L'amore entra dentro l'Assassino dei Sogni. Quarta parte di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 10 dicembre 2014 Testimonianza di un Uomo Ombra al seminario di Ristretti Orizzonti sugli affetti in carcere del primo dicembre 2014. Oggi un uomo ombra, che credevo che fosse un duro, commentando il suicidio di un nostro comune amico ergastolano, mi ha confidato: "Io non mi ucciderò mai, ma sento spesso il desiderio di farlo". Io ho pensato che sono proprio quelli che dicono che non lo faranno mai che sono più a rischio, ma non gliel'ho detto. (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Adesso è il turno delle testimonianza di due miei compagni che spiegano l'importanza dei colloqui e telefonate con i propri familiari. Subito dopo interviene il professore Andrea Pugiotto, docente di Diritto Costituzionale, uno dei più bravi costituzionalisti in Italia. Affronta la questione dell'affettività negata in ambito costituzionale. E ricorda al mondo dei vivi che nel mondo dei morti ci sono persone che amano, sbagliano, sperano e sognano una vita di riscatto. (…) La persona condannata all'ergastolo esiste e non esiste e questa sua esistenza virtuale alla lunga fiacca fino a consumare nella solitudine e nel rancore anche i legami più solidi, non perché le persone non sono resistenti, ma è ragione di una morte civile e sociale decretata da una pena fino alla morte. A me vengono in mente le parole dell'ex Presidente della Camera Pietro Ingrao "Io sono contrario all'ergastolo prima di tutto non riesco proprio a immaginarlo". Badate la castrazione legale sessuale e affettiva non consente solamente al carcere a vita, secondo me è proprio una vera e propria pena accessoria che accompagna qualunque altra condanna alla reclusione intramuraria. L'organizzazione mondiale della sanità con delle direttive recepite nella nostra giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità, definisce la salute come uno stato complessivo di benessere fisico ed equilibrio psichico. Ora non serve una laurea in medicina o in psichiatria per comprendere come l'astinenza coatta e prolungata con il partner in persone che hanno ormai superato l'età puberale inibisce uno sviluppo normale della sessualità con nocive ricadute stressanti sia di ordine fisico e psicologico. Ora è evidente che il diritto all'affettività include il diritto alla sessualità, è una componente essenziale, una volta che noi abbiamo riconosciuto al diritto dell'affettività, dunque alla sessualità valore costitutivo della dignità di ogni persona in quanto persona, è chiaro che di questo diritto è titolare anche un soggetto in cattività dietro alle sbarre (…). Finito l'intervento del professor Pugiotto mi domando perché i buoni si limitano a tenerci vivi? Non abbiamo neppure un filo di speranza su cui appoggiarci. A stare in carcere senza sapere quando finisce la pena ci vuole tanto, troppo coraggio. Ed io a volte non ce l'ho. Non si può essere colpevoli, puniti e cattivi per sempre. Nessuna condanna dovrebbe essere priva di speranza, di amore e di perdono. Senza speranza, amore e perdono l'uomo perde la sua umanità. Ci siamo. Ornella mi chiama. Ora è il momento del mio intervento. "L'ora dei limoni neri" come chiamo i momenti di tensione ed emozioni in carcere. Sono agitato. Ed ho paura di fare brutta figura davanti a mia figlia. Non me lo perdonerei mai. E per questo ieri sera ho ripetuto al muro della mia cella quello che dovevo dire oggi. Poi ho chiesto al muro che cosa ne pensava, ma lui come al solito non mi ha risposto. Poveraccio! Probabilmente ne ha viste più di me. Ed ha imparato a stare zitto. Cercherò di non guardare mia figlia. Sento i brividi nel cuore. Guardo i miei compagni, molti di loro sono ergastolani. Persone come me escluse dalla vita e dall'amore per sempre. Sono emozionato molto di più di quando entravo in banca per rapinarle. Mi si attanaglia lo stomaco. Per un attimo guardo mia figlia. Cerco di sostenere il suo sguardo. Il mio cuore mi consiglia di sbrigarmi a distoglierlo. Gli do retta per paura di emozionarmi e di emozionarla. Smetto di pensare. È ora che incomincio a parlare. Mi butto giù dal burrone. Ed inizio. Desidero iniziare il mio intervento con una premessa. Credo che la società (lo stato) ha il diritto e il dovere di difendersi dai cittadini che sbagliano e che commettano dei reati. A mio parere però lo dovrebbe fare dimostrando di essere migliore di quei cittadini che commettano dei crimini. Purtroppo spesso questo non accade. E mi riferisco soprattutto al campo affettivo. Penso che le restrizioni in carcere vanno e debbono essere accettate quando hanno una funzione utile alla rieducazione, alla società e alle vittime dei reati. Ma non capisco, e faccio veramente fatica ad accettarlo, perché non posso scambiare un bacio o una carezza con la mia compagna che mi sta aspettando da ventitré anni? Ancora meno capisco perché non posso passare una giornata insieme ai miei figli e ai miei nipotini pranzando o cenando insieme a loro con colloqui riservati come accade in tanti carceri nei paesi del mondo dove probabilmente le condizioni igieniche, alimentari e sanitarie saranno peggiori che nelle carceri in Italia? Incredibilmente nelle carceri del terzo mondo non manca l'amore sociale e familiare che manca in Italia. Ed io sono fortemente convinto che l'amore per uno Stato e per una società sia l'arma più potente ed efficace per sconfiggere la grande e piccola criminalità (…) Ho una compagna e due figli, e adesso due nipotini, che mi aspettano da oltre ventitré anni. E purtroppo, data la mia condanna all'infinita pena dell'ergastolo, se non cambiano le leggi in Italia avranno di me solo il mio cadavere (…) Torno a sedermi emozionato. Papà. Mia figlia mi sorride. Sei stato bravo. Mi prende la mano. Hai detto che però è la mamma prima nel tuo cuore. E me la stringe. Sono delusa perché pensavo ch'ero io. Sto bene. Dai non fare quella faccia che scherzo. Mi sento sempre a mio agio con mia figlia accanto. Papà. Sto meglio con lei che con me stesso. Ti confido che ci sono dei momenti che la mia libertà mi pesa, se non puoi averla anche tu. A volte mi sembra di non averla mai lasciata un istante in questi ventitré anni di carcere. Continua... Un ergastolano invitato in Vaticano da Papa Francesco di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 10 dicembre 2014 La Comunità Papa Giovanni XXIII conferma la richiesta di poter accompagnare Musumeci Carmelo in udienza pontificia a noi riservata il prossimo 20 dicembre 2014 con Papa Francesco. Questo evento speciale a noi riservato per l'avvio della causa di beatificazione del nostro fondatore Don Oreste Benzi, che già incontrò Musumeci nel 2007 al carcere di Spoleto, assume un'importanza ancora maggiore dopo il discorso del Papa del 23 ottobre scorso alla delegazione dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale. Poiché questa Comunità sostiene da anni a fianco di Musumeci una campagna contro la pena del carcere a vita, chiediamo di poter accompagnare Musumeci Carmelo e la sua famiglia a questo incontro. (Fonte: Disponibilità per il Tribunale di Sorveglianza per accompagnamento e tutoraggio di Carmelo Musumeci, da parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, Associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio). Papa Francesco, sono entrato nel ventiquattresimo anno di "Pena di Morte Nascosta", come la chiami tu. E quando ieri mi è arrivata la notizia che i fratelli e le sorelle della Comunità Papa Giovanni XXIII mi hanno inserito nella lista delle persone che t'incontreranno nella Città del Vaticano non ho chiuso occhio. Ho passeggiato, avanti e indietro. Su e giù. A passi lenti. Da una parte all'altra delle pareti della mia cella per tutta la notte. Ti confesso che di notte, per prendere sonno, passeggio spesso per la mia tomba. A testa bassa. E altrettanto spesso la morte cammina accanto a me. Ti confido che sono stanco di pensare. A volte troppo stanco per vivere. Pure stanco di aspettare un giorno che non verrà mai. Ti svelo che spesso ho tanta voglia di arrendermi alla vita perché penso che sia inutile continuare a vivere una vita inutile. Perduto fra la tristezza e la malinconia. Papa Francesco, ti confesso che spesso nel mio cuore non c'è più nessuna speranza. E sono stanco di sperare e contare i giorni e le notti all'infinito. Sono pure stanco di aspettare la morte. E ti confido che certe notti provo il desiderio di andarle incontro per finire prima del tempo la mia pena. Ti svelo che nella mia vita non riesco a scorgere più nessun barlume di speranza perché la mia pena mi sembra troppo grande per vederne la fine. E penso che non mi basteranno tutti i giorni, i mesi e gli anni della mia esistenza per scontarla. Per questo a volte mi sento un cadavere senza essere ancora morto. Credo che tutte le pene dovrebbero avere un inizio e una fine. Invece a me, insieme alla libertà, hanno ucciso per sempre anche la speranza, perché con la mia condanna di morte nascosta ormai posso solo tenermi in vita. Papa Francesco, ti confesso che spesso non mi sento né all'aldilà né l'aldiquà. Mi sento solo nel mezzo. Né vivo né morto. Mi sento solo un'ombra. Un'ombra che si trascina avanti e indietro. Un passo davanti all'altro. Indietro e avanti. E con lo sguardo fisso nel vuoto. Diretto verso il muro di fronte. Ti confido che ogni tanto mi fermo davanti alla finestra. La apro. E guardo avanti. Non vedo però nulla. Intravedo solo il muro di cinta. E mi viene voglia di fuggire dalla vita perché a volte morire mi sembra la scelta giusta. Una scelta intelligente. La scelta migliore. L'unica cosa che potrei ancora fare. Non so cosa incontrerei nell'aldilà, ma di sicuro non vivrei una vita inutile come adesso, perché amo troppo la vita per continuare a vivere senza esistere. Ti svelo che non posso più vivere senza un filo di speranza. Non posso più continuare a vivere senza la speranza di esistere. Francesco, pensi che i giudici mi lasceranno venire da te? Io non credo proprio, ma ci spero. E in attesa di abbracciarti di persona lo faccio fra le sbarre. Giustizia: il premier Renzi "niente sconti ai corrotti, pena minima sarà 6 anni di carcere" di Serenella Mattera Ansa, 10 dicembre 2014 L'indignazione non basta. Non basta il commissariamento del partito e non bastano le parole di condanna. Di fronte a un terremoto giudiziario delle proporzioni di Mafia capitale, Matteo Renzi decide di convocare d'urgenza il Consiglio dei ministri annunciando nuove norme che porteranno da 4 a sei anni la condanna minima per corruzione. I corrotti pagheranno tutto, fino all'ultimo giorno, fino all'ultimo centesimo", promette. Si alzeranno le pene e si ridurranno i margini del patteggiamento, che i "ladri" finora si potevano giocare come "una carta del Monopoli", spiega il premier. Da qui l'aumento da quattro a sei anni di carcere per corruzione, una più facile confisca dei beni, il dovere di restituire "tutto il maltolto", una prescrizione più lunga. "Piccoli" interventi, li definisce Renzi, "ma molto seri, molto significativi". Il premier in un incontro a Palazzo Chigi con il ministro Andrea Orlando individua il perimetro delle nuove misure (che forse saranno contenute in un ddl) che andranno a integrare, spiega il Guardasigilli, il ddl sulla criminalità economica "già in discussione al Senato". Poi fissa per giovedì alle 8 - prima della sua partenza per una visita istituzionale in Turchia - la riunione del Cdm che dovrà vararle. Ma subito annuncia il suo "impegno" ai cittadini in un video, diffuso attraverso Youtube e i social network. "Di fronte alla schifezza della corruzione a Roma, non possiamo che aspettare i processi. E le sentenze. Che speriamo veloci", premette il premier. Perché "il governo non può mettere il naso in quello che fa la magistratura": spetta ai giudici capire se davvero ci si trova di fronte a reati di stampo "mafioso" o di "banale - si fa per dire - corruzione". Il governo alcune cose - dall'Expo al Mose, fino all'introduzione del reato riciclaggio - le sta già facendo, sottolinea Renzi. Ma questa volta non basta. Lo scandalo rischia di incrinare ancor di più il rapporto tra politica e cittadini ("Non siamo - scandisce il leader del Pd - tutti uguali"). Ma non solo. Rischia anche di dare un brutto colpo, in una fase già delicata, alla credibilità dell'Italia presso partner Ue e investitori internazionali. Perciò Renzi decide di provare che "il vento è cambiato" inasprendo le norme. "È inaccettabile" che chi "ruba possa patteggiare e trovare la carta uscire gratis di prigione come al Monopoli", spiega il presidente del Consiglio con immagine vivida. "In Italia su circa 50 mila detenuti, in carcere per corruzione con sentenza definitiva sono in 257: troppo poco rispetto ai numeri della corruzione". Nel Cdm di giovedì - che dovrebbe esaminare anche la riforma del processo penale con le attese norme sulla prescrizione - il governo inasprirà il pacchetto corruzione, con quattro misure che si articoleranno così nel dettaglio: "Pena minima da quattro a sei anni, per cui anche in caso di patteggiamento un po' di carcere si farà". Due: "Sarà molto più semplice confiscare i beni ai condannati in via definitiva", con norme severe come quelle per mafia (intervento già previsto in un ddl all'esame del Senato). Tre: "Si dovrà restituire tutto il maltolto". Quattro: "Sarà allungata la prescrizione". Anche sul fronte interno al Pd, mentre prosegue l'opera del commissario Matteo Orfini a Roma, il premier potrebbe annunciare una stretta. E, nel corso dell'assemblea nazionale convocata per domenica, potrebbe essere impressa un'accelerazione alla riflessione sul partito della commissione interna insediata da Matteo Orfini e Lorenzo Guerini, per intervenire anche con modifiche statutarie. Giustizia: parassitismo fiorente, sa d'eufemismo la metafora "mela marcia" di Franco Cordero La Repubblica, 10 dicembre 2014 Tiene banco la scoperta del malaffare capitolino: una congrega a varie anime (underground nero, Magliana, trame mafiose), infiltrata nel Pd, gestisce appalti lucrando su raccolta dei rifiuti, campi d'immigrati, manutenzione del verde pubblico. Stupore, scandalo, sdegno: ed essendo sinora centouno i variamente coinvolti, molti in custodia cautelare, sa d'eufemismo la metafora "mela marcia". Matteo Renzi reagisce nel solito stile, a imperiosi gesti verbali, nominando un commissario: Matteo Orfini, presidente del partito, ex capo dei "giovani turchi"; né poteva mancare una "task force". Ventitré anni fa Bettino Craxi definiva "mariuolo" il presidente del Pio Albergo Trivulzio, sorpreso col denaro caldo in tasca. Il risanatore del partito era un ex sindacalista Psi, poi ministro e presidente dell'Antimafia, Ottaviano Del Turco: nel luglio 2008, governatore dell'Abruzzo, finisce in vinculis, quale tangentocrate d'una Sanità vertiginosamente gonfia; da Parigi nell'anniversario della Bastiglia l'allora premier Silvio Berlusconi inveisce contro l'ultimo "teorema" d'invadenti toghe; le imbriglierà. Esiste una compagnia degl'impuniti: campagne mediatiche lo davano innocente, assolto a colpo sicuro; il processo pende in appello dopo una condanna a nove anni e sei mesi. L'argomento invita all'analisi storica: come mai fioriscano tali commerci; e quanto vi sia organicamente coinvolta la classe politica. L'evento milanese 17 febbraio 1992 ha effetto domino: dovunque l'inquirente scavi, brulica politica infetta. Gli ottimisti sperano una metamorfosi virtuosa, oltre palude democristiana e plumbeo dogmatismo comunista (squalificato dalla crisi nella Chiesa madre moscovita). La mutazione genetica era illusoria. In Sicilia Cosa Nostra ha subìto duri colpi e risponde uccidendo in forme spettacolari chi la perseguiva: sabato 23 maggio, mentre le Camere eleggono un presidente della Repubblica, saltano in aria Giovanni Falcone, sua moglie, la scorta; cinquantasette giorni dopo, tocca a Paolo Borsellino; lo Stato reagisce isolando i boss detenuti (art. 41-bis: comunicavano facilmente con l'esterno); misura molto sofferta dalla cupola. In settembre, Vito Ciancimino voleva stabilire contatti: lo sappiamo da Luciano Violante, testimone tardivo; allora presiedeva l'Antimafia. Tra maggio e luglio 1993 esplodono autobombe a Roma, Firenze, Milano: morti, feriti, offese al patrimonio artistico; l'esplosivo dirocca due basiliche nel cui titolo figurano i nomi dei presidenti delle Camere (la mafia è semiologa). Nell'udienza al Quirinale del 28 ottobre 2014, Giorgio Napolitano racconta che l'allusione fosse perfettamente intesa nel mondo politico: saltava agli occhi l'intento estorsivo, liquidare l'art. 41-bis; non rammenta però uno Stato transigente. Gli archivi suonano altra musica. Fin da giugno il nuovo vertice penitenziario consigliava la "distensione" carceraria conseguibile a quel modo: varie voci contraddicono segnalando i pericoli d'una maniera molle ma provvedimenti ministeriali del 5 novembre restituiscono al regime consueto 334 importanti mafiosi. Non è routine. Scelte simili coinvolgono il governo. Nei mesi seguenti nasce una mai vista creatura politica: ponti o celle con le sbarre sono dimore scomode (parla Fedele Confalonieri, custode dei segreti); così diventa "statista" l'uomo che s'era fondato un impero economico e mediatico praticando falso, frode, corruzione, plagio. Gli sta al fianco l'inseparabile Marcello Dell'Utri, i cui legami con la piovra constano dalla condanna a sette anni (li espia): "Dobbiamo convivere", esorta un ministro del secondo governo forzaitaliota; e convivono proficuamente, visti i sessanta seggi su sessanta vinti nell'isola. Il modus vivendi tra Repubblica d'Italia e dominio mafioso richiedeva qualche ritocco delle norme. Re Lanterna spaccia garantismi criminofili: perde i colpi un ferrovecchio penale faticoso, lento, sistematicamente inibito; ogni anno sfumano 150mila casi, "prescritti" ossia estinti da termini iugulatori. La criminalità white collar è una prediletta berlusconiana. L'universo mafioso vi rientra nella parte in cui assume figure finanziarie, commerciali, industriali: gigantesca impresa, allunga i tentacoli. Ma colletti bianchi malfattori patiscono le spie meccaniche occulte, e qui l'Olonese non è ancora soddisfatto: l'ideale sarebbe che nessuno v'interferisse, affinché comunichino sicuri, essendo tabù qualunque cosa dicano privatamente. Le intercettazioni sono bestia nera in quest'allegra ideologia. I parlamentari godono d'un privilegio: chi vuol intercettarli chieda l'assenso della Camera competente: solenne "en garde" e sarebbe meno ipocrita l'assoluta immunità; l'avvertito non parla più o misura le parole. Quando poi l'onorevole locutore s'infili in linee altrui, soggette a controllo, l'assemblea concede o nega l'uso dei reperti, sovranamente. Regna la casta. Giovedì 4 dicembre Palazzo Madama sottrae all'indagine e al futuro eventuale processo le emissioni vocali d'Antonio Azzolini, presidente Ncd della commissione bilancio: ballano 147 milioni d'una truffa allo Stato, frode in pubbliche forniture, associazione a delinquere, reati ambientali ecc.; così la procura di Trani configura i fatti. L'interessante è che, tolto qualche dissenso, niente distingua i senatori Pd dai berluscones delle due famiglie: con distintivi diversi sotto il bavero conducono lo stesso gioco; vedi Kafka, Il processo, in fondo al secondo capitolo. Gli "emblemata" erano un genere letterario: figure simboliche, talvolta accompagnate da chiose o versi; è famosa la raccolta d'Andrea Alciato, luminare della giurisprudenza colta cinquecentesca. Volano o rampano grifone, aquila, cavallo, leone, ma dovendo definire emblematicamente il parassitismo fiorente in Italia, sceglieremmo animali meno nobili, quali pidocchio e vampiro. Giustizia: il caso di Mafia Capitale, un'inchiesta mediatica destinata a fallire di Francesco Petrelli (Segretario dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 10 dicembre 2014 Il caso di Mafia Capitale dimostra in modo plastico come l'immagine dell'indagine, la sua "rappresentazione sociale" operata attraverso l'esibizione della sua funzionalità mediatica, abbia oramai preso l'avvento sostituendosi del tutto all'indagine reale, a quell'umile, discreto e silenzioso lavorio di raccolta degli elementi di prova, propria di una visone seria e laica del processo. La magistratura prende il posto della politica che invece arranca. La politica è debole ma la magistratura non sta molto meglio. Dopo aver esercitato per molti anni il suo ascendente, populisticamente guadagnato, di prestigioso garante della legalità e della democrazia ed aver esercitato il suo pieno potere di interdizione su tutte le questioni della giustizia, ora la magistratura vive una grave crisi di identità, priva delle spinte ideologiche che pure ne avevano sostenuto l'azione e garantito la coesione, e vittima di una sindacalizzazione corporativa, la magistratura perde colpi e perde credibilità e consensi nell'opinione pubblica. Le esperienze disastrose di quei magistrati che hanno cavalcato demagogicamente la visibilità offerta da questa o quella indagine, proponendosi come campioni del riscatto morale e della trasformazione politica del paese (si pensi all'ascesa e al declino di Di Pietro, di Ingroia e di De Magistris), si sono trasformate in una esperienza fallimentare per l'intera magistratura e hanno contribuito in maniera consistente ad offuscarne l'immagine, consentendo alla politica di riprendere un credibile spazio di manovra e di esercitare qualche contropiede non privo di efficacia (dalla sortita simbolica delle ferie alla ben più seria messa in campo della riforma della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati). E tuttavia la politica è evidentemente sottratta alle leggi della fisica: la politica non è come un gas che si riespande non appena venga meno la forza che lo comprimeva, e sebbene la magistratura abbia visibilmente ridotto la sua pressione sulla politica, quest'ultima evidentemente stenta a riconquistare i suoi spazi, stenta a riaffermare la sua progettualità ed a risanare e moralizzare la sua azione: la manifestazione mediatica con la quale la Procura romana ha messo in scena, attraverso una conferenza stampa multi-mediale ed una diffusione da trailer cinematografico degli arresti, l'operazione "Mafia Capitale", non può non sembrare anch'essa la riaffermazione di un rapporto di forza tutto spostato sul piano dell'investigazione penale, nel cui ambito la politica mostra evidentemente tutta la sua permanente fragilità e la magistratura tutta la sua potenzialità mediatica e processuale capace di controbilanciare la perdita di terreno. Il caso di Mafia Capitale dimostra in modo plastico come l'immagine dell'indagine, la sua "rappresentazione sociale" operata attraverso l'esibizione della sua funzionalità mediatica, abbia oramai preso l'avvento sostituendosi del tutto all'indagine reale, a quell'umile, discreto e silenzioso lavorio di raccolta degli elementi di prova, propria di una visone seria e laica del processo. In questa ottica di rappresentazione mediatica, e di vero e proprio "populismo penale", tutti i cittadini il giorno dell'esecuzione delle misure cautelari, prima ancora che gli atti posti a fondamento dei provvedimenti venissero depositati ai difensori, probabilmente non ancora nominati, hanno potuto ascoltare, vedere e leggere un'accurata selezione di materiale audio video messo a disposizione dalla Procura in una conferenza stampa di grande impatto comunicativo. Sul web, alla portata di chiunque, scorrono video riportanti il logo degli investigatori di turno, con il nome in codice dell'operazione investigativa, con accanto quello dell' ufficio stampa prescelto per lo scoop, mentre sui giornali, quasi tutti, appare la fotografia di uno dei principali indagati, al momento dell'arresto, con una risibile quanto ipocrita sfumatura sulle manette che gli stringono i polsi, alla faccia del divieto di divulgazione di simili immagini, imposto per legge. La logica del populismo processuale spazza via ogni legaccio formale, ogni garanzia ed ogni inutile baluardo di civiltà. Se così fosse, ancor di più dovremmo riflettere sul fatto che l'esondazione massmediatica del processo costituisce oggi, nel nostro Paese, quanto di più nocivo ci possa essere per una giustizia giusta, per la terzietà del giudice, per la stessa indipendenza della magistratura, e ciò al di là di ogni valutazione sulla effettiva consistenza delle accuse a carico degli indagati. Allorché un processo diventa mediatico, e la notizia della sua esistenza investe in maniera così violenta l'opinione pubblica, l'onda d'urto refluisce immediatamente e lo sommerge, travolgendo ogni precauzione ogni cautela e, di conseguenza, le regole poste a tutela della stessa funzione della giustizia e del processo. Si tratta spesso di un'onda anomala che travolge soprattutto quelle garanzie così vere da divenire irrinunciabili, come il vaglio di legittimità sui provvedimenti che autorizzano gli inquirenti ad ascoltare le nostre conversazioni telefoniche. Insomma, quel controllo giurisdizionale che rappresenta l'unico elemento di salvaguardia della libertà e che distingue ogni moderna democrazia. Poco importa infatti che i risultati delle captazioni telefoniche possano essere inutilizzabili processualmente, nel momento in cui, prima di qualsiasi contraddittorio o verifica difensiva, vengono distribuiti integralmente al pubblico che oltre che leggere può addirittura ascoltare la viva voce degli spiati, senza bisogno alcuno di fare istanze di accesso al flusso telematico. Ci chiediamo se questa dilagante "mediatizzazione" delle indagini, pericolosa in ogni caso, ma ancor più dannosa nelle indagini che riguardano la politica, non sia anche il risultato dello sbilanciamento dei poteri e non abbia a che fare proprio con quello spazio lasciato vuoto dalla politica, correttamente intesa come indispensabile strumento di gestione degli interessi collettivi, con la creazione di una "terra di nessuno" che diviene il luogo nel quale allignano le prassi degenerative del clientelismo e del malaffare e nel quale tuttavia il processo stesso si deforma in un falso e demagogico strumento di pulizia e di finta moralizzazione, mediaticamente straordinario, ma inevitabilmente destinato al fallimento. Giustizia: cooperative in carcere, tra affari e crisi economica di Claudia Di Pasquale Corriere della Sera, 10 dicembre 2014 Anche Carminati progettava di creare una mensa a Rebibbia. Tra le cooperative che in questi anni hanno assunto detenuti o ex detenuti ci sono le coop riconducibili a Salvatore Buzzi, considerato il braccio destro dell'ex Nar Massimo Carminati. Tutti i detenuti condannati in via definitiva dovrebbero poter lavorare. Lo dice l'ordinamento penitenziario, lo vuole la costituzione che all'art. 27 afferma che il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato. Purtroppo l'amministrazione penitenziaria non ha soldi a sufficienza per pagare tutti i detenuti che dentro il carcere fanno i lavori domestici, come pulire, cucinare, o fare la manutenzione ordinaria. Il risultato è che il 75% dei detenuti non lavora e per una coincidenza il 70% di quelli che escono dal carcere torna a delinquere. La soluzione adottata dagli anni 2000 in poi dai vari governi è stata quella di incentivare le cooperative ad entrare dentro il carcere e ad assumere i detenuti, in cambio di agevolazioni fiscali. Questo ha permesso di creare delle eccellenze dentro le carceri, pasticcerie, torrefazioni, falegnamerie, ma a conti fatti i detenuti oggi coinvolti e assunti da imprese sono solo il 4% del totale. Per tutti gli altri il problema resta. Tra le cooperative poi che in questi anni hanno assunto detenuti o ex detenuti ci sono la coop Formula sociale o la coop 29 giugno riconducibili a Salvatore Buzzi, arrestato pochi giorni fa perché considerato il braccio destro dell'ex Nar Massimo Carminati, leader di mafia capitale. Era il 1985 quando Buzzi fondava la coop 29 giugno grazie anche al contributo di Angiolo Marroni, allora vicepresidente della provincia di Roma e oggi Garante dei detenuti del Lazio (lui non è tra gli indagati). Tra i progetti che l'organizzazione criminale stava pianificando all'inizio del 2014 c'era anche la creazione di un centro cottura all'interno del femminile di Rebibbia per far lavorare le detenute. L'imprenditore che avrebbe dovuto realizzare la mensa era Giuseppe Ietto, ma anche lui è stato arrestato. Intanto in altri paesi europei il sistema carcere è organizzato diversamente. Per esempio in Austria il carcere funziona come un'azienda e fa da contoterzista per ditte private, che però non entrano dentro il carcere e che pagano l'amministrazione per il lavoro svolto. Il detenuto che lavora viene retribuito ma l'amministrazione trattiene il 75% della sua remunerazione come spesa di mantenimento. In questo modo riescono a far lavorare il 60% e a volte anche il 70% dei detenuti. Una cosa del genere non si potrebbe fare anche in Italia? In modo da far lavorare il maggior numero di detenuti possibile? In cambio l'amministrazione potrebbe concedere al detenuto, che lavora e impara un mestiere, dei benefici come permessi premio e sconti di pena. Ne abbiamo parlato nell'inchiesta "Il risarcimento" di Claudia Di Pasquale e Giuliano Marrucci. Giustizia: Patriarca (Pd); coop sommerse dal guano, anche se 7mila fanno il loro dovere di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 10 dicembre 2014 Troppi 1.400 dipendenti per una cooperativa, il sistema così è permeabile. Ne è convinto Edoardo Patriarca, deputato Pd, rappresentate del terzo settore cattolico, già presidente del Centro nazionale del volontariato. L'inchiesta sulla mafia romana ha messo in luce il ruolo delle coop nel giro di affari e corruzione che ha alimentato per anni il "mondo di mezzo" della Capitale. "Quello che emerge è un vero e proprio tradimento della causa e della missione della cooperazione sociale", dice Patriarca. D. Le coop, stando all'inchiesta, sono state utilizzate come cavallo di troia per fare affari sporchi. R. È un danno enorme, si getta così un'ombra anche su tutte le altre sette mila coop sociali che fanno il loro dovere. Senza guadagnarci tanto, anzi facendo fatica ad arrivare alla fi ne del mese visto che gli enti pagano spesso in ritardo. D. Possibile che non ci sia stato nessun campanello d'allarme nei con fronti della Cooperativa 29 giugno guidata da Buzzi e dei tanti appalti che si aggiudicava? R. Probabilmente il problema sta nel sovradimensionamento: con 1400 dipendenti, i sistemi di controllo da parte dei soci, che pur dovrebbero funzionare, in una cooperativa sono attenuati. D. È normale che un presidente di coop guadagni 6 volte quello che guadagna un socio? R. Non dovrebbe esserlo, ma non c'è una regola, salvo i codici etici che gli stessi cooperatori si danno. D. E la trasparenza? R. Con la riforma del terzo settore in discussione alla camera, prevediamo che siano pubblici tutti i compensi degli amministratori, dei Cda e degli organi di controllo. Un atto dovuto, visto che le coop agiscono come soggetto pubblico. D. Anche questa volta si arriva tardi, la politica dopo la magistratura… R. Questa riforma è attesa da anni, Renzi le ha dato finalmente un'accelerazione. Ma quanto accaduto non dipende solo dal fatto che la normativa non è aggiornata. Quando un'impresa sociale dipende totalmente dal finanziamento pubblico, è chiaro che questo porta ad avere delle contaminazioni eccessive se non collusioni con il mondo della politica, con il sistema di potere che ti dà da mangiare. D. Lei proviene dal mondo del volontariato, che lavora spesso al fianco delle coop nei campi nomadi. Possibile che nessuno si sia reso conto di quanto accadeva a Roma? R. Io non credo affatto possibile, purtroppo, che nessuno sapesse. Stando a quanto emerge dalle indagini, è probabile che in tanti sapessero, che in tanti abbiano preferito tacere. Coprendo quanti rubavano allo stato e lucravano sui poveri. E ancora una volta è toccato alla magistratura scoperchiare la pentola. Una vergogna. D. Nel Pd gli indagati si sono autosospesi, il partito romano è stato commissariato. Basta come reazione interna? R. Io avrei preferito che gli esponenti democratici indagati fossero sospesi. L'autosospensione è un atto quasi di cortesia personale. Doveva essere il partito invece a decidere in modo forte, subito. La presunzione di innocenza? Nessuno vieta di ridare la tessera quando i fatti sono accertati. Ma deve esserci un meccanismo di autotutela e il coraggio di mettere qualcuno alla porta. Stesso discorso deve valere per i tesseramenti, meglio pochi ma buoni. Giustizia: torture sui detenuti, i cattivi sono solo a Guantánamo, noi "italiani brava gente" di Francesco Romeo (Avvocato penalista) Il Garantista, 10 dicembre 2014 Rinviato a giudizio l'uruguaiano Troccoli per gli stessi reati per cui Ciocia non può essere incriminato. Il reato di tortura nel nostro codice penale non c'è, non ha ancora trovato posto. I casi di tortura, invece, ci sono da sempre. Alla Procura di Roma, sono convinti che gli episodi di tortura siano tali solo quando riguardano fatti che accadono o sono accaduti al di fuori dei nostri confini: si sa, noi italiani siamo brava gente. Capita, così, che la procura capitolina abbia chiesto il rinvio a giudizio del cittadino uruguaiano Nestor Troccoli accusato di aver commesso negli anni 70 diversi omicidi di militanti di organizzazioni di opposizione politica alle giunte militari argentina ed uruguaiana e di sequestro di persona a scopo di estorsione per avere arrestato, senza alcun provvedimento dell'autorità legittima, un numero indeterminato di persone per i loro presunti rapporti con queste organizzazioni e per averle sottoposte a detenzione illegale e tortura, al fine di estorcere loro indicazioni sull'identità di altri partecipanti alle citate organizzazioni, sui nomi di battaglia, sulla localizzazione e sulla partecipazione degli stessi a presunte azioni sovversive. In assenza del reato di tortura si è contestato, comunque, un reato gravissimo e si è detto chiaramente che la tortura era finalizzata all'estorsione di informazioni: nomina sunt essentia rerum. A Perugia, lo scorso anno, la Corte di Appello di quella città ha pronunciato una sentenza, passata in giudicato, con la quale ha revocato la condanna per calunnia nei confronti di Enrico Triaca, militante delle Brigate rosse, tratto in arresto pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Enrico Triaca, dopo essere stato arrestato, era finito nelle mani di una squadra "coperta" della polizia italiana, denominata "I cinque dell'ave Maria" e sottoposto alla tortura del water-boarding (allora chiamata "algerina") per ottenere informazioni su altri componenti dell'organizzazione armata; un mese dopo l'arresto, Triaca aveva denunciato al magistrato di essere stato torturato ed aveva ritrattato le dichiarazioni rese; per tutta risposta fu tratto a giudizio per direttissima per il reato di calunnia (caso unico nella storia processual-penalistica italiana) e condannato. Seguendo il filo nero costituito dalla pubblicazione di libri, servizi televisivi ed interviste giornalistiche si è individuato il dirigente di quella struttura della polizia italiana soprannominato "dottor De Tormentis" e, si è dimostrato che era stato lui a dirigere il water-boarding praticato su Enrico Triaca. La Corte di Appello di Perugia ha accertato che quella squadra della polizia capitanata dal dottor De Tormentis, utilizzò la tortura nel caso di Enrico Triaca ed anche in altre occasioni ed ha trasmesso gli atti alla procura di Roma per valutare quali reati emergessero a carico del dott. De Tormentis, al secolo Nicola Ciocia, segnalando che anche se fosse maturata la prescrizione, il Ciocia vi avrebbe potuto rinunciare. Alla procura di Roma, dopo aver letto la sentenza della Corte di Appello di Perugia, hanno pensato che, tutto sommato, il water-boarding, quando viene praticato all'interno dei confini nazionali, non rientra nell'ambito della tortura e, anzi, nemmeno la si deve nominare. Così, nei confronti di Ciocia è stata formulata l'accusa di abuso d'autorità sulle persone arrestate art. 608 del codice penale per aver "sottoposto a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata": così recita la norma (Triaca era stato sottratto ai poliziotti che lo avevano arrestato, dalla squadra di De Tormentis). Il "water-boarding", dunque, è una misura di rigore tutta italiana, mica tortura. Ciocia non ha rinunciato alla prescrizione e il procedimento si è avviato sul binario procedurale che lo condurrà in archivio. Balza agli occhi l'asimmetria della procura capitolina nel trattamento riservato ai due casi di tortura e, non perché Troccoli forse sarà giudicato (per gli omicidi, non per i sequestri di persona prescritti) mentre Ciocia non lo sarà, ma per quel riflesso, quasi pavloviano, per quale ci siamo indignati e ci indigniamo ancora per il water-boarding a Guantánamo e per le torture ad Abu Grahib, ma chiudiamo gli occhi e giriamo la testa dall'altra parte se le stesse cose accadono a casa nostra, non riusciamo nemmeno a nominarle: si sa, noi italiani siamo brava gente, del reato di tortura non ce n'è bisogno. Giustizia: la campagna "Miseria Ladra", un po' di dignità per i senza fissa dimora di Giuseppe De Marzo Il Manifesto, 10 dicembre 2014 La campagna di "Libera-Gruppo Abele". Al governo e ai sindaci si chiede di ripartire dagli ultimi. Decine di migliaia di persone alle quali tutto è negato. Coltivare e difendere la Terra di tutti e tutte come antidoto per far scomparire le terre di mezzo di qualcuno. 10 dicembre giornata mondiale dei diritti umani. Nel calendario della storia un passaggio fondamentale. Si affermano i diritti come strumento per definire il nostro essere "umani". Fuori dalla cultura dei diritti non c'è umanità. Umanità contro disumanità per colmare la nostra non completezza davanti alla storia. Dignità come principale lascito del costituzionalismo del 2° dopoguerra per costruire quell'uomo nuovo tanto atteso. Dignità come base per costruire la società e l'idea di civiltà. Tendere verso la pace perpetua, questo ci impone la civiltà fondata sui diritti. Per farlo concretamente abbiamo reso prescrittibile la dignità nella nostra Carta. È questo il lascito più grande del costituzionalismo del secondo dopoguerra. Oggi davanti a 16 milioni di italiani/e in povertà, con 1 milione e 423 mila minori in povertà assoluta, con la più alta percentuale di dispersione scolastica d'Europa (17,6%), con oltre 4 milioni di precari e 3,4 milioni di disoccupati abbiamo la responsabilità di rimettere al centro la sfida dei diritti come unica strada per risolvere la crisi iniziata con l'aumento delle diseguaglianze ed esplosa con le politiche di austerity. O la facciamo con questo sguardo o ci rimarrà unicamente quello torvo della storia che si ripete sempre, quando non compresa. Quali politiche sociali ed economiche sostengono i diritti umani e la dignità? Sicuramente non quelle attuali, visti i risultati, fondate su una cultura che per sua natura stritola i diritti, lascia indietro i più deboli ed i meno sfacciati, fa leva sul darwinismo sociale e sul culto dell'ego per esercitare la sua egemonia culturale sulla società. Politiche ispirate a una sorta di diritto naturale portato all'eccesso capace di plasmare una costituzione materiale fondata sulla legge del più forte e sul familismo amorale. Questa idea di civiltà legittima il taglio costante del welfare e dei diritti sociali, i mega investimenti in armi e sistemi di sicurezza, inutili e costosissime opere presentate come grandi, normative che impediscono investimenti diretti per lavoro e sostenibilità ambientale, sino alle controriforme del work fare in cui i diritti non sono più agganciati alla cittadinanza ma al lavoro, per chi ce l'ha. È questo il terreno sul quale esplodono le contraddizioni che generano le guerre tra poveri, favorendo mafie, corruzione e razzismo. Davanti ad una crisi così grave e profonda, in cui la povertà culturale precede quella materiale, abbiamo la responsabilità e il diritto di contribuire con maggior forza e impegno alla difesa della dignità e del bene comune. Innanzitutto svelando l'intreccio tra aumento della povertà, mafie, politiche di austerity e crisi della democrazia, proponendo allo stesso tempo la via d'uscita attraverso politiche sociali ed economiche che rispondano alle esigenze di una civiltà fondata sui diritti. Sconfiggere le mafie e la crisi è possibile se sapremo tutti rimettere al centro l'impegno per la "dignità" degli esseri umani in ogni nostra singola scelta e azione. Oggi vediamo le periferie e le zone popolari delle nostre città sconvolte dalla miscela incendiaria di disinteresse, tagli ai servizi, degrado urbano, disoccupazione. Un mix letale che alimenta razzismo e rifiuto della cultura dei Diritti. Per questo motivo nella giornata mondiale per i diritti umani chiediamo al Governo di cambiare verso alle politiche sociali investendo sui diritti, non tagliandoli. Ma anche le amministrazioni locali possono fare azioni concrete per contribuire a far rinascere una cultura dei diritti, magari partendo proprio dagli ultimi. La campagna Miseria Ladra ha inviato una lettera a decine di sindaci per chiedere di garantire così come prevede la legge la residenza legale ai senza fissa dimora. Parliamo di decine e decine di migliaia di esseri umani ai quali in molte città neghiamo ogni diritto. Chi è sprovvisto di residenza non può ottenere il rilascio della carta d'identità o il rinnovo della patente, non può esercitare diritti politici, diritti sociali, economici, non può lavorare, non può percepire prestazioni previdenziali, non può rivolgersi ai servizi sociali. L'assenza di una residenza impedisce di fatto il godimento del diritto alla salute, visto che nel nostro Paese le prestazioni sanitarie sono erogate dalle Aziende Sanitarie Locali e dai vari presidi sanitari diffusi sul territorio nazionale in base alla residenzialità degli utenti. Una persona senza dimora alla quale è stata negata la residenza non può iscriversi al Ssn e non ha un medico di base cui rivolgersi per ottenere la prescrizione di un farmaco o di una visita specialistica. Una persona senza dimora tossicodipendente o alcolista sprovvista di residenza non può rivolgersi ai Sert e usufruire dei trattamenti di cura e riabilitazione offerti a tutti gli altri cittadini. Il diritto soggettivo di ogni cittadino a chiedere ed ottenere la residenza è previsto dalla nostra normativa alla Legge 24.12.1954 n. 1228, Dpr 30.05.1989 n. 223 ed è stato riconosciuto da numerose sentenze della Suprema Corte di Cassazione e dei Tribunali di merito. Il riconoscimento della residenza fittizia per queste persone rappresenta, oltre che un diritto riconosciuto, un principio di civiltà che molti sindaci continuano a negare. Una negazione della Dignità inaccettabile che produce quella disumanizzazione anticamera della barbarie. Per questo oggi nella giornata mondiale dei diritti umani e alla luce degli scandali che continuano a svilire i diritti, chiediamo ai sindaci di istituire nei loro Comuni, e sono tantissimi che ancora non lo hanno fatto, la via fittizia al fine di consentire alle persone senza dimora di ottenere la residenza come prescrive la legge ma soprattutto come stabilisce la nostra idea di civiltà fondata sulla dignità. Noi scegliamo di promuovere, coltivare e difendere la Terra di tutti e tutte, come antidoto per far scomparire le terre di mezzo di qualcuno. Giustizia: "Veronica è l'assassina", quindi il processo è inutile… di Daniel Rustici Il Garantista, 10 dicembre 2014 Nuovo interrogatorio fiume di cinque ore per Veronica Panarello, la mamma del piccolo Loris, che è indagata per omicidio volontario e occultamento di cadavere in relazione al delitto del figlio. Lei nega tutto ma intanto è stata trasferita nel carcere di Piazza Lanza a Catania, dove al suo arrivo i detenuti le hanno urlato "Vergogna, devi morire!". Il legale della donna ammonisce: "Basta con i processi mediatici: la mia cliente ha risposto punto su punto, rimanendo ferma sulle sue posizioni: lei è innocente" e attacca la Procura, "indagini frettolose". Orazio Fidone, il cacciatore che trovò il corpo del bambino e fino a due giorni fa risultava l'unico indagato dice: "Non voglio commentare cose che non conosco, ma ora sono più tranquillo". Intanto nella scuola che frequentava Loris arriva un team di psicologi. Dopo una breve pausa, giusto il tempo di dormire qualche ora, non più nelle vesti di semplice persona informata dei fatti ma di indagata per omicidio volontario e occultamento di cadavere per Veronica Panarello, la mamma del piccolo Loris, sono ripresi gli interrogatori. La donna, che ha passato la prima notte di fermo in una camera di sicurezza della questura per essere poi trasferita nella sezione femminile del penitenziario di Ragusa, ieri mattina inizialmente si è avvalsa della facoltà di non rispondere e quando ha deciso di rispondere ai quesiti dei magistrati, lo ha fatto solo per ribadire la propria innocenza. Della sua estraneità al delitto del figlio sembra però non essere più certo nemmeno il marito Davide che fino a quando gli inquirenti non gli hanno mostrato la prova video del fatto che la moglie ha mentito agli inquirenti quando disse di non aver mai percorso la stradina di campagna che conduce al canalone dove è stato trovato il cadavere di Loris, aveva difeso a spada tratta la 25enne siciliana. "Se fosse stata lei", ha detto ai giornalisti di una televisione, "potrebbe anche morire". La zia paterna di Veronica, Antonella Stival invece ribadisce: "Non ci credo che Veronica abbia ucciso Loris, proprio non ci credo: il mio pensiero e il mio cuore sono con lei. Ricordiamo che per il momento è soltanto in stato di fermo e quindi aspettiamo gli sviluppi dell'inchiesta. È sempre stata una mamma splendida e speciale". E il suo legale, l'avvocato Francesco Villardita, ammonisce: "La mia assistita è stata indagata mediaticamente quando non era indagata, adesso spero non venga condannata mediaticamente prima ancora del processo". E quella della procura di Ragusa secondo il difensore della mamma di Loris è stata "un'indagine leggermente frettolosa". Riferendosi all'interrogatorio-fiume di cinque ore a cui è stata sottoposta la sua assistita ha inoltre aggiunto: "La mia cliente ha risposto punto su punto, rimanendo ferma sulle sue posizioni: lei è innocente e ha confermato di aver portato il bambino a scuola e di essere andata poi a Donnafugata. La signora ha visto il fotogramma, e ha chiesto da cosa avrebbero individuato il fatto che fosse Loris. Perché non è assolutamente soggetto individuabile. Sardegna: Socialismo Diritti Riforme; in carceri isola aumento detenuti in attesa giudizio Ristretti Orizzonti, 10 dicembre 2014 "Nel breve spazio di un mese, a novembre, sono aumentati in Sardegna i detenuti in attesa di giudizio, anche se si è ridotto il numero complessivo dei ristretti, forse soprattutto in seguito ai trasferimenti nella Penisola predisposti anche per alleggerire la Casa Circondariale di Cagliari in vista dell'apertura del Villaggio Penitenziario di Uta". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme" con riferimento ai dati diffusi dal Ministero della Giustizia che fotografano la realtà detentiva nell'isola al 30 novembre 2014. "Il resoconto ministeriale - sottolinea - induce a riflettere. Vivono dietro le sbarre, benché non siano state ancora processate 165 persone (61 straniere) pari all'8,6 per cento della popolazione privata della libertà. A queste occorre però aggiungere altre 108 con una pena non ancora definitiva in quanto non sono stati completati i gradi di giudizio. Sono pertanto complessivamente 273 detenuti (14,5 per cento) coloro che non hanno terminato l'iter giudiziario. Erano 266 (58 stranieri) al 31 di ottobre". "I dati - evidenzia ancora la presidente di Sdr - rivelano il permanere del sovraffollamento in cinque strutture. Si tratta della nuova Casa di Reclusione di Tempio-Nuchis con 191 presenze per 167 posti regolamentari; della Casa Circondariale di Oristano-Massama con 281 per 266; di Iglesias "Sa Stoia" 80 persone per 62 e del San Daniele di Lanusei 55 detenuti per 34 posti. Negli altri Istituti, e in particolare nelle Colonie Penali, gli spazi sono invece eccedenti". "La situazione è destinata però a cambiare molto presto con l'imminente chiusura della Casa Circondariale di Iglesias e il trasferimento dei ristretti suddivisi tra Cagliari-Uta e Sassari-Bancali. È inoltre previsto il rientro nella nuova struttura cagliaritana di molti dei cittadini privati della libertà che erano stati trasferiti a Sassari per le esigenze del Dipartimento. Prossimamente insomma il Villaggio Penitenziario ubicato nel territorio dell'area industriale sarà - conclude Caligaris - al limite della capienza". Campania: Sappe; tensioni negli Ipm di Nisida e Airola, 400 i minori detenuti in Italia Comunicato stampa, 10 dicembre 2014 Tensione e disordine nei penitenziari minorili di Nisida e Airola per l'arroganza di alcuni detenuti maggiorenni, trasferiti recentemente, per motivi disciplinari, da Istituti di pena per adulti. La denuncia arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che sottolinea come le presenze detentive nei penitenziari per minori era, alla data del 30 novembre scorso, pari ad oltre 920 presenze. Spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe: "A fine novembre e i primi giorni di dicembre si sono verificate situazioni di tensione e pericolo nelle due carceri per minorenni. Da quando sono stati assegnati detenuti adulti, per effetto di una recente legge, questi si comportano con il personale di Polizia e con alcuni minorenni ristretti con prepotenza e arroganza, caratterizzando negativamente la quotidianità penitenziaria. A Nisida, su una media di 50 detenuti, vi sono 30 maggiorenni mentre ad Airola i maggiorenni sono 20 su 40 presenti. E a livello nazionale, su una popolazione detentiva che ha fatto ingresso negli istituti per minorenni e pari a 923 soggetti, ben 330 sono giovani adulti. Una presenza detentiva che snatura l'istituto stesso della detenzione minorile. È solo grazie all'attenzione e alla professionalità dei Baschi Azzurri che gli eventi critici non hanno una dimensione più grave, ma certo deve fare seriamente riflettere quali e quanti problemi determinano un così alto numero di detenuti adulti in strutture per minorenni". Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria indica anche che "tra i reati a carico dei minori entrati negli istituti penali per minorenni vi sono prevalentemente quelli contro il patrimonio (furto, rapina, ricettazione), armi, stupefacenti e contro la persona (lesioni, omicidi volontari ed omicidi tentati)". Il Sappe ribadisce come sia "impensabile inserire detenuti di venticinque anni nei penitenziari minorili, come è previsto oggi dalla legge, perché è impensabile far convivere negli stessi ambienti carcerari adulti di venticinque anni con bambini di quattordici. Quel che ci vorrebbe è una complessiva riorganizzazione della giustizia minorile, che metta a capo dei Reparti negli Istituti e servizi della Giustizia Minorile i Funzionari Commissari del Corpo di Polizia penitenziaria. Ma si deve seriamente riflettere se non sia giunta l'ora di sopprimere il Dipartimento della Giustizia Minorile, utile solo a distribuire poltrone dirigenziali, e ricondurre il circuito penitenziario minorile nel suo naturale alveo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, com'era una volta". Capece sottolinea, in conclusione, le presenze più significative di detenuti in carceri per minori: "Sono 52 a Catania, 50 a Roma, 46 a Nisida, 44 a Milano, 33 ad Airola e 30 a Palermo, per citare i principali. Tra loro, a lavorare con passione, professionalità e capacità operative, spesso senza il riconoscimento sociale che invece meritano, le donne e gli uomini appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria". Catania: Camera penale; carcere sia mezzo di rieducazione e non "strumento di tortura" La Sicilia, 10 dicembre 2014 In occasione della Giornata internazionale dei diritti umani la Camera Penale "Serafino Famà" di Catania, "in linea con l'Ucpi e condividendo l'iniziativa nazionale di Amnesty International, Antigone, Arci e Cittadinanza Attiva, "coglie l'occasione - è scritto in una nota - per chiedere una legge contro la tortura facendo si che l'Italia si adegui a quanto previsto dalle Nazioni Unite". I penalisti catanesi, rappresentati dal presidente Enrico Trantino e dal responsabile dell'Osservatorio carcere, Luca Mirone, richiamano ancora una volta l'attenzione "sull'inaccettabile compressione dei diritti umani di coloro i quali, a torto o a ragione, si trovino oggi ristretti. Purtroppo il drammatico sovraffollamento carcerario, per certi versi cronico, non si può affrontare solo con misure straordinarie (peraltro indotte dalle continue condanne all' Italia) volte a tamponare le emergenze, ma occorre ripensare sistematicamente tutto il sistema penitenziario, senza infingimenti o riserve mentali, per fa sì che l'esperienza detentiva sia dignitosa e aderente al dettato costituzionale". "Come da sempre sostenuto dalle Camere Penali - prosegue la nota - la limitazione della custodia cautelare ai casi di comprovata ed assoluta necessità (e non come illegale anticipazione della pena) ed il serio potenziamento operativo delle misure alternative alla detenzione (statisticamente determinanti nell'abbattimento del tasso di recidiva) costituiscono la via maestra per normalizzare e riequilibrare l'agonico sistema penitenziario italiano. In tale ottica si salutano con favore le ragioni ispiratrici del disegno di legge di riforma delle misure cautelari personali, recentemente approvato dalla Camera ed oggetto di alcune modifiche al Senato; ciò costituisce indubbiamente uno sforzo teso a ridare equilibrio e proporzionalità alla custodia cautelare con l'auspicio che la prassi applicativa sia fedele a tali principi ispiratori". "Appare inaccettabile - concludono gli esponenti della Camera penale - che ancora oggi, nonostante il timido, ma costante alleggerimento del carico penitenziario dovuto ai provvedimenti varati d'urgenza, il numero delle morti carcerarie per l'anno 2014 si attesti in 126 di cui 41 suicidi, tragico sintomo di un sistema malato. La rieducazione è il cardine costituzionale su cui dovrebbe ruotare il trattamento sanzionatorio; purtroppo osservazione e trattamento sono ancora insufficienti ed inadeguati (e ciò nonostante l'instancabile impegno profuso dagli operatori), eppure costituiscono strumenti indispensabili per il recupero dell'individuo e del rientro in società. Una detenzione cieca ed afflittiva che neghi il pieno diritto alla salute, al lavoro, alla crescita culturale, a condizioni igienico sanitarie dignitose e alla possibilità di rivisitazione critica del proprio operato, costituisce una violazione di rudimentali principi di civiltà, oltre che una trasgressione di diritti umani". Roma: primi quattro interventi nel Centro Diagnostico Terapeutico di Regina Coeli Ristretti Orizzonti, 10 dicembre 2014 Sono stati operati ieri mattina i primi quattro pazienti/detenuti presso il nuovo reparto del Centro Diagnostico Terapeutico all'interno del Carcere di Regina Coeli recentemente ristrutturato ed inaugurato alla presenza del Ministro Orlando e del Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. A darne notizia il Tavolo Tecnico Congiunto per il monitoraggio della Sanità Penitenziaria istituito dalla Asl Roma A, che si è riunito oggi alla presenza del Direttore Generale Camillo Riccioni, il Garante Regionale dei Detenuti Angiolo Marroni e la Direttrice della Casa Circondariale di Regina Coeli Silvana Sergi. Questi primi 4 interventi di cui anche due sospette neoplasie sono un ulteriore tassello ed il frutto di una riorganizzazione interna del Centro Diagnostisco Terapeutico di Regina Coeli, centro di riferimento nazionale per la sanità in carcere. L'attività chirurgica in carcere è molto importante perché oltre a soddisfare in maniera efficace ed efficiente la grande richiesta di interventi presente nella popolazione detenuta, contribuisce alla notevole riduzione dei trasferimenti in sicurezza e alla riduzione dei tempi di attesa evitando così anche un eccessivo ricorso alle strutture ospedaliere esterne. Durante la riunione del Tavolo Tecnico sono stati inoltre affrontati altri due temi all'ordine del giorno: la conclusione dei lavori di adeguamento e la prossima apertura all'interno della Seconda Sezione, di 9 stanze detentive per 18 posti dedicati all'accoglienza di detenuti/pazienti che presentano rischi autolesionistici o suicidari, ed il miglioramento e l'implementazione del servizio di telemedicina. Pescara: detenuto tenta il suicidio in carcere e viene salvato dai poliziotti penitenziari www.primadanoi.it, 10 dicembre 2014 In 6 mesi 10 tentativi falliti e uno andato tragicamente in porto. Ha tentato di uccidersi impiccandosi nella sua cella del carcere di Pescara. Protagonista, sabato sera, un detenuto rumeno. "Per fortuna l'insano gesto non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che esprime ai poliziotti che hanno salvato la vita al detenuto "apprezzamento e l'auspicio che venga loro concessa una ricompensa ministeriale". Il sindacalista sottolinea che negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Il Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, ricorda che alla data del 31 novembre scorso le carceri abruzzesi ospitavano complessivamente più di 1.800 detenuti, 278 dei quali a Pescara. E dal 1 gennaio al 30 giugno 2014, nelle carceri regionali dell'Abruzzo, si sono contati purtroppo il suicidio di un detenuto, 10 tentati sventati in tempo dai poliziotti, 43 atti di autolesionismo (quando un detenuto si lesiona il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo), 13 ferimenti e 29 colluttazioni. "La situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata", conclude Capece. "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Pescara - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri abruzzesi e del Paese tutto". Rimini: carcere dei "Casetti", il Sottosegretario alla Giustizia risponde all'On. Arlotti di Tommaso Torri www.riminitoday.it, 10 dicembre 2014 Secondo i dati del ministero, su un organico di 144 agenti sono presenti in 116. Sul fronte dei detenuti ci sono 118 persone, di cui la metà straniere, su una capienza regolamentare di 139 posti. Con la riorganizzazione del ministero della Giustizia verrà completata la definizione degli organici dell'amministrazione penitenziaria e ulteriori agenti potranno essere assegnati alla Casa circondariale di Rimini dal prossimo anno. È inoltre in attesa del collaudo la seconda sezione del carcere, con una capienza di 22 posti detentivi. Sono alcune delle novità comunicate dal sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa oggi in Commissione, in risposta all'interrogazione sui "Casetti" presentata dal deputato Pd riminese Tiziano Arlotti. "L'organico del personale di polizia penitenziaria dell'istituto di Rimini è stato di recente incrementato di due unità - ha affermato Costa - e un eventuale ulteriore incremento sarà oggetto di valutazione da parte della competente Direzione Generale in occasione della ripartizione del personale a conclusione dei corsi di formazione per agenti/assistenti". Attualmente, secondo i dati del ministero, ai Casetti su un organico di 144 agenti sono presenti 116 unità. Sul fronte dei detenuti, invece, secondo il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria alla data del 26 novembre erano presenti 118 persone, di cui la metà straniere, su una capienza regolamentare di 139 posti. "Rientra nelle prerogative del provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria valutare l'opportunità di integrare il personale di polizia presente - ha evidenziato il sottosegretario - adottando provvedimenti temporanei di distacco di unità in servizio in altri istituti della regione, in caso di un aumento del numero degli ingressi e delle relative traduzioni verso il Tribunale". Circa le criticità della struttura dei "Casetti", infine, nell'autunno del lo scorso anno la prima sezione ha subito un intervento di manutenzione con manodopera dei detenuti, mentre la seconda sezione è stata ristrutturata da ditte esterne e i lavori, già ultimati, sono in attesa del collaudo. "La risposta del sottosegretario è stata in parte positiva - commenta Arlotti . Anche se non vi è sovraffollamento, ritengo che il numero di ingressi durante la stagione estiva (120 nel corso di quest'anno) richieda un organico strutturalmente adeguato alle peculiarità del territorio riminese e all'aumento di arresti e traduzioni, analogamente alle altre forze dell'ordine (per cui abbiamo avuto 300 unità aggiuntive quest'anno). Così come sarebbe opportuno avere una Direzione specifica e non condivisa con altri istituti". Il deputato sottolinea come sia necessario eseguire al più presto il collaudo della seconda sezione e individuare risorse per ristrutturare la prima, così come le pertinenze interne ed esterne. "Presenterò infine una interrogazione ad hoc sul recupero dei detenuti attraverso il lavoro". Trapani: il corso, il diploma, le speranze… cinque detenuti diventano cuochi di Luigi Todaro Giornale di Sicilia, 10 dicembre 2014 Il riscatto dei detenuti passa attraverso i corsi di formazione professionale, organizzati all'interno delle carceri di San Giuliano. Ci crede il direttore. Ci credono gli assistenti sociali. Ci credono i reclusi. "I corsi - dice Renato Persico, responsabile dell'istituto penitenziario ericino - sono di vitale importanza per l'attuazione del dettato costituzionale, ovvero la rieducazione e il reinserimento della persona reclusa nella società, in quanto forniscono gli strumenti ai detenuti facendo loro acquisire professionalità e un attestato spendibile nel mondo del lavoro". E con la consegna di 5 attestati di "addetto alla preparazione e cottura cibi" ad altrettanti detenuti, si è concluso presso le carceri di San Giuliano l'ultimo corso organizzato dall'"Engim" di Trapani. Le lezioni ai fornelli, tenute dal docente Giuseppe Sanfilippo decano degli insegnanti con i suoi 30 anni di attività all'interno delle carceri, sono stato incentrate sulla preparazione di un menù finale valutato da una commissione formata dalla presidente Caterina Maria Pia Porto e dai componenti: Valentina Valveri, tutor Anna Luisa Rallo e dal presidente dell'"Engim" Mariano La Plena. Cosenza: corruzione in carcere, agenti testimoniano "atteggiamenti sospetti dei detenuti" di Mirella Molinaro Corriere della Calabria, 10 dicembre 2014 Cosenza, il racconto di alcuni agenti della Polizia penitenziaria in un'udienza del processo che vede tra gli imputati anche un assistente capo della penitenziaria, in servizio all'istituto "Sergio Cosmai". Erano stati notati atteggiamenti sospetti in alcuni detenuti. Lo hanno riferito due agenti della polizia penitenziaria in un'udienza che si è svolta questa mattina nell'aula 9 del tribunale di Cosenza, nell'ambito del procedimento che cerca di fare luce su presunti scambi di denaro con un agente della polizia penitenziaria e detenuti del carcere di Cosenza. Nel processo sono imputati: Salvatore Gabriele, Erminio Mendico, Fabio Bruni, Vincenzo Ciriello, Luigi Cozza, Antonio Albanese, Giovanni Giannone, Dimitri Bruno, Massimo Imbrogno. Parte offesa è il ministero della Giustizia. Gabriele, nella sua qualità di assistente capo della polizia penitenziaria, in forza alla casa circondariale "Sergio Cosmai" di Cosenza - secondo l'accusa rappresentata dal pm Antonio Bruno Tridico - avrebbe accettato la promessa di denaro che gli sarebbe stata fatta dai detenuti Erminio Mendico, Fabio Bruni e Vincenzo Ciriello, tutti ristretti nello stesso carcere, allo scopo di compiere - è scritto nel provvedimento del gip in fase di indagini preliminari - un atto contrario ai suoi doveri d'ufficio, consegnando loro, in violazione delle prescrizioni di legge, tre telefoni cellulari e altrettante sim card di sua proprietà o in suo uso personale in modo da consentire agli stessi detenuti di effettuare colloqui non autorizzati. I fatti sarebbero stati commessi a Cosenza dal settembre 2010 fino a ottobre 2010. In particolare, Gabriele avrebbe procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale a un detenuto non identificato, ristretto nello stesso carcere, mettendo a disposizione tre cellulari e tre sue sim card in modo da consentire al detenuto di fare colloqui non autorizzati e avrebbe arrecato "un ingiusto danno all'amministrazione di appartenenza". I detenuti sono accusati di aver ricevuto un cellulare e una sim card. Nello specifico - è scritto nei capi di imputazione - Ciriello avrebbe promesso del denaro a Gabriele per ottenere il cellulare. Tornando all'udienza di oggi, i due agenti della polizia penitenziaria hanno riferito di aver notato - in quel periodo di tempo oggetto di indagini - di atteggiamenti sospetti di alcuni detenuti. In particolare, Brogno è stato visto parlare nel corridoio del carcere con l'assistente di polizia Gabriele in un'ora insolita per i detenuti. La difesa di Imbrogno ha chiesto, infatti, di specificare l'orario esatto nel quale l'imputato sarebbe stato visto. Si è tornato poi a parlare dei telefonini rinvenuti nella disponibilità di Gabriele e poi sequestrati da altri agenti. Perché si sarebbe trasgredita la regola del divieto dei cellulari per i detenuti. Nelle ultime udienze stanno salendo sul banco dei testimoni diversi colleghi di Gabriele, sia chi all'epoca della vicenda era in servizio nel penitenziario e sia chi si è poi personalmente occupato del caso. Si torna in aula il prossimo 13 gennaio. Padova: telefonini e siringa nascosti in cella, il Sappe contro la "vigilanza dinamica" www.padovaoggi.it, 10 dicembre 2014 Nel corso di una perquisizione ordinaria della polizia penitenziaria, all'interno del carcere Due Palazzi di Padova, gli agenti hanno rinvenuto diversi oggetti "non consentiti" occultati all'interno di un televisore. Un telefono cellulare, una chiavetta usb per navigare in internet perfettamente funzionante e una siringa. È quanto ha trovato la polizia penitenziaria nel corso di una perquisizione nelle celle della casa di reclusione di Padova. Gli oggetti, abilmente occultati all'interno di un televisore, sono stati rinvenuti venerdì scorso. A darne notizia è il segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), Donato Capece. I detenuti responsabili di avere nascosto oggetti non consentiti sono di origine italiana, e fanno parte di un circuito speciale riservato solo ai cosiddetti detenuti modello e, per ciò, inseriti in attività lavorativa a tempo pieno e a tempo indeterminato. "Verrebbe da dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio - commenta il leader dei Baschi Azzurri del Sappe - è un episodio inquietante, essendo stata di recente la casa di reclusione patavina coinvolta in gravi episodi di cronaca. E dimostra quali e quanti problemi determina la vigilanza dinamica introdotta dal Dap, che attenua condizioni di vigilanza e, quindi, di sicurezza. Non a caso - continua - nel recente passato, sono stati tantissimi i telefonini trovati in varie prigioni: Torino, Genova, Cremona, la stessa Padova". "Tali situazioni dovrebbero far riflettere la nostra amministrazione circa la vulnerabilità del nostro sistema penitenziario - continua - eppure, poco o nulla viene fatto dal Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che invece attenua la sicurezza in carcere proprio attraverso la vigilanza attenuata. Basterebbe invece pensare ad alcune soluzioni rapide ed efficaci, come la possibilità di schermare gli istituti penitenziari per neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e la possibilità di dotare tutti i reparti di polizia penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Varse: favorirono evasione, arrestati 5 agenti corrotti con denaro e prestazioni sessuali di Andrea Gianni Ansa, 10 dicembre 2014 Prestazioni sessuali gratuite da parte di prostitute, piccole somme di denaro e la promessa di organizzare una spedizione punitiva contro il comandante e il vice comandante della Polizia penitenziaria. Era questa la "moneta di scambio" con la quale tre detenuti romeni si sarebbero garantiti la complicità di cinque agenti della Polizia penitenziaria, arrestati con l'accusa di aver favorito la loro evasione dal carcere dei Miogni di Varese, il 21 febbraio 2013. Una fuga che ebbe breve durata, in quanto i detenuti nelle ore successive furono rintracciati e arrestati in Svizzera e in provincia di Pavia. Uno dei romeni, Victor Sorin Miclea, 31 anni, ritenuto l'ideatore del piano per fuggire dal carcere, stava scontando una condanna definitiva per sfruttamento della prostituzione. Gli altri due, Daniel Parpalia e Marius Georgie Bunoro, di 30 e 25 anni, erano ancora in attesa di giudizio per furto aggravato. Condividevano la stessa cella e, dopo aver segato le sbarre di un bagno adiacente alla stanza, avevano raggiunto il cortile, avevano impilato dei bancali per salire sul muro di cinta e si erano calati all'esterno utilizzando le lenzuola. Il piano, secondo quanto è emerso dalle indagini dei carabinieri, coordinate dal pm di Varese Annalisa Palomba, sarebbe stato quindi agevolato dalla complicità degli agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere. L'inchiesta ha portato ora all'arresto dei cinque agenti, Francesco Trovato, Rosario Carmelo Russo, Domenico Roberto Di Pietro, Carmine Domenico Petricone e Angelo Cassano, in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Varese Anna Giorgetti con l'accusa di procurata evasione, corruzione, falso ideologico, minaccia e intralcio alla giustizia. Arresti eseguiti dai carabinieri, insieme alla Polizia penitenziaria, alla polizia di Stato e alla Guardia di finanza. Gli agenti, la notte dell'evasione, avrebbero aiutato i romeni ritardando l'allarme, avvisando i propri superiori due ore e mezza dopo la fuga, indicando un percorso che non era coperto dalle telecamere di videosorveglianza e fornendo il cassonetto e i bancali utilizzati per scavalcare il muro di cinta. Nei giorni precedenti, inoltre, avrebbero consentito alla compagna di Daniel Parpalia di introdurre nel carcere, durante l'orario di visita, la lima utilizzata per segare le sbarre e un telefono cellulare, nascosto nelle parti intime della ragazza. Complicità che sarebbe stata ‘acquistatà dai detenuti a poco prezzo: prestazioni sessuali gratuite da parte di prostitute, una somma di denaro per uno degli agenti, sommerso dai debiti, e la promessa di organizzare il pestaggio, una volta evasi, dei vertici del carcere. Alcuni degli agenti arrestati, infatti, volevano punire il comandante e il vicecomandante della Polizia penitenziaria per le numerose contestazioni disciplinari emesse in passato nei loro confronti. Gli agenti, oltre a favorire la fuga, avrebbero concesso inoltre a Miclea un trattamento di favore durante il periodo di detenzione, tanto che riceveva bibite e ricariche per il telefono cellulare in cella, e poteva andare in palestra fuori dagli orari stabiliti. "Gli arresti non possono ledere l'immagine di serietà e professionalità che ha sempre contraddistinto il personale di Polizia penitenziaria - ha spiegato Donato Capece, segretario del sindacato Sappe - queste accuse fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive in un contesto complicato". Sappe: Polizia penitenziaria è istituzione sana che opera con professionalità "La notizia dell'arresto di cinque poliziotti in servizio nel carcere di Varese per avere favorito l'evasione di 3 detenuti nel febbraio 2013 non possono ledere l'immagine di serietà e professionalità che ha sempre contraddistinto il Personale di Polizia Penitenziaria. Fermo restando che una persona è colpevole solamente dopo una condanna passata in giudicato, deve essere chiaro che non appartengono certo al dna della Polizia Penitenziaria i gravi comportamenti dei quali sono accusati i poliziotti. La responsabilità penale è personale e chi si è reso responsabile di gravi reati, una volta acquisite le prove certe e inequivocabili, ne deve pagare le conseguenze e deve essere cacciato dal Corpo di Polizia Penitenziaria, che è una Istituzione sana. Queste accuse fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato come quello carcerario. È utile anche ricordare che negli ultimi 20 anni la Polizia Penitenziaria ha sventato, in carcere, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Alcuni di questi casi si sono verificati proprio a Varese e non hanno avuto un esito tragico grazie al tempestivo intervento dei Baschi Azzurri". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. Il primo Sindacato dei Baschi Azzurri torna a sottolineare che "la Polizia Penitenziaria, a Varese e negli oltre 200 penitenziari italiani, è formata da persone che nonostante l'insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d'identità e d'orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti. È utile ricordare che nei primi sei mesi del 2014, dal 1 gennaio al 30 giugno, a Varese si sono contati 1 tentato suicidio, 1 atto di autolesionismo, 3 ferimenti, 4 colluttazioni". Ferrara: convenzione per l'inserimento di detenuti tra Comune, Asp e Casa circondariale www.estense.com, 10 dicembre 2014 È stata approvata la convenzione tra il Comune di Ferrara, l'Asp-Centro Servizi alla Persona e la Casa circondariale di Ferrara, per favorire l'inserimento di persone detenute, attraverso lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità. Sarà il Servizio Salute e Politiche Socio Sanitarie del Comune a promuovere l'iniziativa nei diversi Settori del Comune o nelle organizzazioni del Terzo settore con le quali sono in atto accordi e convenzioni e concordare con i responsabili luoghi, attività e modalità per ospitare le persone, sia provenienti dalla Casa Circondariale, sia dal Tribunale di Ferrara (Art. 21 e sostitutivi pena), per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Comune e Asp predisporranno, in accordo con la direzione dell'istituto, il programma di attività, indicando orari di impiego, luogo di svolgimento dell'attività, funzionario responsabile per l'impiego proposto, tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dei soggetti coinvolti. Sempre il Comune, in collaborazione con Asp, garantirà la copertura assicurativa dei soggetti coinvolti quindi Pordenone: i detenuti del carcere del Castello si raccontano in una mostra fotografica Messaggero Veneto, 10 dicembre 2014 È il risultato del corso di fotografia tenuto da Giancarlo Rupolo dal 17 giugno al 14 luglio all'interno della struttura. L'assessorato alla cultura in collaborazione con la casa circondariale di Pordenone e con l'ambito distrettuale urbano 6.5, sono i promotori della mostra "La casa in riva al mare" allestita con le immagini fotografiche realizzate dagli ospiti della carcere di Pordenone. È il risultato del corso di fotografia tenuto da Giancarlo Rupolo dal 17 giugno al 14 luglio all'interno della struttura stessa. Il corso iniziato con la spiegazione delle varie funzioni della macchina fotografica e del suo uso a seconda delle esigenze del momento, si è perfezionato illustrando l'importanza della luce e delle inquadrature, per poi proseguire con la valutazione critica delle composizioni fotografiche. Maggior importanza però è stata attribuita alla spontaneità di ripresa e alla manifestazione della propria personalità, in modo da indurre a protendersi verso una distanza mentale per consentire di vivere con un po' più di serenità lo spazio della prigione. Il corso è stato frequentato da 16 ospiti provenienti da varie nazioni; Italia, Albania, Ungheria, Tunisia, Romania con precedenti esperienze fotografiche e naturalmente culturali. Gli incontri e le esercitazioni si sono svolti nella cappella del carcere e nella sala polifunzionale, dipinta con scene di vita comune eseguite dagli ospiti sotto la guida di Vico Calabrò e spunto per interpretare fotograficamente la loro condizione di vita. "Con soddisfazione - commenta il direttore Alberto Quagliotto - registro che nel fitto e ricco panorama delle manifestazioni culturali pordenonesi, sia stata inserita questa mostra dedicata alle espressioni artistiche delle persone detenute al Castello. Soddisfazione che è tanto più forte, in quanto posta sotto l'egida del Comune, in particolare dell'assessorato alla Cultura con il sostegno dell'Ambito Urbano 6.5. Nei mesi estivi, quelli in cui le ordinarie attività penitenziarie rallentano o sono sospese, si sono tenuti, da docenti di provata competenza, alcuni corsi, indirizzati a far esprimere il lato più umano e creativo della persona, ovverosia quello artistico. Attraverso gli scatti della macchina, i detenuti hanno ripreso se stessi, gli ambienti in cui sono ristretti, e gli squarci esterni che sono consentiti alla vista. Consegnandosi all'occhio della macchina che, attraverso la luce ferma colori, attimi, persone e cose, gli autori si mettono davanti ad un intimo specchio, che riflette un'immagine simbolica di se stessi, piena di memorie sul passato costellato di azioni che si potevano non fare e sono state fatte; oppressa dalle domande sull'attualità, che si consuma in pochi metri; gravida di interrogativi sul futuro, che pretenderà un impegno che, solo riprendendo i lati più autentici della personalità, potrà essere affrontato adeguatamente". La mostra sarà aperta dal 12 dicembre al 12 gennaio 2015 al museo di storia naturale S Zenari in Via della Motta a Pordenone. Orari: da martedì. a sabato dalle 15.30 alle 19.30 e domenica 10-13 / 15.30-19.30. Taranto: presentato progetto "Fuori...Gioco", in programma un quadrangolare di calcio www.tarantobuonasera.it, 10 dicembre 2014 Il 13 dicembre allo stadio Iacovone in programma un quadrangolare tra rappresentative di magistrati, avvocati, agenti penitenziari e detenuti. Dopo il successo dello scorso anno, ha preso il via il progetto formativo che ha come obiettivo quello di trasmettere ai detenuti i valori tipici dello sport come il rispetto delle regole e dell'avversario. Promotore è il direttore dell'istituto, dott.ssa Stefania Baldassari, unitamente al comandante Giovanni Lamarca, che ha accolto favorevolmente la riproposizione del progetto da parte dei suoi ideatori, l'avvocato Giulio Destratis e la dott.ssa Loredana Mastrorilli. Il progetto che si è svolto presso il Padiglione a Sorveglianza Dinamica ha avuto inizio lo scorso mese di ottobre e si è articolato in una duplice fase, la prima a carattere teorico, con dodici lezioni d'aula che ha visto tra i relatori anche i magistrati Maurizio Carbone e Martino Rosati, i quali hanno tenuto lezioni sugli aspetti civili e penali relativi al calcio. La seconda fase, invece, ha previsto una parte pratica con allenamento di gioco. La fase conclusiva prevede, un quadrangolare di calcio tra squadre composte da rappresentative di magistrati, avvocati, agenti penitenziari e detenuti, che si terrà il 13 dicembre, alle 10.30, allo stadio Iacovone. L'iniziativa è stata presentata nei dettagli, stamattina, presso la casa circondariale "Carmelo Magli". Alla conferenza stampa, oltre ai relatori, hanno preso parte anche i magistrati. Nel corso del progetto e alla partita finale, interverranno l'ex calciatore della Nazionale Italiana, Nicola Legrottaglie ed altri illustri ospiti. Stati Uniti: rapporto Senato sulle torture della Cia, allarme rosso per le reazioni dell'Isis di Geraldina Colotti Il Manifesto, 10 dicembre 2014 Massima allerta, negli Usa e nelle sedi estere: per le possibili reazioni del Califfato alla pubblicazione del rapporto sulle torture della Cia, reso noto ieri. Una versione ridotta (480 pagine su 6.000) dell'indagine condotta per sei anni dalla Commissione Intelligence del Senato sulle tecniche di interrogatorio praticate dall'Agenzia nordamericana nel periodo successivo agli attentati dell'11 settembre 2001 e fino al 2009: gli anni della guerra senza quartiere ai "combattenti nemici", dei conflitti in Afghanistan e in Iraq. Il periodo delle rendition e delle prigioni segrete in cui vennero rinchiusi i sospetti appartenenti alle "reti del terrore", sottoposti a sevizie di ogni tipo: dall'affogamento simulato (il water-boarding) alla privazione del sonno, alle umiliazioni. Un piano voluto da George W. Bush e sospeso da Barack Obama all'assunzione del primo incarico, nel 2009. Allora, Obama riconobbe che i metodi usati per interrogare i prigionieri di al Qaeda avevano incluso le torture. Come emerge dal rapporto, la Cia ha sempre mentito, ma già nel 2008, di fronte alle ripetute denunce delle organizzazioni per i diritti civili, ha confermato di aver usato il metodo del water-boarding per interrogare tre sospetti nel 2002 e 2003. Esaminando documenti dell'intelligence e del Pentagono, il rapporto (costato 40 milioni di dollari) mostra ora il quadro e la storia del programma "Detention and Interrogation". Parla di "inganni, disonestà e brutalità" perpetrati dalla Cia, e inoltre evidenzia che quei metodi "non sono stati efficaci" e che un detenuto su cinque è stato arrestato per sbaglio: "a causa di un errore di identità o per via di informazioni sbagliate". Obama ha assicurato che si adopererà perché non si faccia "mai più ricorso" a quelle pratiche. "I metodi utilizzati dalla Cia sono incompatibili con i valori del nostro paese - ha detto ieri - hanno danneggiato la nostra immagine e la nostra posizione nel mondo e hanno complicato il perseguimento dei nostri interessi con partner e alleati". L'ex presidente Bush ha invece difeso a spada tratta la Cia: "Sono patrioti - ha affermato - e qualunque cosa dica il rapporto, questo non diminuisce il contributo che hanno dato al paese". Una precedente indagine sul programma di Bush, realizzata dal Dipartimento di giustizia, nel 2012, non aveva indicato vere responsabilità, con grande indignazione delle organizzazioni per i diritti civili, che per anni hanno denunciato le torture e la complicità dei medici nell'allestirle. In questo rapporto, si dice che i medici della Cia si erano lamentati per l'intensità dei water-boarding e per l'applicazione di torture oltre ogni limite consentito. La pubblicazione dell'indagine - pur depurata dei punti più sensibili - ha subito un ritardo dietro l'altro, tra attacchi e polemiche dei repubblicani. E venerdì anche il Segretario di stato, John Kerry, ha chiesto alla presidente del Comitato di intelligence del Senato, Dianne Feinstein, di riconsiderare la data di pubblicazione. L'allarme per paura di rappresaglie riguarda anche la gestione delle prigioni segrete della Cia in diversi paesi stranieri in cui sono stati condotti i "combattenti nemici". Il rapporto non nomina i paesi, ma intanto Obama ha telefonato alla premier polacca Ewa Kopacz: per rassicurarla che la pubblicazione "non avrà impatti negativi sulle relazioni tra la Polonia e gli Stati Uniti". La Polonia, che ha sempre negato il suo coinvolgimento, è stata condannata dalla Corte europea per i diritti dell'uomo per "complicità" nelle torture subite sul suo territorio da un palestinese e da un saudita. "Abbiamo fatto quel che ci è stato chiesto e sappiamo che è stato efficace", ha dichiarato al Washington Post, Jose Rodriguez, ex responsabile del programma Cia, denunciando "la grande ipocrisia" dei politici. Un concetto ribadito da Dick Cheney, vicepresidente all'epoca di George W. Bush: "Il programma - ha detto - al New York Times - è stato autorizzato ed esaminato da un punto di vista legale dal ministero della Giustizia. Stati Uniti: secondo il rapporto del Senato la Cia ha mentito sull'uso della tortura www.internazionale.it, 10 dicembre 2014 La commissione sui servizi segreti del senato degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto sull'operato della Cia dopo l'11 settembre. Secondo la commissione negli ultimi anni l'agenzia ha fatto un uso "brutale e inefficace" della tortura nei confronti di presunti terroristi di Al Qaeda e ha ripetutamente mentito al congresso sull'utilità delle informazioni ottenute grazie agli interrogatori. Il rapporto, di oltre seimila pagine, sulla gestione dei centri di detenzione e le tecniche di interrogatorio portati avanti dalla Cia, è stato presentato oggi dalla senatrice Dianne Feinstein in un documento di 528 pagine organizzato in 20 punti chiave: Le tecniche di interrogatorio usate dalla Cia non sono state efficaci per acquisire informazioni o per ottenere cooperazione da parte dei detenuti. La Cia ha riportato ripetutamente informazioni inaccurate al dipartimento della giustizia, impedendo un'analisi approfondita del suo programma di detenzione e interrogatori. La Cia ha sottoposto i detenuti a tecniche di interrogazione che non erano state approvate dal dipartimento della giustizia o autorizzate dalla sede centrale. La Cia non ha tenuto un calcolo accurato o completo del numero di individui detenuti o trattenuti per interrogatori fuori dagli standard legali di detenzione. La Cia ha presentato in modo non corretto l'efficacia delle sue tecniche di interrogatorio per giustificarne l'uso. L'uso delle tecniche di interrogatorio è stato più brutale e di gran lunga peggiore rispetto a quanto l'agenzia abbia comunicato. Le condizioni di confino dei detenuti della Cia erano più brutali e di gran lunga peggiori rispetto a quanto l'agenzia abbia comunicato. La Cia ha ostacolato un'effettiva vigilanza e presa di posizione politica da parte della Casa Bianca. La Cia ha attivamente evitato o impedito la vigilanza del congresso sul suo programma. La Cia ha impedito i controlli da parte dell'ispettore generale nominato dal presidente. Numerose critiche e obiezioni interne riguardo alla gestione dei centri di detenzione e l'uso di tecniche di interrogatorio sono state ignorate. La Cia ha manipolato i mezzi di comunicazione coordinando il rilascio di informazioni classificate, che descrivevano in modo non accurato l'efficacia delle tecniche di interrogatorio usate dall'agenzia. La Cia non era preparata quando ha dato avvio al programma di detenzione e interrogatorio, più di sei mesi dopo aver dato garanzie alle autorità penitenziarie. Il modo in cui la Cia ha operato e gestito il programma ha complicato e in alcuni casi ostacolato le missioni di sicurezza nazionale di altre agenzie esecutive. La gestione dei centri di detenzione e il programma di interrogatori sono stati problematici lungo tutta la loro durata, in particolare dal 2002 al 2003. Due psicologi della Cia hanno ideato il programma di interrogatori e sono state figure centrali dell'intera operazione. Ma già nel 2005 la Cia aveva ampiamente esternalizzato molte operazioni riguardanti il programma. L'efficacia delle tecniche di interrogatorio non è stata sufficientemente valutata dalla Cia. Il personale della Cia responsabile di gravi violazioni, comportamenti inappropriati o gestione fallimentare del programma raramente è stato rimproverato o ritenuto responsabile per queste azioni dall'agenzia. Il programma si è concluso nel 2006 per dubbi legali e di supervisione, divulgazione di informazioni non autorizzate e ridotta cooperazione da parte di altri paesi. Il programma ha danneggiato la reputazione internazionale degli Stati Uniti, con alti costi, monetari e non monetari. Stati Uniti: crearono programma torture per Cia, hanno guadagnato 81 milioni di dollari Ansa, 10 dicembre 2014 Il tanto contestato programma di interrogatori usato dalla Cia dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 - e oggi definito "inefficace" e "brutale" dalla Commissione d'Intelligence del Senato Usa - è stato sviluppato da due psicologi con scarsa esperienza che furono pagati 81 milioni di dollari per il loro lavoro. È quanto emerge dal rapporto diffuso oggi dalla Commissione stessa presieduta da Dianne Feinstein (democratica della California). I loro nomi non sono forniti ma nel documento ci si riferisce a loro con gli pseudonimi Grayson Swigert e Hammond Dunbar ma il New York Times li identifica come James E. Mitchell e Bruce Jessen. "La Cia ha fatto affidamento su questi due contractor per valutare il programma degli interrogatori che loro stessi avevano concepito e per il quale avevano ovvi interessi finanziari", ha dichiarato dai banchi del Senato la Feinstein. I due psicologi hanno personalmente condotto gli interrogatori, incluso il ricorso al water boarding, dei detenuti più importanti per la Cia. "Valutare lo stato psicologico di ogni detenuto che loro stavano interrogando è un chiaro conflitto di interesse e una violazione delle linee guida professionali", ha tuonato Feinstein. I due avrebbero addirittura funzionato da intermediari tra la Cia e servizi stranieri d'intelligence.