Giustizia: la tortura male assoluto, va bandita per sempre di Mauro Palma* Il Manifesto, 11 dicembre 2014 Giornata dei diritti. Dal cuore di tenebra dell'anti-terrorismo - anche in Europa - un avvertimento incancellabile. Nessuna deroga è possibile. Ricordo benissimo. Era la mia ultima relazione generale al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa; quella relazione che come presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura dovevo esporre una volta l'anno ai rappresentanti dei 47 paesi del Consiglio, pronto a rispondere alle loro osservazioni, domande, mugugni per ciò che le visite nei luoghi di detenzione dei loro rispettivi paesi avevano individuato. Soprattutto rispondere a un dato tanto rilevante quanto apparentemente incredibile: il persistere di gravi maltrattamenti e anche di pratiche di tortura nei confronti di persone private della libertà da parte di coloro che avevano il compito di vigilare sulla loro detenzione. Di vigilare cioè sia affinché la misura privativa fosse effettiva, sia che essa non implicasse trattamenti contrari al senso di umanità e la negazione dei loro diritti fondamentali. Proprio in quell'ultima audizione - ero al termine del mio mandato - avevo puntato l'attenzione sulle derive che stavano facendo scivolare la cultura giuridica e ancor più le opinioni correnti verso un'implicita accettazione di possibili pratiche "forti", in nome della tutela della sicurezza contro un nemico esterno, in grado di aggredire con il suo stesso esistere quella che si presentava come realtà democratica del nostro consesso. Derive culturali nel pensiero di alcuni penalisti formalmente democratici d'Oltreoceano che avanzavano la necessità di regolamentare tali pratiche - quindi di accettarle come mezzi disponibili - al fine di controllare che non debordassero oltre un certo limite o che sostenevano che alcuni divieti assoluti, quale è quello relativo alla tortura, non fossero adeguati al nuovo contesto di lotta al terrorismo internazionale. Ma, anche derive pratiche che erano apparse a tutti nelle molte immagini entrate nelle case all'ora di cena con notiziari che da un lato facevano sì che nessuno potesse più dire di non sapere dall'altro implicitamente creavano una progressiva assuefazione all'orrore. Infine, derive istituzionali che avevano portato il Presidente di quella che più volte viene definita come "la più grande democrazia" a definire il water-boarding una semplice tecnica di interrogatorio e non già una forma di tortura e avevano portato alcuni suoi consiglieri - memorabile un tale John Yoo che aveva dato, appunto, consigli a un altrettanto memorabile ministro della giustizia, Gonzales - a sostenere che la forza del paese non sarebbe stata messa in crisi "da coloro che adottano una strategia del debole usando fori internazionali, procedimenti giudiziali e il terrorismo": fori internazionali quindi quasi come una variante della strategia terrorista. In quel contesto dissi che l'Europa avrebbe potuto riaffermare il senso del suo essersi ritrovata attorno a una Convenzione per i diritti umani sin dai primi anni dopo le tragedie del secolo scorso, solo ponendo con chiarezza il proprio rifiuto di ciò che la posizione del presidente degli Stati Uniti aveva espresso in quel suo negare la sostanza delle pratiche che in quegli interrogatori e in quelle detenzioni erano avvenute e avvenivano. E che per far questo l'Europa doveva tagliare con quelle forme di acquiescenza, espresse dalla ripetuta chiusura dei propri occhi su voli non ben identificati nei propri cieli, con trasferimenti di persone verso luoghi oscuri d'interrogatorio, sull'assistenza a essi accordata, quantunque negata, sull'implicito appoggio a quel pensiero che poneva un'ipotetica ragione di stato al di sopra dei più elementari diritti di ogni persona: quello a non essere torturato. Ma, poteva farlo solo interrompendo anche la catena d'impunità che spesso rende impossibili all'interno dei singoli paesi l'accertamento effettivo e l'adeguata sanzione dei responsabili nei casi di maltrattamento grave o tortura di una persona privata della libertà: questo anche in paesi che formalmente prevedono il reato di tortura nel loro ordinamento, ben di più in quelli, quale il nostro, che continuano a non prevederlo. Fui ripreso al termine della mia relazione dal rappresentante diplomatico degli Stati Uniti - presente avendo tale paese lo status di osservatore nel Consiglio d'Europa - per la mia accusa al presidente di una grande democrazia; accusa a suo dire non fondata su fatti provati. Ora il presidente Obama ha trovato il coraggio, alla vigilia di una data simbolica, di riscattare quell'omertà accondiscendente che circondava il potere statunitense in quegli anni. La tortura esce dalla sua connotazione di indicibilità, di pratica inconfessabile; diviene parola pronunciata che indica una pratica che si è realizzata e può realizzarsi di nuovo. Nel frattempo, noi ancora ci trastulliamo a discettare su come introdurre da qualche porticina di servizio il reato di tortura nel nostro codice, nel modo più indolore possibile, non capendo quanto offensiva sia indirettamente tale cautela per tutti coloro che all'interno delle forze dell'ordine svolgono il proprio ruolo con correttezza e coscienza dei propri compiti. * l'autore è l'ex presidente del Comitato contro la tortura del Consiglio d'Europa (Cpt) Giustizia: le Associazioni "è il momento che il Parlamento approvi il reato di tortura" Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2014 È la richiesta fatta da Amnesty International, Antigone, Arci, Cild e Cittadinanzattiva durante la conferenza tenutasi oggi. Si è tenuta stamattina la conferenza stampa nell'ambito dell'iniziativa "In silenzio contro la tortura", promossa da Amnesty International, Antigone, Arci, Cild e Cittadinanzattiva. La sede scelta è stata quella della Camera dei Deputati dove da marzo, quando fu approvato al Senato il disegno di legge per l'introduzione del reato di tortura nel codice penale, il testo è fermo. Riccardo Noury, Susanna Marietti, Laura Liberto, Patrizio Gonnella, Francesca Chiavacci, intervenendo a nome delle associazioni promotrici dell'iniziativa hanno ribadito l'importanza che, a 30 anni dall'adozione della Convenzione contro la tortura da parte delle Nazioni Unite e oltre 25 anni dopo la ratifica italiana, finalmente l'Italia si adegui agli standard internazionali, approvando questa legge. Lo stesso hanno sottolineato nei propri interventi gli esponenti delle organizzazioni aderenti all'evento, nonché il cantante Piotta, testimonial del mondo dell'arte. In apertura di conferenza stampa Amnesty International ha consegnato alla vice Presidente del Senato, Linda Lanzillotta, le 16.000 firme raccolte per chiedere l'introduzione di questo reato. Un'iniziativa che anche Antigone ripeterà nelle prossime settimane consegnando le circa 15.000 firme on-line raccolte, che si vanno ad aggiungere alle 30.000 cartacee, raccolte dalla stessa associazione insieme a numerose altre. Nel ricevere le firme la senatrice ha ribadito l'impegno affinché l'Italia faccia proprio questo reato. Un impegno che hanno espresso e assunto anche i deputati presenti Gennaro Migliore (Pd), Paolo Beni (Pd), Davide Matiello (Pd), Daniele Farina (Sel), Giulia Sarti (M5S), proprio a partire dal 15 dicembre quando in commissione giustizia si inizierà a discutere degli emendamenti al testo. L'auspicio che il disegno di legge venga approvato anche alla Camera è arrivato da Luigi Manconi, primo firmatario al Senato che, pur riconoscendo le modifiche peggiorative subite dal testo da lui proposto (in particolare per la configurazione del reato quale generico, anziché specifico, come raccomandato dalle Nazioni Unite), ha messo in guardia sul fatto che, se il testo venisse modificato alla Camera, al Senato poi non ci sarebbero i numeri e le forze per un'approvazione conforme, con il rischio che dovranno passare altri 25 anni senza questo reato. La conferenza è stata interrotta a metà dei suoi lavori quando i presenti si sono alzati in piedi e hanno osservato un minuto di silenzio contro la tortura. Un modo per controbattere al silenzio che, in questo quarto di secolo, è arrivato dalle istituzioni. Giustizia: ministro Orlando; su reati degli stranieri pesa la loro condizione di marginalità Public Policy, 11 dicembre 2014 "Nella maggior parte dei casi gli stranieri vengono condannati per reati di limitata entità, connessa alla loro condizione di marginalità e di esclusione dal contesto sociale. Rispetto agli italiani, accedono in misura più limitata ai benefici alternativi applicabili in caso di condanna a pene di modesta entità. Semplicemente spesso non ne sono a conoscenza". A dirlo è stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando nel corso di un'audizione, davanti al comitato parlamentare Schengen, sui temi dell'immigrazione. Il ministro ha fatto sapere che al 30 novembre di quest'anno i detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane erano 17.635, il 32% del totale (l'anno scorso erano il 35%). Di questi un quinto provengono da Paesi Ue (soprattutto Romania), gli altri da Paesi extra Ue (soprattutto Marocco, Albania e Tunisia). Oltre 1.300 persone straniere detenute lo sono per reati legati all'immigrazione clandestina, i cosiddetti scafisti (di questi circa 100 sono italiani e circa 1200 sono stranieri). Nel complesso la maggior parte dei detenuti non italiani lo sono per reati contro il patrimonio, stupefacenti e reati contro la persona. Rispetto ai detenuti stranieri di minore età Orlando ha spiegato che "il loro numero è in crescita nel corso degli anni", soprattutto dall'Est Europa e dal Nord Africa, detenuti in particolare per reati contro il patrimonio, come furto e rapina. Procedura rimpatrio macchinosa, in atto accordi bilaterali Nell'anno in corso i migranti richiedenti asilo in Italia, al 14 agosto, erano 100mila, oltre il doppio del numero totale del 2013. "Siamo al primo posto dei paesi Schengen", ha spiegato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel corso della audizione davanti al Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione. L'Italia, ha ribadito il ministro, ha sempre rispettato le indicazioni della Corte di Strasburgo sulle espulsioni. La procedura di rimpatrio, è "macchinosa", secondo Orlando e "vischiosa" tanto che a volte "quando il detenuto può essere rimpatriato si trova al termine della detenzione". "Abbiamo cercato di promuovere accordi bilaterali con tutti i paesi possibili ma - ha aggiunto - siamo in una situazione nella quale nei confronti di alcuni paesi il rimpatrio dei detenuti non è possibile perché, il paese di appartenenza non ha sottoscritto alcune convenzioni di riferimento al riconoscimento della carta dei diritti dell'uomo". Giustizia: ministro Orlando; per corruzione aumento di pena, carcere anche se patteggiata Public Policy, 11 dicembre 2014 "Le misure che abbiamo ipotizzato non muovono specificamente da quel tipo di malaffare (l'indagine Mafia Capitale; Ndr), la riflessione riguarda soprattutto l'efficacia della deterrenza della pena. La scelta che intendiamo assumere riguarda le conseguenze del patteggiamento, non un inasprimento generico, ma l'aumento della pena minima che consenta, anche in caso di patteggiamento di avere comunque un elemento di esecuzione della pena". A dirlo è stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando nel corso di una audizione, davanti il comitato parlamentare Schengen, sui temi dell'immigrazione e riferendosi in particolare alle misure anti-corruzione annunciate ieri dal premier Matteo Renzi. "Abbiamo visto con l'Expo e con il Mose che le indagini, quando sono fatte bene, portano al patteggiamento - ha proseguito Orlando - la conseguenza, dal punto di vista della pena, rischia di precludere la possibilità di comminarne una detentiva". Ancora sul pacchetto di misure annunciato da Renzi Orlando ha spiegato che "l'aggressione di carattere patrimoniale ha una fortissima deterrenza, forse ancora di più di quella detentiva". Vanno colpiti patrimoni e reintrodotto falso in bilancio "Ridare indietro i soldi rubati sarà la condizione senza cui non si potranno avere sconti di pena. Sarà una pena aggiuntiva di forte deterrenza. Come abbiamo visto per i mafiosi, aggredire il patrimonio spesso spaventa più del carcere". Per il guardasigilli è "fondamentale reintrodurre un serio falso in bilancio, perché attraverso la falsificazione dei bilanci non solo si violano le regole del mercato, ma si crea il nero necessario ai processi corruttivi. Anche questa norma è già al Senato". ‘Domani il consiglio dei ministri - aggiunge Orlando - licenzierà il testo che cambia tutto il processo penale, prescrizione compresa, ferma al primo grado, con tempi bloccati in appello e in Cassazione. In ogni caso il 16 dicembre la commissione giustizia della Camera affronterà la questione sulla base di proposte del Pd". Farà paura ai corrotti patteggiare e non scansare la galera? "È giusto che, pur se si ammette la responsabilità, una parte della pena sia scontata in carcere. Basti pensare che su 54mila detenuti solo 250 lo sono per reati contro la pubblica amministrazione - spiega il ministro. Le cronache recenti dimostrano che il patteggiamento per questi reati funziona, bisogna però evitare che la deterrenza della pena perda la sua. Abbiamo introdotto norme per accelerare anche quelle legate all'associazione mafiosa. In ogni caso la norma è studiata per tener conto della specificità dei patrimoni accumulati dai corrotti. Giustizia: ecco il miracolo di Renzi… fa diventare garantista l'Anm di Errico Novi Il Garantista, 11 dicembre 2014 Il sindacato delle toghe boccia il pacchetto anticorruzione annunciato dal premier: "il problema non è la misura della pena", dice il Presidente Sabelli. Chi se non l'Associazione magistrati dovrebbe entusiasmarsi per la proposta di Renzi? Chi altri avrebbe dovuto festeggiare all'annuncio di pene inasprite per i corrotti? E invece neppure l'Anm fa esplodere fuochi d'artificio. Nonostante sia attualmente presieduta da un magistrato che, quando non fa il sindacalista, svolge funzioni di pubblico ministero. Proprio lui, il numero uno delle toghe Rodolfo Sabelli, liquida laconico l'impennata giustizi alista del premier: "Il vero problema della corruzione non è tanto la misura della pena ma è legato alla necessità di rompere il patto corruttivo". Della serie: fate pulizia invece di ingolfare i codici con nuove leggi. Non sarà per questa imprevedibile bocciatura, ma intanto già slitta il Consiglio dei ministri che oggi all'alba avrebbe dovuto partorire l'innalzamento della pena minima da 4 a 6 anni per i corrotti e la restituzione del malloppo come presupposto per gli sconti di pena. Tutto rinviato alle 18 di domani. Certo, anche per gli impegni del guardasigilli Andrea Orlando, che oggi incontra a Bruxelles la Commissione Libertà civili, Giustizia e Interni del Parlamento europeo e domani è a Belgrado per un altro vertice. Ma non è solo questione di planning. Oltre alle fronti arricciate dell'Anm, il pacchetto anti corruzione di Renzi suscita perplessità anche nella maggioranza, e in particolare nell'Ncd. Quest'ultima posizione non è sorprendente. Gli alfaniani eriana già poco convinti del testo sulla prescrizione, messo a punto da via Arenula assai prima che esplodesse Mafia Capitale. Figurarsi le fibrillazioni di fronte all'attacco di Renzi, che punta tra l'altro ad allungare proprio la prescrizione per i reati di tipo corruttivo. Ma certo colpisce assai più la tiepida accoglienza che al ddl annunciato dal premier riservano i magistrati. Intanto, dice Sabelli, "la riflessione va fatta a 360 gradi" e al limite si porrebbe pensare alla "ostensione alla corruzione di strumenti che valgono per la criminalità organizzata", a cominciare dalle "soluzioni adottate per i collaboratori di giustizia". Idea che non rientra nella batteria allestita da Palazzo Chigi. Il presidente dell'Anm poi fa capire che i partiti, Pd compreso, non se la dovrebbero cavare con un'indignata presa di distanze dai malfattori: "La politica deve fare la sua parte, deve intervenire con valutazioni a prescindere dai profili penali". E ancora: "La magistratura non può essere il cane da guardia della democrazia. Ha una funzione di garanzia ma i meccanismi democratici funzionano solo attraverso un'azione di sinergia". Bella lezione. Come se non bastasse la matassa già enorme che il governo deve sbrogliare. A cominciare dal coordinamento tra le misure annunciate dal presidente del Consiglio e quelle a cui da tempo lavora Orlando. Queste ultime contengono una più ampia revisione del processo penale: non solo prescrizione bloccata dopo la sentenza di primo grado (con tempi definiti per l'Appello e per l'eventuale giudizio in Cassazione) ma anche nuove regole su impugnazioni, rito abbreviato e, seppur solo a livello organizzativo, sul rispetto dei limiti temporali per le indagini. Il tutto andrebbe armonizzato con il testo base sulla prescrizione che la commissione Giustizia di Montecitorio sta per adottare. E già questa sarà un'impresa. Se a questo si aggiungeranno anche le misure volute da Renzi sulla corruzione si potrebbe profilare un doppio rischio: ingolfare un Parlamento già saturo di testi in materia di giustizia e produrre l'ennesimo annuncio privo di conseguenze reali. Giustizia: l'errore di rotta contro i corrotti di Massimo Villone Il Manifesto, 11 dicembre 2014 Tanto tuonò che piovve. Renzi ha finalmente alzato la voce sulla corruzione: in sintesi, sanzioni più pesanti e prescrizione più lunga. Certo non può far male, ma da qui a dire che siano provvedimenti decisivi, o anche solo efficaci, ce ne corre. Il punto debole è nel guardare esclusivamente alla repressione, che viene a valle di un danno già prodotto, e colpisce solo la parte di esso che diventa visibile. È l'antibiotico quando la febbre è già alta. Invece, è opinione largamente diffusa tra chi studia o combatte il fenomeno in prima linea, che la chiave principale di risposta sia nella prevenzione. Cosa si possa fare per la pubblica amministrazione abbiamo su queste pagine già scritto, e non vogliamo ripeterci. Ma nella corruzione l'amministrazione si lega strettamente alla politica. E curare l'una lasciando al proprio destino l'altra produrrebbe solo illusioni. La prevenzione nella pubblica amministrazione deve andare di pari passo con la prevenzione nella politica. La domanda allora è: come si previene la corruzione in politica? Anche qui la via della repressione è più chiaramente visibile. Non è certo la prima volta che importanti organizzazioni locali di partito vengono commissariate. Ma i risultati non sono stati eclatanti. Capi e capetti hanno mantenuto i propri feudi, e le truppe cammellate a difesa. Hanno serenamente attraversato ordalie primariali, elezioni di delegati e di organi dirigenti locali e nazionali, candidature, tutto rigorosamente diviso per quota secondo i rapporti di forza. Il punto è che per l'osservatore esterno un commissario si colloca a metà tra Robespierre e Napoleone. Visto dall'interno, è largamente ostaggio dei ras locali, che gli prestano al più omaggi verbali defilandosi mentre si placa la tempesta. Auspichiamo per Orfini ogni successo. Certo non gli auguriamo la fine di quei commissari Pd che abbiamo visto cadere sul campo in tempi e luoghi diversi. Scopre ora che un cattivo uso delle primarie o delle preferenze può aprire la strada alla corruzione. E c'era bisogno del terremoto romano per saperlo? Non abbiamo già assistito nelle ordalie primariali a casi di disfacimento putrescente di organizzazioni di partito un tempo forti e orgogliose? Non abbiamo visto le truppe cammellate al servizio di questo o quel capotribù? Non abbiamo già capito che le primarie possono solo aumentare i costi della politica? Quanto alle preferenze, si sussurra che un seggio in consiglio regionale o persino in un consiglio comunale di grande città arrivi a costare al candidato centinaia di migliaia di euro. Vero o falso? E le iniziative di finanziamento che si moltiplicano - cene, feste e quant'altro - sono simposi di anime belle, o terreno di coltura per la domanda e l'offerta di cui la corruzione si alimenta? Tutto quel che vediamo accadere non si cura solo comminando galera, incandidabilità o espulsioni a singoli politici corrotti. Questo, beninteso, va fatto, e senza esitazione. Ma - rimanendo le condizioni immutate - se ci si limita con sentenze esemplari o commissari di ferro a togliere di mezzo i corrotti, altri verranno a prenderne il posto. Bisogna invece creare un ambiente complessivamente sfavorevole al venire in essere di fenomeni corruttivi. Potenziare gli anticorpi. Il problema si coglie in tutta la sua portata considerando che oggi - e invero da anni - le scelte vanno in direzione opposta a quella necessaria. Un senato non elettivo, imbottito del ceto politico più corrotto che ci sia, indebolisce la lotta alla corruzione. Come la indeboliscono modelli istituzionali e leggi elettorali iper-maggioritarie che tagliano drasticamente rappresentanza e voci di dissenso e critica, rendono il parlamento servo dell'esecutivo, mettono la mordacchia all'opposizione. La indebolisce una lista bloccata - in tutto o in parte - che toglie la scelta agli elettori e apre la via alle spartizioni interne ai partiti. Parimenti e per gli stessi motivi la indebolisce il diffondersi di leggi elettorali iper-maggioritarie a livello regionale. La indebolisce il ricorso a modelli elettivi di secondo grado, e basta a tale proposito guardare alle tendenze spartitorie e clientelari manifestate da ultimo nelle elezioni metropolitane. La indebolisce il ricorso a primarie - in specie se aperte - che sono tali anzitutto verso le degenerazioni correntizie e non solo. La indebolisce il sostanziale azzeramento del finanziamento pubblico della politica, che apre la porta a contribuzioni spesso discutibili, quando non inconfessabili e pericolose. Per contrastare efficacemente la corruzione in politica sarebbe oggi indispensabile un disegno strategico e strutturato. Sistema elettorale, istituzioni, soggetti politici, diritti dei cittadini e dei militanti sono tessere di un mosaico complesso in cui tutto si tiene. Fin qui è stata presa la strada sbagliata, e certo non va nel senso giusto chi disperde un patrimonio di centinaia di migliaia di tessere, come è accaduto per il Pd. Regole e scelte politiche vanno riconsiderate in funzione degli obiettivi, e tra questi la lotta alla corruzione deve avere il primo posto. Compito forse difficile, ma non impossibile per lo statista pensoso della res publica. Sempre che riesca a distinguerla dal proprio destino. Giustizia: Mafia Capitale, tra gli operai della coop di Buzzi "ormai per strada ci sputano" di Emilio Radice La Repubblica, 11 dicembre 2014 "Quando andiamo in giro si mettono a gridare: eccoli, arrivano i mafiosi e qualcuno ci sputa! E noi un po' ci vergogniamo e un po' abbiamo una gran rabbia. Perché non siamo mafiosi, siamo operai, siamo gente che lavora. E in tutta questa vicenda della Cooperativa 29 Giugno, di Buzzi, di Carminati, di Odevaine e di altri farabutti, si sono dimenticati di chi ogni giorno sgobba per uno stipendio di mille euro al mese, noi". I dipendenti della galassia di coop che facevano capo a Salvatore Buzzi travolte dallo scandalo Mafia Capitale sono in fibrillazione. Hanno paura di perdere non solo il posto di lavoro ma, in moltissimi casi, anche un rispetto riguadagnato a fatica, anno dopo anno, per seppellire con una vita onesta uno sbaglio compiuto nel passato e scontato con una pena detentiva. "Avevamo trovato una strada per tornare alla vita normale, ora che fine facciamo?". È per questo che ci hanno chiamato, per fare sentire "la vera voce della cooperativa, quella dei lavoratori". L'appuntamento è in via Pomona, nel quartiere popolare di Pietralata, dove c'è la sede centrale della 29 Giugno già mille volte inquadrata in questi giorni di cronache roventi. Il cancello verde che si apre e si chiude silenzioso scorrendo sui binari, gli impiegati che entrano o escono a testa bassa, senza dire una parola. Ma loro, gli operai, sono decisi: "Se questa è una cooperativa è anche casa nostra, perché ci dovremmo vedere in un altro luogo? Dai, entriamo". Dai balconi dei palazzi vicini qualcuno è affacciato a guardare. A una finestra uno striscione, "Palestina libera". Un tempo questa zona era una roccaforte comunista. Nella sede della 29 Giugno, "alleggerita" di computer e scaffali interi di documentazione dai carabinieri, si svolge una attività febbrile e silenziosa. L'improvvisa presenza del giornalista accompagnato da un gruppo di operai non è presa bene e, dopo un primo attimo di incertezza, la reazione è cortese ma decisa: "No, qui non potete stare". Ma come, gli operai sono dipendenti della coop, dove dovrebbero vedersi? La replica è sorprendente: "Non potete stare qui perché lo ha deciso il presidente". Il presidente? Quale presidente ora che Salvatore Buzzi è in carcere? C'è già un nuovo presidente? E chi è? Un attimo di imbarazzo e di consultazioni, poi: "Il presidente accetta di incontrarvi, prego". La stanza è proprio quella di Salvatore Buzzi, il dominus della 29 Giugno ora a Regina Coeli. Alla parete c'è ancora la famosa foto di lui con Alemanno e il ministro Poletti, in mezzo a tante foto-ricordo delle cene elettorali organizzate dalla cooperativa. "Ma queste immagini non significano nulla, sai quante ce ne sono che non avete visto? La 29 Giugno aveva tanti amici". A parlare a Claudio Bolla, un passato di sinistra eversiva, già collaboratore di Buzzi e soci nella sede della cooperativa. Bolla non si tiene: "So bene che in questi casi la cosa migliore è tacere, ma io parlo per dimostrare che qui non c'è nulla da nascondere. Ecco, vedi, a proposito di fotografie guarda che ho sul telefonino...". E mostra un bel selfie del ministro Maria Elena Boschi fra Carlo Guarany e Salvatore Buzzi eleganti e incravattati, scattato anch'esso nel corso di una cena. Era quella all'Eur per Renzi? Bolla, che pure era tra i partecipanti insieme a Buzzi e Guarany, prima dice di sì, poi è meno sicuro ma insiste: "Ci fossero riusciti avrebbero chiesto la foto anche con Renzi". E aggiunge: "Ci sono le foto a campo stretto come questa ma io preferisco quelle larghe, dove si vede tutto, come quella che oltre ad Alemanno ha fatto vedere Luciano Casamonica, perché sono più oneste. Perché nasconderlo, anche lui lavorava per la coop". Dietro la scrivania un uomo alto e sorridente, in giacca e cravatta. Il nuovo presidente? "No non sono il presidente, sono il curatore incaricato dai giudici, Flaviano Bruno". Per giudici si intende la Procura? "Sì sì. La Procura ha nominato tre amministratori straordinari ed io sono stato scelto stamattina come curatore. L'ho già detto sia ai sindacati che ai lavoratori: non sono qui per liquidare nulla ma per andare avanti con l'attività. Occorre ancora una settimana per avere potere di firma, poi riprenderò i contatti con clienti e fornitori". E dopo quello che è successo pensa che tutto possa ricominciare senza intoppi? "Lo spero proprio. Ho già predisposto il necessario perché si possa partecipare alle gare di assegnazione di alcuni lavori, con trasparenza e rispetto delle regole. Speriamo di non scontrarci con eccessive rigidezze". Si riferisce agli amministratori pubblici che già hanno dichiarato di voler prendere le distanze dalla 29 Giugno? "Speriamo che le decisioni politiche non contraddicano quelle dei magistrati. Ma mi riferisco soprattutto alle aziende, all'Ama ad esempio, con cui la cooperativa lavorava intensamente. E anche alle banche: si sono spaventate al punto da bloccare anche gli incassi. L'emergenza deve essere superata in fretta perché ci sono in ballo le tredicesime e gli stipendi di 1.300 lavoratori, nonché una attività produttiva che in alcuni settori, come nella raccolta differenziata, aveva raggiunto ottimi risultati". Non ci sono state solo cose ottime purtroppo, come per la gestione del campo rom di Castel Romano... "Sono dispiaciuto per ciò che si è visto in tv, ma interverrò per bloccare ogni attività non decorosa". E infine il dottor Bruno ci concede di incontrare il gruppetto dei lavoratori della 29 Giugno nella stanza di Carlo Guarany, l'ex vicepresidente, a sua volta in carcere. Salvatore S., uno degli operai ("per favore, già siamo in difficoltà, non scrivetemi il cognome sul giornale") consegna un foglio: "Noi, 1300 operai delle cooperative di Buzzi Salvatore, vogliamo chiarire che con la storia della Mafia di Roma non c'entriamo nulla. Noi siamo quelli che la mattina si svegliano alle 5 e facciamo le pulizie all'Auditorium, nei consultori, negli ospedali. Noi siamo quelli che puliamo la città per 1000 euro al mese, e a noi sta bene così perché è lavoro e dignità...". Non vi ha offeso essere traditi proprio da gente che, come voi, sa quanto è duro ricostruirsi una vita dopo la galera? "Ci sentiamo infamati e traditi. E ci vergogniamo anche perché i soldi rubati sono di tutti i cittadini". Il loro documento continua: "È vero che molti di noi sono ex detenuti ma si lavora per reintegrarsi e mandare avanti le famiglie e per non vergognarsi mai di guardare i nostri figli in faccia. Chiediamo solo lavoro, stipendio e dignità". Già - chiediamo - e cosa ne pensate di gente come Carminati o come Odevaine che, secondo le accuse, facevano la bella vita alle vostre spalle? Risponde Franco N., settore pulizie: "Noi non li abbiamo mai conosciuti. Carminati poi, amico di poliziotti, ci sembra strano che frequentasse la cooperativa. Comunque sia, ora come ora gli daremmo un paio di pizze in faccia". Giustizia: il Garante Marroni "nessuno difende gli onesti, sono a rischio 1.400 lavoratori" di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 11 dicembre 2014 La telefonata ad Angiolo Marroni, Garante per i detenuti del Lazio e tra i fondatori della Coop 29 Giugno ora al centro di "Mafia Capitale", rischia spesso di interrompersi per la sua rabbia. "Non ne posso più, non potete continuare con questa storia". Possibile che non sapesse nulla degli affari di Salvatore Buzzi, secondo i pm longa manus di Massimo Carminati negli appalti per emergenza profughi, campi rom e altro? "Buzzi non lo vedo da tempo. La Coop 29 Giugno è nata 30 anni fa con ottime intenzioni e l'appoggio di personalità stimate. Politici, giornalisti... Se poi si sia trasformata in qualcosa di orrendo non è colpa mia". In un'intervista recente lei parlava di "business dei detenuti" e "coop sociali che devono fare profitto", citando la 29 Giugno come esempio "molto bello e importante". "Difendevo le attività che svolge non i comportamenti delinquenziali di Buzzi, che non conoscevo. Oggi sono preoccupato per i 1.400 lavoratori che rischiano il posto, tra cui 500 ex detenuti recuperati in attività socialmente utili. Ilrischio di questa mascalzonata orrenda è che tutte le coop sociali abbiano contraccolpi, come già sta avvenendo. Nessuno, politici, sindacati, si schiera a difesa degli onesti". Lei è quello della foto a cena con Buzzi, Alemanno e il ministro Potetti tra gli altri. "Ho ripetuto mille volte che è un evento del 2010 e Potetti non poteva rifiutarsi". E poi c'è l'intercettazione in cui Buzzi lancia la candidatura di suo figlio alle primarie per il sindaco, già pronti 10mila voti. "Vanterie senza riscontri. Mio figlio non si è candidato ed è insopportabile che se ne parli ancora (Umberto Marroni ritirò la candidatura e appoggiò David Sassoli, avversario di Ignazio Marino, ndr)". Giustizia: l'insofferenza dei criminali per i "presunti colpevoli" di Stefano Zurlo Il Giornale, 11 dicembre 2014 Certi crimini sono troppo per tutti, anche per i galeotti. Contro la mamma di Ragusa, la Franzoni e Olindo: "Infame", "muori". Il saluto di benvenuto sta tutto nelle grida dei detenuti: "Assassina". La mamma di Loris entra nel carcere di Catania e riceve un agghiacciante biglietto da visita. Urlano tutti contro di lei. Dentro e fuori. La folla e i condannati. E l'indignazione schiumante dei galeotti sembra quasi quella della gente comune. Quelle che sta oltre le mura. E non vorrebbe aspettare più di tanto il processo e la sentenza. Con una differenza. In galera si protesta con la manopola del volume al massimo. Con frastuono di decibel e parole definitive come pietre: "Infame". "Mostro". Devi morire". È la colonna sonora della nostra cronaca nera più nera. Le croci più dolorose e oscure degli ultimi anni sono puntualmente accompagnate dall'esasperazione delle voci di dentro. Quelle che partono dalle celle affollate, dai corridoi con tanti portoni da superare, dai cortili stretti dove aspirare l'ora d'aria. È successo. Succede ancora. Succederà di nuovo. Annamaria Franzoni arriva a Bologna, alla Dozza, dove poi si troverà come vicina l'altrettanto celebre Wanna Marchi, e trova il muro delle detenute che vorrebbero linciarla e le augurano il peggio possibile. Col tempo s'inserirà, ma il primo impatto è quello che è. Il giudizio è affilato come la lama di un coltello e non prevede il beneficio del dubbio: la mamma di Cogne ha fatto scempio del figlio. E come tale dev'essere trattata. Altro che rieducazione. Almeno in prima battuta il verdetto della corte galeotta è una condanna a morte. O almeno ad andarsene il più lontano possibile. Per non disonorare quel luogo che pure raccoglie personaggi dal curriculum non proprio specchiato: bancarottieri, rapinatori, assassini, truffatori di un pezzo intero d'Italia come la Wanna nazionale. Niente da fare. C'è un limite che non dev'essere oltrepassato. Una porta che non dev'essere aperta. Una soglia invalicabile. E chi la supera lo fa a suo rischio e pericolo. Perché le corti d'assise straordinarie di San Vittore o di Poggioreale possono emettere sentenze lampo. Feroci. E senza appello. Chi si spinge nella notte più buia oltraggiando un bambino innocente perde la solidarietà che tutto copre come un mantello e che nelle patrie galere diventa una rete di sicurezza per sopravvivere. Via e via quella sorta di omertà protettiva che tutto avvolge. La Franzoni come Olindo. Anche lui, per di più spalleggiato dalla moglie Rosa, si macchia di un crimine indescrivibile e ammazza un bambino che aveva il torto di piangere. Pure lui riceve la sua dose non omeopatica di minacce. E lo stesso capita a Giuseppe Bossetti, il presunto killer di Yara. Lo arrestano e lo portano nel penitenziario di Gleno. Qui, secondo Repubblica , qualche gentiluomo gli sussurra paroline dolci come lo zucchero filato: "Infame, la pagherai, ammazzati". Tanto da mettergli paura e spingerlo dal cappellano per cercare conforto. A volte si viene persino assaliti dal tarlo che sia tutto un luogo comune. Un riflesso condizionato dei giornali. Uno stereotipo che vive comunque anche quando non c'è o non c'entra. Non si sa mai bene se il linciaggio, gli insulti, i gesti di scherno siano fiction o realtà. Bossetti lo ritroviamo che gioca tranquillamente a carte con i compagni di sventura. E però Mario Alessi, il muratore che ebbe il coraggio di rubare l'innocenza al piccolo Tommy, sarebbe stato pestato a Parma. Tanto da dover essere trasferito a Viterbo. Episodio smentito e però parte della letteratura giudiziaria. Certi crimini sono troppo per tutti. Anche per chi è dietro le sbarre. Giustizia: l'avvocato di Toto Riina; ha 84 anni e sta malissimo, si deve intervenire Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2014 "Il mio assistito sta malissimo e a giorni faremo un'iniziativa per la sua salute". Lo ha detto il difensore di Totò Riina, l'avvocato Luca Cianferoni, in una pausa del processo sulla strage del rapido 904 in cui il boss di Cosa Nostra è imputato come mandante dell'attentato che il 23 dicembre 1984 causò 16 morti e 267 feriti in una galleria del tratto Firenze-Bologna. Il legale ha spiegato che si tratterà di "una richiesta" al tribunale di sorveglianza di Bologna (Riina è detenuto nel carcere di Parma) e che "è urgente occuparsene" perché il boss, che ha 84 anni, secondo l'avvocato è cardiopatico, ha una forma di Parkinson e problemi a fegato, reni e tiroide. Nelle settimane scorse è stato sottoposto ad accertamenti medici nel centro clinico del carcere. Ieri ha assistito in video-collegamento a tutta l'udienza e alla fine si è si è alzato da solo, senza essere aiutato, per allontanarsi dalla stanza dov'era e tornare in cella. Lettere: abbiamo buttato le ideologie e con quelle anche i valori di Savino Pezzotta Il Garantista, 11 dicembre 2014 È difficile commentare i "fatti di Roma" senza lasciarsi prendere da una sorta di disgusto, di reazione e di risentimento che deriva dal sentirci traditi, ma forse più che questi sentimenti reattivi va messa in campo l'indignazione che è una risposta politica a un torto fatto a ciascuno di noi e lo si deve fare per evitare che la dimensione politica del nostro vivere insieme sia negletta e rifiutata. Sarò un ingenuo ma di fronte ai fatti di corruzione che hanno prima coinvolto Milano, Venezia e ora Roma, continuo a pensare che la politica sia la soluzione a questi mali e che un suo declino abbia ripercussioni negative sulle fasce più deboli della popolazione. Paolo VI ci ha ricordato che la politica è la più alta forma di carità. Per queste ragioni le persone che oggi, indipendentemente dalle loro passioni e dagli schieramenti cui si riferiscono, hanno il dovere di essere rigide e capaci di sviscerare i perché della crisi della politica che ci attanaglia e che, per la sua natura, è più grave di quella dolorosa dell'economia. Lo si deve fare se si vuole che il declino politico si arresti e che l'attenzione al bene comune riprenda il posto che gli compete nel sentire collettivo. Non ci si può arrendere al "sono tutti uguali", sottraendoci da un impegno che prima di tutto è culturale, civile e civico. La corruzione, l'atteggiamento mafioso, il fare sempre e comunque gli affari propri, l'ammirare i "furbi" sembrano modalità penetrare anche in organismi che si pensavano sani. Bisogna prendere atto che nella società italiana s'è ormai prodotta una trasformazione profonda del senso morale. È questo il tempo della riflessione rigorosa sull'agire politico, onde poter valutare cosa abbia prodotto l'abbandono dello spirito della nostra Costituzione e delle virtù repubblicane che essa propone. Ho l'impressione che negli ultimi quarant'anni, lentamente e progressivamente, si sia scivolati -complice un pensare uniformato ai criteri dell'economia - verso lidi che hanno teso a separare l'etica dall'agire politico e abbiano inquinato anche il sentire comune. Si fatica ad esprimere giudizi di valore che non siano legati ai propri interessi. È questo, a mio parere, che ha consentito che la ‘ndrangheta si insediasse a Milano e che a Roma si copiasse e praticasse il metodo mafioso. Si deve guardare con timore a quanto sta avvenendo e sentire sgomento nel percepire che l'emersione criminale sia un albero che affonda le radici in un pensare molto più diffuso. Abbiamo tutti celebrato con soddisfazione il superamento delle ideologie, ma ci siamo dimenticati di salvaguardare i valori, di ritessere comportamento sociali, economici e politici nuovi, anzi si è considerato il riferimento ai principi come una astrattezza da utilizzare solo nei convegni, mentre nella vita pratica doveva predominare il fare, il successo, l'interesse particolare e l'apparire senza interiorità. Si è affermato in larga parte della politica, dell'agire sociale e personale orientato "un fare", "decidere" e "scegliere centrato solo sul successo, sul potere, sul denaro, sulla affermazione di sé e della propria parte. Guardando il malaffare che coinvolge la politica e i fatti di cronaca, l'uso della violenza , si ha l'impressione che sia persa la bussola morale. C'è stata una aratura dell'etica sociale e personale che l'ha sconvolta Con la scusa dell'urgenza e dell'emergenza, si è modificato il discorso politico che si è fatto sempre più assertivo. Non ragiona più in termini di causa-effetto, analisi-proposta, discussione-decisione. A queste coppie, che costituivano l'asse portante per consentire la partecipazione dei molti al discorso politico, è stata sostituita la contestualità delle immagini, il messaggio immediato, il cinguettio mattutino che non consentono di articolare il prima e il dopo manifestando solo l'accadere. Il trionfo della logica della simultaneità, permanente e costante, impedisce l'interrogare, inibisce il discorrere e il valutare. Sta venendo meno la virtù politica della pazienza e si rincorre la frenesia dell'economia e della comunicazione mediatica. Ogni interazione viene raggrinzita. Per vincere la corruzione e il malaffare politico e sociale servono leggi rigorose, la certezza della pena e l'esclusione da ogni incarico pubblico o para pubblico dei personaggi presi con le mani nel sacco. Fa una certa impressione vedere, nelle vicende dell'Expo di Milano e in quelle di Roma, il riapparire di personaggi che nel passato hanno subito condanne. Dobbiamo però sapere che il rigore normativo da solo non basta, bisogna togliere l'acqua entro cui nuotano certi comportamenti. Non possiamo arrenderci alla malversazione, al ladrocinio del consenso oltre che dei danari, dobbiamo arrabbiarci. Nello stesso tempo che la "rabbia" sale deve crescere la consapevolezza che da sola non basta se non diventa atto politico trasformandosi in indignazione. Oggi serve un profondo sdegno capace di produrre nuovi comportamenti a livello personale, sociale, civile. Bisogna alimentare la capacità di indignarsi. C'è bisogno di indignazione, perché l'indignazione è la virtù della resistenza. Per riformare la politica non serve la concentrazione del potere di decisione, non aiutano poteri monocratici come quelli dei sindaci, ma percorsi nuovi di partecipazione per decidere in trasparenza. Alla luce di quanto è avvenuto a Venezia, Milano, Roma e , purtroppo, in molte altre parti d'Italia, alcune riforme istituzionali, troppo ispirate alla logica del decisionismo, andrebbero riviste aprendo spazi e possibilità per una maggiore partecipazione popolare e a forme di democrazia deliberativa. Se vogliamo affrontare la corruzione e contenere la possibilità di infiltrazioni, serve che tutto diventi trasparente ad iniziare dalle lobby che oggi, con l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, hanno campo aperto. Vanno affrontati gli squilibri di potere che si sono creati con l'accentuazione del ruolo dei leader: tutti devono essere messi in grado di influenzare le decisioni che riguardano la loro vita e quella di tutti. Lettere: Firenze è città del dialogo, sindaco prenda posizione sul Satyagraha radicale di Maurizio Buzzegoli, Emanuele Baciocchi, Maurizio Morganti www.radicali.it, 11 dicembre 2014 Egregio Sindaco, Firenze è la città del dialogo, per questo sentiamo il dovere di sollecitare la sua attenzione sull'inaccettabile privazione dello Stato di diritto, del Diritto alla Conoscenza e della Giustizia nel nostro Paese. La Ragione di Stato torna ad essere praticata, ad essere regola prevalente a scapito della legge, minando le fondamenta dello Stato di Diritto, così come le democrazie sono gravemente minacciate delle "democrazie reali": l'urgenza di oggi, a livello locale, nazionale e transnazionale, è dunque il riconoscimento e l'attuazione delle norme che negli ultimi cinquant'anni sono state codificate dalla comunità internazionale. Più in particolare, siamo obbligati ad occuparci delle drammatiche condizioni in cui versano i cittadini detenuti soprattutto per i trattamenti inumani e degradanti che sono costretti a subire: le quotidiane tragedie dei suicidi e degli atti di autolesionismo che incombono all'interno degli istituti penitenziari sono la diretta testimonianza di un problema che il nostro Paese non può tollerare. Una realtà che attanaglia anche la Toscana e in particolare Firenze: undici morti in carcere, cinque dei quali per suicidio (1 a Lucca, 1 a Pisa e 3 a Firenze), due per overdose (entrambi a Firenze) e quattro per malattia. Un preoccupante aumento del tasso di decessi, di violenza e di suicidi che si acuisce a causa della totale assenza di un livello assistenziale sanitario adeguato. Questo è il quadro di trattamenti inumani nelle carceri sanzionato dalla Corte Europea per i Diritti Umani che ha rinviato a maggio 2015 il giudizio in merito sullo stato italiano considerando effettivi i "rimedi risarcitori" (8 euro per ogni giorno di tortura) approvati dal Parlamento. Ma a questo proposito proprio dalla presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Antonietta Fiorillo è venuta la denuncia della sostanziale ineffettività e inapplicabilità di tali rimedi: su oltre 1200 domande presentate dalle persone detenute nei mesi scorsi solo una è stata accolta dal Tribunale della città di cui Lei è Sindaco. Come caso paradigmatico della tortura carceraria abbiamo individuato Bernardo Provenzano (di cui chiediamo la decarcerizzazione): un uomo ormai incapace di intendere e di volere ma ancora costretto al regime del 41bis, nonostante la richiesta di revoca delle procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze. E ancora più preoccupante è la sorte di centinaia di cittadini condannati all'ergastolo ostativo, al "fine pena mai". Una pena inutile e crudele che non si sconta ma si subisce, una vera e propria "pena di morte nascosta" come la definì lo scorso 23 ottobre Papa Francesco. Un quadro della situazione che ci obbliga a chiedere l'immediata introduzione del reato di tortura e la nomina di un Garante nazionale delle carceri. Come Radicali siamo certi che provvedimenti combinati di amnistia ed indulto siano allo stato attuale di urgente necessità ad una riforma strutturale della giustizia atta a riportare il nostro Paese nell'alveo della propria legalità costituzionale e del diritto internazionale. Queste motivazioni hanno indotto Marco Pannella ad iniziare un nuovo sciopero totale della fame e della sete e a lui si sono uniti centinaia di cittadini che hanno deciso di dare corpo alle parole contenute nel messaggio alle camere del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma anche a quelle pronunciate da Papa Francesco in occasione dell'incontro con i delegati dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale. Le chiediamo, signor Sindaco, di rappresentare Firenze in questa importante e indispensabile battaglia per la difesa dei diritti umani e della giustizia, Le chiediamo un incontro con una delegazione radicale per coltivare insieme il principio paolino, adottato da Giorgio La Pira e spesso ribadito da Marco Pannella, dello "Spem contra Spes" ossia avere il coraggio di non abbandonare l'aspettativa, anche quando le circostanze concrete sono così avverse da indurre a perdere ogni speranza. Emilia Romagna: straniero 1 detenuto su due, riconoscere patrimonio culturale e religioso Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2014 Non si può dare rieducazione delle persone senza passare attraverso il loro patrimonio culturale e religioso: e siccome lo scopo del carcere dovrebbe essere quello di rieducare chi ha commesso reati e restituire alla collettività una persona diversa, appare necessario che il carcere diventi un luogo in cui si educa ai diritti e alla responsabilità. Muovono da qui le tante iniziative svolte nelle carceri emiliano-romagnole oggi, 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. In particolare, si è voluto porre la questione di come garantire il patrimonio culturale e religioso dietro le sbarre; di come vedere riconosciute le rispettive identità, allo scopo di rafforzare la convivenza tra culture e religioni diverse. Nonostante la recente, notevole diminuzione in valori assoluti, nelle dodici strutture penitenziarie dell'Emilia-Romagna circa il 46% dei detenuti è straniero (1.352 su 2.916). A livello nazionale, delle 54mila persone in carcere, il 32% è rappresentato da detenuti stranieri, circa 17mila, con una larga rappresentanza di musulmani. A Bologna, nel carcere della Dozza, in conferenza stampa sono state presentate le varie iniziative organizzate per il 10 dicembre. Sono intervenuti la direttrice della casa circondariale della Dozza, Claudia Clementi, la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, Paola Cigarini per la Conferenza regionale del volontariato, Giovanni Schiavone e Emilio Porcaro per l'Ufficio scolastico regionale, Yassine Lafram, mediatore culturale, e Frate Ignazio, islamologo e volontario dell'Avoc. Nel pomeriggio, si è svolta una "lezione aperta", con la presenza di detenuti e volontari, sulle Costituzioni arabo-islamiche; la lezione è stata tenuta dal professor Giuseppe Cecere, davanti a una platea di un centinaio di detenuti e a qualche decina di volontari. La lezione ha tratto particolare attualità dalle cosiddette primavere arabe, dalle domanda di libertà e di cittadinanza che stanno emergendo in tutto il nordafrica e nei Paesi arabi. Fabbri (Lega): troppi stranieri nelle nostre carceri Il consigliere regionale chiede che la pena venga fatta scontare nei Paesi d'origine. "La metà dei detenuti delle carceri emiliano romagnole è straniera, è il segno di un'integrazione mancata. Ed è pure la dimostrazione che con l'immigrazione sfrenata sono aumentati i reati. È il fallimento delle politiche Pd". Così il consigliere regionale leghista Alan Fabbri commenta i dati diffusi nell'anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, secondo i quali nelle dodici strutture penitenziarie dell'Emilia-Romagna circa il 46% dei detenuti è straniero. "È giunto il momento che i detenuti stranieri scontino le condanne nei paesi d'origine. Non intendiamo mantenere nelle nostre carceri, con soldi pubblici, immigrati che vengono in Emilia Romagna a delinquere e, magari, come ha fatto questo governo, risarcire chi sconta la pena in celle troppo strette". "Il sovraffollamento è un problema che va affrontato alla radice: rimpatri dei criminali stranieri e nuove carceri sono l'unica soluzione". Toscana: 8mila libri negli istituti penitenziari, per alleviare la dura vita dei detenuti Redattore Sociale, 11 dicembre 2014 Il provveditore Cantone: "Montagne di libri e scaffali pieni nelle biblioteche delle carceri. Questa è la prima immagine che vorremmo sempre vedere nei nostri istituti". Nel corso del 2014 sono stati donati 8.595 volumi delle principali case editrici italiane alle biblioteche dei 18 istituti penitenziari toscani. La complessiva dotazione libraria delle attuali 25 biblioteche penitenziarie toscane è così passata dai 66.348 volumi del 2012 ai 75.605 titoli del 2014. I testi della nuova acquisizione dei vari ambiti culturali, dalla narrativa alle scienze e alle arti, tra cui anche 400 dizionarietti di 10 lingue straniere, acquistati dall'associazione Onlus "Gli Asini", sono stati preceduti dal dono di primi abbonamenti biennali a importanti riviste specializzate, come "National Geographic". I criteri per le attribuzioni dei libri hanno in primo luogo assicurato a ciascun istituto una aggiornata e varia dotazione libraria, rilevante sia per qualità che per quantità: si va dai 312 testi degli istituti con minore densità di utenti (Grosseto e Gorgona) ai 706 titoli, inviati a Prato, e ai 717 di Sollicciano. "Montagne di libri e scaffali pieni nelle biblioteche delle carceri. Questa è la prima immagine che vorremmo sempre vedere nei nostri istituti - ha detto Carmelo Cantone, provveditore regionale toscano del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Ma la collaborazione importante che si è venuta a creare in questa occasione parla soprattutto di un modo dinamico di fare cultura dentro il carcere, utilizzando il libro come un'opportunità che si sviluppa attraverso non solo la lettura, ma anche attraverso il dialogo con gli operatori culturali e, non da ultimo, con i numerosi laboratori di scrittura creativa che esistono negli istituti penitenziari della Toscana. Se pertanto vogliamo sintetizzare un messaggio diciamo: il libro come opportunità per le persone". Mini biblioteche per i detenuti stranieri Si chiama "Lo scaffale itinerante" ed è il progetto della Regione Toscana per il prestito di libri stranieri ai detenuti di alcuni istituti penitenziari. Previsto anche l'acquisto dei testi necessari ai detenuti frequentanti i vari corsi scolastici carcerari. Si chiama "Lo scaffale itinerante" ed è il progetto sostenuto dalla Regione Toscana per il prestito di libri stranieri ai detenuti di alcuni istituti penitenziari toscani. Il progetto ha ora deliberato, su iniziativa progettuale del Prap, previa analisi dei bisogni della popolazione detenuta, di finanziare la costituzione presso ogni istituto penitenziario di 18 micro-biblioteche di testi in 10 lingue per i detenuti stranieri, che al 31 luglio raggiungevano il 47,76% della popolazione (1610 persone di 80 nazionalità). Tale finanziamento assicura pure l'acquisto dei testi necessari ai detenuti frequentanti i vari corsi scolastici carcerari, dalle scuole inferiori alle secondarie di secondo grado, in base alla collaborazione fornita dai docenti dei corsi stessi e dagli educatori penitenziari. Napoli: Antigone; condizioni migliorate a Poggioreale, ma l'attenzione deve rimanere alta Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2014 Il giorno 10 dicembre 2014 una delegazione di Antigone si è recata in visita presso la Casa Circondariale di Napoli-Poggioreale, che si era conquistata la fama del carcere peggiore d'Europa. 1910 detenuti presenti al momento della visita, di cui 300 definitivi, 236 stranieri, 614 tossicodipendenti, 230 in alta sicurezza offrono il quadro dell'istituto che è stato oggetto delle attenzioni del Parlamento europeo per le condizioni inumane e degradanti riservate ai ristretti. "Dopo denunce, interrogazioni parlamentari che abbiamo attivato e la nostra audizione da parte della Commissione per le libertà civili del Parlamento Europeo, abbiamo trovato un carcere con mille detenuti in meno e in cui si respira un clima più sereno tra i detenuti e tra questi ultimi e gli operatori". È quanto dichiara Mario Barone, presidente di Antigone-Campania e componente dell'Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione. "Nondimeno, permangono forti criticità legate innanzitutto ad un numero ancora elevato di presenze, visto che Poggioreale - al massimo - può contenere 1500 detenuti; data la sua natura di casa circondariale, inoltre, è un contenitore della penalità sempre a rischio di riempiersi fino all'orlo di detenuti in attesa di Giudizio". "L'amministrazione sta compiendo sforzi per aprire spazi di socialità all'interno dei singoli Padiglioni, trasformando aree oggi destinate a celle: tuttavia - ancora oggi - i detenuti trascorrono la maggior parte del tempo in cella". "Auspichiamo" - continua Barone - "che l'amministrazione si attivi in favore di attività, spesso dai bassi costi economici, ma dalla elevata resa umana; solo due Padiglioni godono del regime delle celle aperte per 8 ore, secondo un trend che inizia ad essere generalizzato negli istituti di pena". "Il reparto c.d. Avellino destro in cui, in passato, sono transitate centinaia di detenuti in isolamento per ragioni psichiatriche" - conclude il Presidente di Antigone-Campania - "è stato portato da Antigone all'attenzione del Parlamento italiano ed europeo: al momento della visita, conteneva solo 5 detenuti e l'amministrazione penitenziaria, di raccordo con l'Asl, si è impegnata per uno suo definitivo superamento". Castiglione delle Stiviere (Mn); visita alla Sezione Arcobaleno dell'Opg, ospita 70 donne di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2014 Se Veronica Panarello dovesse essere condannata per l'assassinio di suo figlio Loris, 8 anni, e se i giudici dovessero ritenerla, in base a una perizia di esperti, incapace di intendere e di volere e socialmente pericolosa, allora per lei si aprirebbero le porte dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, l'unico ad avere una sezione femminile e l'unico a non essere gestito dalla Polizia penitenziaria. È una struttura della Asl, gestita solo da medici e infermieri, che ha una convenzione con il ministero della Giustizia. Attualmente ospita 70 donne. Sono quattro i reparti: Arcobaleno, che è quello femminile, Virgilio e Aquarius, i reparti maschili e poi c'è un'area riabilitativa e una comunità (mista), all'esterno, in un'area adiacente alla struttura. Nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere tanti i casi di donne che hanno ucciso i propri figli. Come, per esempio, la mamma che si è buttata nel lago con i suoi due figli e uno l'ha fatto affogare. O come un'altra mamma che ha ucciso la figlia di 4 anni e poi si è accoltellata, ma è sopravvissuta. O la mamma che ha ucciso il figlio buttandolo dalla finestra. La sezione Arcobaleno si trova al piano terra e ha 4 reparti destinati a pazienti condannati con diversi gradi di patologia. Nelle camere, con due o tre letti ci sono armadi con doppia chiave: una per le "ospiti" e una per gli operatori. In tutte le stanze, con le sbarre ai vetri, c'è un climatizzatore. Le donne con più gravi problemi psichici possono stare nelle proprie camere dalle 13 alle 15, per il riposo pomeridiano e dalle 19 alle 8 del mattino, per quello notturno. Tutto questo per evitare l'isolamento. Negli spazi comuni c'è la sala da pranzo e la televisione. Nella struttura con parco ci sono anche una piscina e una palestra. Dal 2000 ci sono stati 3 suicidi. Le evasioni sono arrivate anche a 5-6 l'anno. Alla dottoressa Cristina Cofano, psichiatra dell'ospedale di Melzo, abbiamo chiesto se le donne che uccidono i propri figli hanno delle caratteristiche comuni: "Ogni storia è a sé, ma se vogliamo schematizzare, possiamo dividerle in due categorie. Le madri con una patologica immaturità, centrate su se stesse. Non tollerano la presenza del figlio, totalmente dipendente da loro, perché rappresenta un impedimento alla propria realizzazione. A questo proposito mi viene in mente una mamma che voleva fare carriera nel mondo dello spettacolo e ha ucciso il figlio perché lo riteneva un ostacolo. Oppure sono madri profondamente sofferenti, affette da depressione grave. Di solito dopo aver eliminato il figlio si suicidano, o ci provano. Sono le madri che soffrono di delirio di rovina, non vedono alcuno spiraglio nel mondo e prima di uccidersi, o di provarci, uccidono il figlio per un eccesso d'amore patologico, per difenderlo da una società senza speranza. In famiglia i segnali sono estremamente sottovalutati, queste donne sofferenti, in genere, non vengono mai portate da medici". Dottoressa Cofano, ci sono donne che uccidono il proprio figlio e poi lo negano con convinzione. Ma davvero possono aver rimosso? "Si possono commettere dei gesti talmente gravi che la mente dell'omicida si dissocia per proteggersi. In termini semplici, la coscienza si sdoppia". Il caso di Veronica Panarello se venisse confermato, come lo vede da psichiatra? "Se sarà dimostrata la sua colpevolezza sono tanti gli elementi da approfondire. Per esempio maltrattamenti in famiglia, la sua volontà o meno di avere quel figlio a 17 anni, un forte disturbo di personalità. Anche in merito al suo comportamento attuale davanti agli inquirenti non ci sono risposte certe. È innocente? È colpevole ma ha rimosso l'omicidio del figlio? O è in malafede? Ma se non dovesse crollare e dovesse essere colpevole è più probabile che abbia rimosso. Comunque, solo il tempo ci potrà dire che cosa sia accaduto veramente". Secondo la psicologa Paola Vinciguerra, presidente di Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico), sono tre le spie che devono far scattare l'allarme in famiglia: "Se le persone hanno grossi sbalzi di umore, se sono in alcuni momenti molto nervose, aggressive, intolleranti e in altri momenti estremamente amorevoli e stucchevoli, allora c'è un disagio. Se la persona passa da un eccessivo accudimento e attenzione nei confronti di un figlio a momenti di grande aggressività e intolleranza rispetto anche ad atteggiamenti normali dei bambini, vanno monitorate. Anche una profonda rigidità nei confronti di un figlio nasconde qualcosa di non sano. Secondo indicatore di pericolo: la mitomania. Se notiamo che un nostro familiare racconta cose che noi sappiamo non essere vere e se ha la tendenza a non raccontare le cose in modo aderente alla realtà, allora attenzione. Terzo: il vittimismo e le sensazioni persecutorie o il fanatismo religioso". Genova: carcere di Marassi, detenuto prima tenta il suicidio poi vuole bruciare la cella www.genovapost.com, 11 dicembre 2014 Sappe: "Detenuti con queste patologie hanno bisogno di essere seguiti assiduamente". "A distanza di poco più di una settimana dall'aver sventato un tentativo di suicidio tramite impiccagione avvenuto a Marassi, un detenuto è stato protagonista di un nuovo grave episodio sempre a Marassi dando fuoco alla propria cella. Il pronto intervento dei poliziotti di turno ha evitato conseguenze peggiori riuscendo a spegnere le fiamme. Il detenuto è stato portato al sicuro mentre 2 poliziotti sono stati sottoposti alle cure ospedaliere": ad affermarlo il Sappe Sindacato Autonomo della Polizia penitenziaria ligure. "Non possiamo fare altro che augurare una pronta guarigione ai nostri validi colleghi ed eroi ma non comprendiamo il pensiero della nostra amministrazione regionale. I detenuti che presentano patologie psichiatriche devono essere seguiti con più assiduità dagli esperti che operano negli istituti di pena, in alternativa essere assegnati a strutture esterne capaci di assolvere le esigenze medico-sanitarie del detenuto - afferma Michele Lorenzo segretario regionale -. Tale dinamica rafforza ulteriormente la nostra tesi sull'utilità di istituire il reparto cinofilo antidroga anche in regione Liguria. "Cosa che non pare rientrare nelle previsioni dei nostri vertici. Ribadiamo - aggiunge Lorenzo - che alla Polizia penitenziaria gli si debba erogare una formazione professionale maggiormente rispondente agli effettivi bisogni connessi alla sicurezza del sistema carcere, anche creando una scuola o polo interforze sfruttando la potenzialità della scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte, una delle più importanti d'Italia dove, in sinergia con altre forze di Polizia, si possono indire corsi di primo soccorso, di antincendio, sull'uso del defibrillatore, di legittima difesa e quanti altri necessari per salvaguardare la sicurezza del cittadino. Queste - conclude - sono alcune nostre proposte per arginare i vari eventi ora aspettiamo i progetti dei nostri vertici sia genovesi che romani ad oggi sconosciuti". Milano: detenuto di vent'anni evade dal Fatebenefratelli poco prima di essere operato La Repubblica, 11 dicembre 2014 La notizia arriva dal Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria: il giovane, detenuto per reati di droga, avrebbe approfittato del cambio turno della scorta per sparire. "Momenti di grande tensione". Un detenuto peruviano di vent'anni è scappato poco prima di subire un intervento chirurgico all'ospedale Fatebenefratelli, a Milano, dove era piantonato dagli agenti della polizia penitenziaria. A comunicarlo è il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, secondo cui il giovane avrebbe approfittato del cambio turno della scorta per sparire. Il detenuto deve scontare una pena fino al 2016 per reati di droga. "Sono stati momenti di grande tensione - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. Il detenuto è stato inviato in ospedale per essere sottoposto all'intervento chirurgico. Ora è assolutamente prioritario arrivare alla sua cattura". Messina: presunti favori al clan, indagati sei agenti di Polizia penitenziaria Gazzetta del Sud, 11 dicembre 2014 Sei agenti di Polizia penitenziaria sono indagati per aver agevolato alcuni affiliati al clan Spartà, detenuti nel carcere di Gazzi. Ad incastrarli le intercettazioni ambientali e le riprese video effettuate dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Messina. Per i poliziotti è scattata una richiesta di sospensione dalle funzioni ora al vaglio del gip. Consentivano ai detenuti del carcere di Gazzi di consegnare ai familiari, durante i colloqui in carcere, pizzini contenenti ordini da impartire agli affiliati al clan Spartà. Ma c'era pure chi prendeva soldi dalla cosca per consentire ai carcerati una vita più rilassata. A conclusione delle indagini, eseguite dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Messina, sei agenti di custodia, sono indagati dalla Procura. Cinque di loro devono rispondere di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, uno di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio. Cinque sono tuttora in servizio nella casa circondariale di Messina, uno solo è stato trasferito al Pagliarelli di Palermo. Per tutti c'era una richiesta d'arresto avanzata dal procuratore aggiunto Vincenzo Barbaro e dal sostituto della Dda Maria Pellegrino non accolta dal gip. Il giudice invece dovrà decidere sulla richiesta di sospensione dalle funzioni per i sei agenti di custodia che stamattina sono stati interrogati. I fatti risalgono agli anni 2008, 2009 in piena guerra fra i clan della zona sud per il controllo delle attività illecite come accertò l'operazione Ricarica dei Carabinieri. Operazione che consentì di sventare alcuni omicidi ordinati dal carcere grazie ad un telefono cellulare poi sequestrato in una cella. Decisive si rivelarono le dichiarazioni di alcuni imprenditori impegnati a S. Lucia sopra Contesse in lavori di ristrutturazione delle Case Arcobaleno e di costruzione di una scuola elementare. Grazie alle indicazioni fornite dalle vittime, fra cui l'ex presidente dell'associazione antiracket messinese Mariano Nicotra, i Carabinieri identificarono Maurizio Lucà e Stefano Celona, arrestati proprio ieri per quelle estorsioni. Seguendo Lucà, intercettando le sue telefonate e piazzando telecamere e cimici in carcere quando l'uomo si recava ai colloqui con un parente, gli investigatori smascherarono gli agenti infedeli. Così si è scoperto che i poliziotti, contravvenendo al regolamento, non perquisivano i detenuti prima e dopo i colloqui con i familiari. In questo modo potevano cedere e ricevere bigliettini nei quali venivano impartite disposizioni per estorsioni e spaccio di droga che venivano girate agli affiliati al clan Spartà. Le indagini non hanno però permesso di stabilire l'eventuale contropartita per gli indagati. Più grave la posizione del sesto agente che avrebbe intascato 2.500 euro da un detenuto, anche lui uomo di Spartà, per chiudere un occhio sui suoi comportamenti. Così poteva girare liberamente fra i reparti e incontrare altri detenuti. L'agente di polizia penitenziaria si sarebbe anche prestato per conto suo a portare ambasciate dentro e fuori il carcere. Nell'inchiesta, sull'attività del clan Spartà nella zona sud sono indagate altre 26 persone compresi Lucà e Celona. L'operazione Alexander prende il nome dal bar di Lucà a S. Lucia sopra Contesse dove gli affiliati si incontravano per decidere le strategie del clan. Saluzzo: agente Polizia penitenziaria a processo per peculato e minacce verso collega www.targatocn.it, 11 dicembre 2014 Secondo l'accusa si sarebbe appropriato del denaro che i famigliari inviavano ad alcuni detenuti. Alcuni detenuti nel carcere di Saluzzo si erano lamentati perché non avevano ricevuto delle lettere che stavano aspettando da famigliari ed amici. La procura sospetta che a sottrarle, prima che i legittimi destinatari le potessero aprire e a far sparire il contenuto in denaro, sarebbe stato un agente di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale saluzzese, questa mattina a processo davanti al tribunale collegiale di Cuneo con l'accusa di peculato e minacce verso un collega. L'ex comandante del carcere sentito come teste del pm Cristina Bianconi: "C'erano state lamentele per posta mai ricevuta da parte di alcuni detenuti. Secondo un primo sondaggio interno le lettere arrivavano regolarmente, passammo quindi a fare accertamenti interni nel carcere. Nell'ufficio del casellario gli agenti addetti iniziarono a fotocopiare tutte le buste della corrispondenza in arrivo e a controllare in trasparenza con l'aiuto della luce di una lampada quali di quelle contenessero denaro in contante. Quindi sulle fotocopie si annotava il loro contenuto, e si monitoravano attentamente. Erano proprio queste con i soldi che sparivano". Secondo la ricostruzione l'imputato, un capo sezione, approfittava della sua posizione gerarchica per intercettare la corrispondenza che arrivava dal casellario per poterle "esaminare", trattenere quelle "interessanti", prima di riconsegnarle agli agenti che le distribuivano ai destinatari. "Iniziammo a controllarlo. Un giorno lo scoprii mentre stava buttando via in un water una lettera stracciata. In seguito mi insospettii nel vederlo gettare nel cassonetto un sacchetto. Dopo averlo recuperato, dentro trovammo alcune lettere destinate a detenuti ma anche a nostri colleghi". Ad alcuni dei detenuti che si sono costituti parte civile, il pm ha mostrato le fotocopie delle buste a loro indirizzate: "Capitava che ricevessi denaro da mia madre. Ma questa lettera non mi è mai arrivata". Un altro ha riconosciuto la calligrafia della figlia: "Mai ricevuta". Un'agente collega dell'imputato: "Nel sacchetto della spazzatura furono trovate un paio di estratti conto che erano spediti dalla mia banca. Qualcuno aveva strappato via il numero del conto". Bologna: al carcere della Dozza si rilegge la Costituzione con gli occhi delle altre culture Di Dino Collazzo Redattore Sociale, 11 dicembre 2014 Ventiquattro lezioni per detenuti arabi e musulmani per rileggere la Costituzione italiana attraverso la loro cultura. È il progetto "Diritti, doveri, solidarietà" presentato stamattina al carcere della Dozza di Bologna. La direttrice: "Un modo per integrare e integrarsi". Una costituzione ideale scritta dai detenuti arabi e musulmani. È l'obiettivo del progetto "Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo-islamico", presentato questa mattina al carcere della Dozza di Bologna in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell'uomo. Da novembre a maggio, ogni mercoledì una ventina di detenuti, in prevalenza arabi e musulmani iscritti ai corsi scolastici della Dozza, seguiranno le 24 lezioni tenute da insegnanti, esperti della cultura araba e professori universitari, su diversi argomenti. La primavera araba, il ruolo della famiglia e della donna nel mondo musulmano, le costituzioni arabo-islamiche saranno alcuni dei temi affrontati che si intrecceranno con lo studio e la comprensione dei diritti e doveri scritti all'interno della Costituzione italiana. Il risultato finale sarà quello di realizzare una piccola costituente in cui i detenuti stileranno quelli che sono i propri principi fondamentali. "Questo progetto vuole realizzare uno scambio di saperi e al tempo stesso avviare un percorso di rieducazione - dice Claudia Clementi, direttrice del penitenziario della Dozza - Rileggere la nostra Costituzione attraverso gli occhi di altre culture è un modo per integrare e integrarsi". L'idea del progetto è nata circa tre anni fa dalla mente di frate Ignazio De Francesco, islamologo e volontario dell'Avoc, associazione volontari carcere. "Tutto è partito dall'idea che non tutti siamo uguali e ognuno ha le proprie convinzioni - racconta frate Ignazio. Molti detenuti sono di fede islamica e hanno una loro scala di valori. Così ho pensato: perché non far incontrare la nostra cultura con la loro? In questo modo si crea uno scambio culturale che permette di arricchirsi e facilita un percorso di rieducazione". Oltre all'istituto penitenziario Dozza, a essere coinvolto nel progetto sono stati anche l'Ufficio del garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e il Cpia metropolitano di Bologna, centro per l'istruzione per gli adulti. "Quando frate Ignazio si è presentato da noi con questa proposta - racconta Desi Bruno, garante delle persone private della libertà personale - abbiamo deciso subito di metterci all'opera per realizzarlo, cercando di esportare il modello anche in altri istituti". A seguire i detenuti in questi 7 mesi saranno, oltre alle diverse figure previste, i docenti del Cpia. Quest'ultimi, oltre alle lezioni sui temi del progetto, si occupano ormai da anni della scuola per adulti all'interno della Dozza. "Sono circa 200 i detenuti iscritti al nuovo anno scolastico - dice Filomena Colio, insegnante da 23 anni nel carcere bolognese. Ma le iscrizioni sono aperte sempre proprio perché c'è un flusso continuo tra chi entra e chi esce". Un lavoro, quello di dare la possibilità di studiare ai detenuti, che riguarda tutte le carceri italiane e che ha lo scopo di dare una mano a chi sceglie di ricominciare con una nuova vita partendo dai libri e da un banco di scuola. "Il sapere e la cultura aiutano a essere più liberi - dice Giovanni Schiavone, dirigente provinciale dell'Ufficio scolastico di Bologna - e questi progetti permettono di realizzare questi obiettivi". Roma: fino al 19 dicembre aperte iscrizioni Master in Diritto penitenziario e Costituzione Adnkronos, 11 dicembre 2014 C'è tempo fino al 19 dicembre per iscriversi alla seconda edizione del Master di secondo livello in Diritto penitenziario e Costituzione, organizzato presso l'Università degli Studi Roma Tre e diretto dal professore Marco Ruotolo. L'edizione precedente, terminata nel settembre 2014, ha visto un gran numero di partecipanti ed è stata ricca di eventi notevoli e di illustri invitati, tra cui il ministro della Giustizia Andrea Orlando ed i presidenti emeriti della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, Gustavo Zagrebelsky e Gaetano Silvestri. La nuova edizione, che vanta una rosa di eminenti studiosi e figure di rilievo istituzionale tra i docenti, riserva non meno sorprese, a partire dal calendario dei corsi già interamente consultabile on-line su sito del Master www.dirittopenitenziarioecostituzione.com. Sono inoltre in corso di organizzazione alcuni eventi d'interesse, come, ad esempio, un incontro su il giornalismo penitenziario, che si svolgerà nel corso dell'anno 2015. Il Master, inoltre, ha collaborato all'organizzazione del Festival "Made in Jail - Carcere & Cultura" (madeinjailfestival.net), che si svolgerà i giorni 11, 12, 13 e 14 dicembre presso il Teatro Palladium di Roma. Il Master, nato "con la consapevolezza che la lettura del diritto penitenziario alla luce della Costituzione non sia una scelta ma una necessità", è principalmente rivolto a giornalisti, membri dell'amministrazione penitenziaria e giovani laureati che desiderino approfondire alcune problematiche legate all'esecuzione penale quali, ad esempio, il garantismo giudiziario, il sovraffollamento delle carceri, il funzionamento dell'amministrazione penitenziaria e della magistratura di sorveglianza e l'architettura penitenziaria. Le iscrizioni si chiuderanno il 19 dicembre. È possibile ottenere maggiori informazioni, oltre che sul sito del Master, scrivendo all'indirizzo masterdipec@uniroma3.it. Roma: "Made in Jail", il Festival degli artisti dietro le sbarre e di chi c'è già stato La Repubblica, 11 dicembre 2014 Dall'11 al 14 dicembre al Teatro Palladium di Roma la kermesse di teatro, cinema, musica, arti visive e letteratura organizzata per rappresentare le produzioni culturali maturate nelle carceri del Lazio. Promotori il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell'Università Roma Tre, patrocinato da Roma Capitale con il contributo della Regione Lazio e dell'Ufficio del Garante dei detenuti Il carcere può (e dovrebbe) essere luogo di formazione e produzione di cultura: dietro le sbarre (purtroppo solo in alcuni casi) si fa teatro, si scrivono libri, si imparano mestieri, si diventa, attori, musicisti, artisti. La cultura è fattore di coesione sociale, di educazione e ri-educazione, ma anche e soprattutto, nel caso delle discipline artistiche più praticate nelle carceri, ponte verso l'esterno. Con questa consapevolezza nasce il Festival Made in Jail, per contribuire a rendere visibili le realtà culturali di alcuni istituti penitenziari della Regione Lazio. Il festival è promosso dal Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell'Università degli Studi Roma Tre, patrocinato da Roma Capitale e realizzato con il contributo della Regione Lazio e dell'Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Lo dirige Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro presso l'Università Roma Tre. Il meglio dalle carceri del Lazio. Made in Jail si inserisce nell'ambito della terza missione dell'università, un concetto legato alla polis, alla necessità che la gente si incontri sulle tematiche sociali. Protagonista di questa prima edizione al Teatro Palladium di Roma, dall'11 al 14 dicembre, è l'arte nelle tante sfaccettature. Il teatro, certo, ma anche il cinema, la musica, le arti pittoriche, la letteratura. Saranno infatti proposti spettacoli teatrali, libri, video e musica rigorosamente "made in jail", prodotti culturali realizzati appositamente per questa occasione, in vari istituti penitenziari del Lazio. Il bisogno e la voglia di incontrare la società. "È una vera e propria necessità dell'Università aprirsi al sociale e a tutte quelle forme che concorrono ad una formazione culturale e scientifica", spiega Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro presso l'Università Roma Tre e direttrice artistica della manifestazione. E aggiunge: "Nel Lazio ci sono quindici istituti penitenziari e in ognuno di questi si fa stabilmente teatro. Un teatro che, in molti casi, prima di essere "parte del progetto trattamentale" è, e vuole essere, teatro tout-court, un'isola galleggiante che non cambia il mondo ma cambia chi la fa. Questa è la prima edizione di un festival che nasce come rassegna delle varie culture praticate nelle carceri del Lazio, portando all'esterno esperienze che fino ad oggi (solo di rado) è stato possibile vedere fuori dai penitenziari". Riflettori sugli sconosciuti. Molte sono le realtà culturali e in particolare teatrali degli istituti penitenziari italiani: Made in Jail vuole semplicemente mettere sotto i riflettori quelle del Lazio, poco conosciute che possono sembrare minori e che sono, invece, di grande valore (non solo sociale). Tra queste (alcune più conosciute, altre meno): Adynaton, ArteStudio, Associazione Made in Jail, Associazione Per Ananke, Compagnia Sangue Giusto, Compagnia Stabile Assai, King Kong Teatro, La Ribalta-Centro Studi Enrico Maria Salerno, Muses, Presi per caso, Rodez, Teatro degli Incerti. Reti di collaborazione. Secondo Mario Panizza, Rettore dell'Università degli Studi Roma Tre: "la terza missione deve prevedere opportuni strumenti che favoriscano le relazioni con i soggetti esterni; sviluppare reti di collaborazione con soggetti esterni di ogni tipo, aziende, associazioni professionali, istituzioni ed enti pubblici, promuovendo attività su ciascuno dei fronti. Deve essere intesa come capacità di diffondere determinate conoscenze sul territorio". Quando l'arte può rendere liberi. Il festival Made in Jail nasce con l'obiettivo di contribuire a rendere visibile il ponte tra l'esterno e le varie realtà culturali in carcere. L'arte può davvero rendere liberi, e manifestazioni come queste possono rendere visibili anche realtà "chiuse" - come quella formata dai detenuti e dalle detenute di alta sicurezza che non possono portare la loro arte "fuori" - restituendole alla cultura e al pubblico "esterno" attraverso gli audiovisivi. È il caso del video sui dieci anni della compagnia del Teatro Libero di Rebibbia, dei cortometraggi in cui sono protagonisti i minori reclusi a Casal del Marmo, o, ancora, del corto realizzato Prove chiuse realizzato attraverso il montaggio di Frammenti del laboratorio teatrale AdDentro dallo spettacolo La favola del figlio cambiato (Compagnia Sangue Giusto e detenute della Casa Circondariale di Civitavecchia). L'esempio dei "Presi per caso". Un esempio famoso è quello di Salvatore Striano, ex detenuto reso popolare dall'interpretazione al cinema di Gomorra e Cesare non deve morire, che ha scoperto il suo talento per la recitazione proprio nel laboratorio della Ribalta diretto da Fabio Cavalli a Rebibbia. Un altro caso che ha riscosso grande successo è quello dei Presi per caso, la Rock band di detenuti, ex detenuti e non detenuti del penitenziario di Rebibbia che, nel concerto di chiusura del Festival lanceranno il nuovo progetto discografico Fuori! ed eseguiranno alcuni dei loro classici, brani ironici ed amari sulla condizione carceraria. Le tavole rotonde. Il carcere come luogo di produzione di cultura sarà anche argomento di tavole rotonde come "Dentro. Libri dal carcere" (la presentazione del libro "Pensieri dal carcere" di Pierre Clémenti - attore amato da Buñuel, Pasolini, Glauber Rocha, Bertolucci, Jancsó e João César Monteiro - avverrà alla presenza del figlio, invitato per l'occasione dalla Francia), "Teatri in carcere nel Lazio" o "Cultura e recidiva". Riflessioni proposte da addetti ai lavori, aperte al confronto con il pubblico. Per suscitare spunti e riflessioni ulteriori, contribuendo a rendere più solido il ponte tra il carcere e la società libera. Come partecipare. Il Teatro Palladium di trova in Piazza Bartolomeo Romano, 8, nel cuore della Garbatella. L'ingresso è gratuito. Per informazioni: 06.57338424, oppure 06.57338339. La mail: festivalteatro@libero.it e madeinjailfestival.net. Durante i quattro giorni del Festival, il foyer del Palladium ospiterà la mostra "Opere d'Arte dall'Associazione Made in Jail" Il programma. Giovedì 11 dicembre - Alle 21: Spettacolo, Salvatore Striano in "Sasà dentro l'avventura"; drammaturgia e regia di Fabio Cavalli; al pianoforte Franco Moretti; produzione: Centro Studi Enrico Maria Salerno, In collaborazione con il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo - Università Roma Tre. Direzione artistica di Laura Andreini Salerno. Venerdì 12 dicembre - Alle 15: Rassegna Video, Prove chiuse; Frammenti del laboratorio teatrale Addentro Casa Circondariale di Civitavecchia N. C. sezione femminile dallo spettacolo "La favola del figlio cambiato", Compagnia Sangue Giusto; Video realizzato dal Centro Produzione Audiovisivi dell'Università Roma Tre; "Le donne del muro". Rebibbia femminile. "Alta sicurezza", dallo spettacolo Didone, una storia sospesa, Associazione Per Ananke; Teatro libero di Rebibbia. Dieci anni di attività. La Ribalta. Centro Studi Enrico Maria Salerno. - Alle 16: Tavola Rotonda "Teatri in carcere nel Lazio"; Il punto di vista degli operatori teatrali. Coordina Valentina Venturini, storica del Teatro - Università Roma Tre; Incontro di studi sul teatro recluso nel Lazio In collaborazione con il Coordinamento Teatro in Carcere nel Lazio. - Alle 21: Spettacolo "Roma, la capitale" di Antonio Turco, Sandra Vitolo e Renzo Danesi. Compagnia Stabile Assai della Casa di Reclusione di Rebibbia. Sabato 13 dicembre - Alle 16: Spettacolo "L'orda oliva, libero adattamento di "Un lungo viaggio" di Leonardo Sciascia. Compagnia Sangue Giusto, con i partecipanti al Laboratorio Teatrale della Casa di Reclusione di Civitavecchia. Officine Teatro Sociale. Regione Lazio. - Alle 17: Tavola Rotonda, "Dentro. Libri dal carcere", coordina Carmelo Cantone provveditore dell'Amministrazione penitenziaria per la Regione Toscana. - Alle 21: Film, "Take Five" di Guido Lombardi. La proiezione sarà preceduta dalla presentazione di Salvatore Striano, coprotagonista del film e già attore della Compagnia del Teatro Libero di Rebibbia. Domenica 14 dicembre - Alle 15: Spettacolo, ArteStudio presenta Gaetano Campo in "Il garzone del macellaio", da Patrick MacCabe - Alle 16: Cortometraggi, Adynaton presenta "Mo sto bene" e "Una impresa impossibile", cortometraggi realizzati con i ragazzi dell'I.P.M. Casal del Marmo di Roma e i ragazzi in misura penale alternativa al carcere - Alle 17: Tavola Rotonda, "Cultura e recidiva"; coordina Donatella Stasio, giornalista de Il Sole 24 ore - Alle 21: Concerto, "Presi per caso", la Rock band di detenuti, ex detenuti e non detenuti del penitenziario di Rebibbia Roma: domani Radicali a Rebibbia Femminile presentano il film "Dragan aveva ragione" www.radicali.it, 11 dicembre 2014 Venerdì 12 dicembre alle 15.00 Marco Pannella e Rita Bernardini saranno alla Casa circondariale di Rebibbia Femminile, dove presenteranno il documentario sui campi nomadi di Roma "Dragan Aveva Ragione" di Gianni Carbotti e Camillo Maffia. Il film, completamente autoprodotto, fornisce uno spaccato della realtà Rom nella Capitale, al centro in queste ore di cronache e dibattiti che fanno l'economia della doverosa applicazione della Strategia Nazionale d'Inclusione per Rom, Sinti e Caminanti ratificata dall'Europa nel marzo 2012: le due emergenze umanitarie, quella che si consuma negli istituti di pena e quella che affligge la minoranza più popolosa d'Europa, sono il frutto speculare di quel prevalere della ragion di Stato sullo Stato di diritto che i radicali instancabilmente denunciano in ogni sede. Radicali italiani e Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, ringraziano per la disponibilità sia la direttrice Ida Del Grosso, sia il vicecapo del Dap Luigi Pagano, sia la direttrice dell'ufficio stampa e relazioni esterne del Dap Assunta Borzacchiello. Napoli: "Il carcere possibile", al via la decima edizione della rassegna dì teatro in carcere La Città di Salerno, 11 dicembre 2014 Anche l'Istituto a custodia attenuata di Eboli parteciperà alla decima edizione della rassegna dì teatro in carcere, intitolata "Il carcere possibile", a cui si potrà assistere domani, il 18 e 19 dicembre al Ridotto del Mercadante a Napoli. La manifestazione - promossa dall'omonima Onlus e dal garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania - raccoglie i lavori teatrali di cinque compagnie di detenuti-attori, provenienti da altrettanti istituti di pena che si trovano sul territorio regionale. Sì inizia il 12 dicembre alle 16, con lo spettacolo "Cimiteriol", proposto dai giovani dell'Istituto minorile di Airola (Benevento). La rassegna riprenderà, poi, il 13 dicembre alle 10,30, con "L'ultima guapparia", presentato dalla Casa circondariale di Arienzo (Caserta). Il 19 dicembre toccherà all'Istituto a custodia attenuata di Eboli, che alle 10,30, porterà in scena lo spettacolo "Una smorfia di napoletanità". In merito alla rappresentazione Rita Romano, che guida i detenuti della Casa di reclusione di Eboli e crede nel potere di riabilitazione sociale della cultura, ha sottolineato: "È uno spettacolo per ridere, un omaggio a comici del Sud, che si articola in una carrellata di gag e personaggi, nati con la "Smorfia" e portati in scena con allegria. Un messaggio di speranza e tanti sorrisi sono il cuore del lavoro". Seguirà, alle 12,30, "Spazio libero", lo spettacolo della casa circondariale di Lauro (Avellino), e alla 16 chiuderà la rassegna la rappresentazione "Verdetto tammurriato", portato in scena dall'ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli. Firenze: il via da Sollicciano per progetto "Evasione totale, un'ora di speranza in musica" www.ilvelino.it, 11 dicembre 2014 Dedicato ai detenuti. Il primo appuntamento sarà il 12 dicembre alla Casa circondariale di Sollicciano di Firenze. Il 12 dicembre alla Casa circondariale di Sollicciano di Firenze si terrà il primo appuntamento di "Evasione Totale - un' ora di speranza in musica", un'iniziativa che si pone l'obiettivo di sostenere i detenuti, attraverso la musica ed eventi all'interno delle carceri: "detenuti che anche se hanno commesso dei reati, anche se hanno sbagliato, sono sempre persone per le quali bisogna favorire il reinserimento sociale, offrendo sostegno ed opportunità". Per raggiungere questo obiettivo, appunto, è stata scelta come protagonista la musica, utilizzata come linguaggio universale e occasione per favorire la comunicazione, l'aggregazione e l'integrazione fra tutti gli addetti ai lavori che ruotano attorno ai penitenziari italiani: associazioni, volontari, agenti di polizia penitenziaria ed educatori. A capo dell'iniziativa ci sono il Presidente dell'associazione Apoxiomeno nonché Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, Orazio Anania, un uomo da sempre sensibile all'impegno sociale, e l'Associazione LES (associazione no profit che si occupa di tutte le problematiche relative alla sicurezza). L'Arte di Apoxiomeno ha la finalità di organizzare il Premio internazionale "Apoxiomeno", attribuito a chi da lustro alle Forze dell'ordine con la loro azione diretta o mediata sviluppatasi nel campo delle varie arti e professioni: cinema, televisione, sport, cultura, letteratura, giornalismo, musica ecc.; sviluppare, migliorare, estendere e ingrandire la cultura della sicurezza, perseguendo gli interessi culturali nell'arte e nello sport, promuovendo inoltre alla tutela di beni collezionistici, storici, d'epoca e d'antiquariato di qualsiasi tipo e genere, valorizzandone l'importanza, artistica, storica, culturale e sociale, mediante la creazione di circoli, club di aggregazione con aree attrezzate per mostre, esposizioni, manifestazioni e spettacoli anche attraverso: canali radio, canali televisivi, la redazione e la pubblicazione di riviste on line a ciò dedicati. Il Presidente dell'associazione Apoxiomeno ha costruito una squadra che si avvale di una serie di professionisti, cantanti, musicisti, animatori, che da sempre sono vicini al lavoro delle forze dell'ordine e che con i valori della musica intendono offrire una opportunità di svago e socializzazione per i detenuti con lo scopo di sensibilizzare la pubblica opinione su una particolare tematica sociale e umana quale è quella dei diritti dei detenuti. Tra i nomi più importanti contattati da Orazio Anania, ci sono il dj Mitch, speaker, musicista e produttore: Mitch, ex appartenente alle forze dell'ordine ha sposato il progetto dell'associazione Apoxiomeno mettendosi a disposizione per la produzione artistica e per una serie di concerti e di spettacoli che durante il periodo natalizio si svolgeranno all'interno delle carceri. Vista la difficoltà nel riuscire a lavorare con lingue, culture e religioni differenti, un problema che emerge negli Istituti penitenziari a causa delle diverse etnie, Mitch ha inserito nel progetto un suo artista internazionale, il cantante e ballerino cubano Leo Diaz. L'immagine e la voce ufficiale del progetto è invece affidata al cantante Hervè Olivetti che con il suo brano "Diavolo di un angelo", attualmente in radio e disponibile negli store digitali, contribuirà concretamente attraverso i relativi proventi all'acquisizione di materiale utile all'attività di formazione dei detenuti finalizzata all'inserimento lavorativo. Brescia: pop oltre le sbarre, "live" a Canton Mombello con la cantautrice Joan Thiele Corriere di Brescia, 11 dicembre 2014 Un concerto più unico che raro. In un luogo che definire simbolico è riduttivo. Domani sera alle 19 la cantautrice bresciana Joan Thiele salirà sul palco a Canton Mombello per un concerto di beneficenza aperto alla città. I posti disponibili sono circa 200, i biglietti per il concerto sono in vendita all'Areadocks di via Verona e alla palestra Millenium, in via Vittime di Guerra. La "base d'asta" è a partire da 15 euro, ma è caldeggiata una donazione. Il ricavato della serata sarà devoluto all'associazione Carcere e Territorio. Obiettivo: acquistare attrezzature per la palestra del carcere. "Da anni Millenium ci sostiene nelle attività sportive- spiega la direttrice Gioieni, apporto fondamentale alla vita quotidiana dietro le sbarre. Vorremmo ora incrementare le attività, ma la palestra è parecchio sguarnita. Da qui l'idea di trasformare un'occasione sociale in una risorsa per i 349 detenuti che attualmente vivono all'interno di Canton Mombello". A suggellare l'unicità dell'evento pure il "matrimonio" con Radio Bresciasette, che domani sera trasmetterà in diretta il concerto. Stati Uniti: tutto il mondo condanna le torture della Cia Askanews, 11 dicembre 2014 L'ex vicepresidente Cheney: il rapporto è pieno di sciocchezze. Si moltiplicano gli appelli negli Stati Uniti e in tutto il mondo per reclamare un procedimento giudiziario sull'utilizzo della tortura da parte della Cia, un dossier che l'amministrazione Obama sembra considerare tuttavia chiuso. Proprio mentre gli americani scoprivano le atrocità descritte nel rapporto del Senato contro i prigionieri detenuti nelle carceri della Cia, il Ministero della Giustizia ha fatto subito sapere che il caso non sarà riaperto. L'ex vicepresidente Dick Cheney, in carica durante l'amministrazione di George W. Bush fra il 2001 e il 2009, proprio nel periodo incriminato, ha detto che il documento parlamentare è "pieno di sciocchezze. Un rapporto deplorevole dove non ci si è presa la pena di interpellare le persone chiave coinvolte in quel programma", ha insistito. Mentre un responsabile del Ministero, che ha parlato in condizioni di anonimato, ha detto che nel rapporto pubblicato martedì non c'era "alcuna informazione nuova", rispetto all'inchiesta approfondita effettuata nel 2009. Ma i dettagli sulle pratiche dei servizi americani, con detenuti tenuti al buio per giorni, gettati contro i muri, tenuti a bagno nel ghiaccio, privati del sonno o alimentati a forza per via rettale, hanno suscitato reazioni scandalizzate in tutto il mondo. "Crimini ingiustificabili", li ha descritti Edward Snowden, l'ex consulente della Nsa (National Security Agency), che ha rivelato i segreti del sistema di sorveglianza americano. Ma contro Washington si è pronunciata anche l'Unione Europea, secondo la quale queste rivelazioni "sollevano questioni importanti sulla violazione dei diritti umani da parte delle autorità americane". Per il consulente dell'Onu per i diritti umani Ben Emmerson, "i responsabili di questa cospirazione criminale devono risponderne davanti alla giustizia". Il nuovo presidente afgano, Ashraf Ghani, si è detto "oltraggiato", denunciando questi "atti disumani" che alimentano "un circolo vizioso di violenza". Perfino l'Iran, spesso nel mirino delle Nazioni Unite per le sue violazioni in materia di diritti umani, ha denunciato su Twitter gli Usa come "simbolo della tirannia contro l'umanità". Polonia: ex presidente; autorizzammo prigioni segrete della Cia ma non torture a detenuti La Presse, 11 dicembre 2014 L'ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski ha riconosciuto che durante il suo mandato la Polonia ha offerto alla Cia un sito per una prigione segreta, ma ha aggiunto che il Paese non ha autorizzato la tortura dei detenuti. Si tratta della prima volta che un leader polacco ammette che il Paese ha ospitato un sito segreto della Cia. Secondo le notizie la struttura è stata operativa dal dicembre 2002 fino all'autunno del 2003. Kwasniewski è stato al potere dal 1995 al 2005. L'ex presidente lo ha rivelato dopo che ieri è stato diffuso il rapporto della commissione intelligence del Senato Usa sui metodi utilizzati dalla Cia con i detenuti nelle strutture segrete all'estero, a seguito degli attacchi terroristici dell'11 settembre. Secondo lo studio la Cia ha torturato i prigionieri di al-Qaeda con metodi che sono andati ben oltre i limiti legali. Nel rapporto non vengono identificati i Paesi che hanno ospitato le prigioni segrete. Kwasniewski, che non ha indicato date per le operazioni del sito, ha detto che la struttura della Cia è stata fermata su pressione di leader polacchi. Nonostante le ripetute smentite polacche, Associated Press aveva pubblicato articoli sulla prigione, citando ex funzionari Cia che hanno detto ad Ap che la struttura è stata operativa dal dicembre 2002 fino all'autunno del 2003. I gruppi per i diritti umani ritengono che circa otto sospetti terroristi siano stati trattenuti in Polonia, incluso Khalid Sheikh Mohammed, autoproclamatisi mente dell'11 settembre. Kwasniewski è stato al potere dal 1995 al 2005, ma come altri leader dei governi di sinistra dell'epoca ha negato l'esistenza del sito fino ad adesso. "La Polonia ha intrapreso delle azioni per fermare l'attività in questo sito e l'attività ad un certo punto è stata interrotta", ha detto Kwasniewski a Radio Tok Fm a Varsavia. L'ex presidente ha anche rivelato che aveva chiesto all'ex presidente Usa George W.Bush di porre fine all' attività di intelligence Usa in un colloquio alla Casa Bianca. Si sa che Kwasniewski ha visitato la Casa Bianca nel luglio 2002. Diversi politici in Polonia hanno criticato la pubblicazione del rapporto come un errore che danneggia gli alleati degli Stati Uniti. Il rapporto non menziona specificamente la Polonia. Tuttavia, una parte si riferisce chiaramente alla Polonia, a causa dei riferimenti a detenuti e a date nelle quali sono stati trattenuti in Polonia, e a fatti noti da precedenti indagini di Ap, di organizzazioni per i diritti umani e della Corte europea per i diritti umani. Nel 2008 il governo di centrodestra ha ordinato un'indagine sulle notizie. Funzionari governativi affermano che il rapporto Usa potrebbe fornire nuove prove per l'inchiesta, che è ancora in corso. Brasile: rapporto finale della Commissione per la verità sui crimini della dittatura Il Manifesto, 11 dicembre 2014 Giornata storica. Torture, sparizioni e uccisioni. Il rapporto finale della Commissione per la verità consegnato a Dilma Roussef, che scoppia in lacrime. 434 le vittime. La Commissione nazionale per la verità (Cnv), istituita tre anni fa, ha consegnato ieri alla presidente Dilma Rousseff il rapporto finale sui crimini della dittatura militare che governò il Brasile dal 1964 al 1985. Frutto di due anni e sette mesi di lavoro, il testo, diviso in tre volumi di 3.380 pagine complessive, illustra nel dettaglio i reati commessi contro 434 oppositori, arrestati, torturati e fatti scomparire per motivi politici (210 sono dati per "desaparecidos" e 224 per morti, ma solo 33 corpi sono stati localizzati). 377 invece i responsabili individuati e citati nel rapporto, dei quali solo un centinaio sarebbero ancora in vita. Tra i nomi compaiono anche quelli di cinque ex presidenti. Secondo la Commissione l'amnistia varata nel 1979 non andrebbe applicata a questi casi per la gravità dei reati commessi, che configurano - sostiene il coordinatore della Commissione, il giurista Pedro Dallari - dei "crimini contro l'umanità". Rousseff, lei stessa arrestata e torturata ai tempi della dittatura, nel corso della cerimonia di consegna - avvenuta non per caso nel giorno in cui si celebra la Giornata mondiale dei diritti umani - è scoppiata in lacrime. "Il Brasile merita di sapere la verità", ha detto. Aggiungendo che il lavoro condotto dalla Commissione rientra tra i "gesti che costruiscono la democrazia" e che "verità non significa revanscismo". Brasile: condanna a 624 anni per ultimo imputato del massacro di Carandiru, nel 1992 Ansa, 11 dicembre 2014 È stato condannato a 624 anni di reclusione l'ex poliziotto militare Cirineu Carlos Letang Silva, 50 anni, ultimo imputato del processo sul massacro nel carcere brasiliano di Carandiru, avvenuto nel 1992, quando una rissa fra bande rivali si trasformò in una rivolta sedata con la violenza dalle forze dell'ordine e che provocò 111 morti fra i detenuti. L'uomo è stato ritenuto responsabile di 52 decessi. La sentenza è stata emessa la notte scorsa, a maggioranza della giuria popolare, nel tribunale di Santana, nella zona nord di San Paolo. Gli altri 73 agenti giudicati colpevoli nelle precedenti udienze rispondono alle accuse in libertà e possono ancora ricorrere contro le sentenze di condanna che variano dai 96 ai 624 anni di carcere. Afghanistan: chiuso carcere Bagram, simbolo torture Usa www.swissinfo.ch, 11 dicembre 2014 È uno dei simboli delle torture e degli abusi compiuti dagli americani nel corso della "guerra al terrore", dopo gli attentati dell'11 settembre 2001: il carcere afghano nella base militare di Bagram. Ex officina di velivoli durante l'invasione sovietica dell'Afghanistan negli anni 80, Bagram chiude ora definitivamente i battenti. Come sottolinea il Pentagono, adesso gli Usa non hanno più né carceri né detenuti nel Paese asiatico. La notizia degli ultimi prigionieri che hanno lasciato il centro di detenzione di Bagram arriva all'indomani del rapporto del Senato Usa sulle torture della Cia. Gli orrori del carcere afghano, cui qualche tempo dopo seguirono quelli di Abu Ghraib in Iraq, vennero alla luce quando nel 2005 il New York Times fece uno scoop, pubblicando un rapporto dell'esercito di circa duemila pagine. Un rapporto in cui si svelava come nel 2002 alcuni militari-aguzzini uccisero due prigionieri civili afghani con metodi a dir poco brutali. Habibullah e Dilawar (quest'ultimo un tassista e agricoltore di 22 anni) furono appesi al soffitto con delle catene e barbaramente malmenati, picchiati a morte. I particolari sono agghiaccianti: furono entrambi colpiti con dei bastoni alle gambe, sotto il ginocchio (i cosiddetti "colpi peronei"). Nei referti stilati dopo l'autopsia si spiegava come i traumi subiti dalle due vittime era paragonabili all'essere schiacciati da un autobus. Dilawar - scrisse il Times - ripeteva urlando "Allah!" ogni volta che veniva colpito, provocando le risate dei suoi aguzzini. Dopo un'indagine interna, nell'ottobre del 2004 i vertici dell'esercito Usa incriminarono 27 tra ufficiali e personale arruolato per la morte di Dilawar, con capi d'accusa che vanno da inadempienza del dovere a mutilazione e omicidio colposo. Quindici degli stessi soldati furono anche accusati per il decesso di Habibullah. Ma Bagram fu teatro di molte altre torture. Come nel caso di Mohammed Sulaymon Barre, un profugo somalo che ha raccontato di essere stato sottoposto a diversi metodi brutali di interrogatorio, come quello di essere tenuto per diverse settimane in isolamento in una stanza al freddo, privato anche delle razioni di cibo necessarie. Alcuni di coloro che avevano condotto gli interrogatori a Bagram, ma mai incriminati, furono poi spediti in Iraq per prestare servizio nella prigione di Abu Ghraib, che divenne a sua volta teatro di torture e abusi ai danni di detenuti iracheni da parte delle forze di coalizione che avevano deposto Saddam Hussein. Mali: ostaggio francese libero in cambio di detenuti salafiti, insorgono Ong locali Aki, 11 dicembre 2014 Non si placano in Mali le voci secondo cui la liberazione dell'ostaggio francese Serge Lazarevic, sequestrato tre anni fa a Hombori, nel nord del Mali, e rilasciato ieri, sarebbe il frutto di un accordo di scambio con alcuni terroristi salafiti detenuti nel carcere centrale di Bamako, tra cui Mohammed Ali Ag Wadoussene. Wadoussene è sospettato di essere coinvolto nel rapimento dello stesso Lazarevic e di un altro cittadino francese Philippe Verdon, trovato morto a luglio dello scorso anno nel nord del Mali. Sempre lui è considerato l'autore dell'evasione di massa dal carcere di Bamako del 16 giugno scorso, durante la quale è rimasta uccisa una guardia carceraria. Wadoussene era stato nuovamente arrestato il 24 luglio. Ma per le organizzazioni per i diritti umani in Mali, la liberazione del presunto terrorista è "un atto extragiudiziario e biasimevole per un Paese che si vanta di essere un campione di rispetto rigoroso dei diritti umani", come ha dichiarato la presidente di Wildaf Mali, Bintou Founé Samaké. Samaké ha ricordato che il 4 dicembre, qualche giorno prima della liberazione di Wadoussene, altri tre pericolosi elementi sospettati di terrorismo sono stati rilasciati dalla Corte d'appello, ossia "Haifa Ag Acherif (fratellastro di Wadoussene, ndr), Oussama Ben Gouzzi (Tunisia) e Habib Ould Mahouloud (Sahara occidentale)". Ora che il governo maliano ha le mani libere, "bisogna arrestare di nuovo tutti questi presunti autori di crimini di guerra e crimini contro l'umanità e portarli a giudizio per i fatti commessi", ha aggiunto Samaké. Dal canto suo, il presidente dell'Associazione maliana dei diritti umani (Amdh), Moctar Mariko, ha dichiarato che "se da un lato comprendiamo la necessità di trovare i mezzi per liberare gli ostaggi, crediamo che questo soluzioni non debbano violare i diritti delle vittime e il principio della separazione dei poteri in Mali".