L'amore entra dentro l'Assassino dei Sogni. Sesta parte di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2014 Testimonianza di un Uomo Ombra al seminario di Ristretti Orizzonti sugli affetti in carcere del primo dicembre 2014. "Sarà l'aria della primavera, ma oggi pensavo alla mia vita per tutte le cose che non sono accadute e che non accadranno mai, perché un uomo ombra può solo sopravvivere, niente altro". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Mia figlia si alza dalla sedia. Io rimango seduto a guardarla. Per un attimo non riesco a pensare. E a muovermi. La vedo avvicinarsi al microfono. È piena di vita. Piena di energie. E di determinazione. Ha gli occhi che luccicano. Sembra una diciottenne. Poi inizia a parlare. Ciao a tutti io sono Barbara la figlia di Carmelo Musumeci. Ed io l’ascolto. Beh mio papà è stato sempre molto ingombrante. Incomincio a pensare che tutti hanno bisogno d’amore. E credo che lo sia tuttora anche qui, anche in redazione, dovunque. E forse i cattivi ancora di più. Non mi ricordo la prima volta che sono entrata in carcere però sicuramente mio fratello, che ha due anni in meno di me, penso che abbia battuto tutti i record perché a una settimana mia mamma l’aveva già portato ai colloqui. Penso che fin da piccolo non ho mai avuto una vera e propria famiglia. Anche io come le altre ragazze ho una esperienza italiana a 360° dei vari carceri e dovunque vai è un mondo nuovo in tutto. Sono sempre stato solo al mondo. Soprattutto io rimango ancora colpita dal fatto perché in certi carceri entrino certe cose da mangiare altre no, perché in un posto è pericoloso e in un altro no, comunque ci si abitua anche a non farsi certe domande. E mi viene in mente che non ho mai avuto un vero bacio di una madre o la carezza di un padre. A differenza delle altre ragazze, io devo dire che non mi vergogno di mio padre, non dico che le altre si vergognano, ma non mi sono mai vergognata di parlarne. Forse non ho neppure mai veramente sentito la mancanza perché ho imparato a cavarmela da solo già fin da quando ero nella pancia di mia madre. Tutte le persone a me vicine sanno di mio padre, anzi noi cerchiamo sempre di coinvolgerlo, ad esempio se facciamo una grigliata come a ferragosto e che ci sono i miei amici, io gli dico sempre di chiamare e poi gli passo un po’ tutti. Penso che per desiderare l’amore lo devi prima conoscere. Oppure se facciamo un viaggio gli mandiamo le cartoline collettive. Io l’ho conosciuto solo quando ho incontrata la mia compagna. Cerco un po’ di fargli vivere la vita mia. E quando sono nati i miei figli. Sicuramente è difficile riuscire a instaurare un rapporto con una persona che puoi vedere poco e soprattutto l’unico contatto magari è la telefonata o le lettere. Prima non sapevo neppure cosa si provasse a sentirsi soli. Io sono fortunata perché lui non mi ha mai fatto mancare niente. Probabilmente perché ero nato solo. Io ho il padre che vorrei e non lo cambierei con nessuno neppure se fosse fuori. E ci avevo fatto l’abitudine. Sicuramente quello che ho avuto io penso che sia molto di più di quello che vedo fuori. Adesso invece che ho imparato ad amare e a essere amato, l’Assassino dei Sogni mi proibisce di essere un uomo e un buon padre. Mio padre come persona, i valori che mi ha trasmesso lui io faccio tuttora fatica a trovarli nelle persone fuori. Ad un tratto smetto di pensare perché vedo mia figlia che s’interrompe. Si commuove. Mi alzo. Le vado vicino per sostenerla. E mi commuovo anch’io. Lei si volta. Mi vede. Mi abbraccia. Poi si gira di nuovo. Fa un respiro profondo. Ne fa ancora un altro per prendere tempo. Scroscia un applauso d’incoraggiamento. E lei prosegue. Nonostante tutto, quindi. La prendo per mano. Torniamo a sederci. E la lascio consolare un po’ dal suo fidanzato. Giusto qualche secondo. Non di più, perché quel vigliacco del mio cuore è tornato e la vuole tutta per sé. Intanto guardo il mio angelo. E lei mi sorride per farmi coraggio come sanno fare solo gli angeli. Nel frattempo Ornella ha ripreso la parola. E al discorso di mia figlia aggiunge. È giusto che Barbara dica mio padre per me è la persona più importante, la persona che mi ha dato molto, perché io credo che in questi anni, Carmelo per esempio, pur con tutte le difficoltà abbia costruito un rapporto profondo con i suoi figli. Ad un tratto vedo scappare di nuovo il mio cuore. E per curiosità mi volto per vedere dove cazzo sta andando. E lo vedo che va ad abbracciare Alessandra Celletti, fata bionda dagli occhi azzurri, famosa pianista e compositrice internazionale. È venuta da Roma per stare qualche ora con me e per conoscere mia figlia. È arrivata in ritardo, ma l’aspettavo. Sapevo che arrivava ancora prima che partisse. E’ la sorella che non ho mai avuto. Mi alzo. E vado ad abbracciarla con affetto. E mi vengono in mente di nuovo le sue parole che aveva detto durante il Convegno “Senza l’ergastolo. Per una società non vendicativa” che s’era svolto il 6 giugno 2014 in questo carcere, quando ha suonato e cantato per gli uomini ombra. E aveva esordito con queste parole: Volevo dire che se oggi sono qui è grazie al fatto che poco tempo fa ho conosciuto casualmente la storia di Carmelo che è qui. E allora ci siamo scritti qualche lettera. E mi ha mandato un suo libro molto bello che s’intitola “Zanna Blu” e anche qualche poesia inedita. Ed io ho pensato che non avrei mai potuto mettere una musica a queste poesie perché sono veramente pezzi troppo tristi per me. Ed io non ho un carattere così triste. Però qualche giorno fa prima di venire qui mi sono trovata questa poesia e mi è venuta questa melodia. Poi con la sua bellissima voce aveva cantato i miei versi: Buio pesto/vento di solitudine/tonfi nel cuore/vivo fra morti./I ricordi svegliano l’anima/per miracolo o magia/portano lontano/vivo fra i morti/solo e stanco./Solo e stanco/aiutandomi a vivere/cammino in fondo all’anima./Solo e stanco/aiutandomi a vivere/cammino in fondo all’anima vivo fra i morti./Cammino in fondo all’anima./Povero lupo infelice/con il cuore da lupo/trovo la mia tristezza/vivo fra i morti./Come un lupo infelice/con il cuore da lupo/trovo la mia tristezza/vivo fra i morti./Come un lupo infelice/con il cuore da lupo/felice nella tristezza. Lascio Alessandra con Nadia Bizzotto della Comunità Papa Giovanni, il mio "Diavolo Custode". E torno a sedermi accanto a mia figlia. E noto che nel frattempo il suo fidanzato la stava tenendo per mano. E scherzando, mica tanto, gli do una manata alla sua. E afferro io quella di mia figlia. Loro due ridono. E sorrido anch'io. Continua... Giustizia: il diritto e i rischi degli interventi con la logica dell'emergenza di Massimo Adinolfi Il Mattino, 13 dicembre 2014 Le misure prese ieri dal Consiglio dei Ministri rispondono a un intento lodevole: di fronte al dilagare della corruzione, che continua a vedere l'Italia agli ultimi posti nelle classifiche internazionali, e dopo gli ultimi, gravi episodi emersi dal "mondo di mezzo" scoperchiato dalla Procura della Repubblica di Roma, mostrare la massima determinazione nel contrasto del fenomeno. La linea dura significa perciò: pene più severe, tempi di prescrizione più lunghi, aggressione ai patrimoni dei corrotti. Giustamente, il governo ha anche evitato di ricorrere a un decreto in una materia, quella penale, che non lo consente, e ha piuttosto auspicato una corsia preferenziale in Parlamento per il disegno di legge approvato ieri. L'opinione pubblica si attendeva una risposta ferma, e la risposta ferma c'è stata. Ma sarebbe un'affermazione avventata dire che la corruzione dipende da pene troppo lievi, o dalla possibilità di sottrarsi al giudizio grazie alla prescrizione, o infine dalla speranza di tenersi comunque il malloppo, anche se presi con le mani nel sacco. Il premier ha voluto sottolineare il fatto che con i provvedimenti di ieri è venuta a conclusione una discussione che il Consiglio dei Ministri ha avviato già ad agosto: si tratterebbe quindi di decisioni ben ponderate; ma il timore che ancora una volta si assecondi l'emergenza, un po' storditi dal clamore degli eventi, è grande. Perché timore? Perché il diritto penale non ha molto da guadagnare - e anzi ha molto da perdere - da interventi legislativi dettati non dalla logica giuridica, ma quasi dalla necessità politica del momento. Si prenda ad esempio il tema della prescrizione: per il cittadino, è semplicemente intollerabile che un imputato vada assolto per il solo fatto che il processo non ha potuto concludersi in tempo. Eppure, l'istituto della prescrizione resta legato a un principio di civiltà giuridica: non si può rimanere sotto processo per un tempo indefinito. Ma cosa resta del principio, se la prescrizione si allunga o si accorcia a fisarmonica, secondo gli umori dell'opinione pubblica ora più, ora meno allarmata? Stessa preoccupazione va espressa per l'intervento sui patrimoni: si vedrà nel dettaglio, ma per quanto sia moralmente comprensibile l'esigenza di sottrarre il maltolto alle grinfie dei corrotti, resta che affidare la confisca di beni non ad un giudicato, ma ad un'iniziativa della magistratura inquirente, incrina l'idea liberale dell'intangibilità della proprietà, che nel nostro ordinamento viene sacrificata solo in casi speciali, come quelli legati alla legislazione antimafia. E però non è una buona cosa estendere ancora i casi di eccezione: a furia di eccezioni, non si capisce più cosa rimane di normale nell'ordinamento complessivo. Quanto alle pene, Renzi ha detto nei giorni scorsi che ci sono pochi corrotti in carcere a scontare la pena: troppo pochi. Ora, se in questo modo il premier intende denunciare quello che una volta si diceva essere il carattere di classe della popolazione carceraria, fatta quasi sempre di poveri cristi e quasi mai di alti papaveri e colletti bianchi, ha indubbiamente ragione: i numeri parlano chiaro. Ma se pensa che basti alzare le pene per i corrotti per portarne in carcere di più, si sbaglia, purtroppo. Noi abbiamo infatti ben altri problemi, in questo campo. Ne abbiamo uno con la certezza della pena, e ce l'abbiamo dai tempi di Beccaria, e un altro con la sua sempre meno netta tassatività: troppe volte quello che è reato per l'accusa evapora e si fa sfuggente nelle mani del giudice, a causa della vaghezza con cui sono definite alcune fattispecie di reato, buone per intentare un'azione ma non purtroppo per concluderla. Mettere mano a questi aspetti della pena è di gran lunga più importante che intervenire sulla sua più o meno spiccata severità. Pur apprezzando allora gli sforzi del governo, che vuole trasmettere giustamente all'opinione pubblica la sensazione che non si intende più guardare da un'altra parte, bisogna tenere viva una preoccupazione: che ancora una volta si confidi solo in una certa forza "declamatoria" del diritto penale, senza intervenire davvero sul tessuto civile del paese: sempre più slabbrato, strappato, inquinato. In quel tessuto c'è il politico corrotto, ma c'è anche il pubblico ufficiale infedele, o il dirigente amministrativo che nessuno smuove dalla sua sedia da decenni. Zone molli e grigie, in cui è difficile entrare, ma in cui davvero, se questo governo vuol fare le riforme, bisognerebbe mettere mano. Giustizia: stretta del governo sulla corruzione, non passano gli sconti per chi collabora di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 13 dicembre 2014 "Cari corrotti: non solo vi becchiamo ma quando vi becchiamo ci dovete dare tutti i soldi fino all'ultimo centesimo". Lo ha annunciato così il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il provvedimento anticorruzione varato ieri. Col tono entusiasta dell'impegno mantenuto. Ma la norma in Consiglio dei ministri ha dovuto tenere conto della frenata del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. Il testo è entrato in due versioni ed è uscito in una terza versione molto più blanda che prevede pene più alte per la corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio: passa da 4 a 6 anni quella minima, da 8 a 10 la massima. Ma non per la corruzione in atti giudiziari (che diventa così un reato meno grave di quella semplice). E nemmeno per la concussione. La prescrizione si allunga per l'automatismo previsto dall'innalzamento della pena minima, che riguarderà i futuri condannati. E le norme non entreranno in vigore da subito. "Non si interviene in materia penale per decreto", si è giustificato il premier Renzi, dicendosi "disponibile" a mettere la fiducia sul disegno di legge. Sparita la norma premiale. Nessuno sconto ai tangentisti che collaborano. È la restituzione del "malloppo", come lo ha definito il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il punto centrale della norma, ancora in fase di stesura. E, secondo le indiscrezioni, dovrebbe arrivare sotto forma di emendamento a quel disegno di legge annunciato dopo il Consiglio dei ministri del 29 agosto, ma ancora non presentato in Parlamento, che, tra altre norme incluse quelle sulle intercettazioni, prevede un congelamento dei termini di prescrizione di 2 anni dopo la prima condanna e di 1 anno dopo l'appello. Si potrà accedere al patteggiamento solo dopo la restituzione del maltolto. E lo sconto, dato l'innalzamento della pena minima, non concederà a nessuno di scampare al carcere. Sarà più facile anche la confisca dei beni, che verrà estesa, in caso di morte del corrotto, anche ai beni degli eredi. "Noi pensiamo che la corruzione non si combatta solo con le norme. È una grande, grande, grande, sfida culturale per il Paese" ha detto Renzi, quasi a prevenire polemiche. E ha aggiunto: "Era nostro dovere tentare di modificare le regole. Finiscono i tempi delle uscite gratis dalla prigione". Ora però, ha aggiunto: "Abbiamo detto ad avvocati scordatevi la prescrizione come carta difensiva. Ma contemporaneamente diciamo ai magistrati è fondamentale che si arrivi alla sentenza il prima possibile". Al pesante giudizio del New York Times, sul fatto che in Italia non ci sia un angolo senza corruzione Renzi ha replicato: "Non sono d'accordo. L'Italia ha le statistiche sulla corruzione fra le più alte. Non ci si può stupire se vengono fuori dei fenomeni di corruzione. Personalmente quando vengono fuori sono dispiaciuto dal punto di vista umano ma se escono vicende di corruzione vuol dire che il contrasto sta funzionando. Nella stragrande maggioranza l'Italia è fatta di persone oneste". Plaude al provvedimento il Pd con Walter Verini: "Una risposta importante al dilagare della corruzione e della criminalità economica". Ma il Movimento 5 Stelle attacca: "Il tanto sbandierato Consiglio dei ministri ha varato un insieme di norme disordinate e inefficaci. La montagna ha partorito il più classico dei topolini". Giustizia: nel ddl manca un intervento sui reati contro la pubblica amministrazione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 dicembre 2014 C'erano due ipotesi per il provvedimento anticorruzione voluto dal premier dopo il clamore suscitato dall'inchiesta su "Mafia capitale", che ha sollevato il coperchio su corruzioni e malversazione nell'amministrazione di Roma e non solo. Entrambe predisposte dagli uffici del ministro della Giustizia Orlando. Una più radicale, con aumenti di pena nel minimo e nel massimo per la corruzione ma anche per quelli correlati, dalla concussione alla corruzione in atti giudiziari, passando per l'induzione indebita a dare o promettere utilità; l'altra un po' più soft, con l'innalzamento "completo" solo per la corruzione e nel minimo per l'induzione indebita, lasciando inalterate le pene attuali per i reati simili. Doveva scegliere Renzi, al suo rientro a palazzo Chigi, dopo il viaggio in Turchia. Ha prevalso una "terza via", al ribasso anche rispetto all'ipotesi più blanda: niente disegno di legge autonomo, ma una sorta di maxi-emendamento a quello già annunciato a fine agosto in materia penale. Che contiene l'aumento di pena solo per la corruzione, senza toccare il resto. Il che significa - per quel reato soltanto - aumentare la base della prescrizione (arriva a dieci anni), oltre a termini di sospensione più ampi, che potranno arrivare fino ad altri cinque anni. In più è stata sbloccata (insieme al resto della riforma del processo) l'idea dell'intervento generale già annunciata dal ministro Orlando: sospensione dei termini per due anni dopo la condanna di primo grado e di uno dopo quella d'appello. Una scelta che serve a tradurre in pratica gli slogan lanciati dal premier in video-messaggio quattro giorni fa, fermandosi però al "minimo sindacale". Prescrizione un po' più lunga, e norme che dovrebbero rendere più efficaci le confische dei beni, oltre che condizionare il patteggiamento "alla restituzione completa del maltolto", come aveva annunciato Renzi: "sennò uno ruba, patteggia e trova la carta "uscire gratis di prigione" come al Monopoli", aveva detto. Solo che il codice penale non è un gioco di società, né è fatto per essere modificato in fretta e furia al fine di mettere in pratica una battuta. Parificare la a quella della concussione, per esempio, e dunque mettere sullo stesso piano (nell'ipotesi della condanna più leggera) l'accordo illecito tra privati cittadini e la costrizione da parte di un pubblico ufficiale, non pare una buona idea. Non a caso le pene base, attualmente, sono diverse. E più in generale, se c'è un gruppo di reati collegati tra loro (tanto che la numerazione degli articoli diventa bis, ter, quater, eccetera), toccarne solo uno può creare qualche problema. Tra le ipotesi entrate a palazzo Chigi ce n'era una - contenuta in entrambi gli schemi - che prevedeva sconti di pena per corrotti o corruttori che avessero deciso di collaborare con gli inquirenti, sollecitata con forza dai magistrati e dall'Autorità anticorruzione. È rimasta sui fogli dei tecnici ministeriali, senza entrare nel disegno di legge. "Ma quella approvata è una buona base di partenza, visto che da vent'anni non si riusciva a fare niente - sostiene David Ermini, responsabile Giustizia del Pd. Naturalmente va affinata, soprattutto per introdurre l'incentivo alla collaborazione, e lo faremo in Parlamento". Ma tra Camera e Senato i problemi interni alla maggioranza provenienti soprattutto dal centrodestra potrebbero addirittura aumentare per i democratici. Com'era prevedibile, la giustizia penale s'è dimostrata un terreno sul quale è difficile mettersi d'accordo con il Ncd, partito che deve vedersela con la concorrenza elettorale di Forza Italia, particolarmente agguerrita su questo tema. "È importante che ci sia una risposta da parte del governo in termini tempestivi ed equilibrati", afferma il viceministro della Giustizia Enrico Costa, esponente del partito di Alfano, che pure rimanda alla discussione parlamentare. "Non mi pare una riforma epocale - commenta il presidente dell'Associazione magistrati Sabelli -. Forse è l'inizio di un cammino che però dovrebbe essere molto più approfondito e sistematico". Giustizia: più carcere per i corrotti… ma non vale per l'inchiesta "Mafia Capitale" di Marco Palombi Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2014 Pene più dure, prescrizione più lunga e confische più facili, ma il ministro ci spiega: "queste norme non saranno applicabili all'inchiesta romana". Pene più severe, prescrizione aumentata, misure più efficaci per recuperare il maltolto. Questi i contenuti aggiuntivi al ddl Orlando sulla criminalità economica - che è all'esame del Senato da fine novembre - che il governo ha approvato ieri sera in un apposito Consiglio dei ministri. Si potrebbe dire che forse il governo poteva pensarci prima, e effettivamente una settimana fa le stesse norme che il Guardasigilli ha fatto passare ieri erano state bloccate dal no di Angelino Alfano, però adesso c'è di mezzo l'inchiesta su Mafia Capitale e quindi non si può dare l'idea di perdere tempo: "In Consiglio c'è stata piena condivisione", ha potuto dire Renzi ieri sera. Missione compiuta, si dirà, ma solo a livello mediatico: le nuove norme infatti, vendute come reazione a Mafia Capitale, non saranno comunque applicabili ai reati commessi prima dell'entrata in vigore. Lo spiega al Fatto Quotidiano lo stesso Guardasigilli, Andrea Orlando: "No, non saranno applicabili ai reati di ‘Mafia Capitalè se non forse per alcuni aspetti patrimoniali". L'articolo 25 della Costituzione, d'altronde, è assai chiaro: "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La questione dei tempi, dunque, è pura propaganda: il governo approva in Consiglio dei ministri proposte da inviare in Senato una settimana dopo l'esplosione dell'inchiesta sul "Mondo di mezzo" di Massimo Carminati e soci. Queste norme non hanno, però, alcuna speranza di influire sull'inchiesta in corso a Roma e peraltro arrivano - ironia della sorte - proprio a Palazzo Madama, dove un ddl anti-corruzione giace abbandonato da un anno e mezzo: porta la firma del presidente del Senato Pietro Grasso e contiene già molti dei contenuti approvati ieri a palazzo Chigi. Il senatore Pd Felice Casson l'ha detto chiaramente: "Bastava che il governo desse via libera al disegno di legge fermo in commissione Giustizia al Senato: faremmo pure più in fretta". Ma il punto non è fare in fretta - visti i probabili, lunghissimi dibattiti da azzeccagarbugli che inizieranno ora alle Camere - ma dare l'impressione di reagire allo scandalo romano. Veniamo ai contenuti, che - dal poco che si è capito ieri sera - sono comunque un passo avanti rispetto a oggi. Si tratta, in sostanza, di aumentare le pene per la "corruzione propria"(restano fuori quella giudiziaria e l'induzione illecita): la minima passa da 4 a sei anni, la massima da 8 a dieci, il che fa conseguentemente aumentare anche i tempi di prescrizione. Sul punto, però, c'è anche un altro intervento: la prescrizione verrà bloccata automaticamente per due anni dopo il primo grado e per uno dopo l'appello. Meno chiaro il meccanismo sul recupero del "bottino", anche se il premier ha sostenuto che si tratta di un modo per rendere più facile la confisca dei beni e che sarà applicabile anche agli eredi. Forse è colpa del viaggio di due giorni in Turchia da cui è atterrato giusto ieri pomeriggio, ma il premier sembra più confuso del solito: vorrebbe dire che è tutto a posto, eppure non può rinunciare a attaccare il vecchio sistema corrotto. La rottamazione è uno sport logorante, si sa. E infatti prima dice che "la lotta alla corruzione non si fa con le norme, è una grande questione educativa e culturale", poi però magnifica l'aumento delle pene "perché ci sono patteggiamenti che consentono di non andare in carcere e tenersi pure una parte dei soldi" (il riferimento è alla fine in gloria delle inchieste su Expo e Mose, in cui quasi tutti hanno patteggiato pene basse e restituito cifre decisamente contenute). In realtà poi Orlando spiegherà che con le nuove pene "il patteggiamento non esclude la pena detentiva", ma non la comporta automaticamente. Finita? Macché. Il Renzi di ieri era un pendolo in incessante movimento tra l'italian pride e il vigore giustizialista: prima cita Transparency International e i suoi pessimi dati sull'inflazione percepita, poi però dice che "noi non siamo d'accordo con chi dice che l'Italia è piena di corruzione". Pure lo slogan gli esce così così: ripete un paio di volte una cosa tipo "pagare fino all'ultimo giorno, fino all'ultimo centesimo" e poi s'incarta sul non entusiasmante autoritratto "siamo il governo che ha l'ambizione di fare di più contro la corruzione". E ancora: don Ciotti dice che l'auto-riciclaggio è un compromesso al ribasso? "Non è così, ma comunque almeno noi l'abbiamo messo l'auto-riciclaggio. C'è chi fa le cose e chi...", poi siccome di don Ciotti non può dire che chiacchiera e basta cambia discorso. La chiusura è "un appello ai magistrati" - in cui include pure il Guardasigilli bordeggiando l'incidente costituzionale - "a fare rapidamente i processi per avere le sentenze il prima possibile". Così, per curiosità, per vedere se "Mafia Capitale" può essere smantellata con le vecchie leggi. Lui, intanto, ha fatto il suo spot. Giustizia: nella testa delle madri che uccidono i loro figli di Umberto Galimberti La Repubblica, 13 dicembre 2014 Quando una mamma uccide un figlio genera la riprovazione generale senza riserve. Se poi si ostina a negare il fatto, nonostante le prove contrarie nelle mani degli inquirenti, la riprovazione non ha più attenuanti. Qui non vogliamo discutere se Veronica Panarello ha ucciso o meno il suo piccolo Loris, ma capire, con l'aiuto della psicoanalisi, perché fatti del genere possono accadere, e perché, una volta accaduti, ci si ostina a negarli. La psicoanalisi non è un tribunale della verità, ma può aiutarci a comprendere quello che per il senso comune e per la nostra ragione è incomprensibile. A questo proposito tre sono le considerazioni che ci possono aiutare a capire. 1. In ciascuno di noi, ma più marcatamente nella donna in quanto depositaria della specie, ci sono due soggettività: una che dice "Io" con i suoi progetti, i suoi ideali, i suoi sogni, le sue aspirazioni, l'altra che ci prevede come semplici "funzionari della specie". Le due soggettività sono in conflitto, in quanto le esigenze della specie non coincidono con quelle dell'Io. Per questo l'amore materno non è mai disgiunto dall'odio materno, dal momento che il figlio vive e si nutre del sacrificio della madre che, dal concepimento in poi, deve assistere alla trasformazione del suo corpo, al trauma della nascita e, successivamente, al sacrificio del suo tempo, del suo spazio, del suo sonno, del suo lavoro, della sua carriera, delle sue relazioni, dei suoi affetti e talvolta anche dei suoi amori, per la totale dedizione al figlio. Questa ambivalenza di amore e odio, che il mito dell'amore materno stenta a riconoscere, chiede una soluzione che, in particolari condizioni psichiche, può generare il più terribile degli eventi. Anche il linguaggio ne è testimone. Quante volte abbiamo sentito dire dalle madri al proprio bambino "ti ammazzerei". 2. Tra le sofferenze psichiche più diffuse, Freud annovera il senso di colpa che, nel nostro caso, Veronica può avere inconsciamente interiorizzato in ambito familiare per i difficili rapporti, per non dire ostilità, con la madre e con la sorella. A questo proposito Freud scrive in un saggio del 1922 che ha per titolo L'Io e l'Es: "È stata per noi una sorpresa lo scoprire che un'accentuazione di questo senso di colpa inconscio può trasformare gli uomini in delinquenti. Eppure è senza dubbio così. Si può individuare in molti delinquenti, specialmente quando si tratta di giovani, un potente senso di colpa che preesisteva all'atto criminoso, e che quindi di questo atto non è l'effetto bensì la causa: come se il poter collegare il senso di colpa inconscio a qualche cosa di reale e attuale fosse avvertito da costoro come un sollievo". Non so se questo è il caso di Veronica Panarello, anche se l'aver cercato nella sua adolescenza di punirsi con un tentato suicidio per liberarsi del suo senso di colpa può essere una traccia che ci aiuta a comprendere. 3. Il fatto poi che Veronica neghi quelle che per gli inquirenti sono evidenze non ci consente di considerarla, senza riserve, una bugiarda, perché chi mente sa di mentire, ma può accadere anche che, non avendo la forza di guardare in faccia l'atrocità che si è commosso, si neghi, prima a se stessi che agli altri, di essere responsabili dell'accaduto. Non si tratta di rimozione (Verdrängung) che Freud descrive come un meccanismo di difesa inconscio con cui allontaniamo da noi immagini o fatti che sentiamo inaccettabili, ma di negazione (Verneinung) per cui il soggetto nega l'esistenza di ciò che esiste e conosce. Nella negazione Freud vede l'origine della scissione dell'Io che è l'anticamera della follia, in cui il soggetto nega, sinceramente a se stesso prima che agli altri, che sia accaduto un fatto che è accaduto. Stanley Cohen, professore di sociologia alla London School of Economics and Political Science, ha scritto un bellissimo libro: Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea (Ed. Carocci) in cui mostra quanto diffuse siano le forme di negazione e quanto devastanti siano gli effetti, nel mondo privato e in quello pubblico, di questo atteggiamento che nega ciò che esiste e si conosce. Con queste considerazioni non vogliamo esprimere alcun giudizio sui terribili fatti di Santa Croce Camerina, e neppure giustificarli, ma semplicemente cercare di comprendere quello che in apparenza appare incomprensibile, ricordando a tutti noi quel che Freud non cessa di ribadire, ossia che "l'Io non è padrone in casa propria". Giustizia: Veronica Panarello e la gogna mediatica di Riccardo Arena www.ilpost.it, 13 dicembre 2014 Che sia colpevole o innocente non importa. Il punto è un altro. Veronica Panarello, mamma del piccolo Loris, da settimane subisce una gogna mediatica che, come tale, è incivile e illegale. Una gogna mediatica che esula dal corretto esercizio del diritto di cronaca. Una gogna mediatica che si sintetizza in due gravi patologie presenti nel rapporto tra giustizia e informazione. La prima: vengono riportati fatti privati che non hanno interesse pubblico. La seconda: vengono diffuse notizie relative ad atti di indagine coperti dal segreto. L'effetto di queste due patologie è devastante. Prima del giudizio, che spetta alla magistratura, si genera nel cittadino la convinzione che quella donna è colpevole. "Veronica è diventata mamma quando era ancora una bambina". "Veronica era una madre aggressiva". "Veronica era depressa". Affermazioni relative alla sfera personale, tutelate dalla riservatezza, che sono state riportate dalle più importanti testate giornalistiche e amplificate in Tv quando ancora Veronica non era indagata. Un modo di fare "informazione" che ha riguardato anche il Tg1 della Rai che è considerato il più autorevole telegiornale del Paese. Ma non solo. Il caso di Veronica Panarello è la prova di una quotidiana violazione del segreto d'ufficio. Una violazione del segreto d'ufficio che si consuma senza che ci sia un atto depositato. Ogni giorno veniamo a conoscenza di ciò che ha affermato Veronica negli interrogatori. E ogni giorno sappiamo delle smentite che arrivano dagli accertamenti fatti dagli inquirenti. Verbali e accertamenti che sono segreti, ma che vengono forniti in modo illegittimo e che poi, altrettanto illegittimamente, vengono pubblicati. Dal Tg1 del 3 dicembre: "…Quella mattina ho accompagnato mio figlio a scuola e quando sono tornata a prenderlo non c'era più" "…Ma i fotogrammi acquisiti dagli investigatori raccontano tutta un'altra storia…" "…Una cosa è certa, Veronica ha mentito…". È questo il modo di fare informazione su una persona che, al momento del servizio giornalistico, non era neanche indagata? Non credo. E ancora: chi oltre agli inquirenti poteva passare queste informazioni segrete ai giornalisti? Mistero. Insomma, al di là dell'innocenza o della colpevolezza, il caso di Veronica Panarello ci consegna un dato. Ovvero che Veronica Panarello sta subendo un vero e proprio sciacallaggio mediatico. Uno sciacallaggio mediatico che si nutre di divulgazione di fatti privati e di violazione del segreto istruttorio. Il che, anche se non viviamo in tempi illuminati, è a dir poco grave, per non dire vergognoso. Infine domando: se Veronica Panarello fosse stata ricca e potente, avrebbe ricevuto lo stesso trattamento dai mass media? Francamente ne dubito. Giustizia: Boldrini (Camera); garantire tutela vittima, ma anche recupero del condannato Italpress, 13 dicembre 2014 "La tutela delle vittime dei reati, è un argomento al quale tengo molto e, credo di poter dire, al quale tiene molto l'intero Parlamento se è vero, come è vero, che il primo atto politicamente rilevante di questa legislatura è stato il voto unanime con il quale la Camera ha ratificato la Convenzione di Istanbul contro il femminicidio. Tema sul quale il Parlamento ha poi continuato a lavorare anche in sede di conversione di un decreto legge, inserendo nel testo una serie di misure volte proprio a rafforzare il sostegno alle donne vittime di violenza, esattamente nel senso indicato da quella Direttiva dell'Unione Europea attorno alla quale ruoterà la discussione odierna. Questa Direttiva è importante perché grazie ad essa in tutti i paesi membri, pur in presenza di diversi ordinamenti giuridici, esisterà una base comune di tutela della vittima dentro e fuori il processo penale. Questo è un passaggio di grande valore che dà concretezza e sostanza al progetto europeo". Così la presidente della Camera, Laura Boldrini, nel suo intervento a un convegno presso la Sala del Mappamondo. "Ma, come sappiamo bene, anche per la tutela delle vittime non bastano le buone leggi. È almeno altrettanto importante - ha aggiunto - creare un senso comune, un atteggiamento culturale capace di dare empowerment, di dare forza e voce alle vittime e valorizzarne il ruolo". Ecco perché, alla buona ed efficace legislazione, bisogna accompagnare la scelta di fare delle vittime un soggetto forte, portatore di diritti e di una domanda di giustizia certa ed equa. Ma attenzione - ha avvertito Boldrini - alle posizioni ideologiche, a chi contrappone cioè la tutela delle vittime alla garanzie degli imputati o alle politiche di recupero e di reinserimento dei condannati. La buona politica è quella che sa tenere insieme questi principi e queste esigenze. La cultura delle garanzie e le strategie di recupero del condannato non sono lassismo, non sono buonismo. Sono strumenti di una strategia democratica perché è nell'interesse di tutti noi fare in modo che il carcere non sia quel luogo sovraffollato in cui il recupero è impossibile, è interesse della collettività che chi entra in carcere ne esca poi migliore. Si tratta dunque di mettere la sicurezza al centro: tutti noi abbiamo bisogno di sicurezza, e recuperare le persone in carcere va incontro a questa esigenza. Per questo condivido il titolo del convegno "Più diritti, meno vittime". Non è uno slogan, è una filosofia, un atteggiamento democratico. Più i diritti sono diffusi nella società, più si investe sulla prevenzione, più c'è coesione sociale e meno spazio per la criminalità. In quel titolo - ha concluso - c'è l'auspicio che impostiamo il nostro lavoro su questa direzione: la diffusione e l'affermazione dei diritti". Per vittime reati non solo buone leggi ma senso comune Per una maggiore tutela della vittima dei reati, oltre ad una "buona ed efficace legislazione" penale, occorre "fare delle vittime un soggetto forte, portatore di diritti e di una domanda di giustizia certa ed equa". Lo ha detto la presidente della Camera, Laura Boldrini, aprendo il convegno "La tutela delle vittime nel solco delle indicazioni europee", organizzato a Montecitorio dal gruppo del Pd. "Anche per la tutela delle vittime - ha osservato la presidente della Camera - non bastano le buone leggi. È almeno altrettanto importante creare un senso comune, un atteggiamento culturale capace di dare empowerment, di dare forza e voce alle vittime e valorizzarne il ruolo". "Molto fanno, in questo senso - ha proseguito - numerose associazioni di famigliari di vittime del terrorismo. E il nostro pensiero non può non andare alle vittime di piazza Fontana, oggi che sono 45 anni dalla strage. Tra poche ore sarà il momento preciso in cui si consumò quell'orrendo delitto in cui 17 persone persero la vita e 88 rimasero ferite. I famigliari di vittime del terrorismo, dicevo, e della mafia, oppure di persone uccise da incidenti stradali o da calamità naturali. Molto si impegnano nella stessa direzione le associazioni di donne". "Ma vi sono tanti casi - ha sottolineato Boldrini - a dirci che spesso cadono vittime dei reati le persone più indifese e più sole, come gli anziani e i bambini, o come quelle donne uccise nonostante molte di loro, il 70%, avessero già denunciato la violenza e le minacce subite senza ricevere la dovuta protezione. Perché accade? Si può e si deve fare di più". "Ecco perché - ha osservato la presidente - alla buona ed efficace legislazione bisogna accompagnare la scelta di fare delle vittime un soggetto forte, portatore di diritti e di una domanda di giustizia certa ed equa. Quella domanda che trovo nelle parole dei genitori delle ragazze uccise: spesso li incontro, padri e madri che non hanno più le loro figlie. Questo chiedono: una giustizia certa". Boldrini ha tuttavia messo in guardia da "posizioni ideologiche, a chi contrappone cioè la tutela delle vittime alla garanzie degli imputati o alle politiche di recupero e di reinserimento dei condannati. La buona politica è quella che sa tenere insieme questi principi e queste esigenze. La cultura delle garanzie e le strategie di recupero del condannato non sono lassismo, non sono buonismo. Sono strumenti di una strategia democratica perché è nell'interesse di tutti noi fare in modo che il carcere non sia quel luogo sovraffollato in cui il recupero è impossibile, è interesse della collettività che chi entra in carcere ne esca poi migliore. Si tratta dunque di mettere la sicurezza al centro: tutti noi abbiamo bisogno di sicurezza, e recuperare le persone in carcere va incontro a questa esigenza", ha sottolineato. Giustizia: D'Onghia (Miur); indispensabile assicurare diritto allo studio per tutti i detenuti Public Policy, 13 dicembre 2014 Il ministero dell'Istruzione dà "priorità all'istruzione e alla formazione per salvaguardare il diritto allo studio di chi si trova negli istituti di pena quale strumento fondamentale della natura rieducativa". E "considera obiettivo primario quello di garantire il diritto all'istruzione e alla formazione per tutti". Ha risposto così in commissione Cultura alla Camera il Sottosegretario al Miur Angela D'Onghia a un'interrogazione di Vincenza Bruno Bossio (Pd) sul diritto allo studio di alcuni minori in regime di detenzione. Bruno Bossio, che si riferiva all'omesso "avvio nell'anno scolastico 2014/2015, presso l'Istituto penitenziario minorile di Catanzaro, del corso di studio in finanza e marketing", chiedeva al governo quando sarebbe stata "garantita l'iscrizione alla classe III del corso di studio superiore ai minori interessati" e se vi fosse la previsione di "tempi certi per l'attivazione del completo corso scolastico dell'istituto tecnico commerciale per i minori detenuti". Nella risposta fornita all'atto di sindacato ispettivo il sottosegretario ha ricordato come sia evidente che il "diritto/dovere" allo studio "acquisti una dimensione del tutto speciale per gli individui in condizioni di permanente o temporaneo disagio, nello specifico per quanti, adulti o minori, siano soggetti a restrizione della libertà personale nelle strutture carcerarie o a misure alternative o cautelari non detentive". Per questo, sulla vicenda del carcere minorile di Catanzaro, il 31 ottobre scorso il Miur "ha autorizzato un ulteriore posto di personale docente per l'anno scolastico 2014/2015" ed in seguito, il 4 dicembre 2014, "ha autorizzato l'ufficio scolastico regionale ad istituire ulteriori quattro posti di personale docente presso le istituzioni scolastiche della provincia di Catanzaro". Palmi (Rc): quando il giornalismo è giustizia di Viviana Minasi Il Garantista, 13 dicembre 2014 Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell'auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l'onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale che si concluderà questa mattina. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l'attenzione su quella sorta di "alleanza" tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. "Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti - scrivendo "Giornalismo è giustizia", invece che "Giornalismo e giustizia". Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati". Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all'evento che ha catalizzato l'attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l'inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell'oblio. "Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo - ha proseguito il direttore Sansonetti - e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo "l'affare". Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall'articolo 111 della Costituzione, l'articolo che parla del cosiddetto "giusto processo", che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell'informazione di reato a carico di un indagato. "Sempre più spesso accade che l'indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato". Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un "auto-intralcio alla giustizia" la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell'ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della "cupola". Suggestivo anche l'intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all'università di Padova, che ha relazionato su "tecniche di analisi scientifica del testimone". Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall'ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L'associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il "potere" (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all'interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti. Civitavecchia (Rm): tenta di impiccarsi in cella, detenuto salvato da un tentato suicidio www.romatoday.it, 13 dicembre 2014 Ad evitare il peggio i baschi blu del nuovo complesso penitenziario di Civitavecchia. Il gesto estremo tentato da un 30enne. Ha fatto un cappio ad una corda ed ha tentato di impiccarsi nella sua cella del carcere di Civitavecchia. A tentare il suicidio nel pomeriggio dell'11 dicembre, un detenuto albanese di 30 anni, ristretto nel Reparto Osservazione del Nuovo Carcere Penitenziario del Comune portuale. Lo rende noto il segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) Donato Capece. "Per fortuna - si legge nella nota del Sappe - l'insano gesto, un tentativo di impiccamento, non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria". Donato Capece che esprime ai poliziotti che hanno salvato la vita al detenuto "apprezzamento" con l'auspicio che vena loro concessa una "ricompensa ministeriale". Il sindacalista sottolinea che "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze: molti i casi avvenuti anche al Nuovo Complesso Penitenziario di Civitavecchia". Il segretario del Sappe lancia poi l'allarme: "La situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata - conclude Capece -. Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri laziali e del Paese tutto Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; familiari detenuti Uta in attesa colloqui senza riparo Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2014 "I familiari dei detenuti in attesa di poter effettuare i colloqui o dell'autobus per fare rientro a casa non hanno alcun riparo all'esterno del nuovo carcere di Cagliari Uta. Sono costretti a sostare al freddo e sotto la pioggia talvolta per ore". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo ricevuto segnalazioni dai parenti delle persone private della libertà attualmente nel Villaggio Penitenziario ubicato nell'area industriale di Cagliari. "Chi ha progettato la struttura - sottolinea - ha individuato solo un locale di identificazione e transito per i familiari, tralasciando di considerare che anche quando i turni sono a regime esistono tempi morti per gli effettivi accessi. Ciò ha determinato nei giorni scorsi gravi disagi, soprattutto per i bambini a causa della pioggia e del freddo. Il buon senso degli Agenti della Polizia Penitenziaria ha consentito di ridurre le difficoltà ma occorre risolvere il problema al più presto realizzando all'esterno un gazebo per accogliere le persone". "Nel piazzale antistante in Villaggio Penitenziario - ricorda la presidente di Sdr - non è stata neppure realizzata una pensilina in prossimità della fermata dell'autobus del Ctm, peraltro neppure delimitata da precise indicazioni ma solo con un cartello arancione. Permane inoltre la difficoltà di raggiungere il sito per la totale assenza di indicazioni stradali. Il servizio pubblico inoltre non è garantito durante i giorni festivi con la conseguenza che anche gli Agenti senza mezzi propri devono farsi accompagnare al lavoro o chiedere ferie". "È necessario inoltre considerare che quando i detenuti hanno terminato di scontare la pena o accedono a misure alternative, specialmente se sono stranieri e/o senza familiari in grado di accudirli, non possono essere lasciati fuori dal cancello della mega struttura senza alcuna indicazione sui mezzi di trasporto e/o i servizi. Appare insomma assurdo che avendo speso 94 milioni di euro sia stato del tutto ignorato il ruolo dei parenti e la funzione degli affetti familiari per il reintegro sociale e per limitare gli atti di autolesionismo dei ristretti. Occorre quindi che gli amministratori locali e la Regione unitamente al Ctm, al Provveditorato dell'Amministrazione Penitenziaria e alla Direzione della Casa circondariale - conclude Caligaris - affrontino unitariamente la questione per una soluzione rapida". Porto Azzurro (Li): l'editore Zanichelli ha donato i libri di storia agli studenti detenuti Il Tirreno, 13 dicembre 2014 I testi andranno al biennio della sezione carceraria del liceo Foresi: a fine anno scolastico resteranno in possesso della scuola. L'editore Zanichelli, nella persona del coordinatore redazionale Massimo Evangelisti, ha donato alla sezione carceraria del Liceo R. Foresi i libri di storia per il primo biennio. Ne danno notizia dall'Isis Foresi: questo grazie all'interessamento delle due autrici, le professoresse Chiara Frugoni (Università di Pisa e Roma Tor Vergata) e Anna Magnetto (Scuola Normale Superiore). Le copie verranno date in prestito a ciascuno studente fino alla fine dell'anno scolastico e resteranno in possesso della scuola per gli anni futuri. La donazione è stata accolta con vera gratitudine dal dirigente scolastico, dai docenti e dagli alunni: insegnare storia e geografia storica senza che gli studenti abbiano a disposizione un libro di testo è difficile e spesso inefficace. L'alto profilo scientifico e didattico delle autrici fa poi di questo uno strumento davvero prezioso. Verona: Sappe; colloqui dei detenuti controllati da telecamere che registrano anche audio Comunicato stampa, 13 dicembre 2014 Sembrano non avere fine le problematiche e le criticità presenti all'interno della Casa circondariale Montorio di Verona. Dopo le denunce sul consistente numero di ore di lavoro straordinario del direttore carcerario (con significative conseguenze per le casse dello Stato), sulla mezz'ora di pausa pranzo negata ai poliziotti penitenziari in stato di agitazione contro la Direzione per la precaria organizzazione del lavoro interno, sul ricorso alla pet-teraphy per i ristretti in carcere (anziché favorire il ricorso dei detenuti in progetti di recupero ambientale a favore della città), arriva una nuova denuncia da parte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Una cosa gravissima, palesemente illegittima ed irregolare, che espone i poliziotti penitenziari a gravi responsabilità - loro malgrado - e per la quale chiediamo un immediato intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando", denuncia il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Da un po' di tempo a questa parte, i colloqui dei detenuti con familiari e amici avvengono anche con l'ausilio di telecamere che però permettono anche di ascoltare quel che si dicono. E questo è palesemente illegittimo. I colloqui penitenziari, che possono essere fino a sei al mese per ogni detenuto, sono regolati dall'articolo 18 della legge penitenziaria 26 luglio 1975, n. 354 e dall'articolo 37 del Regolamento di esecuzione, Dpr 30 giugno 2000, n. 230. La legge espressamente prevede che i colloqui si svolgano sotto il controllo, visivo ma non uditivo, del personale di Polizia Penitenziaria. Nel carcere Montorio di Verona però succede che, in ausilio al personale, vi siano anche telecamere di controllo che consentono di ascoltare quel che si dicono le persone. Questo è illegittimo, rilevato anche nel corso di una ispezione dell'Amministrazione Penitenziaria al seguito della quale è stato imposto al direttore la rimozione di tale irregolarità. Ma il direttore si è guardato bene dall'adempiere a quanto disposto dal Dap", spiega. "Non credo sia regolare che un direttore snobbi le disposizioni e i richiami dell'Amministrazione Penitenziaria. Per questo noi chiediamo che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, anche alla luce delle reiterate denunce sindacali sulla discutibile gestione del carcere Montorio, valuti un avvicendamento alla guida della casa Circondariale. Per restituire serenità lavorativa alla Polizia Penitenziaria di Verona e per rimuovere tutte le irregolarità emerse nel corso dell'ispezione ministeriale, come appunto la grave violazione denuncia sui colloqui dei detenuti con familiari e amici". Novara: la protesta di quattro sigle sindacali che rappresentano il 70% degli agenti di Roberto Lodigiani La Stampa, 13 dicembre 2014 Polizia penitenziaria, è stato d'agitazione: "manca il confronto con la direzione del carcere". Stato di agitazione nel carcere di via Sforzesca a Novara: lo hanno dichiarato quattro sigle sindacali, rappresentando il 70 per cento degli agenti di polizia penitenziaria in servizio, circa 200. Le organizzazioni sindacali Sinappe, Sappe, Osapp e Cisl-Fns lamentano l'inasprirsi delle relazioni con la direzione del carcere a causa del mancato coinvolgimento nella riorganizzazione dei turni di lavoro: "Lo scorso 11 novembre - dicono i delegati sindacali - il direttore ha comunicato che avrebbe avviato gli incontri per la definizione di una nuova organizzazione del lavoro, ma finora nulla è pervenuto. Già in quella data il direttore era stato invitato a un atteggiamento prudente nella gestione delle settimane lavorative organizzate su 5 giornate: la materia di contrattazione prevede che i sindacati vengano informati. Nonostante quegli inviti, il direttore ha proseguito nella sua azione". I delegati sindacali sottolineano inoltre che "nell'anno in corso solo in poche occasioni la direzione ha risposto in maniera compiuta alle note sindacali scritte. Spesso, quando le repliche ci sono state, erano caratterizzate da superficialità ed incompletezza. Si assiste inoltre ad una continua mala gestione del servizio del personale, con gravi parzialità e con coordinatori privi di ordini di servizi nel rispetto della normativa". Al centro del dibattito ci sono i turni: "Quelli straordinari e le giornate pagate di più sono appannaggio di pochi - spiegano. Vengono mossi continui rilievi anche in presenza dell'utenza, creando tensione che rischia di ripercuotersi sugli stessi detenuti". I delegati evidenziano che "finché perdureranno le incongruenze segnalate, proseguirà lo stato d'agitazione, con possibilità di forme di protesta più evidenti. Tutto rientrerà qualora il direttore avviasse una revisione concordata della gestione del personale, valutando tutte le cariche". Dalla direzione del carcere non sono pervenute dichiarazioni. "C'è sovraffollamento ma a Novara non raggiunge i picchi di altri istituti": lo sostengono i sindacati degli agenti penitenziari del Sinappe, Sappe, Osapp e Cisl Fns. I detenuti comuni rinchiusa nel carcere di via Sforzesca non superano quota 80 mentre nel reparto di massima sicurezza, riservato a chi è sottoposto al regime "duro" del 41 bis, gli ospiti sono 70. La sorveglianza in quella sezione della è assicurata dal corpo speciale degli agenti della polizia penitenziaria denominato Gom, Gruppo operativo mobile. Nei tredici istituti di pena piemontesi, nel primo semestre del 2013, si sono registrati 232 atti di autolesionismo, 44 tentati suicidi, 118 colluttazioni e 25 ferimenti. Inoltre 1952 sono stati i detenuti protagonisti di proteste pro amnistia e indulto o sciopero della fame. Siracusa: i detenuti di Brucoli ripuliscono il Castello federiciano di Augusta La Sicilia, 13 dicembre 2014 La Regione non ha personale né soldi per ripulire i siti archeologici? Ci pensano i detenuti, gratis. E lo fanno pure con il sorriso sulle labbra. L'esperimento riuscito è quello al Castello Svevo di Augusta, monumento a rischio crollo da un decennio per le consuete penurie economiche, che è stato "adottato" dalla Casa di reclusione di Brucoli. Il piazzale della Fortezza è stato ripulito da un gruppo di carcerati per poter ospitare uno spettacolo. Presente tra i 450 spettatori anche il soprintendente ai Beni culturali e ambientali di Siracusa, Calogero Rizzuto, che davanti al prospetto riscoperto del Castello federiciano si è complimentato con i lavoratori "speciali" e ha lanciato l'idea di una collaborazione. Proposta accolta con impegno ed entusiasmo dal direttore dell'istituto carcerario, Antonio Gelardi. "La normativa più recente - dice - prevede la possibilità che i detenuti vadano all'esterno, su autorizzazione del direttore, e svolgano attività utili anche gratuitamente in sostegno ai Comuni, alle associazioni e agli enti locali. Abbiamo sfruttato questa opportunità dedicandoci alla pulizia del Castello Svevo lavorando assieme con i volontari di Legambiente ed altre associazioni. Un impegno gratuito che 5 nostri detenuti hanno svolto con grande gioia e che è stato ripetuto per la pulizia di un altro monumento: il castello di Brucoli". Un lavoro che si affianca alle attività sociali svolte dai carcerati fuori dall'istituto come l'aiuto nel fine settimana ai volontari della mensa del buon samaritano. "Vorremo proseguire, in maniera costante, il nostro impegno volto a tutelare il Castello Svevo e altri siti archeologici della provincia - aggiunge il direttore Gelardi. Siamo a disposizione della Soprintendenza e degli enti locali, aderendo alle direttive ministeriali che mirano a promuovere attività "risarcitorie". I detenuti hanno infatti così la possibilità di risarcire la collettività con azioni utili, concrete. E sono ben felici di lavorare". Basta guardarli all'opera, all'aria aperta, attenti, entusiasti, stanchi e soddisfatti. "Non sono lavori forzati - dice il direttore del carcere - i detenuti vengono assicurati contro gli infortuni, devono avere dispositivi di protezione e, se necessario, formati ad hoc. È una forma civile di lavoro che potrebbe coinvolgere tante persone, liete di poter uscire dalla loro cella e sgobbare tutto il giorno per sentirsi utili, per dare un senso concreto alle loro giornate". Il soprintendente di Siracusa è pronto a coinvolgere i detenuti di Augusta e ha avviato interlocuzioni anche con gli altri istituti carcerari della provincia. "Noi abbiamo bisogno di loro - commenta Rizzuto - e loro di noi". Varese: inchiesta Miogni, ci sono altri agenti della polizia che potrebbero essere coinvolti La Provincia di Varese, 13 dicembre 2014 Scandalo Miogni: ci sono altri nove agenti della polizia penitenziaria indagati. Sono tutti a piede libero e sono tutti in servizio nel carcere di Varese. Nella notte che ha visto l'arresto di cinque loro colleghi a loro carico sono stati eseguiti altrettanti decreti di perquisizione. La loro posizione tuttavia è infinitamente più leggera rispetto a quella di Francesco Trovato, Angelo Cassano, Rosario Carmelo Russo, Domenico Roberto Di Pietro e Carmine Domenico Petricone, tutti detenuti in carcere con le accuse di procurata evasione e corruzione. L'iscrizione dei novi agenti nel registro degli indagati da parte dell'autorità giudiziaria è un atto a loro garanzia. Alcuni di loro sono già stati ascoltati nel corso dell'indagine interforze che ha visto in campo polizia penitenziaria, polizia di Stato, carabinieri e guardia di finanza. I nove non sarebbero parte del sistema di "promiscuità con i detenuti" contestato ai cinque arrestati dal gip in seno all'ordinanza di custodia cautelare, ma testimoni di alcuni fatti. Dagli atti giudiziari emerge uno spaccato interno ai Miogni che vede un Victor Miclea, la mente dell'evasione del 21 febbraio, fare tutto ciò che gli pare. Alcuni dei cinque arrestati avrebbero anche rivolto minacce piuttosto esplicite ad altri detenuti a conoscenza del piano di fuga ideato da Miclea, che inizialmente avrebbe dovuto fuggire da solo simulando un'aggressione ai danni di uno degli agenti arrestati, per farli stare zitti. Minacce sono state fatte "recapitare" anche alla fidanzata di Parpalia, coinvolta nel piano, dopo l'arresto avvenuto in Umbria sei anni fa. Tanto da far temere per la sicurezza della ragazza. La ragazza, stando a quanto ricostruito dall'autorità giudiziaria, era al corrente del coinvolgimento di alcune delle guardie. Persone che Miclea chiamava bonariamente "il mio brigadiere" e alle quali, sempre secondo le carte, dava ordini o chiedeva favori in cambio di sesso e soldi. Palermo: omaggio a Francesca Morvillo, Anm regala forno a minori detenuti al Malaspina Adnkronos, 13 dicembre 2014 "L'obiettivo di oggi è soprattutto la consegna di un forno ai detenuti del carcere minorile di Palermo, in omaggio a Francesca Morvillo. Un'iniziativa svincolata dalle commemorazioni tradizionali del 23 maggio, in cui coniughiamo il momento scientifico, che è la riflessione sulla messa alla prova, con il momento del ricordo e dell'impegno nel sociale". Lo ha detto il Presidente sezionale dell'Anm di Palermo, Matteo Frasca, a margine del convegno organizzato al carcere minorile Malaspina di Palermo in ricordo di Francesca Morvillo, la moglie del giudice Giovanni Falcone, uccisa con il marito e la scorta il 23 maggio del 1992. Il convegno si concluderà con la consegna di un forno acquistato con i fondi donati dai magistrati del distretto di Palermo e dall'Anm e inserito nell'ambito di un progetto per la realizzazione, all'interno dell'Istituto penale minorile di Palermo, di un laboratorio dolciario, che sarà destinato alla produzione, dei giovani detenuti, di biscotti artigiani da commercializzare successivamente attraverso il circuito delle associazioni antimafia. "È il tentativo di contribuire al recupero dei giovani detenuti inserendoci in un progetto in corso di realizzazione al Malaspina, in questo modo rendiamo omaggio alla memoria di Francesca Morvillo e rendiamo attuale il suo pensiero nel modo migliore". Televisione: "Orange is new black", storia di detenute che non sono più buone degli uomini di Eretica Whitebread Il Garantista, 13 dicembre 2014 "Orange is new black" è una serie televisiva che parla di galera vissuta da donne, etero, lesbiche, trans. Storia ispirata alle memorie di Piper Kerman, è già alla seconda serie e si prevede l'uscita della terza. In Italia la prima e la seconda serie è stata trasmessa su Infinity in giugno e in settembre 2014. Questa è la trama: Piper viene condannata a scontare 15 mesi dentro il carcere Litchfield, carcere federale femminile, perché ha trasportato una valigia piena di soldi di provenienza illecita. A coinvolgerla in questo passaggio di denaro che ha a che fare con il traffico internazionale di droga è Alex Vause, a quel tempo sua partner. Da lì in poi Piper vive un dentro/fuori il carcere alla scoperta di dettagli che prima avrebbe ignorato. Donna a volte frivola, inconsapevole e irresponsabile, non ha la più pallida idea di quel che l'aspetterà in galera. Perennemente fregata dall'amica che in più di una occasione la metterà in condizioni assai complicate, si ritrova a riposizionare il suo vissuto man mano che i giorni della galera passano. Così scopre di avere un fidanzato che sfrutta la sua carcerazione per ottenere visibilità come giornalista e scopre anche che le donne, perché di tante donne questa serie televisiva parla, non sono per niente le creature favolose che lei immaginava. Il carcere viene raccontano senza edulcorare nulla. Negli Stati Uniti è a gestione manageriale. Più progetti e campagne di immagine promuovi e più ricevi fondi pubblici. Quei fondi non sono sempre usati onestamente. Possono essere sottratti da chi dovrebbe gestirli con trasparenza. In quel tipo di carcere è fondamentale ottenere un numero di inquiline sufficiente a dimostrare l'efficienza carceraria. Le guardie a sorveglianza delle recluse vengono descritte con il carico di cinismo che mostrano nell'abuso di potere o nel mischiare mestiere e sentimenti senza pensare che molestare, o scopare con una detenuta, è comunque grave giacché la detenuta è gerarchicamente subordinata e non può dire di no. A capo della struttura carceraria, proprio perché a gestione manageriale, c'è una donna, nominata in nome della parità e delle quote rosa e perché l'ultima intuizione delle aree di potere è quella che riguarda l'uso di donne a dare una pennellata di rosa, meglio conosciuta come pink-washing, anche ai luoghi in cui non c'è rispetto e considerazione per le persone. La nomina di una donna, perfettamente corruttibile e in grado di gestire anche la sottrazione di denaro pubblico per i propri interessi, che dà quindi un'immagine poetica e romantica delle galere è dunque l'affare di questi anni. Tra tante brutture e affari sporchi descritti con grande chiarezza, così da dare una precisa fotografia del sistema carcerario di quel pezzo di mondo, ci sono anche le relazioni personali tra detenute. Ci sono le relazioni lesbiche che vengono raccontate senza filtri e censure, sesso incluso. Di lesbiche o della vita di una transessuale, ospite nello stesso luogo, siparla in modo intelligente. Sono donne, alle quali serve qualcuno o qualcosa per compensare il proprio desiderio, dildi improvvisati, dita, bocca, lingua, in qualunque angolo nascosto e non sorvegliato dalle telecamere. La trans spiega per filo e per segno quanti ormoni servono per stare bene, come e perché lei è discriminata in quella galera e in quanti modi le viene attribuita una serie infinita di stereotipi per marginalizzarla. Poi, ancora, c'è la divisione per branchi, per etnie e culture diverse, a rappresentare razzismi e incapacità di empatizzare e solidarizzare con l'altra, diversa, così costretta rifugiarsi nel proprio branco di riferimento: le nere con le nere, le latine con le latine, le bianche con le bianche, le strane con le strane. Ci sono le mortificazioni nei confronti delle donne più fragili o che non restano sottoposte a un gruppo. Ci sono le corse ad accaparrarsi posizioni di "privilegio": il lavoro nelle cucine, la possibilità di gestire luoghi di scambio e affari che permettono a qualcuna di acquisire potere. Dove passano gli alimenti possono passare anche cosmetici, droghe, a volte sciocchezze per soddisfare la nostalgia e i capricci di qualcuna. Perché in galera, sia chiaro, acquisisci potere anche solo a fornire creme idratanti per il viso e gomme da masticare alle recluse. C'è che viene raccontato come in galera non hai diritto alla privacy. Non c'è notte che tu non debba aver paura che una folle non venga ad arrampicarsi sul tuo letto o che qualcuno che ti vuole male non ti faccia un dispetto. Non c'è giorno che tu non debba subire l'umiliazione di essere presa di mira da chi vuole farti sottomettere per guadagnare ancora più potere. Le donne, per nulla diverse dagli uomini, gestiscono i rapporti alla ricerca del modo per guadagnare rispetto, obbedienza, sottomissione e totale lealtà. Viene punito il tradimento, il dissenso e qualunque cosa metta in discussione le regole del branco. La serie televisiva, così come il libro di memorie di Piper, raccontano così la trasformazione di una ingenua ragazza di buona famiglia che dopo qualche mese diventa una donna disillusa, disincantata, che per difendersi deve usare la forza e la violenza. Raccontano anche, chiaramente, come il carcere, di per sé, non raggiunga affatto l'obiettivo di rieducare e riportare sulla retta via le persone. La galera incattivisce, rende le persone fragili ancora più fragili, e nella serie televisiva non viene censurato neppure il racconto di un brutto suicidio. La galera non rieduca, semmai ti abitua a servirti delle "competenze" sviluppate nelle tue azioni criminali per difenderti in una zona in cui sei privata di ogni diritto. Perciò mi hanno particolarmente incuriosito i pestaggi tra donne, trasmessi senza sconti, crudi, credibili, e poi la maniera in cui ogni vita viene ricostruita, narrata, per dire che ogni donna viene comunque da un percorso e che anche il reato commesso, a volte, è frutto di una serie infinita di eventi che la portano in galera. Mi ha sorpreso positivamente anche la maniera in cui viene raccontata la competizione tra donne. Rivalità, bullismo, perfidia nei progetti di annientamento dell'altra, sono perfettamente interpretati da attrici che hanno dato vita a un teatro in cui le donne, finalmente, al di là dei generi e degli orientamenti sessuali, vengono raccontate senza sconti. Per tutti questi motivi e altri ancora credo sia una serie da vedere. Godetevela e poi ditemi quanto sono angeliche, deboli e sempiterne "vittime" le donne. Immigrazione: contro i "campi" le soluzioni ci sono e vanno praticate di Filippo Miraglia (vicepresidente dell'Arci) Il Manifesto, 13 dicembre 2014 Il traffico dell'accoglienza. La tecnica dei lager per alimentare razzismo, violenza, criminalità, e per lucrare affari d'oro. È necessario superare la logica dell'emergenza e quella dei campi. L'Arci lo sostiene da tempo e le vicende emerse in questi giorni a Roma ne sono una conferma. La situazione di perenne emergenza è servita per giustificare l'ingresso di soggetti senza competenze nella rete d'accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Sull'accoglienza, d'altra parte, abbiamo sempre sostenuto che bisogna valorizzare il ruolo dei comuni e delle comunità locali, sistemando i rifugiati in alloggi normali e assegnando un compito di mediazione sociale alle organizzazioni del terzo settore. Organizzazioni che dovrebbero avere, come nel caso dello Sprar (strutture per richiedenti asilo e rifugiati), i requisiti di esperienza e competenza. Abbiamo criticato il fatto che, in nome dell'emergenza, non venisse verificata la qualità dei servizi offerti, la trasparenza nell'affidamento degli appalti e non venisse coinvolto il territorio. Sono stati nominati commissari straordinari, coinvolte protezione civile e prefetture, il cui scopo è stato quello di recuperare posti letto, per lo più con gare al massimo ribasso. Sono stati allestiti grandi centri per centinaia di persone, senza nessuna garanzia sulla qualità del servizio e nessuna forma di controllo. Ci si è mossi cioè con una strategia opposta a quella della rete Sprar che gestisce migliaia di posti, certo non senza problemi, ma con una procedura trasparente, il coinvolgimento di enti locali e territorio, un monitoraggio costante. È proprio la logica dei campi (dove per campi si intendono tutti quei luoghi di concentrazione e segregazione del disagio e della marginalità sociale) che consente, soprattutto se legata all'emergenza, anche lo scandalo della corruzione. Questo è però solo un aspetto del problema. Nei campi si confinano le persone in spazi separati, si alimenta il disagio e il razzismo. Nei campi trova spazio lo sfruttamento, la violenza, a volte anche la criminalità, a spese spesso di chi vi vive. Paradossalmente le persone segregate sono viste da parte dell'opinione pubblica come profittatori, con un'inversione di ruoli che scarica su di loro le scelte di un sistema che non funziona. I "tumulti" di Tor Sapienza, come si scopre ora e come il manifesto per primo ha denunciato, sono la testimonianza di come questi umori possano essere facilmente strumentalizzati. Ma il paradosso è diventato in questi giorni il perno della strategia comunicativa di tanti politici e giornalisti. Denunciare gli sprechi è sacrosanto. Bisogna però distinguere chi fa un buon lavoro da chi lucra sul disagio, evitando di evocare soluzioni che vanno nella direzione di cancellare i servizi o di privatizzarli. Il rischio vero non è solo che si butti via il bambino con l'acqua sporca (e a Roma l'acqua era propria sporca), ma che si facciano scelte, sempre in nome dell'emergenza, che produrranno ulteriori sprechi e corruzione. Negli ultimi mesi è stata alimentata l'idea che bisogna tornare a una gestione centralizzata dei servizi. Che è meglio affidarsi al governo piuttosto che alle regioni e agli enti locali. Un'ipotesi che evidentemente contrasta con l'esigenza di trasparenza e controllo, e che favorirebbe un progressivo smantellamento dei servizi e una loro privatizzazione. Bisognerebbe avviare subito invece un progressivo inserimento sociale dei rom, assegnandogli case e chiudendo i campi. Così come bisognerebbe distribuire i rifugiati in normali appartamenti, responsabilizzandoli sul loro percorso d'inserimento e puntando a un coinvolgimento reale del territorio, con i soggetti che in quelle comunità operano. La corruzione è radicata nella nostra cultura. Per estirparla serve il controllo e il protagonismo dei cittadini e delle comunità locali, non il ritorno a uno stato centralista dove tutto è affidato ai prefetti. Immigrazione: la Consulta dice "sì" alle due vie per negare il rinnovo del soggiorno di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2014 Non convince i giudici un modello fondato solo sulla gravità del fatto e sulla sanzione applicabile all'extracomunitario. Via libera al di vieto automatico di rinnovo del permesso di soggiorno al cittadino extracomunitario condannato per uno dei reati per i quali è previsto l'arresto facoltativo in flagranza. Lo stabilisce la Corte costituzionale con la sentenza n. 277 depositata ieri e scritta da Paolo Grossi. La pronuncia ha così dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento che lamentava la mancanza di discrezionalità della pubblica amministrazione nell'accertamento dell'effettiva pericolosità dell'interessato per l'ordine pubblico. La Corte ricorda che nel delineare le condizioni ostative collegato al rilascio o al rinnovo, la scelta del legislatore è stata quella di dar vita ad un sistema basato su due criteri concorrenti. Il primo, riferito ai casi per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza; disciplina, quest'ultima, che, a sua volta, risulta costruita "su base in parte "quantitativa", raccordata, cioè alla pena prevista dalla legge, e, in parte, qualitativa, ragguagliata, quindi, alla specificità dei titoli di reato", L'altro criterio, "riferito non già ad una rassegna quantitativa, basata sulla pena, ne ad una indicazione qualitativa fondata su specifiche fattispecie delittuose, ma calibrato in funzione dì "tipologie" di reati, individuati e raggruppati, per così dire, all'interno di complessi normativi delineati solo attraverso il richiamo ai relativi "settori di criminalità". Per la Corte, l'esame delle "materie" (che riflette anche specifici impegni internazionali derivanti da convenzioni o trattati o normativa di rango comunitario) dimostra l'intenzione del legislatore "di assumere a paradigma ostativo non certo la gravità del fatto, in se e per se considerata, quanto - e soprattutto - la specifica natura del reato, riposando la sua scelta su una esigenza di conformazione agli impegni di "inibitoria" di traffici riguardanti determinati settori reputati maggiormente sensibili". Ne deriva, nella lettura della Corte, quindi, che la introduzione di un modello dì tipo esclusivamente "quantitativo", fondato, cioè, sulla gravità in concreto del fatto e sulla sanzione applicabile, come vorrebbero i giudici trentini, si tradurrebbe, non tanto in una deroga all'automatismo, quanto nella creazione dì un "sistema" del tutto nuovo - diverso e alternativo - rispetto a quello prefigurato dal legislatore. "La addizione, infatti, che il rimettente sollecita non si circoscriverebbe neppure al "caso" a lui devoluto, ma prevedrebbe per tutti i reati una soglia di divieto di automatismo ove la pena sancita sia ascrivibile nella forbice edittale prevista dall'articolo 381 codice di procedura penale peri casi di arresto facoltativo in flagranza". Immigrazione: al Cie di Torino caldaia rotta, immigrati al freddo e sopralluogo negato di Diego Longhin La Repubblica, 13 dicembre 2014 Il guasto, nel centro di identificazione di corso Brunelleschi dove attualmente sono rinchiusi 25 stranieri, è avvenuto proprio in concomitanza con il crollo delle temperature: la riparazione è difficile e costosa. Respinti due consiglieri di Sel che volevano verificare le condizioni all'interno. Da due giorni la caldaia del Cie, il centro di identificazione per immigrati di Torino, è rotta. I 25 reclusi di corso Brunelleschi sono quindi al freddo, così come gli addetti e gli operatori del centro, e pare che il guasto al sistema dei riscaldamento sia non facile da sistemare, oltre che costoso. Peccato che, proprio negli ultimi due giorni, le temperature siano scese bruscamente e che la situazione all'interno della struttura non sia delle migliori per le persone in attesa di identificazione. Oggi, venuti a sapere del problema, il consigliere comunale Michele Curto e il consigliere regionale Marco Grimaldi, entrambi di Sel, si sono presentati davanti ai cancelli del centro per entrare e controllare di persona le condizioni degli immigrati. Sono stati però respinti non essendo permessi, a quanto pare, controlli a sorpresa da parte dei consiglieri regionali, che pure possono entrare senza preavviso nelle carceri per far vista ai detenuti: nel caso dei Cie come quello di corso Brunelleschi, invece, dovranno prima presentare domanda alla Prefettura, che a sua volta la inoltrerà alla Questura. All'ingresso del centro, comunque, gli operatori del Cie hanno confermato ai consiglieri che da due giorni il riscaldamento del centro è fuori uso. Stati Uniti: così infierivo sui prigionieri, l'incubo di Abu Ghraib non mi abbandonerà mai di Eric Fair (traduzione di Fabio Galimberti) La Repubblica, 13 dicembre 2014 Nell'ultimo semestre ho insegnato scrittura creativa alla Lehigh University. In vita mia sono stato un soldato, un agente di polizia e un esperto di interrogatori, perciò ascoltare gli studenti che mi chiamano "professore", assegnare compiti a casa rappresenta un notevole cambiamento di marcia per me. Eppure l'argomento del corso, "Scrivere la guerra", mi impedisce di allontanarmi troppo dai ricordi che mi ossessionano da un decennio. Sono grato all'università per avermi dato l'occasione di tenere questo corso. La disponibilità della Lehigh a far salire un veterano militare sulla cattedra dei professori è proprio quello che il Paese deve fare per elaborare collettivamente l'eredità degli ultimi tredici anni di guerra. Ma parlare di guerra a una classe di studenti mi ricorda ogni giorno che io sono tutto fuorché un professore universitario. Io conducevo gli interrogatori ad Abu Ghraib. Io ho torturato. Abu Ghraib domina ogni minuto di ogni giornata, per me. All'inizio del 2004, ad Abu Ghraib i muratori si davano da fare per coprire i murales di Saddam Hussein con uno strato di pittura giallastra. Per sbaglio mi appoggiai a una di questa pareti. Indosso ancora il giubbotto di pile nero con la macchia scolorita. Mi sembra d'avere ancora nelle narici l'odore della vernice. Sento ancora i suoni. Vedo ancora gli uomini che chiamavamo detenuti. Il mese scorso i miei studenti hanno letto "Quanto pesano i fantasmi", di Tim ÒBrien. Durante la lezione ho parlato del peso che resta addosso ai reduci dall'Iraq. Ho portato una scatola di sigari piena di ciondoli e souvenir che avevo comprato dai venditori ambulanti iracheni all'aeroporto internazionale di Bagdad. Ho portato anche il giubbotto nero di pile. Quando ho chiesto agli studenti di ricordare cosa avessero pensato il giorno, nel 2004, in cui uscirono fuori le fotografie di Abu Ghraib rivelando le immagini delle violenze ai danni dei detenuti, loro mi hanno guardato con la tipica espressione dello studente troppo imbarazzato ad ammettere che non ne sapeva niente, o non aveva al proposito pensieri di particolare interesse. Quasi tutti hanno distolto lo sguardo, qualcuno, sbrigativo, mi ha fatto un cenno di assenso, altri hanno optato per la sincerità e si sono limitati a sbadigliare. Per la prima volta m'imbattevo in una generazione che non considera la pubblicazione delle fotografie di Abu Ghraib un tornante decisivo della loro vita. Non gliene faccio una colpa. Gli studenti frequentavano le elementari all'epoca. Ai loro occhi, sono cose da libri di storia. È roba di cui parlano i loro genitori. È una semplice risposta a un compito in classe. Mentre guardavo le loro facce assenti mi sono reso conto che provavo una sensazione di sollievo molto intensa. Abu Ghraib svanirà e le mie trasgressioni saranno dimenticate. Ma solo se io lo consentirò. Ho pubblicato articoli sui giornali per descrivere dettagliatamente gli abusi e le violenze che infliggevamo ai detenuti iracheni. Sono stato intervistato da radio e televisioni. Ho parlato con gruppi difensori dei diritti umani come Amnesty International, e ho confessato ogni cosa a un avvocato del dipartimento della Giustizia e a due agenti del Comando di indagini penali dell'esercito. Ho detto tutto quello che c'è da dire. A questo punto, la cosa migliore che io possa fare, forse sarebbe quella di gettarmi tutto quanto dietro le spalle. E infatti quel giorno, di fronte ai miei studenti, ero tentato di lasciare che l'apatia annebbiasse le sconvenienti verità della storia. Non ero più costretto ad assumere il vecchio ruolo, di quello che conduceva gli interrogatori ad Abu Ghraib. Ero un professore alla Lehigh University. Potevo dare i voti alle tesine degli studenti, dire cose brillanti durante le lezioni. Mio figlio poteva salire sullo scuolabus e parlare coi suoi amici di quello che faceva suo padre per guadagnarsi da vivere. Ero una persona di cui si può andare fieri. Però, io non sono una persona di cui si può andare fieri. Io conducevo gli interrogatori ad Abu Ghraib. Io ho torturato. Alla fine ho esortato gli studenti ad andare a ripescare le foto di Abu Ghraib, a raccontarmi le loro reazioni scrivendo temi creativi. Abbiamo passato la lezione a parlare di quel che era successo ad Abu Ghraib. Ho anche letto ai ragazzi alcune cose che ho scritto. Loro continuano a chiamarmi "professore", ma credo che ora mi vedano sotto una luce diversa. Oggi il Senato degli Stati Uniti ha pubblicato il rapporto sulle torture. Molte persone sono rimaste sorprese dal contenuto: casi di water-boarding - di annegamenti simulati - molto più frequenti rispetto a quanto si pensasse prima, privazione del sonno per periodi lunghi fino a una settimana, e un'orribile e umiliante procedura chiamata "reidratazione rettale". Io non sono affatto sorpreso dal rapporto del Senato. Vi assicuro che c'è di più: sono ancora molti gli omissis. La maggioranza degli americani non ha letto il rapporto. La maggioranza non lo leggerà mai. Ma quelle pagine resteranno per sempre lì a ricordarci che Paese siamo stati. In qualche aula universitaria del futuro, un professore chiederà ai suoi studenti di informarsi sulle cose che fece questo Paese nei primi anni del XXI secolo. Assegnerà da studiare estratti del rapporto del Senato sulle torture. Ci saranno sguardi assenti e sbadigli indifferenti. Ci saranno tesine e compiti a casa. Gli studenti scopriranno che non sempre questo è un Paese di cui si può andare fieri. Stati Uniti: noi, nell'inferno delle prigioni Cia…. adesso l'America ci chieda scusa di Francesco Semprini La Stampa, 13 dicembre 2014 Il racconto di due detenuti yemeniti: non abbiamo mai avuto un processo. Amin al-Bakri e Sanad al-Kazimi sono due cittadini yemeniti, all'incirca coetanei, non si conosco l'uno con l'altro, ma improvvisamente nel 2002 i loro destini si intrecciano in un dramma che li accompagnerà per oltre dieci anni. Al-Bakri e al-Kazimi sono 2 dei 119 detenuti dei "black site" sottoposti a interrogatori "avanzati" dalla Cia, quelli di cui si rende conto nel rapporto della commissione Intelligence del Senato. Le loro voci giungono a pochi giorni dalla pubblicazione del dossier, per bocca del loro avvocato, Ramzi Kassem, professore di legge di City University of New York. "Il nostro è lo stesso copione, quello delle extraordinary rendition". I dettagli ce li spiega Kassem. Al-Bakri viene rapito dalla Cia mentre si trova in Thailandia per lavoro. "È un commerciante di gioielli, gira molto", ma con Al Qaeda o l'estremismo islamico non ha mai avuto nulla a che fare. E invece viene inghiottito dal buco nero creato dalla Cia per combattere il terrorismo. "Stessa sorte tocca ad al-Kazimi, - dice il legale - solo che lui viene fatto sparire mentre si trova negli Emirati Arabi". "I nostri destini si incrociano nella Dark Prison". È così che i sopravvissuti chiamano Salt Pit, la prigione bunker afghana dove i presunti terroristi vengono sottoposti agli interrogatori "duri". "Al-Bakri e al-Kazimi vengono trasferiti in tutta fretta nel Paese, legati, incappucciati e percossi". Ma è solo l'inizio "perché ad attenderli è un lungo periodo di torture, sofferenze e vessazioni", ci dice il legale. "Un mix di tecniche sperimentate sulla nostra pelle", raccontano i due prigionieri nei colloqui. Privazione del sonno, percosse, immersione nell'acqua fredda, insomma il manuale degli orrori raccontato nel rapporto del Senato, applicato in tutta la sua poliedricità. Manca solo "water-boarding", "ma credetemi, - sottolinea Kassem - non che tutto il resto non provochi altrettante sofferenze". Segni incisi sulla pelle e nel cervello: "Schiena, ginocchia, testa: nulla era risparmiato". "Cosa abbiamo fatto?". È l'interrogativo che tormenta i due cittadini yemeniti per tutto il tempo in cui vengono trattenuti a Salt Pit, e al quale non viene data risposta neanche dopo. Le torture durano due anni per al-Bakru, che viene poi trasferito a Bagram. Per al-Kazimi, la permanenza nella "prigione buia" è di dieci mesi, ad attenderlo è il carcere fortezza di Guantánamo, quello voluto da George W. Bush assieme alle commissioni militari per giudicare i nemici combattenti. "Le sofferenze non sono certo finite col trasferimento", e nemmeno l'attesa di sapere di quali colpe si siano macchiati i due "pericolosi individui". "Per al-Bakru non solo non è mai giunta un'incriminazione e tanto meno un processo, ma nemmeno abbiamo mai potuto sapere quale era l'accusa - dice Kassem. Era un segreto di Stato". Per al-Kazimi invece c'era un "Factual Return", il documento che un governo deve presentare per giustificare la detenzione, e contenente in questo caso accuse generiche di simpatie o affiliazioni qaediste, in parte ottenute con dichiarazioni estorte coi "trattamenti" di Salt Pit. Anche per lui, però, nessuna incriminazione, nessuna provata colpevolezza. La vicenda di al-Bakri trova un epilogo lo scorso agosto, quando è liberato dopo che il suo caso viene portato dinanzi alla Corte Suprema. "Voglio solo riabbracciare la mia famiglia", ha detto prima di tornare in Yemen. Ma come ci spiega il legale il suo reinserimento è complicatissimo, i segni che si porta dietro sono profondi, quelli psicologici ancor più che quelli morali. Al-Kazimi è ancora nella prigione cubana, la sua vicenda è ora curata da un altro legale "ma si spera di arrivare alla sua liberazione". Nonostante la pubblicazione del rapporto, secondo Kassem e i suoi assistiti questo rischia di essere un giorno ancora più triste per l'America, "perché c'è un crimine, ci sono delle vittime ma non si hanno i criminali". L'amministrazione ha escluso che si possa procedere penalmente. "Civilmente è fuori discussione perché il Congresso ha approvato una legge che impedisce di promuovere cause dinanzi a organi giudiziari americani da parte di chi è stato detenuto a Guantánamo". Un messaggio però ci viene consegnato da al-Bakri, un messaggio rivolto a Barack Obama, e non solo: "Non voglio denaro, né risarcimento, vorrei solo che troviate il coraggio di chiederci scusa". Stati Uniti: torture Cia, i servizi britannici chiedono la cancellazione di parti del rapporto Nova, 13 dicembre 2014 I responsabili dei servizi segreti britannici, riferisce il "Financial Times", hanno chiesto la cancellazione di alcuni brani del rapporto del Senato Usa sulle torture della Cia. Lo ha ammesso Downing Street, smentendo quanto affermato solo il giorno prima sull'assenza di contatti tra l'intelligence del Regno Unito e quella statunitense prima della pubblicazione del documento. Un portavoce del primo ministro, David Cameron, ha spiegato che la richiesta era motivata esclusivamente da esigenze di tutela della sicurezza nazionale e non dalla volontà di evitare imbarazzo al governo di Londra o di coprire un eventuale coinvolgimento in presunte torture o operazioni di rendition. Le ultime rivelazioni, comunque, hanno riacceso il dibattito sul ruolo delle agenzie MI5 e MI6, in particolare sulla loro complicità nelle torture inflitte a Binyam Mohamed e ad altri detenuti di Guantánamo e sulla rendition di cittadini libici oppositori del regime di Muammar Gheddafi. Sulle accuse è in corso un'indagine della commissione parlamentare Intelligence e sicurezza, presieduta dall'ex ministro degli Esteri Malcolm Rifkind, la cui relazione è attesa per la fine dell'anno prossimo. Niger: l'impegno di Sant'Egidio con minori detenuti, per giustizia veramente riabilitativa www.santegidio.org, 13 dicembre 2014 "Ero carcerato e siete venuti a visitarmi" dice Gesù nel Vangelo di Matteo, e prosegue: "ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". È con questo spirito che gli amici della Comunità di Sant'Egidio in Niger si recano ogni settimana alla prigione di Niamey per visitare i giovani detenuti nella sezione minorile del carcere. Le condizioni di vita nel carcere sono estremamente precarie, i detenuti, alcuni di loro anche giovanissimi, mancano praticamente di tutto, dai vestiti al sapone. Anche il cibo scarseggia. Quando il sabato mattina si aprono le porte del carcere, per i 40 ragazzi reclusi nella prigione l'ansia dell'isolamento e la monotonia di giornate sempre uguali lasciano il posto alla gioia. Ogni visita è per questi ragazzi un'occasione preziosa per parlare, raccontare i propri problemi, ma anche per riscoprire la bellezza dell'essere insieme: immancabili ogni settimana la partita di calcio e il pranzo con gli amici di Sant'Egidio, preparato con condimenti portati da casa e che fanno la differenza con il menù degli altri giorni. Il pranzo termina sempre con una tisana fatta con prodotti naturali, acquistati al mercato. Un rimedio che aiuta ad eliminare quei parassi che sono spesso fonte di malattie. Non mancano poi le feste, che chiudono sempre i momenti di visita. Visitando regolarmente le carceri, si scopre che le alte mura della prigione non solo impediscono di vedere oltre, ma soffocano anche i sogni e rendono più disumane le persone che vi sono recluse. L'amicizia invece cambia le persone, allevia la sofferenza e, nell'attesa del prossimo sabato, fa sognare una vita migliore. Giamaica: rubati i soldi di una Ong che lavora nelle carceri di Maria Cristina Fraddozio La Repubblica, 13 dicembre 2014 È accaduto alla organizzazione Stand Up for Jamaica, impegnata nella realizzazione di progetti di solidarietà assieme ad Amnesty International. Spariscono i fondi destinati alla Onlus Stand Up for Jamaica. Il ladro scappa con 22.000 dollari. A denunciarlo è la fondatrice dell'associazione Maria Carla Gullotta, italiana d'origine e impegnata da anni nella difesa dei diritti umani sull'isola caraibica. Dal 1999 Stand Up For Jamaica, in collaborazione con altre Ong del posto e con Amnesty International, è impegnata nella realizzazione di progetti di solidarietà. Fra i più importanti vi sono quelli nelle carceri, anche minorili, finalizzati al recupero dei detenuti, i quali hanno l'opportunità di andare a scuola e di apprendere un mestiere. "Occorre che il tempo speso in carcere non sia il tempo della disperazione, il tempo perduto" - spiega Maria Carla - "ma diventi un'occasione per imparare, per acquisire strumenti che insegnino a fare meglio, a diventare umani". L'istruzione per Stand Up è al primo posto. Ed è per questo che è nata la prima scuola all'interno di uno dei maggiori penitenziari con 150 studenti. Quel denaro serviva per gli insegnanti. La riscoperta dell'umanità avviene per mezzo di laboratori di informatica, grafica e musica. La non violenza si esprime in radio, su Free Fm, che trasmette tutti i giorni dal mattino alla sera. Insegnanti, psicologi, medici, mediatori lavorano quotidianamente alle iniziative della Ong. Supporto economico e psicologico per donne e bambini abusati, corsi sui diritti umani agli agenti di polizia, progetti di "ristorative justice" all'interno dei ghetti sono le priorità a cui i volontari di Stand Up for Jamaica si dedicano da anni. "I soldi rubati erano destinati al contributo mensile degli insegnanti e della psicologa. Erano i fondi per terminare la costruzione del laboratorio di artigianato nel carcere maschile di Tower St a Kingston. Erano i soldi per la cena di Natale dei detenuti" fa sapere Maria Carla Gullotta, presidente dell'associazione e console onorario. E aggiunge: "Il furto è avvenuto all'interno della mia abitazione, probabilmente per mano di uno dei miei collaboratori". Raddoppiare le scuole. Proprio quando la battaglia contro la privatizzazione di una delle spiagge più belle dell'isola, la Winnifred Beach (l'ultima pubblica nel Porland), ad opera di Stand Up fot Jamaica, sembra volgere favorevolmente alla fine, un'altra è doverosa. Raddoppiare le scuole, accrescere il numero dei diplomati, creare l'etichetta Made in Jail per vendere i manufatti prodotti dai detenuti e consentire loro di mandare i soldi alle famiglie è ciò per cui Stand Up lotta quotidianamente. Il furto subito ha danneggiato gravemente la Ong. Ed è per questo che Maria Carla ha lanciato un appello: "Per una realtà così difficile, in cui tutti i diritti sono negati, queste sono conquiste. Il nostro mondo, se pur in crisi, gode di grandi privilegi. Non dimentichiamoci di chi non ha voce né strumenti per farsi sentire".