L'amore entra dentro l'Assassino dei Sogni. Quinta parte Ristretti Orizzonti, 12 dicembre 2014 Testimonianza di un Uomo Ombra al seminario di Ristretti Orizzonti sugli affetti in carcere del primo dicembre 2014. Il prossimo anno compirò sessant'anni. E oggi pensavo che in carcere il tempo è più lungo, ma la vita è più breve. Non riuscirò mai a capire perché gli uomini ombra murati vivi in una cella per sempre continuano lo stesso a vivere. (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Adesso è la volta del mio amico Roverto Cobertera, l'uomo di colore con doppia cittadinanza domenicana e statunitense condannato all'ergastolo, che per dimostrare la sua innocenza tempo fa aveva portato avanti uno sciopero della fame per due mesi e mezzo. Per le sue condizioni di salute era stato ricoverato all'ospedale per ben due volte. Per lui persino il Presidente della Camera dei deputati e la Redazione di "Ristretti Orizzonti" avevano lanciato un appello esortandolo a interrompere il digiuno. È già dura scontare la pena dell'ergastolo da colpevole, ma è ancora più terribile affrontarla da innocente. E sono sicuro che Roverto Cobertera è un ergastolano innocente. Sono sicuro perché la legge degli uomini può sbagliare, ma la legge del cuore non sbaglia mai. Ho sempre appoggiato le sue proteste perché meglio liberare i nostri sogni e lasciarsi morire di fame che vivere inutilmente. Roverto inizia a parlare con il suo stentato e simpatico italiano. Ho una condanna che finisce con la fine della vita. Una condanna inflitta in maniera incomprensibile per un reato che non ho commesso (…) L'estate scorsa mio nonno di 101 anni è venuto a trovarmi da Santo Domingo. Ed ha persino avuto difficoltà a essere accettato dalla compagnia aerea per l'età avanzata. La prima cosa che mi ha chiesto è come faccio qui in carcere in Italia a vivere senza fare sesso. Dovete sapere che per noi il sesso non è un tabù come da voi. In Sudamerica il sesso è una cosa naturale. Ho risposto a mio nonno che in questo paese il sesso è un privilegio. Dovete sapere che Santo Domingo, che è uno dei paesi più poveri del mondo, dove manca persino l'acqua potabile, ebbene in questo povero paese non fanno mancare l'amore (…) Prima di introdurre le altre testimonianze Ornella parla di Roverto. Di solito non voglio mai che si parli di casi personali, ma con Roverto stiamo facendo una battaglia sulla revisione del processo, è un caso che merita attenzione (…) Abbiamo chiesto espressamente a Roverto che raccontasse di questo suo nonno di 101 anni perché è significativa, in un paese dove c'è tanta ipocrisia su questa tema, la naturalezza di questo centenario che gli chiede come fa a vivere senza il sesso e perché non è possibile fare sesso nelle carceri in Italia. Questo ci sembrava il modo più indicato per parlare di questo tema che qui da noi è sempre un grande tabù. Poi Ornella chiama alcune figlie dei detenuti. Per prima parla Suela. Io entro nelle carceri da quando avevo sei anni perché vado a fare i colloqui a mio papà. Ecco ne ho girati tanti, perché quando hai un genitore che è in carcere è come se lo fossi un po' anche tu, sei costretto comunque ad entrare dentro, a girare tutti gli istituti che gira lui. Oltre ad essere difficile per una bambina entrare all'interno di un carcere, essere perquisita, ti capitano anche tante piccole cose sgradevoli, ricordo una volta che addirittura mi hanno fatto sputare la gomma da masticare, mi hanno fatto togliere la cintura e dovevo tirare i pantaloni perché non stavano su, è stato abbastanza umiliante e brutto, davvero pesante. Quello è il minimo comunque, perché crescere senza un genitore non è facile, non è facile perché io avevo bisogno di mio papà a casa, ero piccola, ma questo non vuol dire che non ne abbia bisogno ancora adesso di lui (…) Oltre ad avere bisogno della sua presenza, però anche quando potevo vederlo e andavo ai colloqui non era molto facile, perché prima, ma ancora adesso in alcune carceri, c'era un muro, c'era anche un vetro e io avevo sei anni, incontravo mio papà ed eravamo praticamente divisi da questo muro, dovevo scavalcare per incontrarlo, per salutarlo e non si poteva, infatti le guardie, gli agenti ogni volta ci riprendevano, ed era un po' brutto, un po' pesante (…)  Poi è la volta di Stephanie. La mia storia inizia tre anni e mezzo fa quando mio padre venne arrestato e mia mamma venne coinvolta in questa vicenda. Posso dire che mi venne negato il diritto agli affetti, perché? (…) Sentivo una sorta di rabbia quando la gente mi chiedeva: ma tu vai a vederli? Tu gli stai accanto? E io rispondevo: ma che domande fate? come fai a lasciare tuo padre, i tuoi genitori da soli, sono comunque le persone che ti hanno portato al mondo, sono comunque le persone che ti hanno fatto diventare ciò che sei. Io non mancavo mai a un colloquio. (…) Però che pena quando arriva il momento che sei lì e non puoi abbracciare tuo padre, non puoi farti magari due passi insieme, non puoi raccontargli le tue giornate. (…) Ma non bastano le poche ore che abbiamo di colloquio in cui non possiamo rapportarci come vorremmo, perché siamo limitati e controllati, e ancora meno basta la telefonata che dura dieci minuti, e ci ritroviamo io e mia mamma a dividercela, e io non posso raccontargli neppure "papà ho preso un bel voto", perché mia mamma comunque ha diritto a quel poco di intimità che le rimane, e se io devo stare lì a dirle "passamelo che gli racconto come è andata l'università", mi sembra di privarla di qualcosa, cioè o mi privo io o ti privi tu, è un po' un tiro alla fune. E ormai sappiamo tutti che invece in altri Paesi hanno molte più opportunità di noi. Adesso è il momento di Veronica. Scusate ma mi sento un po' in imbarazzo, è la prima volta che sono qui davanti a un pubblico. (…) Quando ho capito che mio padre l'avevano arrestato, è iniziato un incubo, un incubo perché non è semplice, inizi a farti delle domande. Iniziano le torture. Le torture perché chi paga le conseguenze sono i familiari. Non è semplice spiegare a tutti come è successo, il perché cioè ti devi sempre giustificare, mortificare. Si soffre, si soffre tanto e soprattutto vedere un padre dietro al vetro ti strappa il cuore, e non accetti la realtà, non accetti perché purtroppo ti metti in croce. Però è giusto, come diceva poco fa Carmelo Musumeci, l'amore è una cosa molto importante, l'amore secondo me è spiegare ad ognuno di noi che anche nonostante ciò che nella vita soffriamo, quello che ti copre e che diventa anche una campana di vetro è l'amore. L'amore perché ognuno di noi ci teniamo mano per mano e andiamo avanti. (…) Oggi è stato veramente uno sfogo. Grazie. Gli interventi di queste ragazze che hanno quasi l'età di mia figlia mi hanno commosso. Chi ama i suoi figli ama tutti i figli degli altri. Continuo ad abbracciare mia figlia, quella figlia di otto anni che ho lasciato tanto tempo fa. E che ora è una donna, laureata in ingegneria chimica. E che per tanti anni quand'ero in regime di 41 bis non potevo toccare perché i colloqui erano limitati da un vetro divisorio. Adesso sta a lei parlare. E quel vigliacco del mio cuore scappa per paura di emozionarsi. Mi lascia solo. Questa non me la doveva fare. Stasera in cella gliene dirò quattro. Continua... Giustizia: ecco il piano anticorruzione… pene aumentate del 50% e prescrizione più lunga di Liana Milella La Repubblica, 12 dicembre 2014 Il Consiglio dei Ministri approva oggi il disegno di legge del Guardasigilli Orlando composto da sei articoli. Cinque pagine e altrettanti articoli. Era questo, fino a ieri sera, il testo del disegno di legge anti-corruzione del governo. Una manovra anticrimine promessa ancora ieri da Renzi in un tweet e che oggi sarà discussa dal consiglio dei ministri. Un ddl - che Repubblica anticipa - che sicuramente potrà creare attriti tra Pd e Ncd perché la sua caratteristica principale è duplice. Da un lato aumentano le pene per tutti i reati di corruzione, dall'altro aumenta fortemente la prescrizione. Il patteggiamento è ammesso solo se si restituiscono i soldi e viene ammesso il delitto. I beni del corrotto vengono confiscati. Chi invece collabora con la giustizia, svela una corruzione, aiuta a sequestrare il "malloppo" si vedrà la pena "diminuita da un terzo alla metà". La corruzione Quello che non aveva fatto la legge anti-corruzione dell'ex Guardasigilli Paola Severino può realizzarsi con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. L'aumento di pena per tutti i reati di corruzione. Eccoli, come li elenca il disegno di legge. La corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, oggi punita da 4 a 8 anni, passa da 6 a 10 anni. Il 319-ter, la famosa corruzione in atti giudiziari, quella di chi corrompe i giudici e delle toghe sporche che si fanno corrompere. Se i fatti sono stati commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo, gli attuali 4- 10 anni di pena passeranno da 6 a 12 anni. Se dalla corruzione compiuta deriva l'ingiusta condanna la pena passa dagli attuali 5-12 anni ai futuri 8-14 anni. Se dalla corruzione avvenuta deriva una condanna superiore a 5 anni oppure all'ergastolo la pena che oggi va da 6 a 20 anni passa da un minimo di 10 a un massimo di 20 anni. La corruzione per induzione È il famoso reato che ha fatto litigare i giuristi, lo sdoppiamento della concussione in due reati, la concussione vera e propria e l'induzione. Il reato che ha diviso il processo di Berlusconi su Ruby. Adesso le pene vengono rivoluzionate. Il 319-quater, la corruzione per induzione, punita secondo la legge Severino con una pena da 3 a 8 anni, che ha fatto molto discutere, viene portata da 6 a 10 anni, con un impatto sui futuri processi che è facile immaginare. La concussione Riscritto ovviamente anche il reato originario, la concussione, nel quale viene anche reinserito, accanto al pubblico ufficiale, anche l'incaricato di pubblico servizio. Anziché da 6 a 12 anni, la concussione avrà una pena minima di 8 anni e una pena massima di 14 anni. I collaboratori Comma ad hoc per chi decide di offrire collaborazione alla giustizia. "Chi si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per individuare gli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme" vedrà la sua pena diminuita da un terzo alla metà. La prescrizione Se n'è discusso molto ieri tra gli staff giuridici della Giustizia e di palazzo Chigi. Ma la decisione sarà presa soltanto oggi in consiglio dei ministri. Per allungare la prescrizione di tutti i reati di corruzione e portarla al doppio una soluzione proposta è quella di inserire nell'articolo 161 del codice penale, che regola le sospensioni del processo, tutti i reati di corruzione, laddove sono indicati anche i reati più gravi come la mafia e il terrorismo. A questa regola dovrà aggiungersi la norma già portata da Orlando nel consiglio del 29 agosto, e cioè quella di una prescrizione che si ferma dopo la sentenza di primo grado, con una sorta di processo breve per l'appello, che potrà durare al massimo 2 anni, mentre il rito in Cassazione non potrà superare un anno. Il patteggiamento Come avevano annunciato Renzi e Orlando ecco la stretta sul patteggiamento. L'articolo 4 del disegno di legge stabilisce che per tutti i reati di corruzione - 314, 317, 319, 319-ter, 319- quater, 322-bis - "l'ammissibilità della richiesta è condizionata all'ammissione del fatto da parte dell'imputato e alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato". La confisca Le regole in vigore per i reati gravi e gravissimi, anche in questo caso, vengono estese a tutti i reati di corruzione. Saranno sequestrati e successivamente sequestrati, come oggi avviene per i mafiosi, tutti i beni di cui il condannato non potrà dimostrare la provenienza. Giustizia: disegno di legge contro la corruzione, su anche i massimi di pena di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2014 Nessun intervento d'urgenza sulla corruzione. Ma possibile innalzamento non solo del minimo, ma anche del massimo delle pene. Allo stato è escluso che le misure annunciate dal premier Matteo Renzi e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando sulla scia dell'inchiesta avviata dalla Procura di Roma possano confluire in un decreto legge. Sul tavolo del Consiglio dei ministri approderà un ordinario disegno di legge, con l'intenzione però di abbreviarne il più possibile i tempi di discussione in Parlamento. Consiglio dei ministri che, anche per gli impegni di Orlando nelle fasi conclusive della presidenza italiana della Ue tra Bruxelles e Belgrado, è slittato dalle 8 di questa mattina alle 18 di domani. Quanto ai contenuti, all'ufficio legislativo della Giustizia si sta lavorando alla messa a punto dell'articolato, partendo dall'annuncio video di Renzi. Con alcune, significative, precisazioni. La principale è quella sulla determinazione delle pena. Se è vero che il premier ha dichiarato la volontà di portare il minimo di carcerazione prevista da 4 a 6 anni, lo staff di Orlando potrebbe orientarsi a un contestuale e parallelo innalzamento del massimo, che passerebbe da 8 a 10 anni. Il che avrebbe, si riflette in via Arenula, un doppio vantaggio: si eviterebbe uno scarto troppo esile tra minimo e massimo di pena edittale (tra 6 e 8 anni, appunto, se l'intervento fosse limitato solo all'aumento del minimo) e si scioglierebbe anche il nodo della prescrizione. Se infatti Renzi ha sottolineato di volere aumentare anche i termini, le strade percorribili sembrano obbligate. Si può ipotizzare un inserimento della corruzione nell'elenco dei reati previsti dal Codice penale per i quali sono raddoppiati i termini ordinari oppure mettere in cantiere l'aumento del massimo di pena detentiva, al quale si allineeranno anche i termini di prescrizione. Dunque: portando il massimo a 10 anni, per effetto della ex Cirielli, anche per la dichiarazione di prescrizione servirebbe altrettanto. Sul fronte del patteggiamento, il disegno di legge dovrebbe prevedere l'inserimento della condizione della restituzione dei proventi dell'illecito. A fare da modello quanto già oggi stabilito per i reati tributari, per i quali il patteggiamento è possibile solo se viene saldato integralmente il debito con l'amministrazione finanziaria (sanzioni amministrative comprese). Infine, ma non in ordine di importanza, perchè soprattutto Orlando attribuisce particolare importanza alla misura, il tema della misure patrimoniali di prevenzione. Qui la norma è in realtà già scritta ed è inserita all'articolo 19 del disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri del 29 agosto, poi in parte rimaneggiata, ma non su questo punto. Verrà così estesa dai reati mafia alla corruzione la possibilità di procedere alla confisca allargata, tipologia disposta in mancanza di un collegamento tra bene e reato, che scatta quando viene accertato che il patrimonio dell'autore del reato è sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all'attività professionale svolta e quando il condannato non è in grado di fornire giustificazioni sulla provenienza di tali beni. Dall'Anm, a margine di un'audizione in Parlamento, arrivano un cauto assenso e un rilancio. "Il vero problema della corruzione non è tanto l'aumento della pena, ma la necessità di rompere il patto corruttivo, anche con soluzioni premiali - sottolineano il presidente Rodolfo Sabelli e il segretario Maurizio Carbone. Inoltre "vista la gravità del fenomeno e i collegamenti tra corruzione e crimine organizzato, introdurre strumenti che valgono per la criminalità organizzata non è un'idea peregrina". Di più, pensare "a soluzioni premiali per rompere l'accordo corruttivo - dicono Sabelli e Carbone - è ancora più necessario dopo che la legge Severino ha previsto che risponda penalmente il concusso per induzione. Già all'epoca del varo della legge si era parlato di circostanze attenuanti e di forti riduzioni di pena". E il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti sottolinea che la linea del maggiore rigore nel contrasto alla corruzione va "nella direzione giusta". Giustizia: allo studio dell'esecutivo prescrizione più lunga con l'aumento delle pene di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2014 La prescrizione torna sul tavolo del Consiglio dei ministri: da un lato, un nuovo sistema di calcolo per tutti i reati (sospensione dopo la condanna di primo grado ma obbligo di concludere in due anni l'appello e in uno il giudizio di Cassazione), dall'altro, un allungamento dei termini per i reati di corruzione, ottenuto indirettamente attraverso l'aumento delle pene massime. Questo è quanto trapelava fino a ieri sera da via Arenula e Palazzo Chigi, dove, però, a poco più di ventiquattr'ore dall'an-nunciata riunione del governo, si andava ripetendo che tutto è ancora oggetto di "ulteriori approfondimenti". A cominciare dal numero dei reati di corruzione per i quali scatterebbe l'aumento della pena. In sostanza, nelle intenzioni del governo il sistema di calcolo dovrebbe essere uguale per tutti i reati e sarà contenuto nel ddl di riforma del processo penale, peraltro già approvato dal Consiglio dei ministri il 29 agosto (ma mai arrivato in Parlamento), che ora torna per un supplemento di esame. La parte sulla prescrizione sarà poi stralciata e trasformata in emendamento al testo base che verrà presentato il 16 dicembre in commissione Giustizia, alla Camera. Per i reati di corruzione, quindi, non dovrebbe essere previsto un meccanismo ad hoc (il condizionale è d'obbligo, visti i dubbi di via Arenula) ma solo un termine di prescrizione più lungo ottenuto, indirettamente, con l'aumento delle pene massime. Aumento già effettuato dalla legge Severino per la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione (salvo la "concussione per induzione", per la quale la pena massima è stata ridotta, e dunque anche la prescrizione), non senza critiche per un sistema che "usa" l'entità della pena per scopi diversi rispetto al disvalore sociale della condotta. In base alla Severino, la pena della corruzione è stata portata da 5 a 8 anni, con conseguente aumento della prescrizione da 7,5 anni (tetto previsto per tutti i reati puniti fino a 6 anni) a 10; se ora fosse aumentata a 10 anni, la prescrizione arriverebbe a 12,5 anni. L'abuso d'ufficio - per fare un altro esempio - è punito fino a 4 anni (prima erano 3) ma la prescrizione è rimasta di 7,5 anni e rimarrebbe tale anche se ora la pena fosse alzata a 6 anni. Al di là del risultato pratico, l'Anm contesta questa impostazione e insiste per un diverso sistema di calcolo in base al quale i termini si interrompono "con la richiesta di rinvio a giudizio". Bisognerà vedere se, in Parlamento, la spunterà il governo oppure prevarranno le altre proposte di legge, come quella dei 5 Stelle e del Pd, più in linea con le richieste dei magistrati. Anche gli organismi internazionali hanno ritenuto insufficiente il sistema dell'aumento delle pene per aumentare la prescrizione: l'Ocse spinge per una riforma strutturale (a marzo ci sarà una nuova valutazione) e la Commissione Ue, il 2 giugno scorso, ci ha "raccomandato" di "potenziare" le misure anticorruzione, "rivedendo in particolare la prescrizione", entro la fine del 2014. Scadenza che si sta avvicinando senza che l'Italia abbia approvato alcunché. Ieri la relatrice della riforma alla Camera, Sofia Amoddio (Pd), ha definito "intollerabile" che la corruzione non sia inserita nell'elenco dei reati gravi (violenza carnale, omicidio colposo plurimo, delitti colposi di danno e che agevolano le attività di associazione mafiosa) per i quali "l'ordinamento prevede il raddoppio dei termini della prescrizione. "È un buco da colmare al più presto" ha osservato, aggiungendo che se ne parlerà in commissione Giustizia. Al momento il governo sembra aver scartato altre soluzioni, come quella di interrompere definitivamente la prescrizione (per tutti i reati) dopo la sentenza di primo grado, prevedendo che, se le fasi successive non si chiudono in un tempo ragionevole, scatti la responsabilità disciplinare del giudice o, in alternativa, l'estinzione della pena. In tal caso, non ci sarebbe bisogno di aumentare nuovamente le pene perché i termini verrebbero sempre calcolati sul massimo previsto ma aumentato della metà (e non di un quarto, come prevede ora la ex Cirielli). Ministro Alfano: pene più severe ma anche certe "Sono a favore dell'inasprimento delle pene per la corruzione, ma dobbiamo avere un altro obiettivo: in Italia ci deve essere la certezza della pena e chi finisce in carcere condannato poi deve restarci a scontare la condanna". Lo ha detto il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, a margine della presentazione al Parlamento europeo a Bruxelles dei risultati del semestre di presidenza italiana del Consilio Ue. Un altro "obiettivo strategico" delle misure che domani saranno discusse in Consiglio dei Ministri "è quello di recuperare il maltolto. Non solo devono rimanere in galera, ma devono restituire fino all'ultimo euro quello che hanno rubato alla comunità". Sull'allungamento dei termini della prescrizione per i reati legati alla corruzione un accordo nel governo "è stato già raggiunto ad agosto", però su questo tema bisogna fare attenzione "perché se ci sono dei giudici lumaca, non possono scaricare su cittadini indagati la loro lentezza. Bisogna sempre bilanciare questi due argomenti". Su questo tema, ha aggiunto nel Cdm di domani "credo che ci sarà un accordo sul quale si sta lavorando e su cui il ministro Orlando sta predisponendo i documenti". Giustizia: l'Anm avverte "fermatevi, per i corrotti serve altro" di Errico Novi Il Garantista, 12 dicembre 2014 Governo deciso a varare il disegno di legge, ma le toghe temono l'estinzione dei pentiti. Sembra un treno lanciato a tutta velocità contro il muro. Il disegno di legge take away annunciato da Renzi sulla corruzione a questo punto non può più fermarsi. Anche se è sbagliato, inefficace, secondo gli stessi magistrati, I quali prima intervengono con una pagina a pagamento su alcuni quotidiani, in cui rivendicano i noti primati delle toghe italiane. Poi in tempo reale dicono in conferenza stampa che sì, "Renzi dovrebbe passare dalle parole ai fatti", ma non nel modo inteso dal premier. Aumentare le pene per i reati di corruzione ed è la soluzione più facile, mentre bisognerebbe percorrere strade più difficili ma più efficaci", dicono Rodolfo Sabelli e Maurizio Carbone, presidente e segretario dell'Anm. A cosa si riferiscono? Secondo i vertici del sindacato dei magistrati bisogna mutuare "strumenti processuali usati contro la criminalità organizzata". A cominciare dal "ricorso a meccanismi premiali", cioè gli "incentivi ai collaboratori". Servirebbero più "attività investigative sotto copertura". Tutte cose che non fanno parte del piano predisposto da Renzi. Il quale invece punta a innalzare le pene per i reati di corruzione: oggi vanno da 4 a 6 anni di carcere, dovrebbero essere aumentate da un minimo di 6 a un massimo di 12 anni. La ratio è spiegata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha messo sotto pressione l'ufficio legislativo di via Arenula per ottenere un testo in vista del Consiglio dei ministri di oggi pomeriggio: "L'obiettivo è garantire che anche quando si ricorre a riti alternativi la pena detentiva non è esclusa". Ma è proprio questo che non piace ai giudici. Se anche nel caso delle condanne minime "un po' di carcere te lo fai sul serio", come dice Renzi, nessuno confesserà più un tubo. Non ci sarà faccendiere, o assessore, disposto a cantare, se gli si toglierà la speranza di ottenere una pena bassa e di non finire in galera. È questo che i magistrati cercano disperatamente di far capire al premier, E cercano di fargli arrivare la voce anche attraverso i numerosi loro colleghi distaccati presso l'ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Persino la toga più in prima linea di tutte in questo momento, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, spiega alla commissione parlamentare Antimafia: "Sarebbe estremamente utile una qualche forma di sistema premiale" nel campo della corruzione. La quale costituisce "un problema grave quanto le mafie; ebbene, grandi risultati nel contrasto alle mafie sono stati possibili grazie ai sistemi premiali, i collaboratori di giustizia, e allora qualche provvedimento legislativo di questo tipo sarebbe opportuno". Il capo dei pm romani è più chiaro che non si potrebbe; "Se lasciamo intatto l'interesse comune di corrotto e corruttore di difendersi a vicenda, tutto è molto più difficile". Chissà se i messaggi saranno recepiti dall'esecutivo. Renzi pare per la verità lanciatissimo sulla linea del "che vadano in galera". Lo dice anche di primissima mattina via twitter: "Su 50mila carcerati, solo 257 per corruzione. Non è serio. Non basta lo sdegno: regole più dure domani in Consiglio dei ministri". Si vedrà se il ministero della Giustizia riuscirà a correggere in tempo le bozze in modo da introdurre gli auspicati meccanismi premiali per i corrotti che si pentono. Ma tutto è reso difficile dai tempi strettissimi. Il guardasigilli Orlando ha solo una certezza, e riguarda l'altro provvedimento in arrivo dal Consiglio dei ministri di oggi, ovvero l'atteso disegno di legge delega per la riforma del processo penale: "La prescrizione cambierà per tutti i reati, in ogni caso su questo fronte non inventiamo nulla". Vuole dire che il testo è quello già presentato nell'or-mai mitico Consiglio dei ministri del 29 agosto. Non cambia niente: timer della prescrizione interrotto per due anni dopo la sentenza di primo grado e per uno dopo l'Appello; il tempo congelato viene reinserito nel computo qualora, dopo la condanna in primo grado, arrivi l'assoluzione in secondo grado. L'altra cosa chiara è che non ci sarà la clausola di salvaguardia per i processi già arrivati a una prima sentenza. Anche perché, come spiega il viceministro Enrico Costa, dell'Ncd, si tratta di una norma di diritto sostanziale, "quindi il favor rei si applica a prescindere dal fatto che la legge lo ricordi esplicitamente". Alfano dice di approvare l'intervento sulla corruzione, anche i suoi si mostrano più tranquilli. È il pacchetto Renzi sulla corruzione che rischia di avere una vita ancora più complicata del previsto. Giustizia: oggi in Consiglio dei Ministri ddl contro la corruzione, che fesseria aumentare le pene di Alberto Cisterna Il Garantista, 12 dicembre 2014 La riforma Severino è fallita ancor prima di arrivare a regime. Quel testo era sbagliato per molte ragioni; anziché semplificare il sistema dei reati lo aveva ulteriormente balcanizzato e, nelle pieghe di mille distinguo, si sono infilati anche imputati eccellenti. La strada dell'inasprimento delle pene è naturalmente percorsa ad uso e consumo dei media. Non avrà alcun risultato pratico, anzi a ben vedere aggraverà il problema. Perché? Ma semplicemente per la ragione che, quasi sempre, per scoprire la corruzione è necessario che il corruttore dia una mano ai giudici. La riforma Severino è fallita ancor prima di arrivare a regime. Se due anni dopo quel testo il Governo avverte la necessità di mettere mano alle pene per la corruzione è evidente che lo sbandierato giro di vite di Monti era un pannicello caldo. Quel testo era sbagliato per molte ragioni: anziché semplificare il sistema dei reati lo aveva ulteriormente balcanizzato e, nelle pieghe di mille distinguo, si sono infilati anche imputati eccellenti: l'assoluzione del Cavaliere nel processo Ruby è, anche, il frutto del nuovo impianto dove la concussione è stata sezionata in due distinti reati. La strada dell'inasprimento delle pene è naturalmente percorsa ad uso e consumo dei media. Non avrà alcun risultato pratico, anzi a ben vedere aggraverà il problema. Perché? Ma semplicemente per la ragione che, quasi sempre, per scoprire la corruzione è necessario che il corruttore dia una mano ai giudici, confessando e raccontando del denaro versato al corrotto. Se le pene salgono e, come minaccia il premier, si deve per forza andare in galera e pagare sino all'ultimo centesimo è, come dire, complicato che qualcuno si faccia avanti. Già collaborare con la giustizia in processi di corruzione ha un prezzo sociale che è inutile tacere (nel ceto politico e imprenditoriale chi parla è sempre un infame), se poi a questo si aggiungono le manette e la cella sicura è da mettere in conto che le collaborazioni saranno un ricordo. Mani pulite ci fondò tutta la propria azione repressiva, ricordiamolo. Per assestare un colpo decisivo alla corruzione endemica che affligge gli apparati burocratici del paese e che alimenta la mala-politica e le mafie ci sono varie soluzioni: una è prevedere che chiunque abbia versato denaro a un funzionario pubblico per qualsiasi ragione [corruzione, concussione, induzione indebita) vada esente da pena se entro un anno denuncia il fatto ai magistrati. La corruzione si scopre, in genere, molto tempo dopo da quando viene consumata e questo gioca sulla prescrizione facendola scorrere abbondantemente. Il termine di un anno, trascorso il quale il privato risponde del reato anche quando sia stato costretto a pagare dal funzionario e sia stato vittima di costui, ha il pregio di portare i giudici ad intervenire con rapidità quando ancora le prove non si sono del tutto dissolte e la prescrizione è molto lontana. E poi, è inutile nascondersi, ci sarebbe un altro enorme vantaggio: verrebbe messo in crisi il patto di omertà che salda corrotto e corruttore. Patto del silenzio che, invece, la scure della pena esemplare tende a rafforzare. Paradossalmente quanto più le peno si innalzano tanto più diventa difficile accertare la corruzione, a meno che non si introduca il premio dell'impunità per chi collabora in un tempo ragionevole. I magistrati di Mani pulite lo avevano proposto venti anni or sono. Durante i lavori per la legge Severino la politica fece a pezzi ogni progetto di questo tipo baloccandosi in piani anticorruzione, autorità amministrative e amenità del genere. Il muro dell'omertà lo si batte soprattutto con la collaborazione dei soggetti coinvolti, era stata la grande lezione di Giovanni Falcone. Se oggi la corruzione si staglia come il fattore capace di catalizzare e saldare il malaffare politico e gli appetiti mafiosi è chiaro che qualcosa di profondo è accaduto nella geografia criminale del paese. La corruzione da sistemica e capillare, che era, tende ad assumere le forme di una vera e propria organizzazione, capace anche di valersi di picchiatori e picciotti di quartiere pur di conseguire i propri obiettivi. In Mafia Capitale è ancora difficile stabilire che siano i padroni e chi gli sgherri o può darsi che il processo riveli il volto di una corruzione violenta e prevaricatrice dotata di un braccio armato di apprendisti mafiosi. E questo esige rimedi. Giustizia: le intercettazioni... "gadget per i media" e meno garanzie per tutti di Francesco Lo Piccolo (Direttore di "Voci di dentro") www.huffingtonpost.it, 12 dicembre 2014 Guardo poco la tv, non mi appassionano talk show e inchieste giudiziarie. Ancora meno mi hanno appassionato i video e le voci degli spiati di turno tali Buzzi e Carminati dell'indagine Mafia capitale, messi in tv, in internet e sui giornali... distribuiti nei vari media come una volta si distribuivano i gadget. Mi occupo d'altro. Ma ugualmente alcune considerazioni le voglio fare qui perché riguardano l'informazione e il diritto. Riguardo al primo aspetto dico subito che più che informazione io ho visto spettacolo, un grande spettacolo mediatico, un reality eccitante con tanto di marchietto Ros Carabinieri... meglio di una fiction. Dove il motivo conduttore (tipo cacio sui maccheroni) è l'allarme sociale... ora sulla corruzione, ieri sui rom e sugli immigrati... domani si vedrà. Riguardo al secondo mi viene da dire che poche frasi estrapolate dal contesto hanno fatto da fondamento all'ennesimo teorema, un teorema (come tale da dimostrare) per cui tutti noi-pubblico, alla fine abbiamo emesso il nostro verdetto: gli arrestati e gli indagati sono colpevoli... ci sono le prove, ci sono le intercettazioni... ci sono valige pieni di soldi... ci sono le ammissioni della segretaria... la mafia è ovunque, la corruzione dilaga, non se ne può più, dove siamo finiti, non c'è morale. Insomma dall'informazione-spettacolo ecco che il pubblico è subito arrivato al processo e alla sentenza. E la politica dal canto suo è già in cerca di chi punire e come punire. Naturalmente senza uno straccio di prova, solo in forza di una indagine giudiziaria e di una ricostruzione mediatica, con una tesi costruita su indizi che a rigore diventano e possono diventare prova soltanto in un'aula di tribunale e in un contraddittorio tra le parti, tra difesa e accusa, nella garanzia del processo. Alcune settimane fa nella mia relazione al seminario di aggiornamento per giornalisti organizzato dall'Ordine dei giornalisti dell'Abruzzo e da Voci di dentro e che si è svolto nel carcere di Chieti ho affrontato il tema della presunzione di innocenza, della responsabilità che abbiamo come giornalisti, del dovere di fare informazione e non spettacolo-merce. L'ho fatto alla luce di un po' di dati che qui riporto: 1. Negli ultimi quindici anni sono state completamente scagionate oltre trecentomila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula più ampia per l'imputato: "non aver commesso il fatto". Ad esse vanno aggiunti altri 73.326 imputati assolti con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: "il fatto non sussiste" o "non costituisce reato". 2. All'epoca di Mani Pulite a fronte di 4.500 arresti e 25.000 avvisi di garanzia ci furono 1.300 condanne. 3. In Gran Bretagna le persone in attesa di giudizio sono il 16 per cento, in Italia sono il 44 per cento. Dati e fatti che mi portano ad aggiungere: nel fare giustizia e non giustizialismo occorre soprattutto avere dubbi e non certezze. Dubbi peraltro bene espressi in più occasioni dal professor Luigi Ferrajoli in tanti dei suoi libri e anche di recente in un intervento a Ortona nel corso di un convegno dal titolo "Quale giustizia oggi" organizzato dall'Associazione Romano Canosa per gli studi storici. C'ero, l'ho ascoltato con attenzione, sintetizzo alcuni passaggi sperando di non sbagliare troppo: il nostro modello è un modello garantista fondato sui limiti al potere giudiziario e di polizia e a garanzia contro arbitri ed eccessi del potere... occorre avere coscienza del carattere relativo e incerto della realtà processuale, bisogna essere consapevoli della possibilità dell'errore... il giudice deve essere capace di assolvere quando tutti chiedono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l'assoluzione... occorre rifondare la legalità contro il diffondersi di un populismo penale e legislativo... contro i poteri sempre più selvaggi. Dunque dubbi e non certezze. E questo per evitare lo spettacolarismo che ha pervaso l'informazione e il populismo che ha investito la fase dell'indagine e quella della giustizia. Spettacolarismo e populismo che hanno di fatto annullato le regole di garanzia. E trasformato i giornali in una sorta di "terminale passivo di flussi informativi attivati in prima persona da altri soggetti pubblici e privati, che intendono controllare modi e tempi della comunicazione..." (La stampa e il caso Dal Molin - tesi di Elena Dante laureata in Teorie e tecniche del linguaggio giornalistico all'Università di Padova). Ricordate William Hearst nel famoso film di Orson Welles Citizen Kane, "Quarto potere"? Non è male rivederlo e riflettere su questa frase pronunciata dal protagonista: "Non avere paura di commettere un errore, ai tuoi lettori potrebbe piacere". Giustizia: dal "Mondo di mezzo", al Mose, all'Expo… il pantano delle cooperative sociali di Damiano Aliprandi Il Garantista, 12 dicembre 2014 Le grandi strutture divorano le piccole, mentre la legge non favorisce chi dà lavoro agli ex detenuti. L'inchiesta giudiziaria "Mondo di mezzo" ha creato un terremoto nel mondo romano delle cooperative sociali impegnate nell'accoglienza di minori, stranieri, rom e per il recupero dei detenuti. Un problema denunciato in tempi non sospetti da Riccardo Magi, presidente di Radicali Italiani e Consigliere comunale a Roma, il quale ha da sempre denunciato quell'industria della solidarietà, alimentata da affari e interessi che ruotano intorno al mondo delle cooperative. In realtà i segnali per l'imminente terremoto nel mondo delle cooperative c'erano tutti e lo ha spiegato Gian Luigi Bettoli, presidente di Legacoopsociali Friuli Venezia Giulia: "Mentre c'è chi si svena letteralmente per resistere alle politiche monetaristiche deflattive che stanno deindustrializzando il nostro paese e creando una povertà sempre più estesa, nel corso di pochi mesi abbiamo visto cooperative aderenti, talvolta anche sociali, coinvolte nella corruzione per gli appalti dell'Expo di Milano ed il Mose di Venezia; nello sfruttamento degli immigrati e nella gestione di campi di concentramento inumani; in fenomeni sistematici di sfruttamento del personale della logistica ed in gestioni oligarchiche e suicide di cooperative di consumo con una storia secolare". Berteli poi arriva a parlare della cooperativa romana inquisita: "Ci mancava solo l'attuale episodio di coinvolgimento di una storica cooperativa sociale romana, la 29 giugno, protagonista di un'azione esemplare di emancipazione dal sistema carcerario, in una storia estrema di corruzione e distorsione assoluta del sistema politico democratico". Ma c'è chi teme per una strumentalizzazione dei fatti per criminalizzare l'intero mondo delle cooperative sociali, utili per combattere il degrado e per la riabilitazione dei detenuti. Il sistema attuale scoperchiato dall'inchiesta, ha messo in luce il problema delle piccole cooperative che non fanno parte dei consorzi legati ai potentati del mondo della politica. Se non si fa parte del "clan", si rischia l'esclusione da tutti i lavori. C'è l'esempio di una piccola cooperativa romana, che con grande determinazione è riuscita ad ottenere il lavoro di bonifica del territorio appartenente al XIV Municipio. Si chiama la Special Servizi, una cooperativa sociale che ha lo scopo di inserire persone provenienti dal disagio sociale, detenuti, ex detenuti e tossicodipendenti nel mondo del lavoro, offrendo una opportunità retributiva che consenta loro di vivere dignitosamente. Mario Astorina, un detenuto in semilibertà e responsabile della cooperativa in questione, è stato contattato dal Garantista per raccontaci la sua storia: "Mi sono occupato di una coop sociale - nata nel 2001 a Rebibbia per volontà di un gruppo di amici e detenuti - che nel 2008 fatturava 400.000 euro. Faceva appalti con la pubblica amministrazione. Però è stata durissima perché gli affidamenti li prendevano altre coop. Voglio precisare che a Roma non c'era una coop, ma ognuna di esse affidava i lavori ad altre piccole cooperative: andava di moda il sub del sub del sub appalto. Non mi piaceva quel gioco dei subappalti e allora io stesso decisi di rimettermi in gioco. Alla fine eravamo in 26 a lavorare e avevamo investito quasi 150.000 euro in automezzi". Mario Astorina prosegue raccontandoci però i problemi ai quali andava incontro: "Giravano chiacchiere che io davo fastidio, e abbiamo dovuto chiudere a forza di boicottaggi ricevuti come l'annullamento dalle gare perché mancavano delle firme". Mario però non si è arreso e si è rimesso in gioco: "Abbiamo dovuto costituire una nuova coop la Special Servizi nel luglio 2014, accreditarla e farla conoscere. Quest'anno abbiamo avuto un affidamento da 22.500 euro per la bonifica e confidiamo anche nel 2015". Alla cooperativa infatti è stato affidato un lavoro importante per la riqualificazione del territorio operando nel verde. Come ad esempio i giardini delle scuole e asili come ha riportato l'assessora romana Daniela Scocciolini del XIV Municipio: "Il primo giro di interventi riguarderà il giardino della Cerboni infanzia comunale, per potare i cedri del Libano e abbattere una pianta in cattivo stato di salute, l'asilo nido di via Casanate, per sistemare il giardino, l'asilo nido di via Taverna, per abbattere alberi e potare quelli esistenti, alla infanzia di via Ascrea, per finalmente dare ai bimbi uno spazio di verde per giocare all'aria aperta. Il verde nelle nostre scuole deve regnare, finalmente, il verde della speranza e del coraggio dell'onestà". Le cooperative sociali per il reinserimento lavorativo dei detenuti è di vitale importanza per la società stessa, nonché per risparmiare soldi. Uno dei problemi del fallimento carcerario è l'alto tasso di recidiva. Il 70% delle persone che hanno scontato la loro pena unicamente dietro le sbarre, una volta libero, torna a delinquere. Percentuale però che si abbassa drasticamente, compresa tra il 12 e il 19%, se i soggetti in questione hanno avuto l'opportunità di lavorare per imprese o aziende esterne durante la detenzione. Del resto, oltre il 50% della popolazione carceraria italiana ha tra i 21 e i 39 anni. Rappresenta un'ottima forza lavoro potenziale e, in epoca di cuneo fiscale altissimo, garantisce vantaggi competitivi alle imprese. Il datore di lavoro, infatti, beneficia di 516 euro di credito d'imposta per ogni detenuto impiegato. Nel caso di addetti assunti a tempo parziale l'agevolazione spetta in misura proporzionale alle ore prestate. E il regime di favore vale per ulteriori sei mesi successivi alla fine della detenzione. In più ci sono sgravi contributivi che oscillano tra il 50% e il 100%. La percentuale più bassa è per le imprese, nel caso di reclusi disoccupati da oltre 24 mesi. Ma la quota sale al 100% per gli artigiani. L'agevolazione è prevista per 36 mesi in caso di assunzione a tempo determinato e permane naturalmente anche oltre il "fine pena". C'è invece una riduzione contributiva del 100% per le cooperative sociali che impieghino persone ammesse alle misure alternative. E uno sgravio dell'80% per le cooperative che si avvalgano di detenuti ammessi al lavoro esterno. Pure in questo caso le agevolazioni si protraggono per 6 mesi oltre la fine della detenzione. Però il lavoro per i detenuti rimane un "privilegio" per pochi a causa della crisi. La norma che sostiene il lavoro dei reclusi è la legge Smuraglia (193/2000), che dall'inizio viene finanziata ogni anno con 4,6 milioni di euro: un ammontare che però via via diventa sempre più esiguo per colpa dell'inflazione e di cui beneficiano oggi poco più di 2 mila detenuti tra quelli impiegati nell'intramurario e i cosiddetti "articoli 21" (ammessi al lavoro esterno in base all'art. 21 dell'ordinamento penitenziario). E rimane il problema della Bossi-Fini che rende tutto più difficile. Accade che un detenuto immigrato riesce a lavorare durante tutta la sua detenzione, ma finita la pena risulta un clandestino e viene espulso. Per quanto riguarda, poi, la tipologia di lavoro più comune, vale a dire quella all'interno dell'istituto penitenziario, la situazione è ancora peggiore. Dovrebbero lavorare tutti i condannati, in realtà lo fanno solo in 13 mila, senza nessuna possibilità, per la maggior parte, di alleggerire il sovraffollamento, alleviare la pena e mettere da parte qualche soldo. Tuttavia, anche in questo casi i tagli hanno tolto quasi ogni speranza se si pensa che il denaro a disposizione delle carceri e destinato alle retribuzioni di queste attività è passato dagli 11 milioni del 2011 ai poco più di 3 milioni di quest'anno. Eppure far lavorare i detenuti, come alternativa alla pena, nelle cooperative sociali si risparmierebbe tantissimo. Un detenuto costa allo stato circa 140 euro al giorno, mentre alle cooperative circa 40. Nonostante ciò una proposta di legge tesa ad aumentare i fondi da destinare ai crediti d'imposta per le aziende che danno lavoro ai detenuti stenta a decollare. Ignorando, che a trarne giovamento non sarebbero soltanto loro, ma l'intera società. Giustizia: "Buon anno pieno di profughi e sfollati, rifiuti e bufere"… fanno guadagnare di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 dicembre 2014 L'sms di Buzzi per le feste del 2013 in cui si augura emergenze. Poi aggiunge "Evviva la cooperazione sociale". "Speriamo che il 2013 sia pieno di monnezza, profughi, sfollati e bufere": così Salvatore Buzzi augurava buon anno agli amici via sms. In carcere due indagati per mafia per i presunti legami tra la cupola di "Mafia Capitale" e la ‘ndrangheta. Il procuratore Pignatone: in arrivo altri arresti. A Capodanno del 2013 l'uomo forte delle cooperative romane Salvatore Buzzi ebbe l'idea di inviare un messaggio di auguri a qualche amico, attraverso il suo telefonino che i carabinieri del Ros stavano già intercettando. Fra i destinatari c'era pure Angelo Scozzafava, che lui chiamava confidenzialmente "Scozzi", all'epoca direttore del dipartimento Promozione dei servizi sociali e della salute del Campidoglio: il suo nome compare spesso nelle carte sulla presunta associazione mafiosa di cui Buzzi è accusato di essere "organizzatore e gestore delle attività economiche". Il 2013 era cominciato da poche ore quando, alle 14.19, Buzzi gli spedì questo testo (gli errori di ortografia sono nell'originale): "Speriamo che il 2013 sia in anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l'erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale". Un auspicio per i suoi affari che forse voleva essere solo scherzosamente cinico; ma visti gli interessi che l'inquisito per mafia finito in carcere insieme a Carminati e agli altri presunti complici aveva messo in piedi in quei settori d'intervento - dalla raccolta dei rifiuti ai campi nomadi, passando per la crisi abitativa e la manutenzione delle aree verdi, svela una volta di più lo stato d'animo di chi accumula denaro su emergenze e catastrofi. Che riguardano gli altri. Qualcosa che ricorda molto da vicino la telefonata intercettata all'indomani del terremoto dell'Aquila, quando il costruttore Francesco De Vivo Piscicelli confidò al cognato: "Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto". Proprio Buzzi, quattro mesi dopo quel messaggio di auguri, in una conversazione registrata dalle microspie il 20 aprile 2013, spiegava: "Noi quest'anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi... gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull'emergenza alloggiativa e sugli immigrati. Tutti gli altri settori finiscono a zero". Ed è lo stesso artefice della ormai famosa confessione intercettata: "Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende di meno". Anche sulla grande nevicata che colpì Roma nel febbraio 2012 il gruppo aveva lucrato centinaia di migliaia di euro: l'ex detenuto divenuto un simbolo delle cooperative romane spiega in un altro colloquio che per partecipare alla gestione di quell'emergenza aveva concordato una tangente di 40.000 euro per Claudio Turella, il funzionario del Comune al quale gli investigatori hanno trovato oltre 500.000 euro in contanti. Ma il vero business di Buzzi, che si augurava un 2013 "pieno di profughi", sembra essere quello dell'assistenza ai migranti che sbarcano sulle coste italiane. Compreso il Centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Cropani Marina, provincia di Catanzaro, gestito fra il 2008 e il 2009 dalla cooperativa "29 giugno". Secondo il giudice che ieri ha mandato in carcere altri due indagati per associazione mafiosa, Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, quell'appalto da un 1.300.000 euro fu vinto da Buzzi che poté godere della protezione da parte della ‘ndrangheta grazie a un accordo con la famiglia Mancuso di Limbadi, cosca dai "saldi collegamenti con i Piromalli, i Mammoliti, i Pesce". Grazie al "favore" concesso dal clan Mancuso, Buzzi nella sua attività in Calabria ottenne rispetto e protezione dal clan, come emerge da alcune intercettazioni. "Tu sei stato rispettato dai Mancuso - dice Buzzi a Rotolo. Sonoi passati 5 anni... T'ha toccato qualcuno là sotto?". In cambio di questo trattamento, nella ricostruzione dell'accusa, il gruppo romano guidato da Buzzi e Carminati ha concesso ai calabresi l'appalto per la pulizia del mercato romano al rione Esquilino. Il benestare finale sarebbe arrivato da Carminati, presunto capo di "Mafia capitale". Buzzi gli aveva chiesto se fosse d'accordo a concedere attraverso "una piccola cooperativa" affidata agli emissari dei Mancuso "quello che facciamo noi su Piazza Vittorio". E l'ex estremista nero rispose: "Come no, ma che scherzi?". Giustizia: nessuna umanità nei confronti della madre di Loris, ci sentiamo come fossimo Dio Il Garantista, 12 dicembre 2014 Veronica Panarello è innocente fino a prova contraria. E non basta dirlo, come hanno fatto alcuni conduttori tv che nel frattempo speculano sulla morte di Loris, bisogna anche praticarlo. In Procura e sui giornali. Ma qui vogliamo provare a ragionare per assurdo. E ci chiediamo: ma anche se Veronica fosse colpevole, merita di essere insultata e linciata, come stanno facendo media e cittadini-spettatori? La risposta è un secco no. In queste ore mi hanno molto colpito le immagini dell'arresto. Veronica Panarello è stata insultata in quasi tutte le occasioni. Ormai considerata colpevole, senza processo, ha ricevuto offese sia fuori dalla Procura, sia fuori e dentro il carcere di Catania. In poche ore, la donna fragile è diventata il mostro a cui neanche la famiglia crede più. La sorella intervistata dal Tg1 l'ha rinnegata, dicendo che è viziata e che è colpa sua se la famiglia si è sfaldata. Ma le più accanite di tutte sono state le madri i cui figli vanno nella stessa scuola che frequentava il piccolo Loris. Nessuna inquietudine, nessuno spazio alla pietas. Veronica è diventata una negletta, una donna da mandare al rogo. Se è colpevole, anzi poiché è colpevole - dicono gli urlatori - non deve stare in carcere solo 16 anni come Anna Maria Franzoni, dove stare in galera per sempre. "Dovete - dice questo coro di giustizieri - buttare la chiave". Mi chiedo come sia possibile questa totale mancanza di umanità. In nome di Loris si giustificano i sentimenti peggiori: la vendetta, la violenza, l'odio. Ci si crede superiori a chi si condanna. È come se, nel giorno del giudizio, si stesse dalla parte di Dio a decidere chi deve essere punito e chi premiato. Il male appartiene all'altro, al mostro, a cui non si riesce a guardare con un po' di umanità e di amore. Se Veronica avesse davvero ucciso il figlio, meriterebbe ancora più attenzione e amore. Non è un'assassina incallita, una vendicatrice che va in giro ad uccidere le persone. Semmai avesse ammazzato il piccolo che ha generato, dovrebbe essere aiutata, non colpita e affondata. In ogni caso, è una persona bisognosa di aiuto, non di essere insultata. La Costituzione italiana parla di reinserimento per il reo, di una seconda possibilità che deve essere offerta a chiunque. Nel caso di Veronica lo stato di diritto sparisce, la Costituzione diventa un ricordo lontano. Si ritorna alle società barbare, all'occhio per occhio, dente per dente. Anni e anni di giustizialismo hanno cambiato la testa delle persone. Siamo davanti a un mutamento antropologico e cognitivo profondo. Ogni tanto sembra di cogliere segnali di un ravvedimento, di un ritorno a principi di civiltà. Ma questa storia ci racconta invece che stiamo attraversando un'epoca buia, senza pietà e senza capacità di identificarci con gli altri: con il loro dolore, ma anche con le loro parti buie, con le loro sofferenze ma anche con quella cattiveria che c'è nell'essere umano. Negandola diventiamo ancora peggiori. Ci sentiamo la parte buona della società, i migliori, e da questo ingannevole pulpito spariamo le nostre sentenze. Nel caso di Veronica pesano i pregiudizi che ci sono nei confronti della figura materna. Si mette in scena una maternità senza ombre, in cui l'amore regna incontrastato. Molte donne che hanno vissuto questa esperienza sanno che non è così. Ci sono momenti di rabbia, di depressione, ci sono momenti in cui l'odio si sostituisce all'amore. Questo accade soprattutto quando ci si sente sole, stanche, senza prospettive. Accade a tante. Ma è difficile dirlo, raccontarlo. Farlo entrare nell'immaginario condiviso. Ma finché non si costruisce questo racconto comune e pubblico, chi è sola davanti a una maternità difficile, rischia di esserlo ancora di più. Le donne che hanno aspettato Veronica fuori dal carcere, con lo smartphone in mano per fare le foto, non hanno avuto dubbi sulla sua colpevolezza - lo ha detto la tv, lo dicono i giudici - non hanno avuto pietà per una donna, per le sue paure e fragilità. Molti di voi, lo so, si stanno chiedendo: ma Loris che fine fa in questo discorso? Non interessa che sia stato ucciso? Certo che interessa e che dispiace molto. Ma non è rinunciando alla presunzione di innocenza, né evocando la vendetta che lo si riporta in vita. Non è così che lo si piange. Il linciaggio e l'odio che vediamo esibirsi contro Veronica rendono solo questa società peggiore. Giustizia: caso Loris, quando le telecamere valgono più di un testimone di Astolfo Di Amato Il Garantista, 12 dicembre 2014 L'arresto della mamma del povero Loris non è giunto inaspettato. Da molti giorni, ormai, circolavano voci sulla incoerenza delle dichiarazioni della donna e sulla circostanza che le stesse erano risultate in contraddizione con le registrazioni delle videocamere di sorveglianza esistenti nel tragitto, che la medesima avrebbe compiuto nella mattina in cui Loris è scomparso. In definitiva, vi è stato un crescendo di indiscrezioni tale da far considerare l'arresto di Veronica un evento scontato. Anzi, il lasso di tempo intercorso tra la circolazione delle indiscrezioni e l'arresto è stato tale da far maturare anche il convincimento di un comportamento prudente da parte degli investigatori, i quali hanno voluto riflettere prima di arrestare la donna. L'arresto di Veronica, per quello che riferiscono i giornali, è poi motivato con il pericolo di fuga. Inutile dire che, se si gratta un po' la superficie, le conclusioni degli investigatori non appaiono appaganti così come a prima vista potrebbe sembrare. Contro la donna vi sarebbero i risultati della tecnologia. Si riproduce, in questo caso, quella che sembra essere una costante delle inchieste relative ai delitti più recenti. La tecnologia irrompe sulla scena del crimine, come avviene nei telefilm americani, e risolve con granitiche certezze il problema della individuazione dell'assassino. Nel caso di Yara Gambirasio la soluzione è offerta dalle tracce di Dna trovate sugli indumenti della povera bambina; nel caso del povero Loris sono le telecamere di sorveglianza disseminate nel paese, che consentono una ricostruzione dei fatti non più contestabile. Si sta determinando, in questo modo, una divaricazione, che sembra diventare incolmabile, tra tecnologia applicata alle investigazioni e vicenda umana. Tutta la parte centrale di un delitto, specie di un delitto non cosiddetto di strada, e cioè gli impulsi, le motivazioni, la coerenza dell'addebito con la personalità, finiscono con l'essere relegate in secondo piano, fino a sbiadire del tutto. Quello che era il punto focale di ogni investigazione, e cioè l'individuazione del movente, ha perso completamente rilievo e diventa un tema per il quale qualsiasi soluzione posticcia è buona. Spesso, anzi, si assiste a elucubrazioni generate dalla testa dei giudici, che scadono nel grottesco. Sennonché, l'esperienza dice che gli accertamenti tecnologici possono anch'essi essere fallaci. Innanzitutto sono fallaci in quanto non offrono direttamente la soluzione, ma solo elementi del puzzle che deve essere ricomposto. Ricostruire il puzzle intorno a quegli elementi, ritenendoli certezze assolute, favorisce spesso una loro cattiva interpretazione. In secondo luogo, poi, gli stessi risultati della tecnologia danno minori certezze di quanto possa apparire. Se si considera una telecamera la quale riprende in modo sfocato una automobile in movimento, appare subito evidente che si pongono problemi di interpretazione del risultato tecnologico, che escludono la stessa possibilità di un risultato incontrovertibile. Ciononostante, si crea inevitabilmente intorno al presunto colpevole una cappa di certezze a lui avverse, che diventa sempre più difficile scalfire. Ciò sotto due profili. Innanzitutto, va messo in rilievo che gli accertamenti tecnologici nel processo hanno fatto lievitare in modo estremamente significativo i costi della difesa. Per poter contrastare gli accertamenti tecnici degli inquirenti, e l'esperienza processuale dice che non si tratta di accertamenti infallibili, diventa necessario disporre di veri e propri team di difesa, con la presenza di specialisti portatori di conoscenze estremamente sofisticate. È ovvio che non tutti gli imputati sono in condizione di permetterselo, con la conseguenza che gli accertamenti tecnici dell'accusa, anche se errati, non possono essere contestati. A questa prima considerazione se ne aggiunge un'altra. Secondo il difensore di Veronica, vi sarebbero dei testimoni che confermerebbero la ricostruzione dei fatti così come offerta dalla donna nelle sue dichiarazioni. Ma, di fronte alle certezze tecnologiche raggiunte dagli inquirenti, i testi finiscono con l'essere condizionati. In primo luogo si inserisce nei loro meccanismi mentali un elemento, la certezza dell'accertamento tecnologico, che è suscettibile di alterare il ricordo. In secondo luogo, insistere su un ricordo in contrasto con le certezze della tecnologia può essere pericoloso e può indurre il teste ad essere timido nella ricostruzione dei fatti. In definitiva, anche nel caso di Veronica Panarello, come in molti altri, sebbene le questioni centrali della vicenda sul piano umano, innanzitutto il movente, siano ancora aperte, la questione della responsabilità rischia di essere già chiusa in modo inappellabile. Giustizia: Salvo Fleres "Scandalosa la fuga di notizie, indegna la folla davanti al carcere" di Chiara Rizzo Tempi, 12 dicembre 2014 Intervista a Salvo Fleres: "Chi ha diffuso i dettagli del trasferimento della donna da Ragusa a Catania? Perché non si apre un'indagine su questo?" "Ma ci rendiamo conto che è stata messa a repentaglio la vita, l'incolumità di una persona, lasciando che venisse organizzata contro di lei una protesta indegna?". Salvo Fleres, ex garante dei detenuti della Sicilia (ancora oggi in servizio attivo, ufficioso e gratuito, dato che non è mai stato nominato un sostituto), sbotta mentre parla a tempi.it della persecuzione mediatica subìta da Veronica Panarello, la donna di Santa Croce Camerina (Ragusa) accusata dell'omicidio del piccolo Loris Stival, suo figlio. Fleres accetta di rispondere alle nostre domande proprio mentre Veronica, all'interno di un carcere di Catania assediato dalle telecamere, è seduta davanti al Gip per l'interrogatorio di garanzia in vista dell'eventuale convalida del fermo. La sera dell'8 dicembre, quando è stata trasferita lì, la mamma di Loris è stata accolta, oltre che dai soliti microfoni, anche da una piccola folla di cittadini che gridavano "vergogna!" e dalla protesta (condita da minacce) dei carcerati. Quest'ultima paradossalmente è quella che meno preoccupa il garante dei detenuti, nella catena di eventi degli ultimi giorni. Dottor Fleres, cos'è che la disturba tanto? Più di tutto la grave iper-valutazione mediatica dell'evento, che ha travolto i diritti della signora Veronica, colpevole o innocente che sia, in quanto persona. Soprattutto è stata messa a repentaglio la sua incolumità e quella degli agenti di polizia penitenziaria. Quando la sera dell'8 dicembre la signora è stata tradotta da Ragusa a Catania, è trapelata la notizia completa di modalità e tempi del trasferimento. È il fatto, grave, che ha permesso non so bene a chi di organizzare una protesta indegna nei confronti di quella donna. Parla della protesta dentro il carcere? Macché. Parlo del capannello di persone sconosciute che si sono assiepate all'esterno della struttura, un "comitato d'accoglienza" che ha insultato duramente la signora al suo arrivo. Che senso ha? Nessuno si è preoccupato di tutelare la dignità di una reclusa che - ripeto: colpevole o innocente che sia - sta vivendo un dramma personale di enorme portata. Chi ha fatto trapelare i dettagli del trasferimento di Veronica? Non lo so esattamente, ma di certo può essere stato solo chi ha disposto la traduzione: quindi la procura di Ragusa, il nucleo traduzione giudiziaria, un cancelliere del tribunale. L'ambiente è quello insomma. Nell'ora di tempo necessaria al viaggio da Ragusa a Catania è stato organizzato il capannello, poi, è chiaro, si deve essere messa in funzione anche "radio carcere" visto che i detenuti hanno saputo che stava arrivando la signora e l'hanno insultata. Ma a me preoccupa di più la protesta organizzata all'esterno. Perché? Supponiamo per un'istante che la signora abbia davvero commesso il delitto di cui è accusata ma non lo abbia compiuto da sola: e se la notizia del suo trasferimento a Catania fosse arrivata anche agli eventuali complici? Cosa sarebbe potuto succedere? Avrebbero potuto mettere a segno un attentato per eliminarla. Un fatto del genere in passato è già accaduto proprio qui a Catania, dopo la strage del casello di San Gregorio nel 1979. Proprio perché si era diffusa la notizia della traduzione in carcere di un boss mafioso, sono stati uccisi tre giovani carabinieri di scorta. E poi che senso ha la diffusione di particolari poco significativi sul passato della signora, se abbia o meno tentato il suicidio in passato e quali fossero le sue relazioni extraconiugali? Si avvii piuttosto un'inchiesta sui fatti che hanno portato a questa indegna accoglienza in carcere. Ha già visitato la cella d'isolamento dove si trova Veronica? Non ho visitato la signora, ma conosco bene il carcere di Catania. La signora si trova nel reparto femminile, probabilmente nella cella di isolamento che si trova all'inizio del reparto, perché c'è più spazio per organizzare la sorveglianza. Mi auguro infatti che per lei sia stato organizzato un servizio di sorveglianza 24 ore su 24, con un agente della polizia penitenziaria a vigilare perché non commetta gesti lesivi su di sé. In quali condizioni si vive in quella cella? La cella è di circa 8 metri quadrati circa, con un letto e un armadietto. Immagino che la signora sia rimasta in isolamento assoluto fino all'interrogatorio di garanzia di oggi (ieri per chi legge, ndr). Significa che non può leggere i giornali né vedere la tv. Sono previste due ore d'aria, una al mattino e una la sera, in cui può uscire dalla cella, ma da sola. Spero infine che le garantiscano l'assistenza speciale dello psicologo, oltre alla prima visita di ingresso prevista per tutti i detenuti, che serve a capire se c'è tendenza al suicidio o no. Credo che questo caso meriti una maggiore attenzione del normale. Lei ha denunciato che in questo caso c'è "un interesse morboso sulla reclusione intesa come segregazione. La giustizia cerca il clamore, piuttosto che il buon senso". Ha in mente altri casi in cui questo è avvenuto? Uno è successo poco tempo fa: parlo del caso dell'ancora presunto assassino di Yara Gambirasio, Massimo Bossetti. Anche in quell'occasione le telecamere erano davanti al carcere di Brescia al suo arrivo. Le autorità inquirenti devono smetterla di passare queste informazioni alla stampa, altrimenti poi non si lamentino se succedono cose gravi. La mancanza di indagini sulle fughe di notizie intorno alle inchieste e alla traduzione di detenuti in carcere è grave. Si sprecano un mucchio di energie per dare la caccia a pettegolezzi secondo una visione morbosa dei reati, energie che andrebbero invece impiegate per fare controlli e indagini utili. Giustizia: sono stato interrogato da Commissione Antimafia, sembrava una corte fascista di Piero Sansonetti Il Garantista, 12 dicembre 2014 Sono stato convocato nei giorni scorsi dalla Commissione parlamentare antimafia per una audizione. Almeno, così avevo capito. In realtà sono stato sottoposto ad un interrogatorio, che è stato condotto dal vicepresidente della Commissione, Claudio Fava, è durato circa un'ora e mezza ed è stato costruito su domande tutte improntate alla stessa idea (o insinuazione): quella che i giornali che ho diretto in Calabria, e in particolare "Calabria Ora", fossero subalterni al potere mafioso e che io stesso lo fossi. Mi è stato detto, in modo esplicito e anche un po' sfrontato, che il mio modo di fare giornalismo senza censure, e senza neppure un po' di subalternità alla Procura di Reggio, e senza limiti "etici" nello svolgere le polemiche, è un modo di fare giornalismo che fa il gioco della ‘ndrangheta, mentre buonsenso vorrebbe che chi fa giornalismo in Calabria si occupi un po' meno delle notizie e un po' di più a spalleggiare la lotta alle ‘ndrine. Perché la Calabria non è il Piemonte, non è l'Emilia, e l'ossessione per lo stato di diritto può essere devastante per lo Stato. Non ho preso appunti durante l'interrogatorio. Perché sono stato colto di sorpresa. Io ero convinto che la Commissione volesse delle informazioni e delle valutazioni. Invece la Commissione le informazioni le aveva già tutte - anche se alcune erano false - delle valutazioni se ne infischiava, e voleva solo che io rispondessi della temerarietà e pericolosità - rispetto alla ragion di Stato - delle mie opinioni. Anche senza appunti però mi sono rimaste nella mente molte cose, che vorrei raccontare, perché voi lettori le giudichiate, e magari - se ne avranno tempo e voglia - le valutino anche le autorità. Mi è stato contestato, per iniziare, il fatto che nel momento in cui ho assunto la direzione di "Calabria Ora" il mio editore, che gestisce delle cliniche, avrebbe avuto immediatamente nove nuove convenzioni concesse dalla Regione. In cambio, mi è stato detto esplicitamente, della sospensione, da parte mia, di una campagna di stampa che il mio giornale stava facendo contro il Presidente della Regione. La notizia mi ha sorpreso: non la conoscevo. Poi ho accertato che era assolutamente falsa. L'editore non aveva avuto nessuna nuova concessione. Non andrà molto lontano - penso, ma forse mi sbaglio - una Commissione antimafia che non accerta neppure le notizie che riceve da qualche consulente un po' superficiale. Persino noi giornalisti, che abbiamo un po' meno mezzi e po' meno denari a disposizione di una commissione antimafia, siamo tenuti a verificare le notizie… Dopodiché è iniziata prima la fila di contestazioni su articoli, titoli, e scelte editoriali, e poi persino sui toni dei miei commenti e delle polemiche. Perché - mi è stato chiesto - hai avuto vari incontri, persino nel suo studio, con l'avvocato Titta Madia che assisteva Giuseppina Pesce (collaboratrice di giustizia che aveva accusato suo marito e i suoi parenti) il quale avvocato Madia vi fornì una dichiarazione della signora Pesce nella quale lei ritrattava le accuse e sosteneva che le erano state suggerite dai Pm in cambio di un suo trasferimento in un carcere più vicino alla Calabria e della possibilità di rivedere i suoi figli? Sono rimasto senza parole: che in una sala del Parlamento italiano qualcuno non capisca che i giornalisti hanno l'obbligo di ascoltare gli avvocati, e soprattutto l'obbligo di riferire notizie come quella della quale sto scrivendo, vuol dire evidentemente che in queste sale del Parlamento almeno qualcuno dei parlamentari non ha mai gettato uno sguardo distratto sulla Costituzione, e non ha la minima idea di cosa sia il giornalismo in uno Stato liberale. E il fatto che successivamente la signora Pesce abbia ritrattato la sua ritrattazione - naturalmente non sta a me stabilire quale delle diverse versioni fornite dalla signora Pesce sia quella vera - non cambia affatto le cose. Oltretutto noi avevamo pubblicato non solo la lettera della Pesce, ma anche il verbale del suo interrogatorio, che era un verbale piuttosto inquietante. Ciliegina: anche qui le informazioni della commissione erano del tutto inesatte, perché io non ho mai incontrato l'avvocato Madia, né a casa sua, né al suo studio, né altrove. Ma possibile che questa Commissione non ne prenda una giusta? Non posso riferirvi tutte le contestazioni che mi hanno fatto (per la precisione le ha fatte tutte il vicepresidente Claudio Fava). Qualcuna però voglio raccontarla. Perché - mi è stato chiesto - su "Calabria Ora" avete pubblicato la lettera del figlio di un boss mafioso che protestava perché a suo padre era stato negato il funerale in Chiesa? Beh, son caduto dalle nuvole, non capivo la domanda. Mi hanno spiegato che il figlio di un mafioso non è un cittadino normale, che anche se è incensurato è sempre il componente di una famiglia di mafia, e poi c'è tanta gente che non è stata condannata per mafia, ma insomma, si sa che è mafiosa, e quindi, insomma, la lettera del figlio di un mafioso non si pubblica… Anche perché - mi ha spiegato Claudio Fava - pubblicando quella lettera si mette a repentaglio la sicurezza personale del sacerdote che ha rifiutato il funerale, e dei rappresentanti di "Libera" che hanno chiesto di non celebrare il funerale. Ho cercato in tutti i modi di spiegare che un cittadino è un cittadino (Gertrude Stein…), e che la legge italiana, la dichiarazione dei diritti dell'Uomo, la Costituzione repubblicana, eccetera eccetera eccetera, non permettono di considerare un cittadino colpevole dei reati del padre. Non c'è stato niente da fare: per gli onorevoli, il figliolo di un boss è, comunque, almeno un po', colpevole, e in ogni caso non ha il diritto di scrivere qualcosa a difesa di suo padre. Ho chiesto agli onorevoli se loro avrebbero mai pubblicato una lettera di Peppino Impastato (il ragazzo reso famoso dal film I cento passi, figlio di un mafioso e morto combattendo la mafia, ucciso dalla mafia) ma loro mi hanno detto che Impastato poteva parlare perché combatteva la mafia, mentre questo ragazzo (si chiama Alvaro) che ha scritto su "Calabria Ora" non ha le carte in regola per parlare. Capito bene: l'antimafia (in questo caso, parlando di parlamentari stipendiati, possiamo ben dire: i professionisti dell'antimafia, e mandare un pensiero disperato alla memoria di Leonardo Sciascia…) decide a chi assegnare e a chi no il diritto di parola. Come faceva una volta il Fascio. Infine il vicepresidente mi ha fatto notare che la lettera del figlio del boss finiva così: "Per fortuna giustizia terrena e giustizia divina non sono la stessa cosa". E questa frase, che chiunque interpreterebbe come una frase di pietà e di speranza sul destino ultraterreno del padre (è diritto di tutti quello di credere nell'aldilà) era in realtà una minaccia mafiosa. Non ha capito bene a quale ‘ndrina si sospettasse l'affiliazione di Dio, ma ho lasciato perdere… Non posso tediarvi troppo. Però voglio dirvi che mi è stato contestato un editoriale intitolato "La mafia si combatte con lo Stato di diritto e non con le forche" (o qualcosa del genere) e mi è stato spiegato che la mia teoria sul garantismo da applicare anche in Calabria, e addirittura i miei dubbi sull'uso che talvolta i magistrati fanno dei pentiti, sono teorie e dubbi inaccettabili e che denotano una indubbia corrività con la mafia. Credo che la domanda finale sia stata la più clamorosa. Insistentemente il vicepresidente ha chiesto di sapere se mi ero pentito di aver dato le notizie sulla Pesce, sulla Cacciola eccetera. Questa del pentimento deve essere una mania. Gli ho dovuto spiegare - ma senza successo - che i giornalisti, di solito, non si pentono di aver dato le notizie. Casomai si pentono di avere fatto o subito la censura. Mi si è fatto capire che io dovrei provare rimorso per il suicidio (o forse omicidio) della signora Maria Concetta Cacciola (anche lei collaboratrice di giustizia che ha accusato la famiglia, poi ha ritrattato e poi è tornata ad accusare, infine è misteriosamente morta). Gli ho fatto notare che "Calabria Ora" aveva aperto una polemica (che non è stata fornita alla Commissione insieme al pacco di articoli che mi hanno contestato) perché la Cacciola - che si sapeva a rischio - non aveva goduto del programma di protezione. Circostanza sulla quale, finora, nessuno ha risposto. E infine mi si è chiesto di spiegare perché avevo dedicato cinque pagine al caso Cacciola, mi è stato detto che cinque pagine sono troppe. Ho risposto che, in genere, su come faccio il giornale io rispondo in riunione di redazione, e non in antimafia, né al Parlamento, né al governo, né al prefetto, né alla Procura della repubblica. Il vicepresidente si è mostrato stupito. Gli ho detto che nella Ddr (la Germania dell'Est prima che cadesse il muro) i giornalisti rispondono al potere politico sul modo nel quale fanno i giornali, ma qui in Europa non è così. Gli ho detto che il Minculpop (che svolgeva durante il fascismo funzioni simili a quelle che ora svolge l'antimafia: cioè il controllo su giornali e giornalisti) è stato chiuso nel 1945. Fava ha continuato a chiedermi il perché di quelle cinque pagine. Mi sono rifiutato di rispondere e sono andato via. P.S. Non avevo mai assistito ai lavori di questa Commissione. Il modo nel quale si sono svolti in mia presenza è in violazione piena della Costituzione e dimostra una scarsissima conoscenza dei principi democratici. Di più: è stata una vera e propria intimidazione di un giornalista, e un invito esplicito a mettersi agli ordini delle Procure. Si tratta di un comportamento eversivo e illegale. Mi chiedo se il Presidente della Camera e il Presidente del Senato vorranno intervenire, e se vorrà intervenire l'ordine dei giornalisti, o il sindacato. Temo che sia una domanda retorica: so che non vorranno intervenire. Spero di sbagliarmi. Giustizia: volevo andare a trovare il detenuto Giulio, per questo sono un mafioso? di Piero Sansonetti Il Garantista, 12 dicembre 2014 Da qualche mese ha un rapporto telefonico coi parenti di un signore, di nome Giulio, accusato di mafia, imprigionato, in attesa di sentenza definitiva e che con tutte le sue forze si dichiara innocente. I parenti di Giulio, che è un calabrese e che di mestiere fa l'imprenditore, mi chiedono di incontrare il detenuto (detenuto da diversi anni, e che recentemente è stato ricoverato in una clinica per ragioni molto gravi di salute) ma io finora non lo ho fatto. È stata colpa mia se non ho ancora incontrato Giulio, sono stato pigro, non ho preparato i documenti che servivano, ho perso tempo, sono stato assorbito dai miei impegni di giornalista e di direttore di un quotidiano. Però non è una giustificazione, visto che io penso che tra gli impegni - doverosi - di un giornalista, ci sia anche quello di incontrare le persone che stanno in carcere. Persone che vogliono vederti, parlarti, fornire dei documenti che aiutino a credere alla loro innocenza. Il diritto, per tutti, di parlare, di esprimersi, di difendersi, di farsi ascoltare, specialmente se si e convinti di avere ricevuto una grave ingiustizia, e ancor più specialmente se questa ingiustizia ha avuto origine da una azione dello Stato t beh penso che dovrebbe essere il primo di tutti i diritti, in un paese libero, in democrazia. Spessissimo non è così. Per i detenuti quasi mai e così. Proprio per questo credo che i giornalisti dovrebbero avere una sensibilità particolare, ancor più forte se questi giornalisti, come me, lavorano per un giornale che ha avuto la faccia tosta di chiamarsi Il Garantista. Proprio l'altro giorno mi è arrivata un plico, inviatomi dai parenti di Giulio, che contiene carte su calle, le quali, mi pare, depongono tutte e favore dell'imputato e della sua innocenza. E così, avendo anche ricevuto delle telefonate dai parenti di Giulio - alle quali, come spesso mi capita - non ho risposto, avevo deciso di rompere gli indugi, chiamare io i parenti di Giulio e chiedere di avere il colloquio. Poi, come ho raccontato ieri sul giornale, sono stato convocato dalla commissione parlamentare antimafia e interrogato a lungo, e "sospettato" di comportamento giornalistico non consono alla direttiva ufficiale, che è quella di mettersi al servizio delle procure e di militare nel loro esercito, che è stato mandato da Dio e ha il compito supremo di combattere e radere al suolo il male. Vi ho già detto che mi sembrava di essere interrogato da una corte fascista più che da una commissione parlamentare di un paese repubblicano e democratico. Il senso di questa convocazione e di questo interrogatorio in antimafia a me è sembrato chiarissimo: una intimidazione, secca brutale, con l'obiettivo di limitare le mie iniziative e la mia libertà professionale. Tanto più che "avvisi" simili, o anche più gravi (dei quali torneò a parlare nei prossimi giorni ) già mi sono arrivati nei mesi scorsi da alcuni settori della Procura di Reggio Calabria. E infatti ieri ho pensato: se ora io chiedo di incontrare Giulio, e poi lo incontro, e stabilisco rapporti con lui e la sua famiglia, è molto probabile che ne riceverò nuovi guai, nuovi sospetti e nuove accuse da parte dell'antimafia militante, politica o giudiziaria. E ho deciso di rinunciare, di non chiamare i parenti di Giulio. Di aspettare tempi più sereni. Vi pare una cosa bella? Edificante? Chiaro che non lo è. E perciò prima di scrivere queste righe ci ho ripensato di nuovo: me ne infischio della commissione antimafia e delle Procure, domani telefonerò ai parenti di Giulio e se mi sarà possibile lo andrò a trovare. E se i parenti di Giulio mi autorizzeranno vi dirò anche il cognome di questo detenuto. Giustizia: venti domande al direttore di Rai3 sulla fiction su Brega Massone di Vincenzo Vitale Il Garantista, 12 dicembre 2014 Si è tenuta ieri presso la sede dei Radicali italiani, generosamente messa a disposizione da Rita Bernardini, l'annunciata conferenza stampa sul caso della cosiddetta "clinica degli orrori" di Milano e del dottor Pier Paolo Brega Massone, sui quali Rai3 ha intenzione di mandare in onda una fiction domani sera in prima serata. Allo scopo di scongiurare questa nefanda eventualità - che, in quanto apertamente colpevolista, sarebbe devastante - dopo l'introduzione della Bernardini, Arturo Diaconale, direttore de L'Opinione, Piero Sansonetti, direttore de Cronache del Garantista e io stesso, in qualità di codifensore di Brega Massone, abbiamo messo in luce l'assurdità di una iniziativa come quella della Rai, che rischia di dare letteralmente in pasto sulla piazza mediatica un essere umano, mentre i suoi processi sono ancora in corso. Al di là delle gravi perplessità che la realtà processuale di cui, suo malgrado, è strato protagonista Brega Massone, suscita e sulle quali potremo soffermarci in altra occasione, ci sono da ricordare alcune domande che, da queste pagine, vanno direttamente e pubblicamente poste ad Andrea Vinello, direttore di Rai3. 1) Perché, dottor Vianello, programmare una fiction su un caso così delicato come quello di Brega Massone, tale che nulla aggiunge e nulla toglie a quanto la pubblica opinione già (non) conosce dei fatti che lo hanno visto alla ribalta ? 2) Non è forse vero, dottor Vianello, che proporre un simile programma, i cui spezzoni pubblicitari hanno già mostrato una assoluta versione colpevolista, rischia pericolosamente di danneggiare in modo grave ed irreversibile non solo lo stesso Brega Massone - condannato in televisione senza appello - ma anche la sua figlioletta dodicenne (troppo grande per non capire, ma troppo poco grande per comprendere ) e sua moglie, entrambe incolpevoli ? 3) Perché, dottor Vianello, questa possibilità non le rimorde l'anima? 4) E deontologicamente e moralmente corretto, dottor Vianello, preferire il risultato economico di alcuni spot pubblicitari ben venduti all'interno di un programma di elevato ascolto, anziché il minimo di rispetto che si deve ad esseri umani? 5) Non è forse vero, dottor Vianello, che tanto più un essere umano è debole ed indifeso, tanto più va tutelato e rispettato? 6) Non è forse vero, dottor Vianello, che Brega Massone - detenuto in via preventiva da oltre cinque anni - e i suoi familiari si trovano in condizioni di grave fragilità psicologica, materiale, economica, sociale, umana? 7) Perché, dottor Vianello, non sente il bisogno imperioso di rispettarli, invece di porre definitivamente sotto una pietra tombale il destino mediatico del medico, sul quale ancora nessuna parola definitiva è stata detta dal processo? 8) Ha forse dimenticato, dottor Vianello, come lei stesso ha condotto per anni una fortunata trasmissione proprio su Rai3, destinata a proteggere i diritti dei consumatori e degli utenti dalle prepotenze dei più forti (multinazionali, società, apparati amministrativi)? 9) Forse che, dottor Vianello, Brega Massone, ridotto in vinculis da cinque anni, sua moglie e la sua figlioletta dodicenne son meno degni di protezione di quanto lo fossero o lo siano consumatori ed utenti? 10) E allora perché, dottor Vianello, non li protegge eliminando questo scempio mediatico dalla programmazione di domani sera? 11) Ricorda, dottor Vianello, come la Rai, il 21 maggio del 2009, sia stata tra i firmatari di un "Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive" e come, in questo codice di autodisciplina, la Rai si sia impegnata espressamente a rispettare la presunzione di innocenza prevista dalla Costituzione oltre che a "evitare la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori i processi in corso"? 12) Se la Rai ha firmato quanto sopra, perché oggi, dottor Vianello, lo rinnega, rischiando di devastare del tutto ciò che resta di Brega Massone, già condannato all'ergastolo in primo grado, e della sua famiglia? 13) Perché, dottor Vianello, non ha risposto in alcun modo alla diffida inviata in forma legale dai difensori di Brega Massone allo scopo di evitare la messa in onda del programma ? 14) Perché, dottor Vianello, non mostra una minima forma di umana solidarietà nei confronti di persone così duramente provate e che sarebbe normale da parte di un'emittente pubblica e non privata? 15) Perché, dottor Vianello, si trincera dietro un'inesistente autorizzazione del Tribunale civile di Roma , posto che, due mesi or sono, quella causa, intentata dal legali di Brega Massone per bloccare la già minacciata messa in onda, finì semplicemente perché la Rai dichiarò di aver eliminato la programmazione dal palinsesto? 16) Perché, dottor Vianello, la Rai ha mentito? 17) Perché, dottor Vianello, dovrà costringere i legali a reagire, chiedendo cospicui risarcimenti del danno non solo alla Rai, ma anche alle persone direttamente corresponsabili? 18) Perché, dottor Vianello, esporre l'erario ad un tale rischio? 19) Perché, dottor Vianello, rischiare di attivare la Corte dei Conti per rimediare al danno erariale? 20) Perché, dottor Vianello, a prescindere dal resto, non fare una, semplice, ma doverosa, "buona azione" anche per guadagnarsi il regno dei cieli? Caro dottor Vianello, non so se lei risponderà mai a queste domande, ma so che, se fosse in grado di porsele, farebbe un gran bene: a se stesso, prima che ad altri. Giustizia: Sebastiano Ardita; nel 1992 il capo del Dap voleva cinquemila detenuti al 41bis Adnkronos, 12 dicembre 2014 Nell'estate del 1992, subito dopo le stragi mafiose di Capaci e via D'Amelio, l'allora direttore del Dap Niccolò Amato "propose di applicare il carcere duro del 41 bis ai detenuti per fatti di mafia. Con questa proposta voleva applicare il carcere duro a più di 5.000 detenuti". Lo ha detto deponendo al processo per la trattativa tra Stato e mafia il Procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, che dal 2002 al 2011 era a capo dell'Ufficio detenuti al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. "La prima applicazione del 41 bis fu tra il luglio e l'agosto del 1992 - spiega Ardita rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo - e riguardò più di cinquecento detenuti. I provvedimenti firmati dall'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli. A settembre del 1992 il ministro della Giustizia fece un atto che rimase un unicum nella vicende successive, cioè diede potere al Dipartimento di potere emettere direttamente il 41 bis. Così a settembre, su delega del ministro, sono stati emesse altre 500 applicazioni di 41 bis. Le prime applicazioni riguardarono oltre mille detenuti 41 bis e durarono un anno. Il regime del 41 bis venne stabilizzato solo nel 2002, prima era solo provvisorio". Poi Ardita ricorda che nel 2002, subito dopo il suo insediamento all'Ufficio detenuti al Dap, ricevette la richiesta del pm di Firenze Gabriele Chelazzi, di "consultare l'archivio degli uffici per cercare la documentazione relativa alla prima applicazione del 41 bis - racconta il magistrato - e io misi a disposizione l'ufficio". "C'erano tutti gli atti, dal primo provvedimento alla mancata proroga", spiega Ardita. Anomalie in mancato rinnovo 41bis nel 1993 "Ci sono molte anomalie nelle fasi del procedimento che portò al mancato rinnovo del 41 bis per 334 detenuti nel novembre del 1993". Lo ha detto Sebastiano Ardita, attuale procuratore aggiunto a Messina ed ex direttore, dal 2002 al 2011, dell'ufficio detenuti del ministero della Giustizia, deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia, che si svolge nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Il giallo del mancato rinnovo dei provvedimenti di carcere duro è stato al centro della sua deposizione. La questione è rilevante perché secondo i pm proprio il 41 bis sarebbe stato uno dei punti oggetto della trattativa tra lo Stato e la mafia. "L'istruttoria del Dap per il mancato rinnovo dei 41 bis a novembre 1993 - ha spiegato - fu avviata solo il 29 ottobre precedente, un tempo troppo stretto per procedere in tempo". Ardita si interessò di quei fatti nel 2002. "In quel periodo - ha raccontato - ricevetti la visita di Gabriele Chelazzi che mi chiese di consultare l'archivio dei documenti sul 41 bis. Collaborai con lui per raccogliere tutta la documentazione. Tra gli atti c'erano anche quelli sulla mancata proroga di alcuni 41 bis nel 1993. A fine 1992 ci sono circa mille detenuti al 41 bis". Nel 1992 il direttore del Dap era Nicolò Amato che "aveva proposto, tra settembre e novembre 1992, al ministero della Giustizia - ha proseguito Ardita - di applicare il 41 bis a tutti i detenuti per mafia. Sarebbero stati così circa cinquemila i detenuti al 41 bis, ma la sua proposta fu bocciata". Nel 1993 il ministro della Giustizia, Giovanni Conso, cambiò i vertici del Dap. Fu nominato capo dipartimento Adalberto Capriotti e vice direttore Francesco Di Maggio. A novembre non furono rinnovati 334 provvedimenti di 41 bis. "Tutto questo - ha aggiunto - era già negli atti che aveva analizzato Chelazzi. La cartina tornasole per capire se quelle revoche andavano fatte emerge da un dato storico e cioè dal numero dei detenuti che tornarono al 41 bis dopo il mancato rinnovo. Sono oltre 50 quelli che hanno visto riapplicato il regime speciale, anche in epoca molto successiva al 1993". Non ero a conoscenza del Protocollo Farfalla Il Protocollo Farfalla? "Non potevo esserne a conoscenza. Non potevo conoscerne l'esistenza, mi auguro che non sia mai avvenuto un contatto tra i servizi con uno o più detenuti, che non ci sia mai stata una corresponsione di denaro per l'ottenimento di notizie o informazioni. Se così fosse sarebbe gravissimo". Lo ha detto il Procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, rispondendo al pm Nino Di Matteo, nel processo per la trattativa, alla domanda se era a conoscenza, durante la guida dell'Ufficio detenuti al Dap dal 2002 al 2011, del cosiddetto Protocollo Farfalla. Un vero e proprio accordo segreto per regolare, all'insaputa dell'autorità giudiziaria, il flusso delle informazioni provenienti dai boss mafiosi reclusi in regime di 41 bis, cioè uno dei frutti della trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, ancora oggi oggetto d'indagine della procura di Palermo. "Non ne ero a conoscenza - ribadisce Ardita - Questa è una modalità che può corrispondere ai presupposti e ai ruoli dei servizi di sicurezza, ma che non può mai essere applicata dal Dap, porterebbe a una palese violazione dei diritti civili penitenziari". Pressioni per trasferimento Provenzano in un atro carcere Subito dopo l'arresto del boss mafioso Bernardo Provenzano, l'11 aprile del 2006, l'allora capo dell'Ufficio detenuti del Dap, Sebastiano Ardita, avrebbe ricevuto diverse pressioni per fare trasferire il capomafia di Corleone nel carcere dell'Aquila o in quello di Rebibbia a Roma. A rivelarlo in aula, al processo per la trattativa tra Stato e mafia è lo stesso Ardita, oggi Procuratore aggiunto di Messina, teste dell'accusa. "Dopo avere appreso la notizia dell'arresto di Provenzano dalle tv, attendevamo gli atti per procedere all'assegnazione di Provenzano nella sede penitenziaria - racconta Ardita - Mi chiamò un dirigente dell'ufficio ispettivo del Dap che ci disse che Provenzano dovesse essere destinato o all'Aquila o a Roma Rebibbia. In realtà non era la sua competenza. Io risposi genericamente "Vedremo, valuteremo e le faremo sapere". Ma mi stupii di quella telefonata". "Passato qualche minuto ricevetti una seconda telefonata - spiega ancora Ardita rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo - stavolta dal responsabile del Gom e anche lui mi chiese di mandare Provenzano all'Aquila o a Roma e stavolta io fui meno garbato dicendo che il Gom non aveva alcuna competenza sulla scelta del carcere per i detenuti. Parlammo, quindi, coni tecnici, per verificare le caratteristiche del detenuto e di sicurezza dell'istituto penitenziario. Con la massima serenità decidemmo di portarlo a Terni. Era un carcere molto serio. Andammo così a Terni per fare una visita nel carcere e tornammo a Roma nella certezza che tutto fosse andato bene e che il posto fosse idoneo. Tutto era a posto. Il direttore era molto disponibile, aveva apprezzato la scelta di quella sede. Una persona semplice che si atteneva alla legge. E ci chiese in quella sede: avrei la necessità di avere due uomini in più. Tra l'altro era una situazione di sicurezza". Poi Ardita prosegue il suo racconto: "Il giorno dopo che andai a Terni lessi su un quotidiano nazionale una notizia palesemente falsa. C'era scritto che all'ingresso di Provenzano in carcere a Terni, un detenuto, Giovanni Riina (figlio del boss Totò Riina ndr) aveva inveito contro Provenzano gridando: "Questo sbirro qua lo hanno portato?". Era evidente che la notizia fosse falsa. Ma per scrupolo chiamai il direttore del carcere di Terni per avere conferma e lui mi rassicurò che era falso ciò che si disse e la conferma definitiva si ebbe quando nel pomeriggio il detenuto Giovanni Riina diede mandato al suo difensore di smentire la notizia". "Noi sapevamo che era una bufala, ma sulla base di questa notizia falsa alcuni uffici del Dap raccolsero elementi per chiedere il trasferimento di Provenzano ad altra struttura - racconta ancora Sebastiano Ardita - Sicuramente il Gom fece una nota. E disse che bisognava portarlo all'Aquila. Fu confezionato un vero e proprio dossier che finì sulla mia scrivania al Dap". "Ma spostare un detenuto sulla base di una notizia falsa è un fatto insensato. In passato il Gom non aveva mai interferito, è stato un unicum nel suo genere", dice ancora l'ex capo Ufficio detenuti del Dap Sebastiano Ardita. Poi il magistrato spiega anche il perché Provenzano non potesse essere portato nel carcere dell'Aquila: "Una delle ragioni era perché tra i detenuti c'era Giuseppe Madonia, un altro rappresentante importante dell'ala moderata di Cosa nostra, anche per un fatto "estetico" i due non potevano stare nello stesso istituto. Così decidemmo di far restare Provenzano a Terni". Proseguendo la sua deposizione nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, Ardita ricorda anche i "numerosi esposti arrivati contro l'ufficio da me diretto. Esposti che vennero inviati ai sindacati, persino agli uffici giudiziari". Sicilia: associazione presenta esposto a Corte dei Conti su uffici del Garante dei detenuti www.canicattiweb.com, 12 dicembre 2014 L'Associazione "Un Amico per evadere dalla Solitudine", presieduta da Roberta Lala, stamani ha presentato un esposto alla Corte dei Conti di Palermo, al fine di verificare eventuali sprechi pubblici della regione siciliana, relativamente gli uffici del Garante dei detenuti di Palermo e di Catania. Gli uffici attualmente sono operativi nel senso che ci lavorano circa 9 persone che vengono regolarmente pagate senza poter svolgere la propria attività al meglio in quanto manca la figura del garante che non è delegabile. Questi uffici incidono per un costo circa di 500 mila euro annui, senza però avere alcuna utilità in quanto da più di un anno ed esattamente dal settembre 2013, manca la figura del garante dei detenuti, che il Presidente Crocetta, malgrado sia stato invitato diverse volte a nominarla, non ha provveduto ad effettuare alcuna nomina. Sono state promosse diverse petizioni in merito tra cui la nostra che è stata allegata nell'esposto. La nostra Associazione occupandosi della tutela dei diritti dei detenuti, valutando la situazione ha ritenuto corretto chiedere una verifica di eventuali sprechi pubblici al Procuratore presso la Corte dei Conti di Palermo. Milano: detenuto suicida in cella, assolta psicologa del carcere di San Vittore di Mario Consani Il Giorno, 12 dicembre 2014 La corte d'appello: non ha colpe. In primo grado fu condannata a otto mesi per omicidio colposo, nella prima sentenza di condanna per suicidio dietro le sbarre. Innocenti tutte e due. Nessun colpevole per il suicidio in cella del giovane Luca Campanale, detenuto a San Vittore ma con gravi problemi psichici. La psicologa Roberta De Simone, che in primo grado era stata condannata a otto mesi di reclusione per omicidio colposo, ieri è stata assolta dalla corte d'appello. Confermata anche l'assoluzione già ottenuta in primo grado dalla psichiatra Maria Marasco, come De Simone all'epoca dei fatti in servizio presso la casa circondariale di piazza Filangieri. Per il pm Silvia Perrucci, che sostenne l'accusa nel primo processo, le due professioniste non avrebbero fatto nulla per scongiurare il gesto disperato di quel ragazzo da curare. Però il sostituto procuratore generale Gianni Griguolo, che ha rappresentava l'accusa in appello, aveva chiesto l'assoluzione di entrambe le imputate. E i giudici della corte - presidente Antonio Nova - gli hanno dato ragione, ritenendo evidentemente che la tragedia non poteva essere evitata. Quella inflitta a suo tempo alla psicologa - e ora cancellata - era stata la prima condanna di un tribunale per un caso di suicidio dietro le sbarre. E pure il ministero della Giustizia era stato condannato a un risarcimento di 500 mila euro alla famiglia di Luca. Per il pm Perrucci, Marasco e De Simone nell'estate 2009 non si sarebbero rese conto che Campanale, 28 anni, rinchiuso nella cella 112 per uno scippo, era un soggetto ad alto rischio. E così avrebbero colposamente omesso i controlli dovuti, lasciando il giovane al suo destino di morte. Per il tribunale, però, la colpa non poteva essere divisa equamente, poiché la psichiatra (che fu assolta) aveva visitato il giovane una sola volta. Il suicidio del ragazzo avvenne ne il 12 agosto di cinque anni fa. Luca era stato trasferito a San Vittore a fine luglio dal penitenziario di Pavia, e la sua cartella clinica segnalava un "ben evidente quadro psicotico persecutorio" con nove atti di autolesionismo o tentativi di suicidio in quattro mesi. Avrebbe dovuto dunque essere ricoverato nel reparto psichiatrico del carcere, ma a causa del sovraffollamento venne invece tenuto in una cella normale e considerato "a medio rischio", quindi non con una sorveglianza a vista. Da mesi il suo avvocato ne aveva chiesto senza successo "l'immediato ricovero presso idonea struttura sanitaria". Luca venne trovato impiccato nel bagno della sua cella. "L'ultima volta che lo vidi - raccontò suo padre Michele al nostro giornale - fu poche ore prima che si uccidesse. "Stasera vengo a casa, papà", poi abbracciò me e mia moglie che non capivamo". Il tribunale, nelle motivazioni della condanna a De Simone, aveva elencato altri possibili responsabili di una "gestione del detenuto Campanale Luca" che, a parere del giudice Fabio Roia, era stata "realizzata dall'Amministrazione penitenziaria con un approccio burocratico e gravemente negligente". In attesa delle motivazioni della corte d'appello, la morte di Luca sembra tornare ad essere invece una semplice fatalità. Velletri (Rm): nuovo sit-in di protesta di fronte al carcere, pochi agenti e troppi detenuti www.castellinotizie.it, 12 dicembre 2014 È storia nota quelle delle problematiche che aleggiano sulla casa circondariale di Velletri, a partire dalla carenza di organico che ancora una volta torna agli onori della cronaca e non smette di preoccupare tutte le realtà coinvolte, da molto tempo in attesa di una concreta serenità lavorativa. La condizione di disagio avvertita ormai da molti all'interno del Carcere di Velletri ha portato le maggiori organizzazioni sindacali Sippe, Cigl, Cisl, Uil, Sappe, Ugl, Cnpp e Osapp a firmare un documento proclamante lo stato di agitazione e l'astensione dalla mensa di servizio a causa degli inascoltati solleciti, per integrare il contingente di personale di polizia penitenziaria dell'istituto carcerario, a partire dal 1 dicembre scorso. Nella mattinata di oggi, tutti i sindacati firmatari del documento si sono ritrovati per l'ennesimo sit-in nel piazzale antistante le porte del carcere per protestare contro l'assordante silenzio dei vertici dell'amministrazione penitenziaria, incurante finora del pericolo e delle richieste di soccorso, in previsione di una manifestazione davanti la sede del Dap a Roma, se le istanze continueranno a rimanere inascoltate. "Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria continua ad allontanare con distacchi altro personale dall'istituto in questione - ha dichiarato il Segretario Generale Sippe, Alessandro De Pasquale - senza minimamente preoccuparsi della drammatica realtà lavorativa ivi esistente. I detenuti sono raddoppiati ma la pianta organica, che su carta conta 179 elementi, è rimasta la stessa. Con l'attuale numero di agenti attivi, non risulta possibile mantenere il rapporto di almeno un agente per ogni due detenuti, come suggerisce la media nazionale. Per tale ragione - ha proseguito - ci sono atti senza particolari procedure che il provveditorato dell'amministrazione penitenziaria potrebbe tranquillamente emanare come il rientro in sede dei distaccati, assegnati regolarmente alla struttura e una volta che sono tutti qui, poi si fa la conta e si cerca di aprire un tavolo di confronto sulle problematiche". Tanti i rappresentanti sindacali, oltre a De Pasquale, presenti; tra di loro anche Stefano Branchi, coordinatore regionale Cgil polizia penitenziaria, Carmine Olanda segretario locale Sippe, Ciro Borrelli, vice segretario locale del Sippe, Enzo Felci coordinatore locale Cgil, Enzo Felci coordinatore locale della Cgil, Stefano Carboni dempre della Cgl e, infine, Massimo Serretiello, dirigente locale Cisl. Con la nomina di Santi Consolo a capo del Dap le risposte tanto attese potrebbero arrivare: "Posso solo sostenere con certezza che è la persona giusta al posto giusto - ha concluso De Pasquale -. Questo è il cambiamento che volevamo nell'interesse dell'amministrazione e della Polizia Penitenziaria". Nella manifestazione di stamene è intervenuto, inoltre, anche l'avv. Angiolo Marroni, il garante dei detenuti del Lazio, pronto a fare fronte comune in questa battaglia, convinto che se cambieranno le condizioni lavorative degli agenti penitenziari anche la qualità della vita dei detenuti potrebbe beneficiarne. Vicenza: stamattina i Radicali davanti al carcere di S. Pio X per "Satyagraha di Natale" Giornale di Vicenza, 12 dicembre 2014 Venerdì 12 dicembre dalle ore 9,00 alle 14,00 i militanti veneti del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito terranno un presidio davanti al carcere San Pio X di Vicenza. L'iniziativa, che si inserisce nel "Satyagraha di Natale" nella modalità dello sciopero della fame e vede impegnato direttamente Marco Pannella, ha tra i suoi obiettivi il ripristino dello stato di diritto e l'affermazione del diritto alla conoscenza. Più in particolare i punti di questa nuova lotta nonviolenta riguardano il tema della giustizia e delle carceri: dalla garanzia delle cure in carcere alla revoca del 41bis a Bernardo Provenzano, dall'abolizione dell'ergastolo alla nomina del garante nazionale dei detenuti fino all'introduzione del reato di tortura. L'azione nonviolenta intende mantenere viva l'attenzione sulle parole contenute nel messaggio solenne del Presidente Napolitano al Parlamento, quelle pronunciate da Papa Francesco il 23 ottobre scorso in occasione dell'incontro con i delegati dell'associazione internazionale di diritto penale, e quelle - chiarissime - pronunciate dal gruppo di esperti Onu sulla detenzione arbitraria a seguito di una visita ispettiva effettuata in Italia nel luglio scorso. Roma: a Rebibbia prima laurea con il Progetto "Università in carcere con teledidattica" Ristretti Orizzonti, 12 dicembre 2014 Ieri mattina, in videoconferenza da Rebibbia Nuovo Complesso con l'Università di Roma Tor Vergata, ha conseguito la Laurea Magistrale in legge il primo detenuto del reparto di Alta Sicurezza iscritto al progetto "Università in Carcere con Teledidattica". Il nuovo dottore in Legge è Silvano Giacomo, 42 anni, che ha discusso una tesi sull'Articolo 27 della Costituzione e gli aspetti problematici delle sanzioni penali laureandosi con 110/110. La scorsa estate avevano conseguito la laurea triennale i primi 4 detenuti del progetto "Teleuniversità in carcere", uno dei quali in collegamento via Skype dal carcere di Tirana. Giacomo è, invece, il primo a conseguire una laurea magistrale, avendo optato per un percorso di studi unico. "Quella di Silvano è una storia unica - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - perché ha trascorso buona parte della sua vita in una cella ed ha creduto nello studio come occasione di riscatto sociale e per non abbandonarsi alla disperazione. È entrato in carcere con la V elementare ed è arrivato alla laurea. Una bellissima risposta a chi, in questi giorni, cerca di fare di tutta l'erba un fascio. A scanso di equivoci, chi ha sbagliato deve essere punito severamente, ma la sacrosanta richiesta di giustizia non può travolgere una straordinaria esperienza di solidarietà che, attraverso lo studio e il lavoro, ha restituito dignità ed una nuova vita a migliaia di persone". Il progetto "Teleuniversità in carcere" è stato ideato nel 2006 dal Garante dei detenuti e dall'Università di Tor Vergata con Laziodisu e la direzione del carcere. Gli studenti-detenuti iscritti nelle facoltà che aderiscono al progetto (Economia, Giurisprudenza e Lettere e Filosofia) sono circa 40 ed hanno la possibilità di seguire i corsi a distanza: le lezioni vengono registrate e riversate su una rete dedicata. Gli esami sono svolti in presenza, grazie ai docenti che si recano in carcere. In presenza viene svolta anche una costante attività di tutorato, grazie alla quale gli studenti sono seguiti nella programmazione degli esami e nello studio. Il progetto è stato indicato quale best practices dal Ministero della Giustizia, che ha previsto che i reclusi di Alta Sicurezza, in tutta Italia, possano essere trasferiti a Rebibbia N.C. se decidono di iscriversi all'Università. "Abbiamo investito molto sui percorsi di istruzione in carceri - ha aggiunto il Garante -. La Teledidattica è un ambito importante del Sistema Universitario Penitenziario (S.U.P.), un modello da noi ideato costituito da una rete istituzionale che mette insieme la Conferenza dei Rettori delle Università del Lazio, Laziodisu, Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, le carceri, il Dap, la Regione Lazio e le Università Roma Tre, Tor Vergata, Cassino, La Tuscia e La Sapienza. Grazie a questo Modello, oggi sono 120 i detenuti che, nel Lazio, frequentano l'Università. Nel 2005, i detenuti universitari nel Lazio erano appena 17". Venezia: a Rio Terà dei Pensieri il mercatino biologico delle detenute La Nuova Venezia, 12 dicembre 2014 Sarà una buona occasione per sostenere il commercio equo e solidale, ma anche un'ottima opportunità di reinserimento sociale per le detenute del carcere della Giudecca. Solo per oggi, a Rio Terà dei Pensieri, in occasione del "Mercato prodotti biologici commercio equo solidale di Aires", sarà possibile acquistare i prodotti dell'Orto delle Meraviglie, curato dalle detenute del carcere della Giudecca. A partire dalle 9, fino a esaurimento scorte, le donne del carcere venderanno prodotti di stagione e molte altre primizie provenienti dall'Orto. In questo piccolo polmone lagunare di oltre seimila metri quadrati, le donne si dedicano all'agricoltura biologica, seguendo i ritmi della natura. Ma non tutti i prodotti sono destinati all'alimentazione; alcune essenze ricavate dall'orto vengono messe a disposizione dell'adiacente laboratorio di cosmetica, dove vengono realizzati prodotti di bellezza secondo la tradizione speziale veneziana. Il banchetto proseguirà le sue attività ogni mercoledì. Trento: "difficoltà organizzative", cancellata la rappresentazione teatrale con i detenuti Il Trentino, 12 dicembre 2014 Dovevano salire sul palco del teatro Sanbàpolis domenica assieme ad Emilio Frattini, ma il carcere ha detto no. Domenica prossima, 14 dicembre, i riflettori del Teatro Sanbàpolis non si accenderanno sullo spettacolo "Qui si resta passando", momento conclusivo del laboratorio teatrale realizzato con i detenuti, italiani e stranieri, ristretti nella sezione maschile della Casa Circondariale di Trento. Il progetto prevedeva che gli ospiti della struttura penitenziaria di Spini di Gardolo potessero interagire con un gruppo di giovani attori sotto la direzione artistica di Emilio Frattini e che il percorso formativo si potesse concludere con una doppia rappresentazione scenica. Ad una prima recita prevista nel Teatro del Carcere sabato 13 dicembre, avrebbe dovuto seguire una rappresentazione aperta al pubblico al Teatro Sanbàpolis. Sopraggiunte difficoltà organizzative da parte della struttura carceraria, tali da vanificare il senso di una rappresentazione pubblica al di fuori degli spazi detentivi, comportano oggi la decisione di cancellare la recita. "Già prima di illustrare il progetto alla Stampa qualche giorno fa - spiega Francesco Nardelli, il direttore del Centro Servizi Culturali Santa Chiara, coproduttore dello spettacolo - eravamo dubbiosi sull'opportunità di concludere questo percorso con la rappresentazione pubblica di domenica 14 dicembre al Teatro Sanbàpolis. Questo perché il lavoro di mesi condotto in carcere da un gruppo di una quindicina di detenuti si sarebbe ridotto ad un saggio riservato a pochi di loro. Avevamo dovuto prendere atto, infatti, che molti dei partecipanti al laboratorio non avrebbero potuto partecipare allo spettacolo. Si era comunque concordato di sostituire queste persone con attori esterni al carcere, per non mortificare lo sforzo e l'impegno prodotto da chi avrebbe potuto comunque essere in scena. Le ulteriori difficoltà emerse ci costringono ora, pur con estremo rammarico, a cancellare la recita". Larino (Cb): detenuti-studenti dell'Alberghiero organizzano cena sociale con 100 invitati www.primonumero.it, 12 dicembre 2014 Gli alunni detenuti del carcere di Larino e protagonisti di un corso di studi con l'istituto Alberghiero di Termoli cureranno stasera, 12 dicembre dalle 19,30, una cena sociale aperta alla comunità esterna. Il percorso di studi curato dalla Scuola Alberghiera di Termoli fa in modo che gli alunni detenuti possano curare l'intero svolgimento della manifestazione: accoglienza degli ospiti, confezionamento dei piatti, servizio in sala. Per la passione suscitata negli alunni e la professionalità che sono riusciti a far raggiungere ai detenuti, l'Istituto Penitenziario ha voluto ringraziare tutti i professori dell'Istituto Alberghiero, sezione penitenziaria, e il Dirigente Scolastico Maria Chimisso. "L'iniziativa - fa sapere Rosa La Ginestra, direttore dal carcere - è stata resa possibile grazie al sostegno logistico, ma soprattutto umano, fornito dalla Associazione di volontariato Iktus di Termoli e dal parroco Don Benito Giorgetta, da tempo promotore di diverse iniziative di sensibilizzazione della comunità a favore dei detenuti. Alla cena parteciperanno circa 100 invitati". Napoli: un Natale solidale con il panettone ed il porta-panettone prodotti in carcere www.campanianotizie.com, 12 dicembre 2014 Vengono dall'istituto penale per minorenni di Nisida e dall'istituto penitenziario femminile di Santa Maria Capua Vetere e arricchiranno l'offerta di prodotti del Natale 2014. Sono il panettone "La dolce isola" ed il porta-panettone in stoffa, due iniziative solidali volute dal Consorzio Co.Re. (Cooperazione e reciprocità), che ha deciso di puntare su lavoro, creatività e formazione per favorire la crescita ed il riscatto sociale dei minori e delle donne. Il panettone viene realizzato nell'ambito del progetto La Dolce Isola, avviato nel 2014, grazie alla collaborazione, ormai consolidata, tra Consorzio Co.Re. Cooperazione e Reciprocità e l'Istituto Penale per Minorenni di Nisida, con il sostegno della Fondazione Vodafone. Il progetto è stato voluto fortemente dalla direzione dell'istituto. L'idea di fondo è che la formazione al lavoro sia uno strumento fondamentale per il reinserimento sociale dei ragazzi, che riduce le recidive dei reati e li aiuta a canalizzare le loro energie verso obiettivi di crescita personale e professionale. L'attività consiste nel supporto educativo, nella formazione nel settore della pasticceria e in un piccolo contributo di borsa lavoro per alcuni dei ragazzi ospiti. Il laboratorio di pasticceria, tenuto da esperti con una forte motivazione al lavoro con i ragazzi anche "difficili", rappresenta il primo passo per l'avvio di una vera e propria attività produttiva imprenditoriale tenuta all'interno dell'istituto di Nisida. Nasce così il panettone "La Dolce Isola", al quale il consorzio Co. Re. ha affiancato anche un porta-panettone, sempre con l'obiettivo di incentivare e incrementare l'offerta occupazionale delle persone detenute. Il consorzio in convenzione con la Direzione dell'Istituto Penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, nell'ambito del Progetto Sigillo, ha avviato la produzione di porta-panettoni realizzato nei laboratori di sartoria della sezione femminile. Sigillo è la prima agenzia nazionale di coordinamento dell'imprenditorialità delle donne detenute, che beneficia del marchio del Dap (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria) con cui si certificano la qualità e l'eticità dei prodotti realizzati all'interno delle sezioni femminili di alcuni dei più affollati penitenziari italiani. "Grazie alla sensibilità dei responsabili dell'istituto penale per minorenni di Nisida e dell'istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere riusciamo a portare avanti progetti importanti, che puntano al riscatto sociale di minori e donne. È questo lo spirito che caratterizza la nostra azione e le nostre iniziative", spiega Giovan Paolo Gaudino, presidente del Consorzio Co. Re. Pesaro: "I Tintoretti", una favola di Natale per i bambini scritta dai detenuti www.viverepesaro.it, 12 dicembre 2014 Una favola di Natale dal carcere di Villa Fastiggi. È il regalo che i detenuti di Pesaro hanno pensato di donare ai bambini e alle scuole della città. Il racconto si intitola "I Tintoretti" ed è la storia di un Natale colorato capace di abbattere, almeno per un giorno, le spesse mura di un carcere. La trama. Nella valle dell'Arcobaleno, alle pendici del monte Tempera, vive una piccola comunità di folletti ai quali è stato affidato il compito di colorare la natura all'avvicendarsi delle stagioni. Sono minuscole creature a forma di pennellino, capaci di generare tutti i colori semplicemente abbracciandosi stretti-stretti e intrecciando la folta capigliatura fatta di morbide setole. Per il Natale devono dipingere il grande Abete Bianco all'interno di un carcere, custodito nel folto di un bosco da un gigantesco orso triste ma dal cuore buono. Un inno alla voglia di rinascere a vita nuova propria del Natale, attraverso una storia che si regge su numerose allegorie e colpi di scena con un finale tutto da scoprire. La favola è stata illustrata dal fumettista pesarese Michele Scodavolpe e viene pubblicata dal "Nuovo Amico" (settimanale delle diocesi di Pesaro-Fano-Urbino) distribuito gratuitamente nelle edicole e in tutte le chiese del territorio a partire da domani (venerdì 12 dicembre). Una copia plastificata verrà esposta stabilmente durante le feste, accanto al presepe allestito sotto l'albero di Natale di piazza del Popolo. La possibilità si deve anche all'attenzione dell'amministrazione della Casa Circondariale di Pesaro e al presidente del Consiglio comunale Luca Bartolucci. Stati Uniti: da prigionieri con diritti a terroristi da torturare, così è nato il programma Cia Tm News, 12 dicembre 2014 Continuano le rivelazioni sul comportamento dell'agenzia d'intelligence dopo l'11 settembre. Ecoo come si arrivò ai "Black Sites", luoghi dove ogni prerogativa dei detenuti era sospesa. Il ruolo di Donald Rumsfeld. Dopo la pubblicazione del rapporto sulle torture da parte della Cia, emergono nuovi dettagli. E bisogna fare un passo indietro, ai giorni immediatamente successivi all'11 settembre 2001. Sei giorni dopo gli attacchi terroristici, infatti, l'allora presidente George W. Bush firmò un ordine segreto che dava proprio alla Cia il potere di catturare e imprigionare i terroristi di al-Qaeda. Il documento non spiegava dove dovessero essere trattenuti o come dovessero essere interrogati. Secondo il New York Times, nelle settimane successive, mentre gli Stati Uniti lanciavano l'azione militare in Afghanistan, i vertici dell'agenzia di intelligence cercarono di riempire i vuoti dell'ordine ricevuto. Inizialmente, pensarono di seguire una via molto diversa da quella poi decisa. Inizialmente si pensò a un sistema carcerario in cui i detenuti, ovvero i terroristi e i presunti tali, dovevano avere gli stessi diritti e tutele di chi si trovava in prigioni federali e militari. Le condizioni di queste nuove carceri, che avrebbero dovuto essere fuori dal territorio americano, dovevano essere paragonabili agli istituti di massima sicurezza negli Stati Uniti. Gli interrogatori avrebbero dovuto essere condotti nel rispetto del manuale militare, che vieta coercizioni e punizioni corporali. Tutto quanto, come riferisce il quotidiano che ha ottenuto una nota del novembre 2001, doveva "essere fatto in modo da rispettare quanto imposto dalla legge americana e dalle norme federali sulle procedure penali". Ma qualcosa non va per il verso giusto. E alcune di queste prigioni si trasformano in "Black Sites": luoghi in cui vige la sospensione di ogni diritto. Con i presunti colpevoli abbandonati senza nessuna possibilità di far valere le proprie prerogative. E ad avere un ruolo importante in questa decisione fu Donald Rumsfeld, allora Segretario alla Difesa, tra i primi a spingere affinché le normali procedure fossero forzate. E un documento interno all'agenzia, del 26 novembre 2001, già evidenzia come una parte delle preoccupazioni fosse quella di giustificare dal punto di vista legale alcune pratiche messe in atto: dal freddo estremo alla deprivazione sensoriale, dalla privazione del sonno a ogni tipo di umiliazione. Queste decisioni si basavano sull'alta capacità dei membri di Al Qaida di "resistere agli interrogatori". La svolta arriva il 7 febbraio del 2002 quando Bush decide che il "diritto di guerra" non si applica ai terroristi vicini a Osama Bin Laden. Da quel momento l'escalation: con l'apertura di prigioni in Afghanistan dove lo status di detenuto si avvicina pericolosamente a quello di torturato. Stati Uniti: direttore Cia ammette "usati metodi ripugnanti, ma abbiamo ottenuti risultati" Ansa, 12 dicembre 2014 È vero che alcuni membri della Cia hanno usato tecniche "ripugnanti" non autorizzate ma il programma degli interrogatori utilizzato su presunti terroristi in prigioni segrete nel mondo "ha prodotto materiale d'intelligence utile, che ha aiutato a salvare vite". Oltre che a "catturare Bin Laden". Dopo l'11 settembre "temevamo di essere colpiti ancora da un nemico che non riuscivamo a vedere": quella del direttore John Brennan resta un'ammissione a metà, ma già il fatto che il direttore della Cia abbia scelto di comparire davanti ai giornalisti e parlare apertamente di una delle pagine più oscure della storia dell'intelligence Usa. Lo ha fatto anche per difendere il lavoro globale dell'agenzia: "La stragrande maggioranza di loro ha agito con fedeltà e legalmente ma una minoranza si è comportata in modo disgustoso". La Cia, insomma, "ha commesso errori ma ha fatto molte cose giuste" per mantenere gli Stati Uniti "forti e sicuri". Dopo la pubblicazione del rapporto sulle torture del Senato che ha scosso l'opinione internazionale, le parole del capo dell'Agenzia erano attese. "La precedente amministrazione (quella di George W. Bush, ndr) si è trovata di fronte a varie scelte per prevenire altri attacchi", ha continuato Brennan dicendo che "non c'erano risposte giuste". Secondo il direttore "con un network attivo su scala globale, al-Qaeda era pronta a portare avanti la sua agenda". Per questo l'obiettivo del governo americano era fermare una "seconda e terza ondata di minacce" contro la prima economia al mondo. "Stavamo combattendo contro un male inimmaginabile". Brennan ha iniziato il suo discorso in tv ripercorrendo minuziosamente i tragici momenti dell'attentato dell'11 settembre del 2001 per illustrare "lo scenario" nel quale le torture sono avvenute quando lui della Cia era il numero due. L'attuale capo dell'Agenzia ha tenuto a sottolineare che questi metodi di interrogazione "sono stati introdotti per legge" per combattere Al-Qaeda ed erano dunque legali fino a quando la loro ammissibilità è stata revocata con l'arrivo alla Casa Bianca del presidente Barack Obama. "Ho sostenuto la decisione di proibire l'uso dei metodi controversi" usati nei primi anni. Il direttore dell'Agenzia ha tuttavia ammesso che "non si sa" se le tecniche cosiddette enhanced, potenziate (in pratica, la tortura), abbiano o meno prodotto informazioni cruciali. Nuovi dettagli. Dopo la pubblicazione del rapporto, emergono continui nuovi dettagli. E bisogna fare un passo indietro, ai giorni immediatamente successivi all'11 settembre 2001. Sei giorni dopo gli attacchi terroristici, infatti, l'allora presidente George W. Bush firmò un ordine segreto che dava proprio alla Cia il potere di catturare e imprigionare i terroristi di al-Qaeda. Il documento non spiegava dove dovessero essere trattenuti o come dovessero essere interrogati. Le carceri. Secondo il New York Times, nelle settimane successive, mentre gli Stati Uniti lanciavano l'azione militare in Afghanistan, i vertici dell'agenzia di intelligence cercarono di riempire i vuoti dell'ordine ricevuto. Inizialmente, pensarono di seguire una via molto diversa da quella poi decisa. Inizialmente si pensò a un sistema carcerario in cui i detenuti, ovvero i terroristi e i presunti tali, dovevano avere gli stessi diritti e tutele di chi si trovava in prigioni federali e militari. Le condizioni di queste nuove carceri, che avrebbero dovuto essere fuori dal territorio americano, dovevano essere paragonabili agli istituti di massima sicurezza negli Stati Uniti. Il manuale militare. Gli interrogatori avrebbero dovuto essere condotti nel rispetto del manuale militare, che vieta coercizioni e punizioni corporali. Tutto quanto, come riferisce il quotidiano che ha ottenuto una nota del novembre 2001, doveva "essere fatto in modo da rispettare quanto imposto dalla legge americana e dalle norme federali sulle procedure penali". Ma qualcosa non va per il verso giusto. E alcune di queste prigioni si trasformano in "Black Sites": luoghi in cui vigela sospensione di ogni diritto. Con i presunti colpevoli abbandonati senza nessuna possibilità di far valere le proprie prerogative. E ad avere un ruolo importante in questa decisione fu Donald Rumsfeld, allora Segretario alla Difesa, tra i primi a spingere affinché le normali procedure fossero forzate. Il "diritto di guerra". E un documento interno all'agenzia, del 26 novembre 2001, già evidenzia come una parte delle preoccupazioni fosse quella di giustificare dal punto di vista legale alcune pratiche messe in atto: dal freddo estremo alla deprivazione sensoriale, dalla privazione del sonno a ogni tipo di umiliazione. Queste decisioni si basavano sull'alta capacità dei membri di al-Qaeda di "resistere agli interrogatori". La svolta arriva il 7 febbraio del 2002 quando Bush decide che il "diritto di guerra" non si applica ai terroristi vicini a Osama Bin Laden. Da quel momento l'escalation: con l'apertura di prigioni in Afghanistan dove lo status di detenuto si avvicina pericolosamente a quello di torturato. Grecia: la lotta del detenuto anarchico Nikos Romanos "O lo studio o la morte". E ha vinto di Damiano Aliprandi Il Garantista, 12 dicembre 2014 "Continuo a respingere ogni possibilità di tornare indietro e rispondo con lotta fino alla vittoria o fino alla morte". Questo è ciò che aveva detto il greco Nikos Romanos, un detenuto anarchico di 21 anni che è al trentatreesimo sciopero della fame per protestare contro i giudici che gli hanno negato il permesso di poter studiare, sostenendo l'esistenza di "pericolo di fuga". Da tempo, a causa del suo sciopero, è ricoverato in ospedale e, secondo suo padre Giorgios Romanos, rischia di morire. Nikos è stato determinato bevendo e solo l'acqua e rifiutando di essere alimentato per via endovenosa. Ma ieri la grande svolta. Il Parlamento, grazie soprattutto all'iniziativa della coalizione di sinistra "Siryza", ha approvato un emendamento nel quale si dà la possibilità a tutti i detenuti di assistere alle lezioni universitarie previo utilizzo del braccialetto elettronico. Nikos Romanos ha vinto la sua battaglia e ha quindi interrotto lo sciopero della fame. In Grecia è avvenuto il grande paradosso: lo stato di diritto, oggi, viene rivendicato da un giovane anarchico che non tradisce le proprie idee e non accetta i 500 euro dai ministri nominati (il ministro della Giustizia aveva offerto a Romanos 500 euro come premio per essere stato ammesso all'università) e dal Presidente della Repubblica, non chiede di essere scarcerato o di alleviare la propria pena, ma chiede di seguire i corsi all'università usando come scudo la propria vita. La storia di Nikos è emblematica e la sua militanza nasce proprio dall'abuso di potere e inapplicabilità dello stato di diritto. La "perdita dell'innocenza" è avvenuta il 6 dicembre 2008, quando il quindicenne Alexis Grigoropoulos venne assassinato a sangue freddo da un poliziotto nel quartiere di Exarchia, ad Atene, mentre passeggiava con alcuni amici. Tra loro c'era proprio Nikos Romanos, coetaneo e migliore amico di Alexis, che tentò di soccorrerlo fino all'ultimo. Da quel giorno la Grecia è stata attraversata da un vastissimo movimento, che muovendo i suoi passi dalle scuole e dalle università occupate si è poi radicato in tutto il tessuto sociale del paese costituendo il più importante esempio europeo di opposizione alla crisi. Quel giorno, però, è stato anche il punto di non ritorno nella vita di Nikos Romanos che, profondamente segnato dalla tragica morte di Alexis, ha intrapreso un percorso umano e politico che lo ha portato nei mesi e negli anni successivi a dedicarsi completamente alla militanza attiva. Nikos nel febbraio 2013 è stato arrestato insieme ad altri tre compagni con l'accusa di aver preso parte ad una rapina in banca e, dopo essere stato torturato e picchiato più volte dalla polizia, ha subito un durissimo trattamento repressivo in carcere. Lo racconta il suo avvocato in un convegno: "Il signor Dendias - ministro degli interni - avrebbe potuto ordinare un'indagine amministrativa per sapere dagli imputati stessi se sono stati pestati. C'è un video che fa vedere il momento dell'arresto e si vede chiaramente il volto di uno di loro e non è ferito. Quando è stato picchiato quindi? Se lo desidera, può indagare su questo". L'avvocato continua: "In tutti questi anni in cui ho lavorato come avvocato, ho visto all'ufficio del Gip trafficanti di droghe, papponi di alto rango, molti di loro imputati per crimini molto gravi, che non venivano neanche ammanettati e che aspettavano il loro turno fuori dall'ufficio del Gip bevendo birre insieme ai loro amici, senza alcun segno di tortura. Signori, questo, quindi, fa capire la differenza". Poi conclude amaramente: "Dal 1993, anno in cui sono diventato avvocato, non ho mai visto un detenuto ammanettato sulla sedia. Se abbiamo una nuova Guantánamo, che qualcuno ce lo dica. Uno dei detenuti aveva una mano libera e quando sua madre si è avvicinata per abbracciarlo non ha potuto alzarsi. Dico, ma cosa succede? Guardo e vedo che era ammanettato, non so cosa c'era dietro la sedia, sembrava una catena, era legato. Sono sotto shock. Non poteva scappare da lì, non poteva volare, non c'era alcun motivo per tenerlo legato così. Fuori c'erano 40 poliziotti armati. Sua madre, appena l'ha visto, è svenuta. Un occhio gli era fuoriuscito, rosso. Che rosso? Sangue, gonfio. Questa persona era talmente deformata che nemmeno sua madre poteva riconoscerlo, ed era legato ad una sedia. Ma che cos'è? Un animale?". Il 10 novembre scorso, Nikos Romanos è entrato in sciopero della fame dopo avere ricevuto un rifiuto relativo ai permessi studio di cui avrebbe diritto, dopo che questa primavera ha superato gli esami di ammissione all'università. Il 17 novembre anche Ghiannis Michailidis, suo compagno e coimputato, è entrato in sciopero, mentre è notizia di appena due giorni fa che Andreas Dimitris Burzukos e Dimitris Politis, gli altri due detenuti coinvolti nelle vicenda della rapina in banca, hanno iniziato uno sciopero della fame in solidarietà con i due compagni. "Utilizzando il mio corpo come una barricata, sto inviando un ricatto politico per conquistare qualche soffio di libertà dalla schiacciante condizione della carcerazione", ha scritto Nikos comunicando la sua coraggiosa decisione. E ha vinto. Egitto: condannato a 10 anni di carcere ex ministro dell'Informazione del governo Morsi Nova, 12 dicembre 2014 È stato condannato a 10 anni di carcere il ministro dell'Informazione egiziano del governo del presidente islamico Mohammed Morsi, Salah Abdel Maqsud. Il tribunale del Cairo ha condannato l'ex ministro insieme ad altri ex funzionari governativi per corruzione e uso improprio di denaro pubblico. Attualmente l'ex ministro egiziano si trova all'estero, dove è fuggito dopo la caduta del presidente Morsi, ed ha commentato la sentenza inflittagli in contumacia parlando di "verdetto politico e non giudiziario".