Giustizia: altri 2 morti in carcere negli ultimi 4 giorni, entrambi avevano solo 37 anni di Riccardo Arena www.radiocarcere.com, 9 aprile 2014 Dal 4 all’8 aprile sono morte nelle carceri italiane ben due persone. Un detenuto è deceduto nel carcere di Civitavecchia, mentre un altro è morto nel carcere Pagliarelli di Palermo. Salgono così a 39 le persone detenute morte nei primi 4 mesi del 2014, tra cui ben 11 sono stati i suicidi. 39 detenuti morti in meno di 4 mesi ovvero una media di 10 decessi al mese. Civitavecchia, venerdì 4 aprile. Fabio Giannotta, di 37 anni, muore intorno alle 10 e 30 nella sua cella del carcere di Civitavecchia. Fabio Giannotta, che era detenuto dall’ottobre del 2012, non godeva certo di buona salute. Da quanto si è appreso pare che era in grave sotto peso, soffriva di disturbi mentali tanto che assumeva degli psicofarmaci ed era anche tossicodipendente e attendeva di essere trasferito in una comunità terapeutica… domani si svolgeranno i funerali, mentre è stata già disposta l’autopsia. Palermo, martedì 8 aprile. Vito Bonanno, di 37 anni, muore nel carcere Pagliarelli di Palermo. Laconico e generico il certificato della morte: arresto cardio circolatorio, mentre val la pena di precisare che Vito Bonanno era detenuto in attesa di I giudizio…era quindi presunto non colpevole. Morale sale a 39 il numero delle persone detenute morte nei primi 4 mesi del 2014, tra cui ben 11 sono stati i suicidi. 39 detenuti morti in meno di 4 mesi ovvero una media di 10 decessi al mese. Giustizia: servono davvero nuove carceri? di Desi Bruno (Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna) Ristretti Orizzonti, 9 aprile 2014 "Il carcere dimezzato", questo il titolo del convegno tenutosi il 26 marzo a Ferrara, a cui ha partecipato Desi Bruno, garante regionale per i detenuti. L’intento degli organizzatori - il Garante comunale, Marcello Marighelli, e la Società della Ragione - è stato quello di sollecitare un ragionamento pubblico partecipato a partire dalla costruzione del nuovo padiglione detentivo di 200 posti. L’iniziativa, oltre agli interventi dei relatori, ha registrato anche i pareri degli urbanisti e degli amministratori locali. Lo spunto della discussione, evidenziato nel sottotitolo è stato: "Il carcere di Ferrara aumenta i posti con la costruzione di un contenitore di cemento. Servirà per ammassare corpi o per aumentare gli spazi di vita? Apriamo la discussione sul progetto". Nel Consiglio dei Ministri del 13 gennaio 2010, il Governo annuncia l’adozione di un Piano Straordinario Penitenziario (il cd. "Piano Carceri"), sulla base di una dichiarazione dello stato di emergenza del sistema penitenziario italiano. Tra i vari filoni di intervento viene prevista anche l’adozione di misure straordinarie di edilizia penitenziaria. I dati statistici, a quella data, presentano profili drammatici. Al 31.12.2009 i detenuti presenti negli istituti di pena italiani sono 64.791, destinati a salire - nel giro di un anno - fino a quasi 68.000 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 45.022 posti. Nel 2011 si registrano i primi segnali di un’inversione di tendenza, che prendono una piega decisamente meno timida solo a partire dall’estate del 2013. Dai 65.886 detenuti del 31.5.2013 siamo repentinamente passati ai 60.167 del 2.4.2014, con una capienza regolamentare complessiva di 48.309 posti, di cui 43.547 effettivamente disponibili. Come viene rilevato in un comunicato stampa del Dap del 2.4.2014, "rispetto al 2010 i detenuti sono diminuiti di 7.734 unità, mentre la capienza regolamentare è aumentata di 3.287 posti". In altre parole, il cronico problema del sovraffollamento viene fronteggiato attraverso una diminuzione del numero dei detenuti (che gli ultimi interventi legislativi dovrebbero contribuire a consolidare) ed un contestuale aumento dei posti detentivi disponibili. Complessivamente non siamo ancora pronti a pareggiare i conti con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma la strada è indubbiamente intrapresa. La dimensione regionale non sfugge alle dinamiche appena segnalate. Al 31.12.2009, la popolazione detenuta dell’Emilia-Romagna si attestava sulle 4.488 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 2.382. Al 28.2.2014, il dato è sceso a quota 3.528. Qui il Piano Carceri viene realizzato grazie all’intesa istituzionale fra il Commissario Delegato per l’emergenza conseguente al sovraffollamento ed il Presidente della Regione Emilia-Romagna del 6.5.2011: viene prevista la costruzione di 6 nuovi padiglioni - ognuno di 200 posti - a Ferrara, Parma, Reggio Emilia, Piacenza, Bologna e Modena. Il primo padiglione ad essere ultimato è quello di Modena, seguito da Piacenza: è invece ancora in costruzione quello di Parma e devono partire i lavori per la costruzione di quelli di Bologna e Ferrara. Il progetto di una nuova area detentiva a Reggio Emilia viene invece abbandonato: per sopperire al permanere di situazioni di sovraffollamento, infatti, si farà ricorso alla struttura attualmente destinata all’Opg, in via di superamento. Il nuovo padiglione di Modena si presenta sicuramente congruo dal punto di vista degli spazi e della luminosità (anche se manca un refettorio per i pasti in comune) e gli orari di apertura delle celle sono stati oggetto di un notevole ampliamento. Ciò contribuisce, indubbiamente, a garantire condizioni detentive più dignitose e a contrastare il sovraffollamento: ma non bisogna dimenticare che la detenzione non è solo questione di metri quadrati disponibili. Non basta costruire nuovi muri. Occorre personale di polizia penitenziaria ed educativo. Servono risorse da destinare a percorsi trattamentali (attività lavorative e di formazione per i detenuti), progetti terapeutici per persone tossicodipendenti e con forte disagio psichico, a cui destinare interventi extra-murari mirati. E non è tutto: l’intervento sulle nuove strutture non può lasciare senza risposte le gravi carenze igienico-sanitarie dei vecchi edifici. Ad oggi, in Emilia-Romagna ci sono ancora alcune centinaia di persone detenute che non dispongono dei 3 metri quadrati stabiliti dalla sentenza Torreggiani: questo problema va certamente affrontato e risolto. Muovendosi nella prospettiva di una - ulteriore - diminuzione delle presenze, non occorrerebbe ragionare su una possibile, diversa, destinazione delle risorse a disposizione per il completamento del piano di edilizia penitenziaria e su una diversa configurazione degli spazi per i detenuti? Ma il problema degli spazi riporta alla necessità di affrontare, ancora una volta, il significato stesso della pena detentiva, i suoi criteri di giustificazione e di legittimazione. Riportare la detenzione fuori dal perimetro del "trattamento inumano e degradante" non determina, infatti, il venir meno dell’annosa questione (mai totalmente sopita) del "perché punire?". Giustizia: ministro Alfano; continuare politica della durezza regime carcerario per i boss Il Velino, 9 aprile 2014 "In collaborazione con il Ministero della Giustizia stiamo operando per continuare la politica della durezza regime carcerario per i boss mafiosi". Lo ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano nel corso dell’audizione sulle linee programmatiche del suo dicastero davanti alla Commissione Affari Costituzionali del Senato. "Perchè - ha spiegato Alfano - abbiamo visto che è un sistema che funziona. Interrompe infatti da un lato i collegamenti dei boss con l’esterno e comporta dall’altro lato una perdita di prestigio e potere del capomafia detenuto". Giustizia: storia di Aldo Braibanti, quando l’Italia metteva in cella per plagio i filosofi gay di Filippo Ceccarelli La Repubblica, 9 aprile 2014 Addio a Aldo Braibanti: nel 1968 fu condannato a nove anni applicando il codice fascista. Ci sono uomini che quando muoiono andrebbero ricordati per quello che di significativo hanno fatto e lasciato - più che per quanto, quasi sempre senza colpe, hanno dovuto sopportare. Se n’è andato a 91 anni Aldo Braibanti. Ieri i funerali a Fiorenzuola d’Arda, vicino Piacenza, dove era tornato a vivere, come sempre povero in canna, dopo il laborioso e triste sfratto dalla sua casa romana, al Ghetto. Nella sua lunga vita è stato davvero molte cose: precocissimo scrittore e poeta laureatosi con una tesi sul grottesco, studioso di utopie filosofiche, partigiano combattente (e torturato a Firenze dalla Banda Carità), dirigente politico del Pci. Ma poi, e soprattutto, fu aperto a ogni ardua, dilettevole e gratuita sperimentazione e perciò artista di anticipatorio, quasi profetico eclettismo, dalla ceramica al teatro, dai collage alle video-installazioni, quando ancora non si chiamavano così, passando per la musica, la fotografia e il cinema. Oltre a essere, questa specie di uomo-laboratorio, amante e studioso degli insetti sociali, le formiche in particolare, per le quali anche in carcere costruì magnifiche città in gesso. Condannato nel 1968 a nove anni, poi ridotti a quattro, Braibanti rimase 24 mesi, comunque un’enormità, a Regina Coeli: primo e unico colpevole nella storia giudiziaria italiana di quel reato di plagio che nel codice penale, articolo 603, seguiva quelli relativi al commercio degli schiavi. Ad accusarlo di aver annientato la volontà di due maggiorenni fu la famiglia di uno di questi, molto cattolica e di destra. Più passa il tempo e più si capisce che quel processo monstre fu un modo non solo per confermare al pubblico ludibrio, ma anche per mettere tecnicamente dietro la sbarra l’omosessualità che quell’intellettuale eccentrico e quell’uomo libero e complicato, non volle mai nascondere. Era perciò per tanti versi un colpevole perfetto. Senza più partito, uscito dal Pci, e senza mai lavoro convenzionale, né onori accademici, viveva in una delle prime comuni dentro una torre, a Coll’Arquato; né si può pensare che allora giocassero a favore dell’imputato e presunto plagiatore omosessuale la più strenua avversione al mercato dell’arte (invano Giò Ponti chiese di acquistare una ceramica), il contributo alla fondazione dei Quaderni piacentini con i fratelli Bellocchio, l’amicizia con Sylvano Bussotti e con Carmelo Bene, che considerò Braibanti "un genio" e progettava con lui di lanciare palloni aerostatici a Portofino. Ma attraverso la sessualità, quel "peccato impuro e contro natura" che nel catechismo "gridava vendetta al cospetto di Dio", dei magistrati in egual misura vogliosi di difendere i sacri principi e di alimentare la loro personale vanità cercarono anche di regolare i conti con tante altre questioni che giusto allora cominciavano a diventare incandescenti: la vita e la famiglia borghese, la psicanalisi e le sue ripercussioni sull’ordine sociale, il concetto stesso dell’autorità. Risuonava già con qualche insistenza quella parola fatale, "contestazione". Perciò accusarono in aula quei giudici, coadiuvati dagli avvocati di parte civile, che quel signore bruttino e mite, che però portava la barba, era un "ladro d’anime", un "diabolico invasore di spiriti", anzi "la reincarnazione del demonio"; mentre per i più laici tra gli inquisitori rappresentava "una malattia". Non molti allora lo difesero, ma buoni. Moravia, Pasolini, Guido Calogero, il giovane Umberto Eco, Dacia Maraini scrisse un racconto, Leopoldo Piccardi volle reindossare la toga per aiutare l’avvocato Adolfo Gatti. E Amnesty International. Fra i politici è doveroso indicare Marco Pannella, forse il miglior Pannella nella sua acuminata generosità, che per sollecitare attenzione sul caso attaccò a freddo e a testa bassa i giudici demonizzatori: "Non c’è che da colpire i potenti, se si vuol davvero difendere le loro vittime. C’è da tirar fuori il condannato, ma ancora di più da portar dentro chi ha abusato delle leggi per realizzare un ignobile linciaggio...". Uscì il 5 dicembre 1969. Otto giorni prima la Camera aveva approvato la legge sul divorzio; sette giorni dopo, la strage di piazza Fontana. Una volta fuori, quel demone smagrito e senza barba disse solo: "Voglio togliermi subito di dosso questi panni che puzzano di galera". A leggere la voce di Wikipedia che con lineare e affettuosa gratitudine racconta il seguito della ricca vita di Braibanti si è colti da meraviglia per le tante opere che la sua creatività ha ancora generato; ma la speranza è che egli sia riuscito a superare quella storia antica e crudele, quel sacrificio pur così utile all’umanità civile di un paese che si ricorda e dimentica con la stessa disinvoltura. Giustizia: il Tribunale di Sorveglianza "Berlusconi sconti la pena tra anziani e disabili" di Claudia Fusani L’Unità, 9 aprile 2014 La Sorveglianza di Milano ha indicato la casa di cura nell’hinterland milanese dove espiare la pena. "Un giorno alla settimana". Domani l’udienza. I paragoni si sprecano. Il più quotato è Amici miei atto III, con il terribile conte Mascetti che, costretto dagli amici in una casa di riposo per anziani, provvede in quel contesto a dare vita alle sue zingarate sulle spalle dei poveri anziani ivi residenti. I più dotti scomodano Dante, la Divina commedia e la pena del contrappasso: l’uomo che nega il passare del tempo, che ha investito capitali nella ricerca dell’elisir di lunga vita, fidanzato di una ventenne, cultore del lifting e della tintura dei capelli, impegnato nel dare sostegno a disabili e anziani ricoverati in una casa di cura. In tre paginette i periti dell’Ufficio esecuzione penale esterna hanno scritto quello che secondo loro è un "idoneo programma di recupero per il condannato definitivo Silvio Berlusconi". Il programma individuato è stato consegnato ai giudici del Tribunale di sorveglianza di Milano che domani, otto mesi e dieci giorni dopo la sentenza che l’ha condannato a quattro anni (tre indultati) per frode fiscale, decideranno modi e luoghi dell’esecuzione della pena. L’Unità ha già scritto ieri che era stata individuata a Milano una struttura dove Berlusconi potrebbe svolgere il servizio sociale utile ad espiare la pena e a mostrare il necessario ravvedimento. Oggi se ne sa qualcosa di più: si tratta di una casa di riposo per anziani e disabili dove l’ex premier dovrebbe prestare servizio "una volta alla settimana a suo piacimento, mezza giornata, o la mattina o la sera". Se Berlusconi dovesse accettare questo minimo contrappasso, potrebbe avere molto tempo a disposizione per esercitare la leadership politica e pochi, pochissimi, vincoli di orario e di movimento. Che ci vuole, in fondo: il lunedì mattina, ad esempio, dalle 8 alle 14 ad intrattenere gli anziani, a raccontare loro l’imprenditore, il premier, il leader politico, ad aiutarli a trascorrere certe giornate che possono essere lunghissime. Magari, ogni tanto, spingendo qualche carrozzina, aiutando nella riabilitazione, più facilmente facendo un po’ di compagnia a persone sole, anziane, malate. Se accettasse, Berlusconi potrebbe trascorrere questo tempo (di un anno di pena, restano 9 mesi grazie agli sconti) e, quasi quasi, girarlo a proprio tornaconto. L’uomo è capace di tutto. Ma la reazione alla, a suo modo perversa, proposta potrebbe essere esattamente l’opposto. Anzi, è probabile che i legali domani alzino barricate contro questa eventualità. "Mai accetterò l’umiliazione di dover prestare ore di volontariato ai servizi sociali" è stato il refrain di questi mesi. "Non ho nulla da farmi perdonare, io sono stato il maggior contribuente italiano e anche questo, come tutti gli altri, è stato un processo falsificato dall’origine" la spiegazione dispensata in interviste, dichiarazioni e comizi. Nulla, insomma, che abbia mai fatto trasparire nelle sue parole e nelle sue azioni quel ravvedimento, pentimento o anche solo "accettazione della condanna" che sono indispensabili per ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Soluzione e mediazione che chiuderebbe una volta per tutte il tormentone berlusconiano con la giustizia italiana. Fino a nuova sentenza, almeno. Il punto è che se Berlusconi chiuderà le porte alla soluzione casa di cura, l’alternativa rischia di essere veramente la misura degli arresti domiciliari. "Perché - si spiega negli ambienti del Tribunale di sorveglianza di Milano - in qualche modo un percorso riabilitativo deve essere avviato. Anche da Berlusconi". Il "programma di recupero" proposto dall’Uepe prende in contropiede i legali Ghedini, Coppi e Longo. I quali in ottobre hanno chiesto l’affidamento ai servizi sociali ma indicando villa San Martino come il luogo più idoneo dove svolgerli. Restando a casa, insomma, e facendo di tanto in tanto i colloqui con gli psicologi. In realtà - è il sospetto - il fatto che la difesa non abbia proposto nulla di alternativo, potrebbe anche essere la consueta mossa dilatoria per prendere tempo. Domani, cioè, in assenza di proposte concrete, i giudici avrebbero potuto rinviare la decisione. E poiché i rinvii alla Sorveglianza possono essere di mesi, ecco che l’ex premier avrebbe potuto acquistare tempo prezioso per la campagna elettorale. Per blindare tempi e decisioni, il Tribunale ha deciso di formulare il programma rieducativo nella Casa di cura per anziani e disabili. Ora non ci sono più alibi. Domani, nel primo pomeriggio, sarà discussa la causa. La Sorveglianza di Milano ha una tradizione di decisioni morbide. Il pg Antonio Lamanna s’interroga, invece, da settimane su quale dovrebbe essere il percorso riabilitativo più giusto. Lettere: l’isolamento totale in carcere genera suicidi e follia di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 9 aprile 2014 L’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’agenzia specializzata dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la salute, ha pubblicato un documento sulla prevenzione dei suicidi nelle carceri. Nello stesso sono espresse le analisi dei migliori psichiatri del mondo, ad iniziare dai docenti universitari delle facoltà di Cambridge, Berlino, Oslo, Washington, Ontario, Missouri, Christchurch, Vienna, Amsterdam, Durban e tanti altri. Naturalmente è esplicitato che il carcere produce una percentuale di suicidi, venti volte superiore a chi vive in condizioni di libertà. Ma analizzando i suicidi nelle carceri un dato accomuna tutte le analisi, la maggior parte dei suicidi avviene nelle condizioni detentive di isolamento, in particolare l’isolamento completo, 23 ore su 24. Gli psichiatri dell’Università di Washington, Metzner e Hayes asseriscono che esiste una forte associazione tra suicidio dei detenuti e tipo di detenzione e hanno dati precisi in tal senso. Tutto confermato dai psichiatri austriaci Fruehwald e Bauer dell’Università di Vienna, su analisi svolte nel proprio territorio. Concordano che questo sistema detentivo crea depressione e destabilizzazione psicologica, in pratica può generare in un individuo il distacco dalla realtà e quindi la via del non ritorno per la mente.  Per me, che ho vissuto quattro dei miei sei anni detentivi in queste condizioni di isolamento, è solo una conferma di sensazioni vissute sulla pelle. Spero che i giudici europei della Corte di Strasburgo, riflettano anche su questo quando devono decidere sul mio ricorso per il risarcimento da ingiusta detenzione, in quanto assolto dopo sei anni di carcere dall’accusa di banda armata. Spero che riflettano sui danni enormi che il carcere produce e in particolare la detenzione speciale in isolamento. Chiaramente nessun risarcimento ripagherà di nulla, ma sarebbe incredibile non concederlo, come purtroppo hanno stabilito i giudici in Italia, motivando il non risarcimento per le mie cattive frequentazioni, con le quali ho tratto in inganno gli inquirenti. Giudizio non giuridico, ma comportamentale, morale. Non dovevo frequentare chi occupava le case per il diritto all’abitazione o le fabbriche per il diritto al lavoro. Questa è la verità. Una battaglia difficile, ma che condurrò fino alla fine, con tutte le mie forze. Umbria: eletto il Garante regionale dei diritti dei detenuti, è l’avvocato Carlo Fiorio Agi, 9 aprile 2014 L’Aula di Palazzo Cesaroni ha eletto il "Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale", in applicazione della legge regionale n."13/2006". Alla quarta votazione, con il voto dei due terzi dei consiglieri (21 voti), l’Assemblea legislativa dell’Umbria ha designato, Carlo Fiorio. Carlo Fiorio, nato a Torino nel 1965, è avvocato, iscritto nell’Ordine degli Avvocati di Perugia, e professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Perugia, dove si è laureato nel 1989. Per conto della Facoltà di Giurisprudenza cura da anni lo "Sportello legale dei diritti" un servizio che, con la partecipazione dei laureandi, offre assistenza e consulenza ai detenuti, in particolare a quelli in condizioni di grave disagio economico. Assessore Casciari: elezione Gatante segno di civiltà "Un grande segno di civiltà ed il raggiungimento di un traguardo importante per tutta la realtà carceraria": così l’assessore regionale Carla Casciari dopo l’elezione di Carlo Fiorio, in consiglio regionale, a garante dei detenuti in Umbria. Casciari auspica che il garante incaricato "contribuisca ad arricchire e a favorire il buon andamento del lavoro che la giunta regionale, insieme con tutte le istituzioni interessate, svolge per migliorare la qualità della vita carceraria, per qualificare e strutturare percorsi che possano portare ad un pieno reinserimento lavorativo e sociale dopo il carcere e per garantire la tutela dei diritti essenziali delle persone detenute. La Regione Umbria - ribadisce infine l’assessore - riserva un’attenzione costante al mondo carcerario e per mantenere fertile il confronto e la collaborazione con tutti i soggetti istituzionali che, a vario titolo, si occupano della situazione delle persone la cui libertà è limitata, ha attivato un tavolo di governance e un tavolo tecnico per l’inclusione sociale e lavorativa delle persone detenute ed ex detenute". Soddisfazione dei Radicali di Perugia Dopo 8 anni di ostinate battaglie politiche dei radicali umbri, due modifiche alla legge istitutiva e moltissimi incontri e polemiche, anche l’Umbria si è dotata del Garante regionale dei detenuti. Alla quarta votazione è stato eletto il prof. Carlo Fiorio, esperto di diritto penitenziario, con 21 voti, 2 bianche, 1 astenuto. Eletto quindi con due terzi dei voti. Adesso, di fronte all’emergenza-carcere per cui l’Italia è condannata in tutte le sedi internazionali per le condizioni disumane e degradanti in cui vengono tenuti i detenuti, questa figura risulta molto importante, perché deve svolgere un ruolo di collegamento tra le varie figure del mondo carcerario e con l’opinione pubblica in grado di risolvere spesso problemi molto concreti. Ringraziamo i consiglieri Dottorini e Stufara per la determinazione che hanno saputo tenere dentro il consiglio regionale per questa battaglia di civiltà. Siamo particolarmente soddisfatti, anche se in un quadro normativo fortemente repressivo che anche l’Umbria, dopo varie altre regioni italiane, come la Toscana, la Puglia e l’Abruzzo, ha una legge che introduce e regola l’uso terapeutico della cannabis dietro prescrizione medica, in primo luogo per alleviare il dolore di chi soffre di patologie varie, come ad esempio la Sla. Nel complesso, per noi, si tratta di una buona giornata che proviene dal consiglio regionale dell’Umbria. Teramo: nuova mobilitazione dei detenuti "è assurdo stare in 4 in 7 metri quadrati" www.primadanoi.it, 9 aprile 2014 Dal 5 al 20 aprile all’interno delle carceri italiane vi sarà una nuova mobilitazione indetta dal "Coordinamento dei Detenuti". Una protesta ideata per protestare contro le pessime condizioni di vita nei penitenziari di tutta la penisola. Anche Davide Rosci, il giovane teramano condannato in primo grado a 6 anni di reclusione per gli scontri di Roma dell’ottobre 2011 dà il suo sostegno. Non digiunerà "per non sembrare un novello Pannella teramano, dato che in un anno ho portato avanti tre duri digiuni" ma ha deciso di sostenere i reclusi parlando dell’iniziativa. "Il carcere, e l’ho vissuto sulla mia pelle, è uno schifo indescrivibile e fino a quando non ci metti piede puoi solo immaginare quante sofferenze si vivono al suo interno", racconta Rosci denunciando l’indizione di "iniziativa di facciata" che talvolta dipingono i penitenziari come luoghi di reinserimento "ma la realtà è ben diversa ed i suicidi, i pestaggi, i trattamenti inumani e gli abusi indicibili perpetrati nel buio delle celle li sbugiardano clamorosamente. Vogliono, ora che la situazione è al collasso, far credere ai cittadini che ce la stanno mettendo tutta per invertire la rotta, ma le chiacchiere stanno a zero. I dati parlano di un tasso reale di sovraffollamento pari al 175%, e non del 135%, e che la totalità delle strutture è illegale in base ai parametri dell’U.E. Il problema comunque non sta tanto nel sovraffollamento quanto nel modo in cui lo stato gestisce le carceri". "Quello che ho capito in 355 giorni di carcere è che tutti sanno ma che nessuno ha il coraggio di parlare", continua il ragazzo, "e se ti permetti di ribellarti le ritorsioni sono le più dure che mai". Rosci chiede di ripristinare "la legalità": "non è accettabile sapere che in una cella di 7 metri quadrati ci vivono 4 persone quando per un maiale sono 6 i metri quadrati stabiliti per legge, che esistono regimi di tortura legalizzati come il 41bis e 14bis, siamo l’unico paese ad avere "il fine pena mai" che equivale alla pena di morte, 100.000 bambini varcano le mura carcerarie per abbracciare i genitori, che non sono riusciti a chiudere gli Opg vero inferno in terra, che i tassi di suicidio, di morti "accidentali" e di atti di autolesionismo sono impressionanti, che ci sono dei malati cronici incompatibili con il carcere a cui lo stato nega perfino di morire decentemente e molto, troppo altro ancora. Iniziamo inoltre ad aprire le nostre menti", continua Rosci, "cercando di capire che è la crisi che fa aumentare la delinquenza e che la migliore soluzione al problema non sono più carabinieri o codici più severi, ma scuole, istruzione, posti di lavoro, salari congrui e giustizia sociale. Se dai condizioni di vita migliori a tutti nessuno avrà l’esigenza di rubare o delinquere, se dai migliori condizioni di vita a tutti sottrai migliaia di ragazzi alla criminalità organizzata e questa si che sarebbe una vittoria per tutti". Milano: 28enne suicida in cella dopo vari tentativi "paghino psicologa e ministero…" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 aprile 2014 La sentenza: otto mesi per omicidio colposo e mezzo milione di risarcimento ai genitori. Il suo posto "giusto" dentro il carcere di San Vittore, e cioè il posto idoneo per un detenuto che dal penitenziario di Pavia arrivava con "un ben evidente quadro psicotico persecutorio" e con una cartella clinica martoriata da 9 atti di autolesionismo o tentativi di suicidio in 4 mesi, sarebbe dovuto essere nel reparto di massima sorveglianza. Ma nell’estate 2009 non c’era posto: il sovraffollamento di tutto il carcere (1.400 detenuti stipati in una capienza teorica da 800 posti) era sovraffollamento anche di quello specifico delicato reparto. Così Luca Campanale, 28 anni, una condanna per rapina seguita all’incidente d’auto dopo il quale gli era stato diagnosticato un "disturbo organico della personalità derivato da pregresso grave trauma cranico", fu sistemato in altri reparti: prima in uno "ad alto rischio" con sorveglianza a vista, e poi (dopo una visita psichiatrica il 4 agosto) in un reparto "a medio rischio", con un piantone per le varie celle ma senza sorveglianza a vista. Qui il 12 agosto 2009 si impiccò. Ieri il Tribunale di Milano, nell’assolvere la psichiatra Maria Marasco e condannare a 8 mesi (pena sospesa) la psicologa Roberta De Simone per cooperazione in omicidio colposo, ha ritenuto che civilmente la responsabilità della morte per suicidio di Campanale debba essere fatta risalire sino in capo al ministero della Giustizia con il quale la psicologa aveva un rapporto libero professionale, e ha perciò condannato il ministero (in solido con la psicologa) a risarcire ai genitori del detenuto suicida un anticipo di quasi 530 mila euro sul futuro risarcimento da stabilirsi in separata sede. Partito dall’iniziale contestazione in Corte d’Assise di "abbandono di persona incapace" a provvedere a se stessa a causa dei gravi disturbi psichici da cui era affetta, e approdato poi alla riformulazione in "cooperazione in omicidio colposo" di competenza del Tribunale monocratico, il complicato processo si è sviluppato tra diari clinici, consulenze medico-legali, testimonianze e circolari ministeriali sulla "tutela dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti", avendo paradossalmente per teatro uno dei pochi istituti penitenziari dove già all’epoca la direzione e il personale prestassero attenzione a questo problema, e per imputate proprio due professioniste appassionate nel loro essere ogni giorno alle prese tanto con detenuti davvero sofferenti quanto con altri invece simulatori. E tuttavia, almeno in primo grado, il giudice Fabio Roia ha infine ritenuto ieri che, se contraddittoria o insufficiente è la prova sulla psichiatra difesa dagli avvocati Luigi Isolabella e Italia Caminiti, esistano invece elementi per reggere la condanna (richiesta dal pm Silvia Perrucci) della psicologa rinviata a giudizio dal gip Fabrizio D’Arcangelo. In Appello la difesa, con l’avvocato Gianluca Sala, insisterà sul fatto che si sia trattato di un caso imprevedibile, rispetto al quale era stato fatto tutto il possibile. E si riesamineranno i due nodi della causa. Uno logistico, la "mancanza di posti letto" che determinò la dimissione del detenuto-paziente dalla massima sorveglianza. L’altro tipicamente medico, vertente sul merito della diagnosi e della scelta di collocare il detenuto in un reparto "a medio rischio", senza sorveglianza a vista, "sul presupposto che il paziente non avesse mai posto in essere gesti autolesionistici e apparisse pretenzioso e immaturo". Presupposto contrastato, nella lettura proposta invece dall’avvocato Andrea Del Corno, parte civile per la famiglia del suicida, dal fatto che già il 3 maggio 2009 il detenuto fosse stato segnalato per "aggressione a agente penitenziario e affermazioni autolesionistiche"; il 25 maggio per un "tentativo di impiccagione"; il 30 maggio per un "taglio della pelle del collo"; l’8 e 9 giugno per "ferite da taglio al collo auto inferte"; il 15 giugno per "ferite lacero avambraccio destro e sinistro sul collo"; il 27 giugno per "ingestione volontaria di una lametta"; il 4 agosto per "ferite leggere e profonde da taglio a braccio e avambraccio destro"; e il 9 agosto per "ferite superficiali all’avambraccio destro auto-procurate". Firenze: "Non ammazzatemi!"… l’ultimo grido di Magherini, fermato dai Carabinieri di Luca Pisapia Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2014 L’ex calciatore è morto dopo esser stato fermato dai Carabinieri il 3 marzo. Un video mostra il momento del fermo. È una storia sbagliata quella della morte di Riccardo Magherini, 40 anni, sposato e con un figlio piccolo di due anni, che nella notte tra domenica 2 e lunedì 3 marzo muore per strada a Borgo San Frediano, centralissimo quartiere di Firenze. Era stato fermato in stato di alterazione da quattro carabinieri e tenuto per diversi minuti schiacciato sull’asfalto a pancia in giù e a torso nudo. Ieri la redazione di Firenze di Repubblica ha messo sul sito un video che probabilmente immortala gli ultimi momenti di vita dell’uomo. In poco più di un minuto girato all’1:25 di notte con un telefonino da un residente del quartiere, affacciato alla finestra, le immagini sono nere ma l’audio risulta molto nitido. Si sente Magherini gridare: "Aiuto, aiuto, ho un figlio". E poi ancora, dopo qualche secondo: "Aiuto, aiutatemi, sto morendo". La vicenda resta ancora oscura sotto molti aspetti, l’autopsia ha riscontrato solo escoriazioni e non segni di percosse tali da condurre alla morte, e mentre ancora si attende il risultato degli esami istologici e tossicologici, il pm Luigi Bocciolini ha aperto un fascicolo per spaccio e morte in conseguenza di altro reato. Ma diversi testimoni hanno visto i carabinieri prenderlo a calci, e altri hanno raccontato come tenuto così a lungo in posizione prona, sotto il peso di quattro uomini, dopo un sempre più flebile dimenarsi avrebbe cessato completamente di muoversi e probabilmente di respirare. "La famiglia vuole muoversi con la massima prudenza - aveva subito detto l’avvocato Luca Bisori al Fatto - Perché questi sono fatti delicati che coinvolgono la responsabilità di soggetti che svolgono comunque un lavoro di Stato come sono i carabinieri. Quindi qui bisogna essere cauti e prudenti". Riccardo Magherini, ex calciatore delle giovanili della Fiorentina, aveva sicuramente un passato, e forse anche un presente, di consumo di sostanze stupefacenti e quella sera a cena in un ristorante della zona pare tranquillo, nonostante la recente separazione dalla moglie. Qualche minuto dopo però è per strada, vaga per il quartiere dicendo che gli hanno rubato il portafogli e il telefonino. Entra in una pizzeria lì vicino visibilmente agitato, si mette a gridare, prende il telefonino a un cameriere, sfonda la porta a vetri di ingresso, esce e sale sulla macchina di una donna. La donna, che agli inquirenti lo descrive alterato ma non pericoloso, lo fa scendere. Lui continua a vagare per strada, cerca di entrare in un’altra pizzeria. Nel frattempo arrivano i primi due carabinieri che cercano di fermarlo, faticano e ne chiamano altri due in rinforzo. In quattro lo immobilizzano a terra e lo ammanettano. Magherini resta a torso nudo, prono, fermo a terra per diverso tempo. Sono gli stessi carabinieri a chiamare il 118, i primi soccorritori lo trovano in arresto cardiaco e a loro volta chiamano un medico che arriva dopo diversi minuti. In tutto passano quaranta minuti circa. Trasportato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, alle 2:45 è constatato il decesso. Le indagini ora procedono per stabilire eventuali negligenze delle forze dell’ordine o dei primi soccorritori, perché la famiglia e gli amici non si sono mai arresi, e dopo essersi opposti all’immediata cremazione del corpo hanno coinvolto gli abitanti del quartiere, dove Magherini era di casa. Per questo, a differenza di altri casi simili dove all’inizio pareva che nessuno avesse visto nulla, in molti si sono rivolti ai legali o in Procura per rilasciare le loro testimonianze. E per avere giustizia. Roma: suicida in Commissariato; i dubbi del pm e la relazione con la donna di un agente di Adelaide Pierucci e Viola Corso Il Messaggero, 9 aprile 2014 La Procura ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di omicidio colposo sulla morte di Ben Hamdani Fethi, il tunisino che l’altra sera, durante le procedure del fermo, è sfuggito ai controlli degli agenti e, ancora ammanettato, si è lanciato dalla finestra al terzo piano del commissariato Viminale schiantandosi sul marciapiede di via Farini. Un atto dovuto per il pm titolare dell’inchiesta, Paolo D’Ovidio, che per escludere qualsiasi coinvolgimento esterno ha disposto d’ufficio l’autopsia. L’esame è stato eseguito ieri pomeriggio dal medico legale Rosaria Aromatario dell’istituto di medicina legale della Sapienza, ma per gli esiti bisognerà aspettare. Gli agenti Il fascicolo comunque è stato aperto senza contestuali iscrizioni nel registro degli indagati: un atto dovuto per accertare se non ci siano state omissioni di controllo degli agenti durante la sorveglianza dell’indagato. Durante il sopralluogo il magistrato ha ascoltato gli agenti in servizio al momento dello schianto e tutte le ricostruzioni sono state concordanti. "Ero rimasto da solo con il fermato nella stanza", ha spiegato l’agente che era presente quando il tunisino si è lanciato. "Sembrava scosso, ma non ubriaco emi ha chiesto un bicchiere di acqua. Mi sono voltato di spalle un attimo per prendere la bottiglia e il bicchiere, senza allontanarmi, quando ho sentito l’urto contro le persiane accostate". Nel corso del sopralluogo gli investigatori hanno rilevato un’impronta di scarpa sulla sedia utilizzata dal tunisino per gettarsi nel vuoto. La famiglia "Lunedì mattina Ben è uscito presto per andare a Roma, poi mi hanno avvisato che era morto" dice la moglie del tunisino. Graziella Pasqualetti ha la voce rotta dall’emozione, parla piano per non farsi sentire dai quattro figli, ancora non ha detto loro che il padre non tornerà più. "Possono dire qualunque cosa di Ben, ma per noi era la luce, un gioiello di marito e di padre, io non posso dire altro e non mi interessa d’altro". Graziella abita da anni una villa lungo la strada che gira intorno alla Rupe: dalle finestre un panorama incantevole, nel giardino ben tenuto i giochi per i bambini, una casetta a di legno e il dondolo. Eppure per il dirigente del commissario di Orvieto, Ben Fethin Hendami non era certo uno stinco di santo: condannato in via definitiva per una violenza sessuale e per questo dal 2010 aveva vissuto per due anni agli arresti domiciliari, poi tanti piccoli reati consumati nel tempo: dallo spaccio di droga al furto. Una vita turbolenta che non aveva però mai incrinato il rapporto con Graziella, che appartiene ad una famiglia che gestisce da anni la gelateria più famosa di Orvieto. Il figlio più grande ha nove anni, quello più piccolo poco più di un anno. Lui da tempo faceva il pendolare con Roma dove si arrangiava come factotum di una ambasciata. Lunedì mattina era partito presto come al solito, poi nel pomeriggio è finito in manette. "Per me era un gioiello di uomo - insiste la moglie Graziella - non posso pensare ad un suicidio. Ben non era certo il tipo". La denuncia L’ultima serie di guai giudiziari per Ben Hamdani Fathi comincia dalla denuncia di una ventiduenne: "Ha tentato di violentarmi". È una ragazza di 22 anni, cittadina italiana di origini venezuelane. Venerdì scorso si presenta al Commissariato Viminale insieme al suo ragazzo. È scossa. Racconta che il tunisino si sarebbe spacciato per un diplomatico degli Emirati Arabi. I due si erano conosciuti qualche giorno prima nell’albergo in cui lei lavora, in via XX Settembre, e lui le aveva fatto credere di essere un facoltoso imprenditore che nel giro di poco avrebbe comprato l’albergo. Si rivedono giovedì, lui millanta conoscenze in alcune compagnie di volo, poi finiscono in un appartamento di via Bissolati. Le dice: è mio, ne ho altri. Poi, denuncia la ragazza, tenta di violentarla. Il giallo della relazione con la donna di un agente, Stefano Sofi "Non c’era motivo perché si suicidasse, questa storia non mi convince, troppe stranezze: presenterò una denuncia querela, così mi ha chiesto la famiglia di Ben". L’avvocato Michela Renzi conosceva da anni Ben Hamdani Fethi, il tunisino che la sera di lunedì si è lanciato dalla finestra del commissariato Viminale, al terzo piano dello stabile di via Farini, morendo sul colpo. "Eravamo diventati amici - dice l’avvocato - un bellissimo uomo e consapevole di esserlo". A quali stranezze si riferisce, avvocato? "Non era certo la prima volta che veniva fermato o processato o che andava in galera...". Anche stavolta con l’accusa di violenza sessuale, peraltro. "Una vicenda tutta ancora da chiarire. E comunque per il caso precedente, quello del 2010, avevamo fatto appello alla condanna a tre anni in primo grado. Era stato a Regina Coeli per un paio di settimane poi aveva fatto circa due anni ai domiciliari, a Orvieto. Escluderei che fosse entrato nel panico per la paura del carcere o cose del genere. Sapeva che gli sarebbe bastato farmi chiamare, l’avevo tirato fuori dai guai altre volte. Perché avrebbe dovuto uccidersi in quel modo uno così, con quattro figli che lo aspettano a casa...". Perché, secondo lei? "Guardi, proprio non riesco a darmi una spiegazione. Ho letto che forse pensava di essere al primo piano. Ma dico, anche se ti butti dal primo piano dove pensi di scappare? Ben non poteva non essere consapevole di tutto ciò". Che lei sappia assumeva droghe? "Che io sappia assolutamente no, così come non era solito neanche bere alcol". Quindi? "Qualche tempo fa mi aveva detto che un qualcuno del commissariato Viminale gli aveva giurato di fargliela pagare. Anche l’arresto precedente, per il caso del 2010, era avvenuto sempre nello stesso ufficio". Perché qualcuno poteva avercela con lui? "È una vecchia storia, ma credo che Ben avesse avuto una relazione o qualcosa di simile con una donna legata a qualcuno interno al commissariato, non so se agente o funzionario. E questo qualcuno gli avrebbe giurato di fargliela pagare. Così mi aveva detto Ben, ma è tutto da verificare". Chi era Ben Hamdani Fathi? "Era arrivato in Italia dalla Tunisia nei primi anni 80, aveva conosciuto la moglie Graziella a Roma credo, dove lei lavorava in una gelateria. Poi sono andati a vivere ad Orvieto, città di lei. Quattro figli piccoli. Un padre meraviglioso, sempre pieno di attenzioni. Ma non voglio dire che fosse uno stinco di santo, i suoi errori li aveva fatti". Lei ha parlato da poco con la famiglia di Ben, ha ricostruito i suoi ultimi movimenti? "Mi hanno detto che era tornato a Orvieto poco dopo la mezzanotte di venerdì, in treno come al solito. E lunedì mattina era tornato a Roma". Sa che lavoro svolgesse? "Faceva il free lance per una ambasciata araba, una specie di factotum: pensava all’alloggiamento del personale in arrivo a Roma o ad altre esigenze". Lecce: Corbelli (Diritti Civili); appello per un detenuto cardiopatico "rischia di morire" Ansa, 9 aprile 2014 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli ha rivolto un appello per un detenuto calabrese, A.C., 64 anni, "in attesa di giudizio, da un anno rinchiuso a Lecce, cardiopatico, gravemente malato, che ha perso 20 kg e ha tentato il suicidio in cella". "L’anziano uomo - afferma Corbelli - rischia di morire in cella. Chiedo un atto di giustizia giusta e umana per questa persona, il cui calvario mi viene raccontato dalla figlia in una drammatica lettera". "Le sue condizioni di salute - scrive la donna nella lettera il cui testo è stato reso noto dallo stesso Corbelli - mi preoccupano seriamente. Dall’arresto ha perso 20 kg, ha tentato il suicidio, perché non accetta di essere privato della sua libertà e dignità personale per non aver commesso nulla. Presenta dei polipi al colon che, ogni mese per circa 7/8 giorni, sanguinano vistosamente determinando difficoltà di deambulazione, pallore etc. In più è un soggetto cardiopatico grave, sottoposto a trattamento farmacologico da quasi 30 anni, operato di angioplastica nel gennaio 2013 ovvero 2 mesi prima dell’arresto. Necessita di altro intervento ma oggi è purtroppo ancora in carcere. Temo per la vita di mio padre la prego di voler visionare la documentazione medica e di aiutarmi. Non so più a chi rivolgermi". Castelfranco Emilia (Mo): scende da treno per rientrare in carcere, muore sotto le ruote Ansa, 9 aprile 2014 Un uomo è morto ieri alle 22 in un incidente alla stazione di Castelfranco Emilia (Modena). Originario di Milano e di 43 anni, era detenuto nella Casa di reclusione della cittadina. Era sul treno che arrivava alla stazione, e doveva rientrare nella struttura entro le 23. Si è svegliato all’improvviso mentre il treno ripartiva, dopo essersi appisolato. È così sceso di corsa ma le porte si sono chiuse ed è rimasto impigliato con i pantaloni, finendo schiacciato sotto il treno. Sul posto 118 e Polfer. Pordenone: processo per rissa tra detenuti, causata da ribellione alle gerarchie in carcere Messaggero Veneto, 9 aprile 2014 Uno "reo" di avere discusso con un detenuto, l’altro di non riconoscere la "leadership" di un altro. Era il 21 agosto 2009 quando nella casa circondariale di Pordenone sarebbe scoppiata una furibonda lite, a seguito della quale venne colpito anche un agente della polizia penitenziaria (sei giorni di prognosi). Ieri, davanti al giudice monocratico del tribunale di Pordenone Monica Biasutti, s’è concluso il procedimento penale a seguito del quale le accuse sono state fortemente ridimensionate. Yassine Lemfadel, 25 anni, di Taurianova, assistito dall’avvocato Guido Galletti, è stato condannato a quattro mesi di reclusione (il pm aveva chiesto un anno e tre mesi) per lesioni senza premeditazione all’agente della polizia penitenziaria, e assolto per non avere commesso il fatto, dall’accusa di essere stato il mandante della spedizione punitiva nei confronti di due africani. Jhon Edison Pellarin, 25 anni, colombiano assistito dall’avvocato Pier Aurelio Cicuttini, è stato assolto per non avere commesso il fatto, mentre il pm aveva chiesto la sua condanna a un anno. Era accusato di avere "attirato" la vittima nella cella per la punizione. Tudorel Radu, romeno di 25 anni, difeso dall’avvocato Federico Capalozza, è stato condannato a quattro mesi di reclusione per lesioni nei confronti di un africano e assolto per la medesima accusa per un altro, per assenza di querela; il pm aveva chiesto otto mesi. Immigrazione: ministro Mogherini; estendere accordi sulle carceri con i Paesi interessati Public Policy, 9 aprile 2014 "È in corso un lavoro per estendere gli accordi sulle carceri, in vigore ad esempio con Singapore, anche con i Paesi che hanno in Italia numeri rilevanti nella popolazione carceraria". Lo dice il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, durante un’audizione nel Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, a Palazzo San Macuto. Droghe: Cassazione; pena più elevata in caso di spaccio di sostanze diverse di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2014 La Fini-Giovanardi "premiava" gli spacciatori negando ia continuazione: l’abolizione della legge reintroduce due reati. Anche la neo-abrogata legge Fini-Giovanardi conteneva, probabilmente senza volerlo, un trattamento di favore per gli spacciatori con varietà di offerta di prodotto. Il paradosso è certificato dalla Cassazione che, intervenendo per l’ennesima volta in poche settimane sul tema dello spaccio ha stabilito che non può esserci continuazione - e cioè aumento di pena - per lo spacciatore sorpreso con 13 chili di cocaina (droga pesante) e 1,5 kg di hascisc (droga leggera). La brevissima motivazione della sentenza della Quarta penale (15483/14, depositata il 7 aprile) spiega infatti che, avendo la Fini-Giovanardi abolito la distinzione tabellare delle sostanze in base alla "pesantezza", non è ipotizzabile di spezzare in due momenti diversi la medesima condotta criminosa: da un lato lo spaccio di cocaina, dall’altro quello del cosiddetto "fumo", puniti con pene diverse e concorrenti. A beneficiare dello sconto da "mancata continuazione" è così un cittadino straniero di 34 anni che, due anni fa, si era visto confermare la pena di due anni di carcere e 6 mila euro di multa inflittagli dal Gup di Fermo nella notte dei tempi (dicembre del 2003). Peraltro l’orientamento della Suprema corte, forte di un testo di legge chiarissimo sul punto, è stato costante negli anni post Fini-Giovanardi (a partire da Cassazione 1735/08) nel sostenere che, a seguito del famoso decreto sulle Olimpiadi di Torino - dentro cui scivolò la rivisitazione abusiva del Dpr 309/90 - "la contestuale detenzione di diverse tipologie di sostanze stupefacenti integra un unico reato, non più, come ritenuto prima di detta legge, una pluralità di reati in continuazione tra loro". Il ragionamento della Corte darà quindi luogo, nell’attuazione di merito, a un inevitabile portato, paradossalmente più severo per chi smercia una pluralità di sostanze: tornata in vita la bipartizione tra "pesanti " e "leggere", un’unica condotta di spaccio potrà essere sanzionata due volte, solo in base al tipo di droga venduta. Dopo la pronuncia della Corte costituzionale del 12 febbraio scorso, che ha bocciato la Fini-Giovanardi, si è tornati alla legge Iervolino-Vassalli, come emendata dal referendum del 1993, e quindi al diverso sistema sanzionatorio previsto per le droghe leggere e per quelle pesanti: il traffico di hascisc ritorna punito con pene da 2 a 6 anni e non più da 8 a 20, che restano invece per le droghe più "impegnative". India: l’italiana Sonia Gandhi, il vero ostacolo per i marò di Danilo Taino Corriere della Sera, 9 aprile 2014 "È stata innanzitutto la signora Gandhi a non volere cedere a un negoziato con l’Italia", dice un funzionario coinvolto nel caso. L’essere italiana per lei è una penalizzazione. La domanda che deve passare per la mente in questi giorni ai due marò trattenuti a New Delhi, e molto presente nelle analisi della diplomazia italiana, è questa: è meglio che le elezioni in corso in India le vincano Sonia Gandhi e il suo partito o è preferibile una vittoria (probabile) del leader nazionalista indù Narendra Modi? Se si guarda ai fatti, si può dire che l’italiana Sonia Gandhi, presidente del partito del Congresso oggi al governo, è stata di gran lunga il maggiore ostacolo a una soluzione concordata del caso. Politicamente ma - a quanto risulta al Corriere- anche direttamente. Alla base del suo modo di agire c’è un fatto noto. L’essere italiana la penalizza. Viene indicata dall’opposizione come una straniera al potere grazie al matrimonio nella famiglia più eminente del Paese, i Nehru-Gandhi: già tre primi ministri dal 1947 e un quarto, Rahul, in corsa ora. Per gli avversari, un’usurpatrice: nei giorni scorsi Modi non ha esitato ad attaccare la sua italianità proprio in relazione al caso dei marò (a suo parere sarebbero trattati troppo bene). Sonia, dunque, si tiene lontana miglia da tutto ciò che ha a che fare con l’Italia e la possa fare sembrare non indiana a 360 gradi. Non parla mai in italiano, nemmeno se incontra un politico o un diplomatico in missione da Roma. Quando la vicenda dei due fucilieri di Marina è diventata un caso politico, dunque, è andata su tutte le furie - secondo un funzionario del Congresso. Era il marzo del 2013 e il governo Monti decise (per un breve periodo) che i due marò, in Italia in licenza elettorale, non sarebbero tornati a Delhi a differenza di quanto promesso: in quel momento il caso diventò una disputa seria tra Italia e India. Sonia, trascinatavi per i capelli, ne colse immediatamente il rischio politico. Chiamò il primo ministro Manmohan Singh, che emise un comunicato durissimo. Diede indicazione al partito di trattare la questione con la massima fermezza. Protestò con Roma. Sostenne che il comportamento di sfida del governo italiano era "del tutto inaccettabile". E che nessun Paese può permettersi di umiliare l’India: "Devono essere usati tutti i mezzi per fare in modo che l’impegno del governo italiano (di rimandare i marò a Delhi, ndr) sia onorato", disse. La Corte Suprema intimò all’ambasciatore italiano, Daniele Mancini, di non lasciare l’India e sue fotografie furono mandate negli aeroporti. L’opposizione attaccò il governo. Ma furono i membri di quest’ultimo ad assumere le posizioni più intransigenti, con la parziale eccezione del ministro degli Esteri Salman Khurshid, preoccupato per la reputazione internazionale del suo Paese. La durissima e inaspettata reazione pretesa da Sonia raggiunse un obiettivo immediato: il 22 marzo 2013 Salvatore Girone e Massimiliano Latorre furono rimandati a Delhi. Ma anche uno di lungo termine: da allora, tutto il partito del Congresso e l’Amministrazione sanno che sulla vicenda non si può dare l’impressione di essere deboli, che l’italianità di Sonia non deve diventare una vulnerabilità politica. L’avvicinarsi delle elezioni indiane - iniziate ieri per proseguire fino al 12 maggio - ha reso ancora più rigida la prescrizione. "È stata innanzitutto la signora Gandhi a non volere cedere a un negoziato con l’Italia", dice un funzionario coinvolto nel caso. Che esito elettorale preferiscano i due marò non ha senso chiederglielo. Il governo di Roma e la sua diplomazia a questo punto sanno però due cose. Innanzitutto, che ormai la vicenda non si chiuderà prima della fine della tornata elettorale indiana e della formazione di un nuovo governo. A quel punto, di fronte alla pressione di un possibile ricorso unilaterale italiano alla giustizia internazionale, il nuovo potere a Delhi potrà forse decidere di seguire una strada veloce per liberarsi della imbarazzante questione dei due Italian Marines. Secondo, sanno che se vincesse il Congresso, contare sulla benevolenza di Sonia sarebbe un’ingenuità; se vincesse Modi, come dicono i sondaggi, ci sarebbe almeno il vantaggio che non ha abiti italiani nell’armadio. Il guaio è che sapere due cose non significa sapere tutto. Iraq: la testimonianza di due miliari "Nassirya, così noi italiani torturavamo i prigionieri" di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2014 Un servizio de "Le Iene" è destinato a riaprire la questione delle torture dei militari in Iraq. Non quelle degli americani, scoperti grazie alle foto con i detenuti al guinzaglio nel 2002 e condannati nel 2003. Bensì le presunte torture che sarebbero state praticate secondo due testimonianze raccolte dalle Iene, da parte delle forze armate italiane in Iraq durante la missione "Operazione antica Babilonia". L’inviato delle Iene Luigi Pelazza ha intervistato un militare, del quale non viene svelato il nome, allora in servizio nella Brigata Sassari in Iraq. Nell’intervista, che sembra rubata, il militare racconta le presunte torture e fa anche il nome, solo in codice, del capo della squadretta preposta agli interrogatori: il sergente Mirkj. Durante il servizio delle Iene sarà mostrato un video nel quale si intravede in lontananza un militare con uno scudetto, probabilmente lo stemma italiano, mentre in primo piano due arabi con la testa bassa sono costretti a restare legati con le fascette ai polsi e bendati. Già la scorsa settimana Pelazza aveva intervistato, stavolta a volto scoperto, un ex militare che ha prestato servizio per venti anni in missioni all’estero, e che oggi svolge una professione legale in Sardegna. Si chiama Leonardo Bitti e il suo racconto, trasmesso il 2 aprile merita di essere riproposto per inquadrare le nuove rivelazioni anonime. Bitti ha raccontato a Pelazza di avere ricevuto l’ordine da un suo superiore, quando si trovava nel 2003 nella base White Horse vicino a Nassirya, di portare l’acqua con un’autocisterna in una zona periferica del campo. C’era una "casa bianca" di circa cento metri quadrati suddivisi in tre stanze alla quale potevano accedere pochi militari autorizzati nella quale a suo dire si praticavano gli interrogatori. Al suo interno, "C’erano militari con passamontagna. Alcuni con il manganello in mano erano del Battaglione San Marco e gli altri erano paracadutisti e del ConSubim, cioè i reparti speciali della Marina. La "casa bianca", era completamente buia. La cosa impressionante - ha proseguito l’ex militare - era l’odore che si sentiva di escrementi e urina e le tracce di sangue sparse dappertutto". Bitti, il cui racconto ovviamente dovrà essere verificato dalle autorità, ha raccontato di avere visto cinque o sei prigionieri davanti a tre tende pronti a essere interrogati "stavano con i piedi incrociati in modo che non potessero sollevarsi e con le mani chiuse dai laccetti da elettricista. Qualcuno era nudo e uno aveva il segno di un manganello sulla schiena". Il militare intervistato da Pelazza nel servizio di stasera conferma il racconto di Bitti. Prestava servizio anche lui nel 2003 a White Horse. La Iena mostra anche un filmato ricevuto da un militare il quale sostiene sia stato girato all’interno di una tenda militare italiana a Nassiriya. Secondo l’anticipazione diffusa ieri da Mediaset: "nel video si vedono chiaramente le mani dei detenuti legate con delle fascette da elettricista, una grossa benda verde sugli occhi, la testa abbassata". Nell’intervista anonima che sarà trasmessa stasera il militare aggiunge che i prigionieri "li prendeva il Sismi", cioè il nostro servizio segreto militare ancora una volta al centro di accuse, tutte da provare, che riguardano l’epoca in cui era diretto da Niccolò Pollari. Secondo l’intervistato delle Iene: "Il Sismi era dentro la base. A seconda della retata della notte potevano rientrare anche con dieci persone". Il militare conferma che i prigionieri erano incappucciati e picchiati duramente. "Lo faceva chi di dovere, perché li dovevi fare parlare. Non c’era un numero di giorni prestabilito. Alcuni parlavano immediatamente ad altri piaceva prendere i colpi", cioè si ostinavano a tacere di fronte alle violenze (tutte da dimostrare) dei nostri militari. Il capo delle squadrette, l’esperto nelle tecniche di tortura con le scosse procurate dagli elettrodi sui genitali, era, sempre secondo l’intervistato "il sergente Mirkj". "Se tu arrivi a lui - ha detto il militare a Pelazza - anche i morti sottoterra trovi. Hai presente quando accusano la Polizia di avere interrogato qualcuno con maniere un po’ forti? Bene, quello è l’antipasto rispetto a quello che poteva succedere lì". Anche Raffaele Bitti conferma: "Il sergente Mirkj esiste e penso che oggi sia sergente maggiore, all’estero". Secondo Bitti il militare dell’intervista anonima di stasera invece "lavorava con il comandante della base, il generale Bruno Stano e per questo sa molte cose. Anche sul nome del colonnello che partecipava come uditore agli interrogatori". Dopo l’intervista della scorsa settimana non ci sono state reazioni da parte del ministro della difesa del Pd, Roberta Pinotti. "Mi ha contattato solo il sottosegretario alla Difesa, il generale Domenico Rossi", spiega Bitti, "ci conosciamo da molto tempo. Lui era presidente e io membro del comitato di presidenza del Cocer", l’organo di rappresentanza dei militari. Stavolta c’è un video e l’intervista di un militare che accusa un altro militare. Sarà difficile far finta di niente. Anche perché nel servizio si parla anche del movente della strage di Nassirya, nella quale i terroristi uccisero 17 militari italiani, due civili e nove iracheni. Una ferita ancora aperta. Iraq: "italiani torturatori a Nassiriya, agivano servizi segreti e uomini dei corpi speciali" di Pier Giorgio Pinna La Nuova Sardegna, 9 aprile 2014 Choc, allarme e interrogativi. A più di 10 anni dalla strage di Nassiriya, rimbalzano in Sardegna testimonianze su avvenimenti inquietanti che potrebbe costringere a rivedere scenari sulla presenza italiana in Iraq. Le rivelazioni sono state raccolte dalle Iene Show. Riguardano una centrale per brutali interrogatori: accompagnati - ipotizzano gli intervistati - da sistematiche torture e umiliazioni su detenuti iracheni, con ogni probabilità membri della resistenza all’occupazione delle truppe straniere. La centrale sarebbe stata allestita in una zona periferica top secret di Nassiriya, a poca distanza dalla base fatta saltare in aria e dalla stessa sede dove si trovava il Comando della "Sassari" in quell’area. I fatti noti. A parlare di atrocità finora attribuite solo a Cia e squadre speciali Usa ad Abu Ghraib (il carcere di Baghdad dove soldati statunitensi seviziarono prigionieri iracheni nel 2004) sono almeno due militari sardi. In Tv alcuni figurano come ex appartenenti o effettivi della Brigata. E per questa sala degli orrori descritta come un "cubo di un centinaio di metri quadrati" loro stessi chiamano in causa non la "Sassari" ma uomini - dicono - del Sismi o di reparti scelti come il San Marco, il Col Moschin e incursori del ComSubin. Il programma televisivo ha mandato in onda le immagini e i servizi su questo caso rovente il 2 aprile scorso e in una precedente puntata di qualche tempo fa. Per domani sera, sempre su Italia 1, è attesa un’altra serie di dichiarazioni da parte di un soldato che sostiene di essere della Brigata. L’uomo non compare nel video né dice come si chiama. Ma conferma l’esistenza di camere per le torture in Iraq. Retroscena. Fin qui la sostanza degli avvenimenti svelati dalla trasmissione satirica e di denuncia delle reti Mediaset. Un servizio curato, oggi come in passato, dal presentatore-giornalista Luigi Pelazza. In queste rivelazioni l’aspetto più cupo (e destabilizzante rispetto ai compiti delle forze armate) è collegato alle affermazioni fatte davanti alle telecamere delle Iene mercoledì scorso dall’ex appartenente alla Brigata Leonardo Bitti, 40 anni sassarese con origini familiari tra Mara e Bonorva, l’unico che ha deciso di non trincerarsi dietro l’anonimato ma al contrario di raccontare con nome e cognome i fatti dei quali spiega d’essere stato testimone. Immagini impressionanti. "Comunque né in quella centrale operativa né altrove ho mai visto in modo diretto italiani maltrattare prigionieri - ha spiegato anche alla "Nuova" l’ex militare. Ero arrivato in missione nel Paese di Saddam Hussein pochi giorni dopo la strage. All’inizio, come addetto ad alcune operazioni logistiche in quella parte di Nassiriya, ho notato dall’esterno che la zona era presidiata da nostri militari che non avevano le mostrine e a ogni modo non facevano certamente parte della Brigata Sassari. Alcuni avevano manganelli attaccati alle cinture. Poi, in altre giornate, per due mesi di seguito, sono potuto entrare in quell’edificio quando era vuoto. All’interno, diviso in tre ambienti, un odore disgustoso, tracce di sangue, urina, feci. All’esterno, vicino a tre tende, di volta in volta cinque o sei detenuti legati con fascette elettriche e incappucciati, alcuni nudi. Diversi avevano sulla schiena segni di manganellate". Inchieste. In precedenza nello stesso video mostrato da Pelazza, insieme con sequenze di guerra, è stata rimandata in onda parte di un’intervista di quattro anni fa. Un giovane asseriva di essere un esperto d’interrogatori violenti. E sosteneva di lavorare per conto delle forze armate italiane durante missioni all’estero. Voce distorta, volto coperto, sembianze irriconoscibili, l’uomo ha parlato di come estorce le informazioni. E con quali metodi: "Schiaffi, pugni, elettrodi applicati sui genitali, stoffa imbevuta d’acqua e premuta sulla faccia per simulare l’annegamento". "Un bel lavoro, ben retribuito", ha dichiarato con impassibile cinismo "l’esecutore", come lui stesso ha detto si chiamano in gergo quelli che conducono le torture sulle persone da interrogare. "Non posso rispondere", si è invece limitato a replicare alla domanda con la quale gli si chiedeva se avesse mai mutilato o ucciso qualcuno. Accertamenti. "Dopo la messa in onda dei nostri servizi di qualche anno fa su questi fatti, la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta - dice oggi Luigi Pelazza. Sono stato sentito 3-4 volte come persona informata, poi come indagato perché non li avevo convinti sulla ricostruzione delle modalità con le quali avevo stabilito certi contatti. Ma da allora non ne ho più saputo nulla". Leonardo Bitti spiega a sua volta di non essere stato ascoltato, per ora, dalla magistratura. "Sono comunque disponibile a raccontare quel che ho visto come ho fatto in trasmissione", sostiene. L’ex caporale: "Perché parlo ora? Prima non mi rendevo conto" Prima di tutto, l’ex soldato della "Sassari" Leonardo Bitti risponde a una domanda precisa: "Perché di questa storia parlo soltanto adesso, a così tanto tempo dai fatti? Beh, da ragazzo, con l’incoscienza della gioventù, magari vedevo le cose in maniera diversa. Oggi che sono diventato avvocato, con studi a Roma e a Viterbo, dopo aver lasciato l’esercito dove ho prestato servizio per 23 anni, ho maggiori consapevolezze rispetto a 10 anni fa in Iraq. E quando dalle Iene mi hanno chiamato, ho pensato di non tirarmi indietro. Naturalmente lo rifarò, se lo si riterrà opportuno, anche con la magistratura: non ho dimenticato quel che ho visto nelle settimane successive alla strage di Nassiriya". Che grado aveva in Iraq? "Caporale maggiore capo scelto: il massimo che un graduato di truppa può raggiungere. Io ho fatto la leva nella "Sassari". E poi mi sono raffermato". Ha partecipato ad altre missioni all’estero? "Sì. Dopo il Kosovo sono stato anche decorato: croce di bronzo al valore per aver partecipato a un conflitto a fuoco con l’autista di Karadzic, all’epoca accusato di crimini contro l’umanità". Ha studiato durante il servizio militare? "Sino a laurearmi in giurisprudenza e a fare pratica legale nello studio dell’avvocato sassarese Giacomo Crovetti". Quando ha lasciato le forze armate? "Sono fuori da 2 anni, dopo 6 passati a rappresentare i miei commilitoni a Roma nel Cocer". Com’è nato il contatto con Luigi Pelazza delle Iene? "Ci conoscevamo proprio perché anche lui, quand’era carabiniere, aveva fatto parte degli organismi di rappresentanza dei militari". Conferma tutte le dichiarazioni fatte nel servizio andato in onda mercoledì scorso? "Certo: perché non dovrei? Naturalmente parlo solo delle cose delle quali sono stato a conoscenza". Come mai lei all’epoca da semplice graduato ha avuto accesso a un’area considerata top secret? "Perché anche in quella zona, che dista grosso modo un chilometro dal posto dov’era il comando della "Sassari" a Nassiriya, ho avuto l’autorizzazione a occuparmi dei servizi di logistica ai quali ero addetto: gruppi elettrogeni, filtraggi delle acque del fiume Eufrate, altri supporti di questo genere". Fino a quando ha potuto vedere militari italiani e prigionieri in quella "centrale"? "Ribadisco intanto che non ho mai visto detenuti torturati o maltrattati. Invece, da metà novembre 2003 a fine febbraio 2004, ho notato spesso questi incursori della Marina e questi soldati del Col Moschin e del San Marco che tra loro si chiamavano non per nome ma in codice". Quali altri ricordi conserva? "Loro giravano spesso senza divise e senza mostrare i gradi. E i prigionieri, in quella casa bianca, portavano segni che facevano pensare alle percosse subite". Uruguay: la marijuana potrà essere usata a scopo terapeutico anche nelle carceri La Presse, 9 aprile 2014 Nelle carceri dell’Uruguay la marijuana potrà essere usata a scopo terapeutico, se sarà prescritta da un medico. Julio Calzada, segretario della Junta Nacional de Drogas, spiega che a tutti i detenuti potrà essere somministrata, se un medico stabilirà che sia necessaria per la loro salute mentale o fisica. Intanto, il ministro dello Sviluppo sociale Daniel Olesker ha detto durante un simposio medico sull’argomento che l’uso della marijuana a scopo medico sarà previsto nel sistema sanitario pubblico del Paese, così come agopuntura e rimedi omeopatici. Servono ancora due settimana, ha piegato Calzada, perché l’agenzia completi la stesura del testo con cui regolare il mercato legale della marijuana, atteso tra il 20 e il 25 aprile. Ucraina: manifestanti a Kharkov richiedono il rilascio degli attivisti detenuti Ansa, 9 aprile 2014 A Kharkov di fronte all’edificio dell’amministrazione regionale si tiene una manifestazione di attivisti filorussi. All’azione partecipano diverse centinaia di persone. Alla richiesta popolare di tenere un referendum locale sulla questione della federalizzazione e alle accuse di illegalità delle autorità di Kiev è stata aggiunta la richiesta di liberare 64 attivisti, arrestati durante l’operazione delle forze speciali. L’ingresso alla sede dell’amministrazione regionale e il territorio intorno al perimetro dell’edificio è protetto dalla polizia. Spagna: riforma giurisdizione universale, scarcerati trafficanti di 10 tonnellate hashish Ansa, 9 aprile 2014 Otto marinai egiziani, che erano stati arrestati da agenti della dogana spagnola in acque internazionali su un peschereccio con 10 tonnellate di hashish, sono stati rimessi oggi in libertà dal giudice dell’Audiencia Nacional, Fernando Andreu, in base alla nuova legislazione sulla giustizia universale. Con la nuova legge, non sussistono i requisiti per processarli, dato che gli arrestati non sono spagnoli, il reato non è stato commesso in Spagna né su una imbarcazione battente bandiera iberica. In mancanza di giurisdizione da parte dei tribunali spagnoli, il magistrato - informano fonti giudiziarie - ha rimesso gli otto fermati in libertà e ordinato la distruzione della droga sequestrata, in un provvedimento in cui lamenta che "per la volontà del legislatore spagnolo" il processo sia rimasto escluso dalla competenza della giustizia iberica. La riforma, approvata dalla maggioranza assoluta del PP in Parlamento, secondo le opposizioni puntava a chiudere il conflitto diplomatico con la Cina, dopo le ordinanze di arresto per il genocidio in Tibet, spiccate dall’Audiencia Nacional nei confronti di 5 dirigenti cinesi, incluso l’ex presidente Jiang Zemin e l’ex primo ministro Li Peng. Ma obbliga anche ad archiviare numerosi processi, aperti in Spagna sulla base della giurisdizione universale nei confronti della criminalità organizzata e per crimini come la violazione dei diritti umani dei detenuti nel carcere di Guantanamo. Israele: ministro Lieberman; no rilascio detenuti palestinesi se l’Anp chiede adesione Onu La Presse, 9 aprile 2014 Il rilascio di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane non avrà luogo se l’Autorità nazionale palestinese (Anp) andrà avanti con la richiesta di adesione alle agenzie delle Nazioni unite. Lo ha detto il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, accusando i palestinesi di aver violato le condizioni dei colloqui di pace mediati dagli Stati Uniti. L’Anp, ha affermato Lieberman, dovrebbe "pagare un prezzo" per quello che sta facendo. Nell’ambito dell’ultima serie di negoziati lo Stato ebraico aveva accettato di rilasciare 104 detenuti palestinesi in quattro tappe, mentre l’Anp si era impegnata a sospendere la campagna mirata a far accettare lo Stato di Palestina da diverse agenzie dell’Onu. Quando i colloqui si sono bloccati il mese scorso, tuttavia, Israele ha rifiutato di rilasciare l’ultimo gruppo di prigionieri secondo il programma. Successivamente il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, ha fatto richiesta di adesione a 15 agenzie e convenzioni internazionali. La mossa, ha detto Lieberman, è stata altamente "provocatoria". "Siamo a favore dei negoziati ma la precedente offerta sul rilascio di prigionieri non esiste più. Chiunque abbia infranto le regole deve assumersene la responsabilità, quindi la precedente offerta non è più valida", ha affermato Lieberman alla radio dell’esercito. Mohammed Ishtayeh, un consigliere di Abbas, aveva detto ieri che le richieste di adesione alle agenzie dell’Onu non saranno ritirate e che la decisione è irreversibile. Intanto il ministro degli Esteri palestinese, Riyad Malki, ha fatto sapere che i suoi omologhi dei Paesi membri della Lega araba si incontreranno domani al Cairo per discutere dell’impasse nei colloqui di pace in Medioriente. Abbas, ha detto Malki, chiederà loro sostegno politico e finanziario. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, sperava inizialmente di raggiungere un accordo di pace tra le due parti entro il 29 aprile, ma successivamente ha detto di voler delineare almeno i punti chiave di una futura intesa. Nelle scorse settimane si era cercato di trovare un accordo per estendere i negoziati fino al 2015; dopo gli ultimi sviluppi, tuttavia, gli Stati Uniti hanno annunciato che rivaluteranno il proprio ruolo di mediazione. Cuba: detenuto statunitense Gross in sciopero fame dopo rivelazione su "Twitter cubano" La Presse, 9 aprile 2014 Lo statunitense Alan Gross, detenuto a Cuba da oltre tre anni, ha cominciato uno sciopero della fame per protestare contro il trattamento ricevuto dai governi di Cuba e Stati Uniti. Lo fa sapere lo stesso Gross tramite il suo avvocato, Scott Gilbert, precisando che la forma di protesta è cominciata giovedì. La nota non precisa se Gross beva, ma sottolinea che il detenuto ha perso 45 chilogrammi da quando è stato incarcerato. Gross fu arrestato nel 2009 e sta scontando 15 anni di carcere. L’arresto giunse dopo avere compiuto diversi viaggi sotto copertura sull’isola come subcontractor per una missione clandestina dell’agenzia governativa statunitense Usaid, mirata a estendere l’accesso a internet usando tecnologie delicate usate solo dagli Usa. Lo sciopero della fame è dovuto anche a quanto rivelato la scorsa settimana da un’inchiesta di Associated Press, dalla quale è emerso che, con un altro programma, la stessa Usaid ha creato sull’isola una specie di "Twitter cubano" noto come ZunZuneo, il cui fine ultimo era quello di provocare una rivolta contro il castrismo. "È scioccante che, una volta che Alan è stato arrestato, Usaid abbia messo in pericolo ulteriormente la sua sicurezza gestendo un’operazione sotto copertura a Cuba", scrive l’avvocato di Gross in una nota. Tunisia: presidente Marzouki approva decreto di grazia per 467 detenuti Nova, 9 aprile 2014 Il presidente tunisino, Mohammed Marzouki, ha approvato un decreto di grazia per 467 detenuti. Dopo aver incontrato ieri nel palazzo presidenziale di Cartagine il ministro della Giustizia e dei Diritti Umani, al Hafez Bin Saleh, il capo dello Stato ha annunciato di aver graziato 467 detenuti in occasione del 76mo anniversario della festa del martire che cade oggi, 9 aprile. La grazia coinvolge detenuti in carcere per reati minori e trasforma la pena capitale comminata ad alcuni in ergastolo. Sudan: rilasciati tutti i detenuti politici su ordine del presidente al Bashir Nova, 9 aprile 2014 Su ordine del presidente sudanese, Omar al Bashir, le autorità di Khartoum hanno rilasciato tutti i detenuti in carcere per reati di tipo politico e di opinione, non legati a fatti di sangue. Secondo quanto hanno annunciato le forze di sicurezza sudanesi, tramite l'agenzia di stampa di Khartoum "Suna", i detenuti politici del paese sono stati tutti liberati su indicazione del capo di stato che ha chiesto "il rafforzamento delle libertà nel paese nell'ambito dell'iniziativa di dialogo con le forze politiche dell'opposizione". Il presidente al Bashir ha infatti avviato un dialogo in particolare con le forze ribelli del Darfour e del Nilo Azzurro per arrivare ad una riconciliazione nazionale e porre fine ai conflitti armati in corso nel paese. La liberazione dei detenuti politici era stata preannunciata due giorni fa da al Bashir durante un discorso pubblico in parlamento.