non riesce a spiegarsi perché. E se ripensa alla propria vita, alla propria famiglia ne viene fuori un quadro di serenità. "Io devo credere a quello che mi dicono gli inquirenti. Quella che si vede nei filmati è la macchina di mia moglie: ma se sia stata lei, non lo so". Ci sono ombre, sagome. Forse, Stival non è "attendibile" quando difende la moglie. Se è così non dovrebbe essere neppure "attendibile" quando la accusa. Nei prossimi giorni dovrebbe svolgersi il funerale del piccolo Loris. Stival ha chiesto che non ci siano telecamere e microfoni, che lo lascino in pace. Lui ne ha proprio bisogno. Noi avremmo bisogno di avere qualcosa di più che ombre, sagome e le ipotesi A, B e C. Giustizia: il Natale… da San Vittore a Ucciardone, dietro le sbarre giorni di festa solidali Adnkronos, 18 dicembre 2014 Pagano (Dap), dagli spettacoli musicali agli eventi religiosi in programma tante iniziative e più colloqui. Teatro e pranzi di solidarietà, spettacoli musicali insieme a eventi religiosi. E soprattutto la possibilità di più colloqui e visite di figli e familiari: il Natale delle carceri si colora di umanità, e alla ricerca di sani momenti di "evasione" da S. Vittore all'Ucciardone di Palermo, passando per Poggioreale e Sollicciano, mette in scaletta tante iniziative per permettere ai reclusi di trascorrere qualche ora senza il peso della solitudine che accorcia ancora di più i metri della cella. Momenti di condivisione comunitaria, realizzati con il contributo di volontari e associazioni esterne, ma anche nate dall'iniziativa delle case circondariali per i detenuti che nelle circa 200 carceri italiane sono 54.187. Tra le centinaia di eventi in programma e già autorizzati dal Dap, da segnalare una tradizione che si rinnova, nel segno della solidarietà: il pranzo natalizio del 26 dicembre a Regina Coeli, organizzato dalla Comunità di S. Egidio, presso la Prima Rotonda dell'istituto di pena capitolino. "Abbiamo autorizzato tante iniziative e saranno aumentati i colloqui. Il nostro personale sarà come sempre vicino ai detenuti, nessuno si tira indietro", spiega all'Adnkronos il vice capo del Dap, Luigi Pagano. "È un Natale con molti meno problemi - fa notare Pagano - l'anno scorso c'erano problemi di sovraffollamento, ora la situazione è molto cambiata. Continuiamo il nostro lavoro, e puntiamo a rafforzare l'attività trattamentale. In questi giorni di festa, all'interno delle case circondariali è un fiorire di attività più partecipate, e in molti istituti si mettono in campo iniziative che aprono alle famiglie. L'umanità, la capacità e la professionalità del nostro personale potrà aiutare a superare momenti di tristezza", assicura Pagano. Anche a Palermo "c'è un fitto calendario di iniziative", dice all'Adnkronos Rita Barbera, direttrice del carcere Ucciardone. "Questi momenti di festa sono molto delicati nella vita degli istituti -spiega- perché viene fuori la solitudine e la mancanza di affetti. Noi cerchiamo di affiancare le persone detenute e di colmare per quanto possibile la tristezza che può insorgere". Tra le iniziative in calendario nella vecchia fortezza borbonica diventata carcere nel 1832, una in particolare merita di essere segnalata: "Il 27 - annuncia Barbera - vivremo la festa dei papà con i bambini. In una zona all'aperto, ci sarà Babbo natale con altri animatori, e i papà detenuti si incontreranno con i bambini (da 0 a 14 anni), abbracciandoli senza sbarre". Sabato a Roma è invece in programma un evento di comunicazione, a scopo benefico, finalizzato a promuovere l'immagine, l'umanità e la professionalità del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, promosso dall'Ufficio Stampa e Relazioni Esterne del Dap in collaborazione con Club Passionerossa Ferrari: 15 supercar con il logo del Corpo di Polizia penitenziaria partiranno dal Dap scortate da motociclisti e da due autovetture con i colori del Corpo. Il corteo di auto raggiungerà la Casa di Reclusione di Rebibbia dove una delle Ferrari cabrio distribuirà i doni, acquistati dai soci del Club Ferrari, ai minori che si trovano all'interno della struttura per il colloquio con il genitore detenuto. Nell'occasione sarà presentata dal vice capo vicario del Dipartimento, Luigi Pagano, l'edizione 2015 del Calendario del Corpo di Polizia Penitenziaria. L'evento prevede anche la realizzazione di una mini-fiction, incentrata sulla figura di una agente di Polizia Penitenziaria in servizio presso il reparto nido dell'istituto penitenziario. Tra le cene di beneficenza "sapori reclusi" e concerti, da Nord a Sud della Penisola eventi di solidarietà accompagneranno i giorni delle feste negli istituti di pena del Paese. Domani, nella Casa circondariale di Lecce è in programma il concerto di Chiara Civello, mentre a Rebibbia andrà in scena lo spettacolo teatrale della Compagnia Stabile Assai. A Cremona santa messa celebrata dal vescovo Mons. Dante Lanfranconi. Venerdì 19 spettacolo teatrale presso il teatro comunale di Lodi Vecchio con alcuni detenuti della casa circondariale Casa circondariale Lodi. Visita pastorale del vescovo, mons. Maurizio Malvestiti, mentre alla Casa di reclusione di Augusta - il 19 - 20 e 22 - sono in programma concerti natalizi del Coro dell'istituto. Sabato 20 alla Casa circondariale Salerno santa messa celebrata dall'arcivescovo metropolita di Salerno, mons. Luigi Moretti. Lunedì 22 alla Casa di reclusione di Rossano messa celebrata dall'arcivescovo di Rossano, mons. Giuseppe Satriano. Mentre al carcere di Grosseto andrà in scena lo spettacolo teatrale organizzato dall'Arciconfraternita della Misericordia. Martedì 23 alla Casa di reclusione di Bollate la santa messa celebrata dal Cardinale Angelo Scola Casa, mentre alla casa circondariale di Poggioreale il pranzo di Natale sarà organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio. Il 24 alla Casa circondariale Como messa celebrata dal vescovo Diego Coletti, e alla Casa circondariale Bergamo concerto del gruppo delle cornamuse "Baghet". Il 27, alla Casa circondariale di Secondigliano, pranzo di Natale organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio, mentre nell'istituto di Brescia si terrà la cerimonia di benedizione del murales "Volti e rivolti" da parte del vescovo Luciano Monari. Il 29, alla Casa circondariale Larino, Coro polifonico A. Messora. Il 3 gennaio 2015 alla Casa circondariale di Larino partita di calcio con l'A.S.D. S.Ambrogio. Mentre alla Casa circondariale Civitavecchia N.C., pranzo con le detenute organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio e merenda con i detenuti. Il 10 gennaio alla Casa circondariale di Larino, Befana con papà in collaborazione con la Caritas Diocesana. Da segnalare ancora il Mercatino di Natale con i prodotti dal carcere presso il Museo Criminologico di Roma. Capitolo come sempre propositivo quello che arriva dalle carceri per i regali natalizi. La scelta è ampia, e di qualità: si va dalle cartoline natalizie realizzate dai detenuti di Enna ai panettoni sfornati dai detenuti-pasticceri di Padova, con i classici dolci di Giotto. Senza dimenticare il Fiano "Fresco di galera" che arriva dell'istituto di S. Angelo dei Lombardi, nella verde Irpinia. E ancora giocattoli e borse, felpe e "sbarrette" di cioccolato, il vino "Sette mandate" e mille altri prodotti "made in Jail". Una favola di Natale dal carcere di Villa Fastiggi, è il regalo che i detenuti di Pesaro hanno pensato di donare ai bambini e alle scuole della città. Il racconto si intitola "I Tintoretti" ed è la storia di un Natale colorato capace di abbattere, almeno per un giorno, le spesse mura di un carcere. La trama: Nella valle dell'Arcobaleno, alle pendici del monte Tempera, vive una piccola comunità di folletti ai quali è stato affidato il compito di colorare la natura all'avvicendarsi delle stagioni. Sono minuscole creature a forma di pennellino, capaci di generare tutti i colori semplicemente abbracciandosi stretti-stretti e intrecciando la folta capigliatura fatta di morbide setole. Per il Natale devono dipingere il grande Abete Bianco all'interno di un carcere, custodito nel folto di un bosco da un gigantesco orso triste ma dal cuore buono. Un inno alla voglia di rinascere a vita nuova propria del Natale, attraverso una storia che si regge su numerose allegorie e colpi di scena con un finale tutto da scoprire. La favola è stata illustrata dal fumettista pesarese Michele Scodavolpe e viene pubblicata dal "Nuovo Amico" (settimanale delle diocesi di Pesaro-Fano-Urbino) distribuito gratuitamente nelle edicole e in tutte le chiese del territorio a partire da domani. Una copia plastificata verrà esposta stabilmente durante le feste, accanto al presepe allestito sotto l'albero di Natale di piazza del Popolo. Giustizia: dai detenuti italiani tanti auguri a Papa Francesco "sei sempre con noi…" Radio Vaticana, 18 dicembre 2014 Anche i detenuti italiani fanno gli auguri di buon compleanno a Papa Francesco. Centinaia le lettere con le quali moltissimi si stringono affettuosamente intorno al Pontefice e lo ringraziano per i suoi continui sforzi in favore di un miglioramento della loro difficile situazione detentiva. Federico Piana ne ha parlato con don Virginio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri: "Francesco è con noi nella cella" R. Dalle lettere che arrivano continuamente quasi tutti i giorni, si vede chiaramente che si augurano che il Papa continui a vivere a lungo e che la sua forza che sta mettendo sia nella vicinanza a loro, sia rispetto ai loro familiari - ma in generale al mondo dell'amministrazione e della giustizia e con proposte piuttosto forti come l'abolizione dell'ergastolo, la pena di morte, il modo di amministrare giustizia - in modi diversi ha aperto il cuore attirando grandissima gratitudine da parte di tutti: e direi non solo delle persone detenute, ma da parte di tutti gli operatori che sentono il Papa molto vicino al cammino di cambiamento della giustizia. D. In questa giornata, cosa vogliono dire i carcerati a Papa Francesco? R. Lo ringraziano perché ha fatto riscoprire a molti la vicinanza di Dio: dà il senso che Dio non li abbandona che Dio - come dice lui - è assieme a loro, nella loro cella. Dà il senso si una partecipazione alla sofferenza, alla ricerca di speranza di moltissime persone. Credo che questa sia la cosa più forte. Poi lo ringraziano perché è vicino anche alle loro famiglie, perché manda loro le benedizioni, perché sente la loro fatica di crescere. Credo che questi siano i sentimenti maggiori. Poi, lo ringraziano per tutte le preghiere che fa per loro e, dall'altra parte, promettono continuamente che anche loro si ricordano di lui nella preghiera. D. Ragioniamo un po' sul carcere, perché la situazione è ancora drammatica. Ci avviciniamo a Natale e molti vivono ancora in cella con cinque, sei, sette, dieci persone. R. Bisogna dire che qualcosa è migliorato. Non bisogna guardare solo le cose che non vanno, bisogna vedere anche i lati positivi. Molte le carceri che si sono riequilibrate dal punto di vista del sovraffollamento. Ce ne sono altri, soprattutto nelle grandi città, in cui si fa veramente ancora fatica. Credo che il problema più grande non sia guardare se ci sono i tre o quattro metri quadrati: è la vivibilità complessiva dell'essere in carcere e soprattutto la possibilità di pensare se c'è un futuro positivo per la propria vita. Su questo Papa Francesco ha detto delle cose importantissime mandando dei messaggi ai giuristi. Anche quanto a scritto a Latina, anche lì, fondamentalmente diceva: guardate che sono con voi perché la vostra vita migliori. D. Questi interventi di Papa Francesco potranno pian piano risolvere qualche cosa? C'è la possibilità di ripensare un po' il sistema carcere, quello giudiziario per evitare il carcere a persone che magari potrebbero stare a casa ai domiciliari? R. Sì, io spero che accolgano il suo messaggio, anche se è veramente faticoso cambiare la mentalità che passa da una giustizia che attribuisce semplicemente delle pene in carcere, a una giustizia conciliativa, cioè quello che sta chiedendo abbondantemente. Un conto è mantenere delle persone semplicemente in carcere - pur con i cambiamenti, con il miglioramento del carcere - un conto è vedere che fare giustizia vuol dire anzitutto riconciliare degli uomini che hanno fatto del male a qualcuno. Papa Francesco lo ha detto molto chiaramente parlando anche delle vittime. Sardegna: accordo tra Università e carceri; corsi di laurea per detenuti, anche per i 41-bis Ansa, 18 dicembre 2014 L'intesa, presentata ieri mattina nella sede del Rettorato da Melis e De Gesu, prevede l'organizzazione di attività didattiche, di orientamento e consulenza e di tutorato, anche utilizzando metodologie e tecniche di insegnamento a distanza. La rieducazione in carcere può passare anche attraverso gli studi: il provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria, Gianfranco De Gesu, e il rettore Giovanni Melis hanno firmato un protocollo d'intesa per promuovere l'istruzione universitaria dei detenuti. L'intesa, presentata questa mattina nella sede del Rettorato da Melis e De Gesu, prevede l'organizzazione di attività didattiche, di orientamento e consulenza e di tutorato, anche utilizzando metodologie e tecniche di insegnamento a distanza. "Un'intesa - ha detto De Gesu - già sperimentata nel nord Sardegna. A Tempio abbiamo ventidue iscritti, ad Alghero sette". L'impegno negli studi è importante anche ai fini della valutazione della concessione di misure alternative. "Un servizio al territorio - ha detto Melis - destinato a favorire maggiore integrazione". Destinatari delle attività formative sono tutti i detenuti, italiani e stranieri, compresi quelli appartenenti al circuito dell'alta sicurezza o 41 bis, degli istituti penitenziari di Uta, Iglesias, Lanusei e Oristano Massama, che intendano immatricolarsi o siano già iscritti. I dipartimenti creeranno pool di docenti e tutor disponibili a collaborare all'iniziativa. Il Provveditorato si impegna a trasferire i detenuti-studenti di media sicurezza nelle sedi indicate, mentre i detenuti ad alta sicurezza o 41 bis che arriveranno, solo a Cagliari e Oristano, potranno frequentare i corsi unicamente in carcere. L'ateneo favorirà la partecipazione alla didattica anche attraverso modalità di insegnamento e di verifica della preparazione a distanza. Roma: per caso Simone La Penna, morto in carcere, due medici condannati e uno assolto Ansa, 18 dicembre 2014 Due condanne ad un anno di reclusione e una assoluzione. Si è concluso così il processo di primo grado a carico di tre medici che ebbero in cura Simone La Penna, detenuto a Regina Coeli e morto il 26 novembre 2009 all'interno del carcere. I tre erano accusati di omicidio colposo. Il giudice monocratico ha ritenuto colpevoli (la pena è sospesa) Andrea Franceschini, dirigente del reparto del centro clinico del carcere e per il medico Andrea Silvano. Assolto per non aver commesso il fatto Giuseppe Tizzano. Secondo il pm Eugenio Albamonte, che aveva sollecitato una condanna a due anni e dieci mesi per i tre, i medici non vigilarono in modo adeguato sulle condizioni di salute di La Penna, che era affetto da una grave forma di anoressia. L'uomo nel gennaio 2009 venne portato nel carcere di Viterbo per scontare una condanna di due anni, quattro mesi e 29 giorni per detenzione di sostanze stupefacenti. Allora pesava 79 chili. Il 27 luglio venne ricoverato all'ospedale Sandro Pertini dove restò due giorni. La difesa, quindi, avanzò le richieste di arresti domiciliari ma furono respinte dal Tribunale di Sorveglianza, secondo il quale il regime detentivo era compatibile con il suo stato di salute. Le condizioni continuarono a peggiorare al punto che La Penna, dopo essere dimagrito 34 chili, venne trovato morto nella sua cella il 26 novembre di cinque anni fa. La vicenda venne accostata al caso di Stefano Cucchi, morto il 27 ottobre dello stesso anno nel Reparto detenuti dell' ospedale ‘Pertinì, dopo un pestaggio e una settimana di detenzione. Rimini: la Garante regionale Desi Bruno visita i detenuti del carcere dei "Casetti" www.riminitoday.it, 18 dicembre 2014 Su un numero complessivo di 111 detenuti, 57 sono gli stranieri, 50 i tossicodipendenti, 49 gli imputati, 16 gli appellanti, 7 i ricorrenti, 39 i definitivi, 5 i semiliberi. Sovraffollamento sotto controllo, regime "a celle aperte" in vigore, condizioni strutturali e igieniche accettabili, ma restano i problemi di un direttore che ricopre l'incarico in due strutture, rendendo quindi impossibile garantire la propria presenza costante, e dei tempi di risposta troppo lunghi da parte del magistrato di sorveglianza, almeno secondo una rappresentanza di detenuti che è arrivata anche allo sciopero della fame per protesta: è questa la situazione al carcere di Rimini, che la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, insieme al Garante del Comune di Rimini, Davide Grassi, ha visitato il 15 dicembre. Su un numero complessivo di 111 detenuti, 57 sono gli stranieri, 50 i tossicodipendenti, 49 gli imputati, 16 gli appellanti, 7 i ricorrenti, 39 i definitivi, 5 i semiliberi. La capienza regolamentare nell'istituto è fissata a 139, con la capienza tollerabile che, secondo il Dipartimento amministrazione penitenziaria, può toccare quota 183: i numeri relativi alle presenze, quindi, sono risultati, in linea con gli altri dati regionali, relativamente al profilo del sovraffollamento, sostanzialmente sotto controllo. Permane la criticità, segnala però la Garante, relativa all'attribuzione della direzione ad un ruolo direttivo che già riveste la titolarità della funzione in un altro istituto, con la conseguente impossibilità di poter assicurare la propria fondamentale presenza all'interno in ragione del doppio incarico. La vocazione dell'istituto, nell'ambito della piena realizzazione del circuito penitenziario regionale, sarà di ospitare persone che non sono condannate in via definitiva, ma in custodia cautelare, e già in questo senso sta venendo a caratterizzarsi operativamente: 39 sono infatti i condannati in via definitiva, a pene tendenzialmente non lunghe. Nelle sezioni detentive vige il regime "a celle aperte", con i detenuti che possono restare all'esterno della camera detentiva fino a 9 ore al giorno circa, con una tendenziale separazione fra imputati e condannati in via definitiva. Gli ambienti della prima sezione, che ospita al momento 30 detenuti, risultano oggi essere stati sanificati, grazie anche al contributo della Camera penale di Rimini per l'acquisto delle vernici per la tinteggiatura, e anche il tetto è stato rifatto. La difficoltà maggiore sta nell'aver in un unico ambiente cucina e servizi igienici: permane quindi la necessità di lavori complessivi di ristrutturazione, che potranno però essere avviati solo dopo l'apertura della seconda sezione, da circa 25 posti, completamente rinnovata e in attesa solamente di collaudo, con lo spostamento dei detenuti nei nuovi ambienti. Proprio in questi giorni sono iniziati, anche con il contributo lavorativo di tre detenuti alle dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria che si occupano della manutenzione ordinaria dei fabbricati, i lavori in economia relativi alla sesta sezione, che prevedono l'adeguamento degli ambienti destinati ad ospitare detenuti transessuali. Nel complesso quindi, riferisce Bruno, le condizioni strutturali e igieniche del carcere risultano essere complessivamente accettabili, come anche certificato dall'ultimo rapporto semestrale dell'Ausl di Rimini redatto dopo la visita effettuata il 20 novembre 2014; si registra però che nell'infermeria sono evidenti sui muri e nel soffitto infiltrazioni di acqua nell'intonaco non compatibili con il tipo di attività che viene svolta all'interno e che pertanto riveste carattere di priorità la sistemazione della struttura sanitaria. Risulta essere sensibilmente sottoutilizzata la sezione Andromeda a custodia attenuata, in cui vengono collocati i detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti, selezionati dalla direzione e dell'Ausl, in attesa dell'accesso a misure alternative alla detenzione con finalità terapeutiche: ospita cinque detenuti a fronte di una capienza prevista di quindici. Alla sezione Andromeda si accede dopo un percorso nella sezione Cassiopea, dove sono collocati detenuti tossicodipendenti. Rimane inoltre il problema relativo alla sistemazione dell'area esterna destinata ai colloqui estivi tra detenuti e famigliari con figli al seguito. Sarà importante, suggerisce la Garante, intervenire in anticipo, al fine di assicurare che, per il prossimo anno, questo importante luogo di incontro per i detenuti e i propri famigliari torni ad essere utilizzato. In un contesto in cui il numero delle professionalità giuridico-pedagogiche, in totale cinque, risulta più che congruo a fronte di 39 condannati in via definitiva, si deve registrare l'estremo disagio che una rappresentanza di detenuti, che in passato per analoghe questioni ha intrapreso uno sciopero della fame collettivo, ha manifestato ai Garanti relativamente ai rapporti con il magistrato di sorveglianza competente, lamentando lunghi tempi di attesa per le risposte, con particolare riguardo alle istanze volte ad ottenere la liberazione anticipata e ai permessi premio, con i detenuti che hanno presentato istanza per trascorrere qualche giorno con la propria famiglia in occasione delle festività natalizie che, alla data delle visita, non hanno ancora avuto alcuna forma di risposta. Infine, segnala Bruno, attendono una definizione operativa i progetti fra direzione del carcere e Comune al fine di impiegare i detenuti in lavori di pubblica utilità all'esterno del carcere, con la selezione dei detenuti da coinvolgere che è già intervenuta, ma non sono stati ancora individuati i lavori da far svolgere ai detenuti da parte del Comune di Rimini. Napoli: Lumia (Pd) chiede chiarezza sui boss che lavorano nell'orto di Secondigliano Ansa, 18 dicembre 2014 "Quali siano i motivi che hanno portato alla scelta delle persone citate tra i circa 1.000 detenuti non lavoratori che vivono in condizioni di estrema emarginazione, per coltivare il tenimento agricolo della Casa circondariale di Secondigliano; se il Ministro in indirizzo intenda intervenire con appositi provvedimenti di competenza al fine di evitare che a detenuti di questo calibro possano essere fatte simili concessioni". Sono queste le domande rivolte dal senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia, con un'interrogazione presentata al Senato ed indirizzata al ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Dal servizio - si legge nell'interrogazione - mandato in onda il 30 novembre 2014 dalla trasmissione televisiva "Report" su Rai3 si apprende che nel carcere di Secondigliano (Napoli) sono detenuti più di 1.300 soggetti. Di questi sembrerebbe che soltanto 6 o 7 coltivino l'orto dell'istituto penitenziario. Si tratta di detenuti sottoposti al trattamento di "alta sicurezza", per lo più ergastolani che provengono dalla criminalità organizzata come mafia, ‘ndrangheta, sacra corona unita e che, in passato, sono stati sottoposti al regime del 41-bis". Avellino: Ufficio Sorveglianza, 700 ricorsi pendenti per liberazioni anticipate integrative Corriere dell'Irpinia, 18 dicembre 2014 Sette giorni di astensione dalle udienze, una class action per i danni ricevuti dal mancato servizio ai detenuti e soprattutto un esposto che stavolta potrebbe finire anche sul tavolo del Procuratore della Repubblica Rosario Cantelmo. Quelli che si preparano a proclamare i penalisti avellinesi rispetto allo stato del Tribunale ed in particolare dell'Ufficio di Sorveglianza. Ieri mattina è stata questa la decisione assunta dall'assemblea dei penalisti, che si sono astenuti dalle udienze, quella presieduta da Gaetano Aufiero e dal segretario della Camera Penale Giuseppe Saccone. Ed è assolutamente desolante il quadro prospettato nel corso dell'assemblea. In particolare per quello che riguarda l'Ufficio di Sorveglianza. "Un quarto dei magistrati non è presente da quattro anni perché sono dirottati in altri Tribunali, come quello di Santa Maria Capua Vetere. E non penso che con 500 euro all'anno di budget che viene destinato al funzionamento degli uffici di Avellino, sia possibile portare avanti le attività dell'ufficio" dice il presidente della Camera Penale Gaetano Aufiero. E ci sono alcuni dati che danno la dimensione del caos relativo ad un ufficio strategico non solo per gli avvocati. Per questo è lo stesso presidente Aufiero a sollecitare al segretario Saccone che "la delibera venga comunicata alla sezione Anm e al Procuratore della Repubblica. Se la sorveglianza non funziona e anche un problema della Procura. Interessiamo il Csm, l'Anm, il Prefetto ed il Procuratore. Non è possibile che c'è un ufficio dove ci sono responsabilità relative a circa mille detenuti e nessuno se ne infischia ". Il dato impressionante è quello relativo ai ricorsi presentati dai detenuti per ottenere la liberazione anticipata integrativa. 700 ricorsi che attendono ancora risposta. Rossano Calabro: Sappe; protesta di cinque detenuti, si sono rifiutati di rientrare in cella Agi, 18 dicembre 2014 "Ancora un grave episodio si è verificato ieri nel carcere di Rossano (Cs) dove un detenuto ha fomentato una protesta, nel corso della quale un altro gruppo di persone si è rifiutato di rientrare in cella. Complessivamente cinque detenuti sono rimasti nel reparto passaggi, si sono sdraiati per terra, ed hanno costretto gli agenti della polizia penitenziaria a portarli di forza nelle loro stanze". Lo affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale del sindacato di Polizia penitenziaria. "È stato necessario impiegare oltre trenta agenti - si legge nella nota del Sappe - per ripristinare la legalità all'interno dell'istituto. Il detenuto che ha fomentato la protesta è lo stesso che nei giorni scorsi aveva aggredito un agente, ancora in malattia, proprio a causa dell'aggressione. A davvero grave che a distanza di oltre quindici giorni, dopo che il detenuto ha scontato la sanzione inflittagli, lo stesso non sia stato ancora allontanato da Rossano, dove continua a creare problemi. Sembra che le sue proteste scaturiscano dal diniego fatto dall'amministrazione, rispetto a richieste che non possono essere esaudite, per espresso divieto dell'ordinamento. Chiediamo, quindi, al Dipartimento di intervenire al più presto, trasferendo lo stesso detenuto in un'altra sede, considerato che a Rossano crea continuamente problemi". Trento: Sappe; agente aggredito da detenuto, dopo la notifica di un decreto di espulsione Ansa, 18 dicembre 2014 Il Sindacato della polizia penitenziaria Sappe denuncia il caso di un'aggressione compiuta da un detenuto del carcere di Trento nei confronti di un assistente capo di polizia penitenziaria. "Nella tarda mattinata di lunedì - racconta il segretario generale del Sappe Donato Capece - un detenuto africano, a seguito della notifica da parte di un poliziotto dell'ufficio matricola del decreto di espulsione dall'Italia, ha dato in escandescenze. Il personale di servizio è intervenuto immediatamente per cercare di bloccare il detenuto. Accompagnato nella Sezione detentiva transito, il detenuto, che era in grande stato di agitazione, ha provocato delle lesioni ad un assistente capo del Corpo intervenuto che ha riportato lesioni guaribili in 20 giorni". "Queste aggressioni - commenta Capece - sono intollerabili e meriterebbero risposte immediate, come un congruo periodo di rigido isolamento disciplinare e l'allontanamento del detenuto in un altro carcere d'Italia. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite". Cuneo: nel carcere del Cerialdo saggio di fine anno per i detenuti allievi dell'Alberghiero di Lorenzo Boratto La Stampa, 18 dicembre 2014 Saggio di fine anno, ieri mattina, al carcere Cerialdo di Cuneo, per i detenuti-studenti dell'istituto "Virginio-Donadio", che seguono nell'istituto penitenziario le lezioni e sostengono esami, per diventare cuochi, camerieri, maître. Il corso è attivo al Cerialdo ormai da 4 anni. Oltre al direttore dell'Istituto Claudio Mazzeo, erano presenti anche il provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia, il direttore dell'ufficio scolastico regionale Fabrizio Manca, il presidente del tribunale Paolo Perlo, il Procuratore della Repubblica Francesca Nanni, il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, l'assessore alla cultura di Cuneo Alessandro Spedale e il dirigente del Virginio Donadio Claudio Dutto. Il direttore Mazzeo: "Un elogio va al lavoro dei docenti e del personale, che consente il buon andamento dell'attività formativa. Poi gli alunni detenuti: stanno dimostrando, con l'impegno e la serietà, di comprendere l'importanza del percorso che hanno scelto". Il dirigente Manca: "La sinergia tra amministrazione penitenziaria e scuola ha già consentito di poter inserire alcuni ex detenuti in strutture lavorative di prim'ordine: sicuramente il modello cuneese rappresenta un esempio di "buona scuola" voluta dal Governo". I rappresentanti dei detenuti, nel loro intervento hanno voluto ringraziare tutti coloro che rendono possibile questa "grande opportunità". A coordinare i detenuti in cucina c'era lo chef Maurilio Tallone. Roma: "Vedrò dalle sbarre la notte stellata", in scena a Rebibbia la poesia delle detenute La Repubblica, 18 dicembre 2014 Un volume che contiene una raccolta di poesie scritte dalle detenute che hanno partecipato al "Laboratorio di Poesia", giunto alla sua seconda edizione. Grande successo per "Vedrò dalle sbarre la notte stellata". "Vedrò dalle sbarre la notte stellata". È il titolo del volume, edito da Licenza Poetica - Pagine, con il contributo di Fondazione Roma-Arte-Musei, presentato ieri presso la sezione femminile della casa circondariale di Rebibbia. Il volume è una raccolta di poesie scritte dalle detenute che hanno partecipato al "Laboratorio di Poesia", giunto alla sua seconda edizione, tenuto dal poeta Plinio Perilli, la poetessa Nina Maroccolo e la professoressa Antonella Cristofaro, insegnante d'Italiano presso il carcere. Un grande progetto educativo. È stato presentato anche il toccante libro "Ero nato errore", scritto a quattro mani da Nina Maroccolo e Anthony Wallace ed edito sempre da Pagine, che racconta l'incredibile vicenda di un personaggio reale ora detenuto proprio a Rebibbia. "Credo che l'iniziativa sia molto importante - ha detto la direttrice della casa circondariale Ida Del Grosso - perché la poesia può liberare le emozioni e regalare quella libertà che alle detenute manca. La poesia in carcere è uno strumento di crescita". "Dopo il successo ottenuto dal progetto dell'anno scorso - ha spiegato la professoressa Antonella Cristofaro - abbiamo deciso di continuare con una convinzione sempre più forte. Il progetto, infatti, è stato decisamente positivo. Attraverso l'espressione dei propri sentimenti, le detenute hanno la possibilità di migliorare la loro autostima e, soprattutto, prendono parte ad un grande progetto educativo. Napoli: incontro di studio organizzato dalla Camera penale e "Il Carcere Possibile Onlus" Ristretti Orizzonti, 18 dicembre 2014 Ieri mattina si è concluso l'incontro con le camere penali alla presenza del presidente avv. Attilio Belloni e del consigliere della camera avv. Angelo Mastrocola che hanno introdotto il tema del lavoro volontario e gratuito del detenuto e dell'internato. I lavori hanno previsto l'intervento del Presidente del Tribunale di sorveglianza dott. Carmine Antonio Esposito, il quale ha sottolineato l' intervento dello Stato in contrapposizione alle associazioni criminali nella risocializzazione del detenuto. Significativi i contributi dell'avvocatessa Annamaria Picascia e dell'avv. Sergio Schiltzer, presidente dell' Associazione "Il carcere possibile". Affrontare la problematica del lavoro gratuito e volontario dei detenuti e degli internati è sicuramente un'iniziativa importante in una realtà difficile come quella campana, ma l'appello delle camere penali è rivolta a dare un segno concreto alla proposta attraverso la individuazione di associazioni private o enti pubblici pronti a collaborare con la magistratura di sorveglianza per il reinserimento del detenuto nel tessuto societario. La camera penale ha ospitato anche il dott Flores, dirigente Prap, il quale ha dato buoni segnali di miglioramento delle condizioni carcerarie campane e dell' abbassamento del tetto di suicidio e del dimezzamento del sovraffollamento. Infine è cominciato un vivace dibattito guidato da Luigi Mazzotta, presidente dell'Associazione radicale "Per la Grande Napoli", che negli ultimi anni ha presidiato le carceri campane tra cui Poggioreale abbattendo le file della vergogna e portando alla liberazione del detenuto Fabio Ferrara, ammalato sulla sedia a rotelle costretto in pochi metri di spazio a Secondigliano. Presenti in sala anche Rosa Criscuolo del comitato nazionale radicali italiani e l'avv. Aldo Ruggiero impegnati anch'essi nella lotta non violenta per le carceri. Grosseto: il vescovo Rodolfo Cetoloni visita il carcere "Dio non ha paura dei nostri errori" www.ilgiunco.net, 18 dicembre 2014 Accompagnato dal cappellano don Enzo Capitani, questa mattina il vescovo Rodolfo Cetoloni si è recato nel carcere di Grosseto per incontrare i detenuti e il personale in servizio. È ormai una significativa tradizione che il vescovo si rechi a far visita alla struttura di via Saffi nei giorni che precedono il Natale e la Pasqua, ma ogni volta l'incontro con i detenuti e con chi nel carcere lavora o presta la sua opera di volontario assume sempre un significato particolare, emotivamente significativo. Il vescovo Rodolfo ha celebrato la Messa al secondo piano, nell'area del secondo raggio. "Penso spesso a voi - ha detto ai detenuti nell'omelia - ogni volta che passo fuori da questa struttura e ogni volta prego perché possiate sempre percepire in voi la presenza di Dio. La fede, al di là delle situazioni che viviamo, ci dice che Lui non sparisce dalla nostra esistenza, ci invita a cambiare e ci dice soprattutto la sua compagnia, perché la sua gioia è stare tra gli uomini, ovunque essi si trovino. A ognuno di voi - ha proseguito - coi pesi che si porta dentro, dico: Dio non ci lascia da soli, non si stanca di noi, non ha paura dei nostri errori. Questa sicurezza vi aiuti a fare la vostra parte per recuperare e riparare". Il vescovo ha poi fatto una richiesta ai detenuti: "Pregate per me, perché possa svolgere il mio servizio di vescovo come il Battista, facendomi voce di Dio e avendo in me la sicura certezza che il Signore continua a realizzare ciò che ha sognato per ciascuno di noi. Non ci sono ostacoli così grandi, neppure i nostri sbagli e le nostre colpe, che impediscono a Dio di essere nella nostra vita". Al momento della preghiera del Padre Nostro, il vescovo ha chiesto ai detenuti di pregare in modo particolare per le persone "a cui avete procurato sofferenza, perché siano consolati da Dio". Al termine della Messa, i detenuti hanno donato al vescovo un ritratto a matita di papa Francesco e una pergamena con il ringraziamento per la sua vicinanza. Il vescovo ha contraccambiato offrendo a ciascuno il suo messaggio di Natale e l'immagine di Gesù Bambino portata da Betlemme. Unione Europea: al Parlamento europeo dibattito sull'uso della tortura da parte della Cia www.marketpress.info, 18 dicembre 2014 Le rivelazioni del Senato statunitense sull'uso della tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti sui detenuti da parte della Cia, in seguito agli attacchi terroristici dell'11 settembre e con la presunta complicità di alcuni Stati membri dell'Ue, saranno discusse mercoledì alle ore 15 con il Commissario Dimitris Avramopoulos e il Segretario di Stato italiano per gli affari esteri, Benedetto Della Vedova. Una commissione temporanea del Parlamento europeo, istituita nel 2006, aveva indagato sul presunto utilizzo di paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegale di prigionieri. Nella sua relazione finale, approvata il 14 febbraio 2007, il Parlamento deplorava il comportamento passivo di alcuni Stati membri dell'Ue di fronte alle operazioni illegali della Cia. Si legge nel testo che nel programma di "consegna straordinaria" della Cia "nella maggior parte dei casi si è ricorso alla detenzione in isolamento e alla tortura". Ciò è stato confermato dalle vittime - o dai loro avvocati - che hanno testimoniato davanti alla commissione del Parlamento. Nella sessione plenaria di febbraio sarà posta in votazione una risoluzione sulle rivelazioni contenute nel rapporto del Senato americano. India: la mamma si Tomaso Bruno "non si è mai arreso…. è lui che ci dà la forza" di Ambra Notari Redattore Sociale, 18 dicembre 2014 Entro un paio di mesi si conoscerà la sorte di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, reclusi in India da quasi 5 anni, condannati per la morte di Francesco Montis. La mamma del ragazzo: "L'India è un Paese imprevedibile, e noi aspettiamo fiduciosi". "Credevamo che quel martedì non fosse altro che un martedì come tutti gli altri, che si sarebbe risolto con il solito nulla di fatto. La settimana prima ero rientrata in Italia dall'India. Mai avrei pensato che di lì a poco avremmo vissuto il giorno che aspettavamo da settembre 2013". Marina Maurizio è la mamma di Tomaso Bruno, il giovane che da quasi 5 anni è rinchiuso nel carcere di Varanasi, città sacra sulle rive del Gange, un tempo chiamata Benares, insieme con Elisabetta Boncompagni accusati dell'omicidio di Francesco Montis, morto in circostanze mai chiarite durante un viaggio in India. I due ragazzi sono entrati in carcere il 7 febbraio 2010, e da allora non sono più usciti. Condannati all'ergastolo in primo grado e in appello, dallo scorso anno sono in attesa del terzo grado di giudizio. Dopo un'infinita serie di rinvii, il loro caso è stato discusso giovedì 4 dicembre e venerdì 5, quando la Suprême Court di Nuova Delhi, il gradino più alto della giustizia indiana, si è riunita appositamente. Ora, secondo le indicazioni dei legali, la sentenza potrebbe essere emessa da 1 a 2 mesi, ma dal 18 dicembre al 5 gennaio i tribunali resteranno chiusi per le festività natalizie. Cosa le hanno detto gli avvocati? Ci hanno chiesto di stare tranquilli, perché ‘"e cose sono andate bene". Io un po' di fiducia ce l'ho, ma preferisco non farmi nessuna idea. Questo Paese è imprevedibile. Aspettiamo fiduciosi. Sì, direi che fiduciosi è la parola giusta. Ora cosa può succedere? Tre sono gli scenari che possono aprirsi. Il giudice può: accogliere il ricorso e ritenere Tomaso ed Elisabetta non colpevoli; chiedere un supplemento d'indagine; respingere il ricorso e confermare l'ergastolo. In quest'ultimo caso, verrebbe applicata una convenzione che permetterebbe ai ragazzi di venire a scontare la pena in Italia. È una convezione che i due Stati hanno firmato di recente, dopo che era rimasta in stand-by per moltissimo tempo. Poi, il caso dei marò ha accelerato le procedure. È pronta a ripartire? Pochi giorni fa abbiamo rinnovato i visti, scadevano i primi di gennaio. Se succede qualcosa domani, parto. Di valigie non ne ho bisogno, in India ho i miei vestiti indiani. Se invece, prima del 18 dicembre non succede nulla, partirò dopo l'Epifania prima e aspetterò la sentenza in India. Quando è in India dove vive? Quando sono a Delhi sto in una guest house: ci vado da 5 anni, ormai siamo amici. A Varanasi, invece, i primi tempi stavo in albergo, oggi mi ospita un amico veneziano. È un professore di hindi a Cà Foscari, che ha una scuola anche lì. Dà lezioni private, in quella casa c'è un grande via vai di giovani: da 3 anni sono ospite di questo benefattore. Ha conosciuto Tomaso, spesso lo va a trovare. Se dovessi stare in albergo, sarebbe tragico: invece, stando da lui, il tempo passa. Studio hindi, partecipo alla vita della comunità. Come si rapporta al popolo indiano? Gli indiani sono la prima vittima della mala giustizia del loro Stato. Non li odio, assolutamente. Anzi: in Italia mi sento italiana, in India indiana. È l'unico modo per sopravvivere, sennò ci faremmo del male. E Tomaso? È sempre lui il primo a darci la forza nei momenti difficili. Il prossimo febbraio saranno 5 anni che è in carcere: in tutto questo tempo mai una volta si è lamentato per essere stanco, triste o depresso. Non mi ha mai detto: "Mamma, portami via". Quando lo vado a trovare, i primi 5 minuti parliamo della vicenda giudiziaria. Poi, caffè, sigaretta e tante chiacchiere. Gli racconto tutto quello che succede in Italia e commentiamo insieme. Lui è tranquillissimo. Fisicamente sta bene: si è adattato a questa vita. Ogni tanto mi chiedo come ci sia riuscito. Quando vi vedete? Devo dire che il direttore del carcere è molto comprensivo: posso andarci quando voglio. Preferisco andarci la domenica, perché le visite durano un po' di più, considerato che c'è molta più gente degli altri giorni. Alla fine dipende dalle guardie: ci sono alcune che mettono fretta, altre sono un po' più accondiscendenti. Capita che le visite durino anche 3 ore, 3 ore e mezza. E quando lei non è là? In quel caso, non abbiamo nessun mezzo di comunicazione. Di norma sono previste 2 telefonate al mese, ma nel carcere di Varanasi questa regola non c'è. Così, ci siamo inventati un modo, che io e Tomaso chiamiamo ‘posta express': ci mandiamo delle lettere attraverso una persona del posto che, non a titolo gratuito, si presta al carteggio. Poi, una volta al mese, mandiamo a questo signore - tramite un corriere - un pacco con libri e giornali, e lui glielo fa avere. Come ho detto, capita che questo nostro amico insegnante vada a trovarlo, gli porta un mio messaggio e poi mi racconta cosa si sono detti. Rimprovera qualcosa allo Stato italiano? Tomaso è entrato nel carcere di Varanasi il 7 febbraio 2010. Dall'Italia, abbiamo subito cercato un contatto con la Farnesina. In ambasciata abbiamo sempre trovato persone molto umane: ma nei primi 2 anni direi che la loro vicinanza è stata esclusivamente emotiva. Il che non guasta, certo, ma non è tutto. Poi, dopo la sentenza d'appello che ha confermato il primo grado, si sono resi conto che, forse, fino a quel momento avevano preso la cosa sottogamba, così hanno cominciato a supportarci anche attraverso degli avvocati. Ma ormai - e questa è la mia lettura - era troppo tardi. La diplomazia avrebbe dovuto muoversi prima. Il giorno della morte di Francesco Montis, Tomaso ed Elisabetta chiamarono due volte l'ambasciata, avevano capito che le cose non si mettevano bene: venne detto loro di non firmare né dire nulla. Mandarono alla polizia solo l'avvocato: con lui non andò nessun diplomatico. Ma in India queste cose sono importanti. Se le forze dell'ordine indiane avessero visto anche un diplomatico, avrebbero sentito la pressione dell'Italia. In fondo, sono 3 ragazzi italiani: nessun indiano coinvolto. L'Italia avrebbe dovuto mostrare tutto il suo peso, chiedendo che i diritti dei suoi 3 cittadini fossero tutelati, chiedendo un'autopsia come si deve. Invece, la prima visita di un diplomatico italiano avvenne 15 giorni dopo: una funzionaria donna a fare visita a un capo della polizia. Diciamo che, considerata la cultura indiana, quella scelta non venne particolarmente apprezzata né, tantomeno, presa in considerazione. Ecco, è questa l'unica cosa che imputo al mio Stato: non esserci stato in quei momenti, non essere stato sicuro di sé, pronto a garantire i diritti dei propri cittadini. Poi certo, Daniele Mancini, l'ambasciatore, è una persona squisita. È sempre con noi in aula, ormai è un amico. Come ha reagito la vostra famiglia? Ci siamo uniti più di prima. Ci facciamo forza a vicenda. Camilla, la sorella di Tomaso, è stata davvero bravissima: pochi mesi fa si è laureata in infermieristica a Bologna. Ce l'ha fatta, nonostante tutto. Perché in questi casi, il fratello è quello che ci rimette di più, che un po' viene "abbandonato". Io sono stata in India per lunghi periodi, pensi che 10 degli ultimi 14 mesi li ho passati là. Se ripartiamo per l'India a gennaio, vado con Camilla, alla sentenza ci raggiungerà anche mio marito. Perché non possiamo permetterci di trascurare il lavoro: siamo nel campo delle assicurazioni e dell'amministrazione condominiale. E dobbiamo andare avanti, perché avvocati e viaggi costano. Che effetto vi fa vedere quante persone si sono mobilitati per Tomaso? Gli amici di Albenga con l'associazione "Alziamo la voce", così come l'idea di Adriano Sforzi di girare "Più libero di prima", docu-film sulla storia di Tomaso, hanno un ruolo fondamentale: non fare dimenticare. La vicinanza di tutti ci dà così tanta forza. In questo modo, noi la possiamo trasmettere a lui. Quando ad Albenga esco di casa, mi fermano tutti: mi danno morale, forza, tenacia. Perché non è facile. È di pochi giorni fa la decisione della Corte Suprema di non prendere in esame le richieste dei due marò Latorre e Girone che avevano chiesto un'attenuazione della libertà vigilata. La loro vicenda vi ha portato più vantaggi o svantaggi? Né gli uni né gli altri, direi. Ma ha fatto capire all'Italia la situazione della giustizia indiana. Certo, grazie a loro la convenzione è stata firmata, ma in alcuni momenti la strana concomitanza dei due casi ci ha un po' preoccupato. Ci seguiva il loro stesso studio legale, uno studio molto serio. A settembre, la discussione del caso di Tomaso ed Elisabetta fu rinviata perché il vostro avvocato senior, Haren Rawal, non era presente in aula. Cosa successe? Dopo tutto questo tempo passato in India, un'idea me la sono fatta. Quell'avvocato è un uomo preparato, non era il tipo da arrivare in ritardo a un'udienza così importante: era nell'aula vicina e ha tardato giusto il tempo - 2 minuti - perché il nostro caso venisse rimandato. Con il senno di poi, secondo me ha voluto aiutarci: sapeva che la corte che avrebbe discusso il caso quel giorno aveva sempre seguito la vicenda dei marò, e che il giudice sarebbe andato presto in pensione. Io dico che il suo ritardo era studiato. Intendiamoci, non ho prove a riguardo. Quel giorno, comunque, mi arrabbiai moltissimo, ma me ne sono scordata in fretta. In che rapporti è la sua famiglia con quella di Elisabetta? Con i suoi genitori siamo in contatto quasi giornaliero. Infatti, ho rinnovato il visto anche per il padre. Elisabetta è figlia unica, con i genitori ha un rapporto molto particolare. Noi l'abbiamo incontrata per la prima volta in India, all'inizio di questa storia. Gli amici con cui Tomaso viveva a Londra (quando Tomaso partì per l'India, viveva a Londra, ndr) li conoscevo: c'erano anche due ragazzi sardi. Sono stati loro a presentare Francesco a mio figlio. Tomaso amava viaggiare solo, e a Natale del 2009 decise di visitare l'India. All'iniziativa, però, aderirono una decina di persone tra amici e conoscenti, che sarebbero partiti scaglionati. Tra di loro, anche Elisabetta e Francesco, allora fidanzati, che arrivarono in India intorno a Capodanno. Qualche settimana dopo, Tomaso era pronto a proseguire il viaggio da solo: voleva andare in Rajastan, ripassare da Delhi, poi Goa e infine tornare a Londra. Ma Francesco ed Elisabetta gli chiesero di andare con loro fino a Varanasi, perché Francesco non stava bene e viaggiare con Tomaso gli sarebbe stato d'aiuto. Così, arrivarono nella città sacra, e per risparmiare decisero di prendere una sola stanza d'albergo. Mio figlio non doveva nemmeno andare a Varanasi, ma accettò di fare con loro quel tragitto. Era malato Francesco? Diciamo che straviziava. Fumava 2 pacchetti di sigarette al giorno. Aveva sempre una gran tosse, ma non si curava, non riusciva a dormire, faceva fatica a respirare. Cosa è successo dopo la morte di Francesco? Gli sono state fatte due autopsie. Fotocopia - perché la seconda è in tutto e per tutto identica alla prima - e fuorilegge per due motivi: non è stata fatta alla luce del giorno, come invece è obbligatorio, e l'ha fatta un oculista, e non 3 medici come vuole la legge. Ancora: l'autopsia parla di morte per asfissia, e il medico avrebbe dovuto fermarsi lì, non aggiungere "per strangolamento". Perché? Non c'è nessun segno di strangolamento. Francesco pesava 100 chili ed era alto 1 e 90: dicono che è morto perché un oggetto duro gli è stato premuto contro il collo. Ma i muscoli del collo sono intatti, la trachea era infiammata - ma aveva sempre la tosse -, il pomo d'Adamo intatto. Da cosa si capisce che è stato strangolato? E poi: perché non hanno chiamato un vero medico legale? Perché hanno messo in piedi la farsa del triangolo amoroso? Lei si è data una risposta? No, perché non esiste. Dalle deposizioni del cameriere e del manager dell'hotel raccolte il giorno della morte di Francesco non emerge nulla. Poi, qualche tempo dopo, saltò fuori che il manager vide Francesco molto depresso, e Tomaso ed Elisabetta amoreggiare. Gli chiesero perché non l'avesse detto subito. Lui tergiversò, ma messo sotto torchio ammise: "Io non vidi con i miei occhi, me lo riferirono". Insomma, in questa storia ci sono 3 persone, di cui una morta, e un referto che parla di strangolamento. Così hanno trovato i colpevoli. È un processo kafkiano. Dicono: il movente non lo posso dimostrare, ma suppongo che… assurdo. Ma davanti a tutte queste rivelazioni, come ha potuto l'appello confermare la sentenza del primo grado? E poi, perché il manager dell'hotel avrebbe mentito? Il giudice che li condannò all'appello era alla ricerca di fama. È famoso per far condannare sempre tutti. Voleva fare carriera, voleva far parlare di sé. Ci è riuscito. Mentre il manager aveva paura di passare dei guai. L'idea che ci siamo fatti è questa: lui, il giorno della morte di Francesco chiamò il capo della polizia. Si accordarono: il capo della polizia suggerì di riversare tutta la colpa sui 2 ragazzi italiani, così a lui e al suo hotel non sarebbe successo nulla e nessuno avrebbe proseguito nelle indagini alla ricerca della verità. Ma io sono fatalista, come gli indiani: quel viaggio forse gli ha evitato cose peggiori, forse gli ha salvato la vita. Pochi giorni fa, l'ambasciatore Daniele Mancini ha fatto visita in carcere a Tomaso ed Elisabetta: "Ho voluto personalmente informarli sull'andamento del processo di appello - ha detto - e sono stato contento di averli trovati in buono spirito, nonostante che ormai siano cinque anni che si trovano in carcere". India: caso marò, Italia pronta "a qualsiasi passo" Agi, 18 dicembre 2014 Si riapre il braccio di ferro diplomatico tra Italia e India sui marò. Il governo, "deluso e irritato" dalla decisione della Corte Suprema di New Delhi che ha respinto le richieste di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ha richiamato l'ambasciatore in India, Daniele Mancini, per consultazioni. Lo ha reso noto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, durante un'audizione in Parlamento davanti alle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, insieme alla collega della Difesa Roberta Pinotti. I due ministri hanno affermato che l'Italia è pronta a "qualsiasi passo" per risolvere la situazione e il richiamo dell'ambasciatore è solo la prima mossa, per concordare quelle successive. La prossima, ha anticipato Gentiloni, potrebbe essere l'apertura di quell'arbitrato internazionale per cui tutto è pronto, ma che era stato "congelato" intravedendo, nei rapporti con il nuovo governo indiano, la possibilità di una soluzione diplomatica con New Delhi. Pinotti ha ribadito "le attuali condizioni di Massimiliano Latorre non possono consentire la sua partenza dall'Italia, dove era rientrato dall'India a metà settembre in seguito a un ictus. "Non è né un atto di sfida né una volontà di scontro, ma una serena e ferma presa d'atto di una situazione", ha spiegato Pinotti. Il governo italiano, ha assicurato, considera "una priorità" il pieno recupero fisico di Latorre e non sarà fatto "nulla per mettere a rischio le sue condizioni". Gentiloni ha aggiunto che anche la situazione dell'altro fuciliere detenuto in India, Girone, "motivo di angosciosa preoccupazione" in Italia, "anche nel suo caso dal punto di vista delle ripercussioni mediche" di questo caso. Il titolare della Farnesina ha precisato che il richiamo dell'ambasciatore per consultazioni "non è la rottura dei rapporti diplomatici con un Paese, perché abbiamo bisogno di mantenere dei contatti diplomatici". "Il richiamo", ha spiegato il titolare della Farnesina, "è l'espressione di un malessere e la necessità di concordare alcuni passi con il proprio rappresentante diplomatico, che poi sono i passi di cui stiamo parlando". Sta intanto registrando consensi la proposta odierna del presidente della Commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, che ha chiesto al governo di "istituire una cabina di regia che includa rappresentanti di opposizione per coordinare le iniziative sui Marò". La proposta è "ragionevole", ha commentato Gentiloni, mentre Pinotti l'ha definita "seria". "Sicuramente - ha assicurato la titolare della Difesa - troveremo le modalità affinché possa essere il più costruttiva possibile per una soluzione che tutti auspichiamo". Pakistan: torna la pena capitale per terrorismo, 8.000 i detenuti nel "braccio della morte" L'Huffington Post, 18 dicembre 2014 Torna la pena di morte in Pakistan per i casi di terrorismo. È questa la prima reazione ufficiale del governo di Islamabad alla strage di bambini compiuta dai talebani nella scuola pubblica militare di Peshawar. "Il primo ministro ha approvato la revoca della moratoria delle esecuzioni capitali per i casi di terrorismo", ha detto un funzionario dell'ufficio di Nawaz Sharif. La moratoria è in vigore dal 2008. Solo una persona è stata giustiziata da allora: un militare condannato dalla corte marziale e impiccato nel novembre 2012. Amnesty International ha stimato in oltre 8.000 i detenuti nel braccio della morte. I talebani pakistani, intanto, minacciano nuovi attentati come "vendetta" per le operazioni dell'esercito nel nord-ovest, esortando i civili a evitare scuole e altre sedi militari. La minaccia è contenuta in un comunicato inviato a giornalisti all'indomani della strage. Nel documento di quattro pagine il gruppo armato estremista Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP) chiede ai civili e ai loro bambini di non frequentare scuole e istituzioni gestite dai militari. Oggi tutto il Paese piange i 142 morti della strage più terribile della storia del Pakistan. Tra quei morti ci sono almeno 132 bambini. I feriti sono oltre 120, decine quelli in condizioni gravi. Human Rights Watch: pena morte è scelta populista, ma non soluzione Revocare la moratoria sulla pena di morte in vigore in Pakistan dal 2008 è una "mossa populista, ma non una soluzione" alla minaccia terroristica. È quanto scrive su Twitter il direttore di Human Rights Watch (Hrw) Peter Bouckaert a commento della decisione del primo ministro pakistano Nawaz Sharif di reintrodurre la pena capitale per i reati terroristici all'indomani del massacro compiuto dai Talebani nella scuola pubblica dell'esercito a Peshawar nel quale hanno perso la vita 144 persone, tra cui 132 bambini. Era stata proprio Hrw nel 2008 a chiedere all'allora governo pakistano di Yusuf Raza Gilani di introdurre una moratoria sulle esecuzioni, mantenendola fino all'abolizione della pena di morte per via parlamentare. Attualmente sono circa ottomila i detenuti nel braccio della morte in Pakistan, secondo dati di Amnesty International. Romania: il premier Victor Ponta; diremo quel che sappiamo su carceri segrete della Cia Askanews, 18 dicembre 2014 Il primo ministro rumeno Victor Ponta ha annunciato che Bucarest fornirà tutti i dettagli a sua disposizione sulle prigioni segrete della Cia che furono ospitate nel paese, anche se il governo ha detto già altre volte di non avere "prove" dell'esistenza di tali prigioni. "Il governo sarà assolutamente aperto a dare tutte le informazioni che possa trovare negli archivi per aiutare la procura, il parlamento, i media per conoscere che qualcosa è avvenuto o no" ha detto Ponta. Bucarest è stata accusata d'aver ospitata una prigione segreta della Cia, dove i sospettati di terrorismo considerati collegati all'11 settembre. Ma Bucarest ha sempre negato di averla ospitata. "Da quando ho assunto sono al governo (2012), non ho mai avuto accesso ad alcuna informazione che confermi (la presenza della prigione Cia)" ha detto ancora Ponta, ammettendo comunque che esiste un "obbligo d'informare la pubblica opinione di tutto quel che conosciamo del passato". Uruguay: il presidente José Mujica; gli ex detenuti di Guantánamo non sono terroristi Ansa, 18 dicembre 2014 Il presidente uruguaiano, José Mujica, ha presentato alla stampa una lettera del governo americano nella quale si certifica che i sei ex detenuti nel carcere della base militare di Guantánamo arrivati a Montevideo lo scorso 6 dicembre non sono terroristi, così come un messaggio inviato dagli ex detenuti nel quale ringraziano le autorità del paese sudamericano per aver accettato di accoglierli. In una conferenza stampa, Mujica ha mostrato una lettera di Clifford Sloan, l'alto funzionario incaricato da Barack Obama per occuparsi di Guantánamo, nella quale afferma che "non esiste alcuna informazione che dimostri che queste persone sono state coinvolte o hanno reso possibili attività terroriste contro gli Stati Uniti, i suoi partner e i suoi alleati". Il presidente ha mostrato una seconda missiva, firmata dai 6 ex detenuti, nella quale raccontano che sebbene "durante il viaggio da Guantánamo a Uruguay eravamo tristi, perché volevamo tornare ai nostri paesi e ritrovarci con le nostre famiglie", dopo lo sbarco a Montevideo "quando abbiamo visto come ci hanno accolto il nostro sentimento è cambiato". "Quando ci hanno tolto le catene e il cappuccio e siamo scesi dall'aereo abbiamo visto tanti visi sorridenti, e quando ci hanno salutato abbracciandoci abbiamo sentito che le nostre famiglie, i nostri padri e i nostri fratelli ci abbracciavano e tutta la sofferenza patita durante il volo è come se non fosse mai esistita, il dolore se n'era andato", aggiunge la lettera. Cuba: rilasciato il tecnico americano Alan Gross, dopo cinque anni di detenzione Adnkronos, 18 dicembre 2014 È stato rilasciato dopo cinque anni di detenzione a Cuba il tecnico americano Alan Gross, arrestato nel 2009 mentre lavorava per conto di Usa-Aid, la cooperazione statunitense, ad un progetto per facilitare l'accesso ad Internet nelle piccole comunità del paese. Secondo fonti dell'amministrazione Gross è già in volo verso gli Stati Uniti a bordo di un aereo del governo americano. Le condizioni fisiche e psicologiche del 65enne ebreo americano erano andate deteriorandosi negli ultimi tempi. Nel mese di aprile scorso Gross aveva fatto uno sciopero della fame di 9 giorni e a maggio, dopo aver compiuto il suo 65esimo compleanno in carcere, aveva annunciato ai suoi visitatori che non avrebbe resistito chiuso dietro le sbarre fino al giorno del suo successivo compleanno. Il mese successivo la moglie Judy Gross e il suo legale avevano lanciato l'allarme sulle condizioni del detenuto: l'avvocato Scott Gilbert aveva detto di temere che il suo assistito volesse togliersi la vita.