Cosa sarebbero le carceri, oggi, senza il volontariato? Il Mattino di Padova, 7 aprile 2014 Il 14 aprile il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha convocato le associazioni di volontariato che operano in carcere per una prima occasione di confronto con lo scopo di realizzare "una sorta di task-force che coordini proficuamente le tante iniziative intraprese e formuli proposte per le attività che i detenuti potranno svolgere nelle ore fruite all’esterno delle celle detentive". A quell’incontro è importante che il volontariato ci arrivi però con la consapevolezza del suo ruolo, che è prima di tutto quello, previsto dall’Ordinamento penitenziario, di "promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera": quindi di lavorare per rendere davvero il carcere "più aperto possibile" al confronto con il mondo esterno, e farlo possibilmente coinvolgendo direttamente le persone detenute, che hanno bisogno di prendersi in mano la responsabilità della propria vita più che di essere assistite. Un volontariato che aiuta i detenuti a prendere consapevolezza dei propri diritti Frequento le galere da molti anni e ricordo quando il Ministero della Giustizia iniziò ad autorizzare l’ingresso nelle prigioni a un volontariato laico e organizzato in associazioni. Eravamo alla fine degli anni 80, con l’introduzione della Legge Gozzini, prima di allora era presente un volontariato quasi esclusivamente assistenziale, che provvedeva a rifornire i detenuti particolarmente bisognosi di indumenti e dava loro un "sostegno morale". Con l’istituzione della scuola di tutti i gradi e l’accesso nelle carceri di un volontariato laico, i detenuti hanno cominciato a conoscere persone provenienti dalla società civile senza il filtro delle associazioni religiose, e a sua volta il volontariato ha cominciato a coinvolgere i detenuti nel farsi carico anch’essi dei soggetti più deboli. Sono nate così le prime esperienze di redazioni di riviste realizzate in carcere, rivolte alle persone esterne che nulla conoscevano delle prigioni. Questa forma di volontariato è cresciuta molto e ha prodotto un’evoluzione nella mentalità delle persone detenute, che hanno preso consapevolezza dei propri diritti e delle potenzialità che comporta questo livello di coscienza. Qui a Padova, ci sono diverse tipologie di volontariato, tutte importantissime per il ruolo che svolgono e il coinvolgimento dei detenuti nella scuola e in altre attività. Una fra le più significative è la redazione della rivista "Ristretti Orizzonti", che si rivolge alla società civile con lo scopo di ridurre le distanze tra il carcere e le persone libere. Questo volontariato fa diventare le persone protagoniste di una crescita critica, e lo fa anche organizzando incontri tra i detenuti e gli studenti delle scuole superiori. Io spero che realtà come queste si diffondano, che siano contagiose e vengano percepite come una fra le migliori opportunità di educazione per gli studenti e di rieducazione risocializzante per i detenuti che vi partecipano. La redazione si occupa anche di altre attività di volontariato all’interno della Casa di Reclusione di Padova. Una di queste è lo Sportello di orientamento giuridico e segretariato sociale, in cui operano due ex funzionari dell’Inps che si occupano dei problemi legati alla previdenza e alla sanità, tre volontarie competenti per questioni civili e un volontario detenuto, che sarei io. Questa attività fornisce uno strumento importante per dare risposte ai bisogni di tanti detenuti e stemperare così le tensioni all’interno di un carcere, nel quale stanno quasi il triplo delle persone per cui è stato costruito. Il volontariato, oggi, è diventato una parte fondamentale e irrinunciabile per tutte le realtà penitenziarie del Paese, anche perché lo Stato non è assolutamente in grado di dare risposte alle esigenze delle persone detenute, sia per quanto riguarda le condizioni di vita nelle carceri, che per la funzione rieducativa della pena, e per fortuna che ci sono tanti volontari che aiutano a riempire il tempo vuoto della detenzione. Allora, io giro la domanda rivolgendola alle istituzioni: cosa sarebbe, oggi, il carcere senza il volontariato? Bruno Turci Persone che non ti giudicano per quello per cui sei condannato Quando una persona si trova in una situazione difficile, vede intorno a sé solo le cose che non funzionano e non fa caso a delle realtà, che se non ci fossero la situazione da difficile diventerebbe infernale. In carcere ci sono persone che non lavorano per l’amministrazione né hanno una pena da scontare, sono i volontari. Ognuno con le sue motivazioni personali ha scelto di dedicare parte del suo tempo a delle persone recluse, colpevoli o presunte tali. Proprio per come è strutturato il sistema penale in Italia, e per le condizioni poco umane dovute al sovraffollamento, appena vieni buttato in carcere ti senti una vittima e tendi a vedere come nemici tutti quelli che rappresentano le istituzioni. E spesso tra te e l’istituzione sta proprio il volontariato. Tante volte il volontariato svolge un’attività assistenziale e viene usato per riempire le lacune dell’amministrazione penitenziaria, poi però esiste il volontariato "qualificato", quella parte dei volontari che mostra ai detenuti i propri diritti, cosa che i detenuti o non conoscono, o increduli di poterli ottenere rinunciano a chiederli. In alcune carceri, ai volontari viene impedito di entrare in istituto con varie motivazioni, forse perché si preferisce che non vedano quello che succede all’interno, o li si tratta come se fossero del tutto subalterni e privi di qualsiasi autonomia. Pur con tutte le difficoltà che incontrano, "comunque" queste persone continuano ad entrare in carcere e continuano a denunciare le condizioni in cui sono le prigioni in Italia. Vedere una persona che non ti giudica per quello per cui sei accusato o condannato, che ti chiede come stai e se hai bisogno di qualcosa, è una cosa grande. In un posto dove molte volte vieni abbandonato anche dalla famiglia, sentire qualche parola come "coraggio ci vediamo la prossima settimana…" fa la differenza fra la voglia di farla finita o il continuare a vivere. E proprio in nome di tutti i detenuti e ex detenuti che hanno continuato a vivere proprio per merito del conforto di queste parole dette da un persona sconosciuta, vorrei dire GRAZIE a tutti i volontari che operano con grandi difficoltà nelle carceri italiane. Come disse Martin Luther King "Non ho paura delle parole dei violenti ma del silenzio degli Onesti", io spero che queste persone non si stanchino mai di denunciare gli abusi che riescono a vedere, perché se si stancassero sarebbe una vera tragedia. A volte, con tutte le buone intenzioni, una parte del volontariato continua però ad operare come si fa fuori dal carcere per le persone svantaggiate, cosa che porta a un grande equivoco. Nella società "libera" infatti i volontari hanno a che fare con soggetti "deboli", malati, bambini, anziani, invece in carcere, molte volte, trovi soggetti che proprio per non mostrare la loro debolezza hanno fatto scelte che li hanno portati in questa situazione. Va bene fare qualcosa per loro, ma lavorare "per i detenuti" dimenticando il ruolo che deve avere nel rivendicare i propri diritti la persona detenuta stessa non aiuta quella persona, a cui si vuol dare una mano, a rimettersi in discussione e a ritrovare il senso della sua vita. Clirim Bitri Servono volontari che aiutino i detenuti nel loro percorso verso l’esterno Scrivere qualcosa sul volontariato in carcere non è per niente semplice. In Italia esistono tantissime associazioni che si occupano di detenuti, ma non sempre esiste un vero coordinamento e tanti volontari operano curando il loro proprio "orticello". Però ci sono, sono una vera ricchezza per chi usufruisce dei loro servizi, sono presenti in tantissimi istituti, ma purtroppo non in tutti. Nel mondo di oggi che vive di corsa è bellissimo sentire e vedere persone che dedicano il loro tempo libero ad aiutare altri in difficolta, anche se potrebbero magari passare tutte quelle giornate con i loro famigliari e amici. Non c’è il minimo dubbio che si tratta di persone che hanno una marcia in più, persone speciali. Nelle carceri si trovano uomini e donne che hanno tantissimo bisogno di loro. Il loro aiuto consiste in piccole cose importanti, magari una telefonata ai famigliari, oppure un aiuto con il vestiario, che per un detenuto in un momento di bisogno vale tanto. Anch’io, scrivendo queste righe, mi sono ricordato della mia permanenza in un carcere circondariale dove non esisteva il volontariato e dove tante persone avevano un gran bisogno di tutto, a partire dalle cose di prima necessità che purtroppo non vengono più distribuite dalle istituzioni. Oggi mi trovo al "Due Palazzi" dove il volontariato esiste, ma bisognerebbe potenziarlo visto che siamo in 900 circa. Penso che è giunto il momento di allargare gli orizzonti ed aiutare i detenuti nel loro percorso verso l’esterno, creando un gruppo di volontari che si occupi in modo specifico solo di trovare delle opportunità lavorative fuori, perché senza questo passo il percorso per trovare una nuova strada, che sia davvero alternativa ai reati, è sicuramente incompleto. Noi che sicuramente abbiamo sbagliato nella nostra vita, abbiamo tantissimo bisogno di queste persone, e anche di prendere esempio da loro. Davor Kovac Giustizia: dalla derisione degli "intellettuali" alla deriva autoritaria… il passo è breve di Piero Bevilacqua Il Manifesto, 7 aprile 2014 Riforma elettorale con la proposta di rafforzamento della figura del premier e abolizione del Senato, ma anche il Jobs act, il decisionismo di Renzi. Che il nostro paese sia messo su una china autoritaria lo prova non solo il contenuto delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi e approvate in Consiglio dei ministri. Su queste valga non solo l’appello lanciato da Zagrebelsky e Rodotà, ma anche le osservazioni e le riserve di tanti commentatori, perfino di esponenti e settori moderati della vita politica italiana. Quel che indica il senso di marcia, la direzione dei venti dominanti è il favore popolare di cui gode al momento l’iniziativa del governo, il consenso aperto della grande stampa, come Repubblica (ad eccezione del suo fondatore), l’ibrido e politicamente indistinto coro di approvazione che sale dai vari angoli del paese. E, segno dei tempi non poco significativo, è il concerto di voci ostili, la condanna corriva, il linguaggio scadente fino a essere scurrile contro i critici del progetto di riforme. Costoro vengono bollati come parrucconi, definiti - con una semantica della derisione che capovolge il significato delle parole - "soliti intellettuali", quasi fossero la banda de "I soliti ignoti" del film di Monicelli. È già accaduto che in momenti tristi e difficili della vita nazionale l’intelligenza sia stata derisa. Certo, questo favore confuso e indistinto che soffia nelle vele di Matteo Renzi, non è solo il risultato dell’abilità comunicativa del nostro presidente del Consiglio. A reggere il suo atteggiamento oggi apertamente ricattatorio c’è, come ha scritto Norma Rangeri su questo giornale (1/4) "la forza d’urto dei fallimenti della classe dirigente, a cominciare da quelle forze intermedie, partiti e sindacati, che si riferiscono alla sinistra". Come negarlo? Quali sono state le idee, le proposte, le iniziative mobilitanti che son venute dal Pd in questi ultimi anni, così drammatici per tanti cittadini italiani? Nulla che non fosse l’applicazione dei dettami della politica di austerità imposta dalla Ue, sia dall’opposizione (ultimo governo Berlusconi) sia nel governo Monti e non diversamente nel governo Letta. E qualcuno ha udito, in questi ultimi 4 anni di disoccupazione dilagante, una, una sola idea, una qualche iniziativa all’altezza dei tempi, venir fuori dalla Cgil di Susanna Camusso? Il più opaco e impiegatizio tran tran tran quotidiano ha scandito la vita del maggiore sindacato italiano nel corso di una della pagine socialmente più drammatiche nella storia della repubblica. Si capisce, dunque, il favore, l’impazienza, la fretta, con cui tanta parte del paese guarda al "fare" di Renzi. Dopo tanta inerzia e inconcludenza (ma anche, dovremmo ricordare, dopo tante scelte ferocemente antipopolari) finalmente qualcuno che passa all’azione. Qualunque essa sia. Un’altra e più vasta corrente sotterranea alimenta gli spiriti animali del presente "decisionismo". È la crescente velocità con cui il capitalismo si muove sulla scena mondiale. È la rapidità delle decisioni e delle scelte, di investimenti, di speculazioni con cui multinazionali e gruppi finanziari spostano fortune da un capo all’altro del mondo, condizionando la vita degli stati. È una nuova dimensione temporale (e spaziale) dell’economia che spiazza le antiche cronologie della politica. Di fronte alla celerità degli scambi, degli accordi commerciali, della manovre finanziarie, propria del capitalismo attuale, la politica appare, nelle sue più connaturate forme, come lenta, dilatoria, inconcludente. E la democrazia, che è dialogo, discussione, ponderazione delle scelte, ascolto delle diverse voci, procedura formale, appare un rituale vecchio e obsoleto, incapace di ricadute positive sulla vita dei cittadini. E qui sta il nodo su cui occorre riflettere. È vero, ci sono rituali nella vita parlamentare italiana che oggi non sono più accettabili e occorrerebbe dare all’intera macchina legislativa una maggiore snellezza ed efficienza. Qui la sinistra dovrebbe mostrare maggiore convinzione e originalità di proposta. Ma occorre avere sguardo storico per capire il nodo che ci si para davanti, per non replicare gli errori che ci hanno portato alla situazione presente. La politica appare lenta e inefficiente soprattutto perché essa, per propria scelta, negli ultimi 30 anni ha ceduto moltissimi dei suoi poteri all’economia capitalistico-finanziaria. Dalla Thatcher a Reagan, da Clinton a Mitterand per arrivare ai nostri vari governi, essa si è privata di tanti controlli sulle banche, sui movimenti dei capitali, sui vari strumenti della politica economica. Al tempo stesso, e conseguentemente, ha indebolito i suoi tradizionali legami con le masse popolari, ponendosi così in una condizione di subalternità progressiva nei confronti del potere economico. È la politica che ha favorito il disfrenamento della potenza anonima del mercato. Ciò che oggi appare come una condizione data, quasi naturale, spingendo i commentatori odierni ad accettarla come uno stato ineludibile, un principio di realtà, è di fatto il risultato di una scelta di un’autolimitazione della sovranità statuale. Anche autorevoli osservatori oggi ricorrono alla parola magica globalizzazione, come se si riferissero alla siccità o al maltempo. Ma un più sorvegliato uso delle parole consiglierebbe il ricorso a un altro termine, ora fuori moda: deregulation. Perché questa globalizzazione non è che una forma mondiale di dominio, privato di molti freni e regole da parte dei governi nazionali. Non è - come si vorrebbe far credere - il normale avanzare della storia del mondo. L’attuale impotenza dei governi, la loro incapacità di mettere sotto controllo le iniziative delle potenze infernali lasciate libere di condizionare la vita delle nazioni, li spinge a restringere il campo del comando, a concentrarsi sulla macchina pubblica, sull’efficienza e la rapidità delle decisioni. È la surrogazione di un potere perduto, che cerca un risarcimento limitando gli spazi della democrazia, strappando margini di manovra alla rappresentanza, restringendo il protagonismo delle masse popolari. E cosi riproducendo le cause storiche della propria subalternità. Ma la china autoritaria del governo Renzi si coglie appieno non solo mettendo assieme la riforma elettorale con la proposta di rafforzamento della figura del premier e l’abolizione del Senato. Anche il Jobs act rientra in piena coerenza con la tendenza. Nel momento in cui non si riesce a ottenere da Bruxelles il via libera a una politica economica espansiva, si ricalca con proterva ostinazione il vecchio sentiero. Non si punta su investimenti e sul ruolo decisivo che il potere pubblico potrebbe svolgere in una fase di depressione, ma si cerca di far leva sulla piena disponibilità della forza lavoro alle convenienze delle imprese. È la politica fallimentare degli ultimi decenni. Essa ha creato lavoro sempre più precario, generato bassi salari, indebolito la domanda interna, spinto gli imprenditori a contare sullo sfruttamento della forza lavoro più che sull’innovazione, contribuito a ingigantire la scala della sovrapproduzione capitalistica mondiale alla base della crisi di questi anni. Gli oltre 3 milioni di disoccupati appena censiti dall’Istat sono il seguito naturale di tale storia, nazionale e mondiale. In Italia questa via contribuirà ad allargare l’area del "sottomondo" in cui vivono ormai milioni di persone, con lavori saltuari e mal pagati, privi di certezze, di identità e di speranze: uno solco ancor più profondo fra società e ceto politico. Quando, tra meno di due anni, occorrerà togliere dal bilancio pubblico intorno ai 40-50 miliardi di euro all’anno per onorare il rientro dal debito, come vuole il fiscal compact, occorrerà aver pronto uno stato forte per controllare l’esplosione di conflitti che seguirà alla distruzione definitiva del nostro welfare. Come si fa a non vedere già oggi la curvatura autoritaria che sta prendendo il nostro Stato? Giustizia: intervista Raffaele Cantone "niente arresti per chi ruba? la custodia cautelare così non va" di Silvia Barocci Il Messaggero, 7 aprile 2014 "La politica criminale non spetta alla magistratura ma al Parlamento. Se il legislatore decide di scegliere la strada dei processi con imputati a piede libero lo può fare benissimo, ma se ne deve assumere le responsabilità anche sul piano delle ricadute sull’ordine pubblico. Se questo disegno di legge sarà approvato definitivamente nella versione del Senato, ci saranno conseguenze per quanto riguarda i reati da strada, come il furto, e per quelli contro la pubblica amministrazione". Raffaele Cantone, da poco nominato dal governo presidente dell’Autorità anticorruzione, soppesa ogni aggettivo nel parlare del ddl che riforma la custodia cautelare. Nei vari passaggi parlamentari il provvedimento, presentato dal presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti per rendere il carcere una "extrema ratio", ha subito numerose modifiche. Che stanno mettendo in allarme buona parte della magistratura. Specie l’articolo tre del testo, in base al quale il giudice non potrà disporre la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari se ritiene che all’esito del giudizio l’imputato possa essere condannato a pene inferiori a quattro anni. Presidente, anche lei dunque condivide le preoccupazioni già espresse in proposito dal procuratore capo di Roma, Pignatone? "Innanzitutto una premessa di metodo: il mio intervento, così come quello di altri autorevoli magistrati, non è da intendersi come una interferenza. Quanto accaduto sulle norme del voto di scambio politico-mafioso è la dimostrazione che la collaborazione preventiva, senza preconcetti, comporta un arricchimento". E infatti, dopo gli interventi di Numerosi magistrati antimafia e anche dell’Anm, la norma sul 416 ter è cambiata alla Camera. Pensa che sia necessario procedere allo stesso modo anche con il testo sulla custodia cautelare approvato al Senato? "Intendo portare un argomento di riflessione, se poi il Parlamento vorrà approvare la norma così com’è, sarà giusto rispettarla". Ma cosa non la convince di quel testo? "Innanzitutto il fatto che esclude con forza o rende difficile la custodia cautelare in carcere per gli incensurati. In questo modo si rischia di entrare in contraddizione con tutta un’altra serie di norme approvate anche di recente. Penso, ad esempio, alla legge sul femminicidio: gli autori di questi reati sono quasi sempre incensurati. E lo stesso vale per molti reati contro la pubblica amministrazione (ad esempio corruzione, concussione, peculato, ndr)". E per quanto riguarda il "famigerato" articolo tre del ddl? "Ecco, l’aver previsto l’impossibilità per il giudice di dare misure cautelari in carcere o ai domiciliari, quando presuma che le pene irrogate possano essere inferiori a quattro anni, mi sembra una scelta troppo rigorosa. E anche pericolosa". Perché? "Sarebbero esclusi il furto e la gran parte dei reati da strada. Ma anche molti reati tipici dei "colletti bianchi". La concussione, ad esempio: se l’imputato opta per il rito speciale, difficilmente si arriva a quattro anni. E poi vedo un altro paradosso: non sarà possibile chiedere gli arresti domiciliari neanche per i casi in cui, invece, in esecuzione della pena si potrà ottenere la detenzione domiciliare". C’è altro? "Un’altra contraddizione, poi, è l’aver incluso il voto di scambio politico-mafioso tra i reati per i quali è obbligatoria la custodia cautelare in carcere. Mi sembra che non si tenga conto della giurisprudenza della Corte Costituzionale, secondo cui la previsione assoluta del carcere vi può essere solo per i reati di associazione mafiosa. Troppe volte sulla custodia cautelare si è legiferato sull’onda dell’emotività. Non vorrei che tra qualche tempo, al primo caso eclatante, si debba tornare a rivedere le norme". Ma ci sono punti del ddl che la convincono? "Sì, diversi. La valorizzazione del ruolo del tribunale del Riesame e un maggiore rigore nella motivazione delle esigenze cautelari". Giustizia: gli arresti in Veneto e la magistratura impazzita di Andrea Colombo Gli Altri, 7 aprile 2014 La sola cosa più sconcertante (e più preoccupante) della raffica di arresti in Veneto è il silenzio complice con cui è stata accolta da praticamente tutte le forze politiche, e sorvoliamo per carità di corporazione sulle testate online che tripudiano per la brillante operazione. La situazione è questa: una associazione viene accusata di terrorismo, pur in assenza di qualsiasi atto terrorista o anche solo vagamente violento. Non importa, si preparavano a farlo. Con quali armi? Nessuna, ma il particolare è ininfluente. Meditavano di comprarle dalla criminalità albanese (sic). Insomma volevano insorgere con tre rivoltelle comprate al mercato nero. Ah ma allora almeno le avevano acquistate! No, in effetti no. Però ci avevano pensato. Fosse tutto qui. Disponevano anche di un carro armato. Addirittura? E chi glielo aveva dato? Nessuno. Se lo stavano costruendo da soli nel granaio. Scusi, dottore, ha controllato bene che nell’aia non stessero anche mettendo insieme un F-35 fai-da-te e magari in cantina pure un ordignetto nucleare? Non si sa mai. Sì va bene, ma quelli al telefono ciarlavano di candelotti di dinamite. Parole esplosive: d’ora in poi si potrà dire che le parole non sono più pietre ma bombe. Occhiuta e attenta, la procura di Brescia informa inoltre che i non-insorti svolgevano "una diffusa attività di autofinanziamento". Con le rapine e con i sequestri di persona? No, con "singole elargizioni" e con l’apertura di un fondo presso la banca padana dedicata alla raccolta di fondi. Se non è sovversione questa… Che una cosa simile possa accadere in un paese democratico è letteralmente inconcepibile. Che tutti chiudano gli occhi fingendo che si tratti di una cosa normale rivela che di democrazia, nell’Italia del 2014, si può parlare fino a un certo punto. Quel punto è situato sul confine dell’attività, incontrollata e incontrollabile, di una magistratura che non risponde a nessuno, e a cui più nessuno chiede di rispondere. Giustizia: Salvini (Lega); scarcerate subito i secessionisti… o li liberiamo noi di Alvise Fontanella Il Messaggero, 7 aprile 2014 Il segretario della Lega in piazza a Verona contro gli arresti dei Serenissimi: siamo pacifici ma non fessi, ci chiedano scusa. Flavio Tosi è il solo a non pronunciare la parola "indipendenza", Umberto Bossi il solo a pronunciare la parola "Padania". Sul palco di piazza dei Signori a Verona, davanti al muto palazzo della Prefettura dal quale qualche eccellentissimo "provocatore" ha dato ordine, poche ore prima del raduno leghista, di togliere dall’ asta la bandiera di San Marco, va in scena una nuova Lega, che punta a raccogliere attorno a sé tutti i movimenti indipendentisti che pullulano nel Veneto e fanno proseliti anche in Lombardia. L’intervento "Liberateli tutti, subito - intima Matteo Salvini. Se entro una settimana i 24 arrestati non torneranno tutti a casa, andremo noi alle loro galere, convocheremo la prossima manifestazione davanti alle carceri dove sono rinchiusi, li faremo liberare noi". Salvini grida così la sua rabbia, davanti a lui un mare di bandiere di San Marco, e migliaia di militanti che accolgono l’ultimatum del segretario della Lega alla magistratura con il grido "Veneto libero" e "indipendenza", migliaia che applaudono e saltano a ogni insulto che dal palco gli esponenti della Lega rivolgono allo "Stato occupante" italiano. "L’arresto dei 24 patrioti veneti è una vigliaccata indegna di uno Stato democratico - denuncia Salvini - Sono in carcere esclusivamente per le loro idee, non hanno fatto niente di male, sono in galera solo perché avevano una ruspa e parlavano di indipendenza. Ma questa vigliaccata - continua Salvini - ci ha fatto il regalo di farci capire una buona volta che non ci sono dieci movimenti indipendentisti, che dobbiamo metterci tutti insieme, che qui in Veneto c’è un popolo solo che chiede l’indipendenza". Il senatur Sul palco, a testimoniare l’unità della nuova Lega, sale anche Umberto Bossi: "Donne e uomini padani - esordisce - io sono venuto qui con molti lombardi a testimoniarvi la nostra solidarietà, perché arrestando quei 24 veneti lo Stato ha voluto imbavagliare l’intero popolo veneto, tutti i popoli della Padania, anche i lombardi e i piemontesi, gli emiliani e i romagnoli. I fratelli veneti arrestati, con il loro sacrificio, hanno risvegliato tutto il Nord. Roma non ha capito nulla, ha tenuto nel cassetto il federalismo che noi avevamo fatto approvare, e questo è il risultato, saranno travolti dalla valanga indipendentista". "Rocchetta, Rocchetta", gli grida qualcuno dalla piazza. E l’Umberto si commuove quasi, a ricordare il co-fondatore della Lega Nord col quale il Senatur ruppe nel 1994. "Sì, voglio dirlo: la Lega Nord è nata a Mestre. Senza la Liga Veneta, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile". Quando sul palco sale Luca Zaia, è un’ovazione interminabile. Il governatore del Veneto sa che cosa i militanti vogliono sentire e non si tira indietro: "Liberateli tutti, questo Stato sta processando le idee. Che vadano davanti ai tribunali da uomini liberi. Il Veneto ne ha piene le scatole di Roma e non accetta il messaggio che lo Stato ci manda con questi arresti, un messaggio che ci avverte che chi alza la testa va in galera". Zaia lancia l’appello: "È ora di mettere assieme tutti i nostri movimenti, l’indipendenza non può essere un fatto di partito, è un fatto di popolo". Giustizia: verso l’affidamento, per il Cavaliere assistenti sociali e proibizione di uscire la sera di Valentina Errante Il Messaggero, 7 aprile 2014 Il conto alla rovescia per Silvio Berlusconi sta per finire. Perché per l’udienza di giovedì non sarà chiesto alcun rinvio. Il tribunale di Sorveglianza di Milano deciderà entro il 15 aprile se concedere al condannato a quattro anni per frode fiscale (tre coperti da indulto), l’affidamento ai servizi sociali o se mandarlo ai domiciliari. L’ipotesi della presentazione di un certificato medico, che allunghi ancora i tempi, è del tutto svanita, ma è quasi certo che giovedì, in udienza, saranno presenti soltanto i legali di Berlusconi, l’ex premier non sarà in aula. L’udienza All’udienza di giovedì, la prima, sarà esaminata l’istanza presentata dagli avvocati Franco Coppi, Niccolò Ghedini e Pietro Longo che, per Berlusconi, hanno chiesto l’affidamento in prova ai servizi sociali in alternativa alla detenzione domiciliare. Il giudice relatore, Beatrice Crosti, illustrerà la pratica, quindi toccherà al sostituto procuratore Antonio Lamanna esporre il proprio parere, e spiegare perché all’ex premier possa essere concesso l’affidamento ai servizi sociali o se, piuttosto, debba scontare ai domiciliari la pena confermata dalla Cassazione. Sembra escluso che il Tribunale, presieduto da Pasquale Nobile De Santis, scelga l’opzione più pesante per l’ex cavaliere. Soprattutto in considerazione dell’età e del fatto che quella della scorsa estate è la prima condanna definitiva. In base al codice, la decisione, del collegio, composto da Nobile De Santis, Crosti e due esperti esterni, dovrebbe arrivare entro cinque giorni. L’appello per il processo Ruby comincerà il prossimo giugno. Il provvedimento Il collegio difensivo di Berlusconi, nell’istanza presentata scorso 11 ottobre, non ha individuato un ente o un’associazione dove l’ex premier possa saldare il proprio debito con la giustizia. Sarà l’ordinanza del Tribunale a indicare dove e con quali modalità il condannato debba svolgere il percorso di riabilitazione. L’ipotesi nella quale spera la difesa è che a Berlusconi sia concesso di fare tutto in casa propria, con periodici colloqui con gli assistenti sociali. Ad Arcore, o a Palazzo Grazioli, dove l’ex premier ha spostato la residenza alla vigilia della sentenza di agosto. L’ordinanza stabilirà, comunque, una serie di prescrizioni relative alla libertà di movimento e agli orari da rispettare. Obblighi che possono arrivare al divieto di uscire di casa la sera o di frequentare determinati posti e persone. Berlusconi sarà costretto a osservare le restrizioni, salvo deroghe concesse caso per caso. Esclusi i viaggi all’estero. All’ex premier è già stato ritirato il passaporto. Se, dopo i primi sei mesi, i magistrati daranno una valutazione positiva, l’ex premier potrebbe ottenere uno sconto di 45 giorni. Veneto: Presidente Zaia; secessionisti siano giudicati da liberi… il carcere è troppo Agi, 7 aprile 2014 La misura del carcere per i secessionisti viene giudicata eccessiva dal presidente del Veneto Luca Zaia. "Liberiamoli tutti nel senso che si possano acclarare le singole posizioni presso i tribunali sentendo questi signori e signore da persone libere, pensare che 24 persone siano comunque costrette a dei provvedimenti e ad essere in carcere a me sembra una misura sovradimensionata rispetto a quello che hanno commesso". Lo ha detto a margine del Vinitaly e in vista della manifestazione della Lega organizzata a Verona nel pomeriggio per sostenere i secessionisti che mercoledì scorso sono stati arrestati. Zaia ha spiegato inoltre di aver incontrato la stampa straniera per "spiegare cosa sta accadendo in Veneto: è qualcosa di particolare, un sentimento indipendentista e autonomista assolutamente ubiquitario, trasversale alle classi sociali. È un grido d’allarme che - ha aggiunto Zaia - viene dalla periferia dell’impero che non ce la fa più e che affronterà formalmente il nuovo provvedimento in consiglio regionale, ovvero l’indizione di un referendum. Io sostengo la linea ghandiana della legalità e quindi quello che sostanzialmente sta avvenendo in Catalogna per il governo della Catalogna e quindi per il referendum catalano". Sardegna: Pili (Unidos); chiusura scuola per il personale penitenziario atto contro l’Isola L’unione Sarda, 7 aprile 2014 "Chiudere la scuola di formazione professionale del personale penitenziario di Monastir è l’ennesimo attacco del Ministero della Giustizia alla Sardegna, aggravato dall’ipotesi di trasferire in quei locali il centro di prima accoglienza degli immigrati clandestini". La denuncia è di Mauro Pili, deputato sardo di Unidos, in un’interrogazione parlamentare. "Si tratta - spiega - di un’ulteriore dimostrazione di come il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria agisca nei confronti della struttura carceraria sarda e con quale dispregio agisca nei confronti del personale penitenziario che vedrebbe cancellata una struttura di primo livello che da sempre è la fucina degli agenti e del personale addetto alla sicurezza delle carceri". Per Pili la chiusura è "l’ennesimo tentativo di colpire i servizi e le strutture carcerarie della Sardegna puntando questa volta al cuore della formazione professionale vero valore aggiunto in un sistema carcerario debole sul piano delle carenze d’organico e difficile da gestire". Per il deputato Unidos la visita alla struttura del prefetto di Cagliari "per la dislocazione nella struttura formativa di Monastir del Cpa di Elmas costituisce l’ennesimo e ulteriore tentativo da parte del Dap di indebolire la struttura carceraria e formativa ai danni dei sardi e dei dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria, sia del Corpo di Polizia Penitenziaria che del Comparto Ministeri". Roma: detenuto anoressico morto in cella, tre medici di Regina Coeli alla sbarra di Vincenzo Imperitura Il Tempo, 7 aprile 2014 Omisero di informare i giudici sul profilo psichiatrico del paziente. "L’atto in cui si parla di anoressia è una semplice relazione, non una diagnosi". Questo, in estrema sintesi, il senso delle dichiarazioni spontanee rilasciate da uno dei medici che avevano in cura Simone La Penna, trentaduenne morto nel carcere di Regina Coeli dove era rinchiuso, dopo avere perso 34 chili in una manciata di mesi (quasi la metà del peso corporeo della vittima al momento del suo arresto). Una morte assurda quella del giovane viterbese - condannato a due anni e 4 mesi di carcere per possesso di stupefacenti - che ha portato alla sbarra, per omicidio colposo, il direttore sanitario del carcere Andrea Franceschini e i medici Giuseppe Tizzano e Andrea Silvano che lo ebbero in cura dopo il suo trasferimento dalla casa circondariale di Viterbo. Ed è proprio sulla diagnosi di anoressia e sul mancato supporto psichiatrico al paziente che gira il fulcro del processo. I tre imputati devono infatti rispondere del fatto che, nonostante il trasferimento di La Penna dal carcere di Viterbo fosse stato motivato con "diagnosi di anoressia e vomito con calo ponderale e episodi di ipokaliemia", la terapia specialistica fu iniziata solo 43 giorni dopo. Un ritardo inspiegabile aggravato dalla mancata verifica sulla effettiva somministrazione della terapia psichiatrica e dal fatto che i medici nel tentativo "di contenere il progressivo deterioramento delle condizioni di salute di La Penna, omettevano di assumere, di propria iniziativa, le determinazioni mediche per favorire il trasferimento del detenuto presso una struttura sanitaria in grado di fronteggiare al meglio la patologia". E ancora: gli imputati, non solo ignorarono a lungo la necessità del supporto psichiatrico ma, sollecitati dal tribunale del riesame che doveva esprimersi sul possibile trasferimento in ospedale del detenuto, omisero di segnalare nella relazione il profilo psichiatrico della patologia e omisero "qualsiasi informazione in ordine al notevole e allarmante calo ponderale subito da La Penna dal momento del suo ingresso presso la struttura (il reparto medico del carcere di Regina Coeli)", esprimendo un giudizio di compatibilità del detenuto con il regime carcerario: detenuto che morì appena 18 giorni dopo. Una brutta storia quella della morte di Simone La Penna; una brutta storia esplosa contemporaneamente al "caso Cucchi" e che riporta in primo piano la situazione al collasso delle carceri italiane. Una morte che avrebbe potuto essere evitata e che invece è andata ad allungare il lunghissimo elenco dei "morti di carcere". Tempio P.: (Osapp); mensa carcere chiusa per alimenti scaduti e condizioni igieniche Adnkronos, 7 aprile 2014 "Alimenti scaduti e condizioni igieniche al di sotto degli standard hanno determinato la chiusura della mensa di servizio della Casa Circondariale di Tempio Pausania". La denuncia arriva dal segretario generale aggiunto dell’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Domenico Nicotra, che dichiara che "il provvedimento adottato dalla Direzione del carcere si è reso indispensabile dopo diverse segnalazioni sindacali e l’ispezione effettuata dai membri della commissione mensa accompagnati dal comandante del Reparto e del suo vice". "L’ispezione - continua Nicotra - è stata effettuata dopo che nella mattinata di ieri le addette alla mensa non si sono presentate sul posto di lavoro e pertanto è stata colta l’occasione per verificare le doglianze che da tempo il sindacato e il personale lamentavano. Speriamo - conclude Nicotra - che una volta fatta chiarezza sulle motivazioni di tale condotta la Direzione del carcere sardo avvii un’indagine di mercato finalizzato ad individuare una nuova ditta che possa garantire pasti decenti al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria". Padova: martedì ad Abano Terme convegno nazionale del Sappe sul tema "più lavoro per i detenuti" Ristretti Orizzonti, 7 aprile 2014 Umanizzare la pena in carcere attraverso il lavoro dei detenuti. È la proposta del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, che martedì 8 aprile affronterà in un Convegno ad Abano Terme (in provincia di Padova) il tema della realtà penitenziaria italiana. Tra le soluzioni indicate dal Sappe per una nuova esecuzione della pena in Italia, un potenziamento del lavoro per i detenuti e un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione, con impiego in lavori di pubblica utilità, per i condannati meno pericolosi socialmente e con pene brevi da scontare. Ma oggi a lavorare in carcere, evidenzia il Sappe, è solamente un detenuto su cinque: troppo pochi, Il convegno, in programma con il XXV Consiglio Nazionale del Sappe (che si svolgerà, sempre ad Abano Terme, il 9 e 10 aprile 2014), sarà introdotta dalla relazione del Segretario Generale Sappe, Donato Capece, e vedrà tra gli altri gli interventi di Cosimo Maria Ferri, Sottosegretario di Stato alla Giustizia, Luigi Pagano, Vice Capo vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Linda Arata. Magistrato di Sorveglianza presso l’Ufficio di Padova, Gianni Trevisan, presidente della Cooperativa Sociale "Il Cerchio" di Padova, Nicola Boscoletto, Presidente di Officina Giotto (famosa in tutto il mondo anche per i panettoni prodotti nel carcere dai detenuti di Padova) e Rita Bernardini, segretaria dei Radicali Italiani. "Vivo apprezzamento per l’iniziativa" del Sappe l’ha espresso in un messaggio il Quirinale, che ha indirizzato al Segretario Generale Capece ed a tutti gli intervenuti "il saluto cordiale del Presidente della Repubblica" Giorgio Napolitano. "Nell’ottica di un ripensamento del sistema sanzionatorio e di una rimodulazione dell’esecuzione della pena, indispensabili per superare la realtà di degrado civile e di sofferenza umana riscontrabile negli istituti e adempiere a precisi obblighi di natura costituzionale", scrive il messaggio giunto dal Quirinale, "esprimo vivo apprezzamento per l’iniziativa di porre al centro del dibattito la necessità di favorire il coinvolgimento dei detenuti in progetti lavorativi". "L’attivazione di nuovi percorsi di formazione e lavoro, che possano aiutare il detenuto ad acquisire professionalità utili al futuro reinserimento sociale", prosegue il messaggio della Presidenza della Repubblica "costituisce infatti il più valido strumento di emancipazione da situazioni di devianza e criminalità e di rispetto della dignità personale contribuendo a riaffermare la funzione rieducativa della pena". Eppure, dai dati diffusi dal Sappe, si rileva che a lavorare è solamente un detenuto su 5: "il 23 per cento circa dei presenti, per altro per poche ore al giorno e pressoché esclusivamente in impieghi interni di cucina, pulizia, manutenzione, etc.". Roma: per Vivicittà detenuti e podisti dentro Rebibbia, alla maratona anche Totò Cuffaro di Manuel Massimo La Repubblica, 7 aprile 2014 Appuntamento alle 8 nel penitenziario romano: 91 ospiti della Casa circondariale hanno gareggiato insieme ai 107 esterni, atleti provetti o semplici appassionati. In gara tra i reclusi anche l’ex governatore della Sicilia. Una domenica diversa dal solito per 91 ospiti della casa circondariale del nuovo complesso di Rebibbia che hanno corso spalla a spalla con 107 "esterni" lungo le mura perimetrali del carcere per la "Vivicittà" organizzata dall’Uisp (Unione italiana sport per tutti), manifestazione podistica giunta quest’anno alla sua trentunesima edizione. Due percorsi, uno competitivo da 12 chilometri e uno non competitivo da 4, a quest’ultimo ha preso parte anche l’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, ma un’unica linea di partenza e un solo obiettivo per tutti: correre insieme, arrivare al traguardo e promuovere i valori dello sport e della solidarietà. A Roma come in tante altre città. Presenti al via il direttore del carcere di Rebibbia Mauro Mariani, la vicedirettrice Anna Del Villano, il presidente dell’Uisp Roma Gianluca Di Girolami e l’ex pentatleta Luca Pancalli - oggi assessore capitolino alla qualità della vita, sport e benessere - in rappresentanza del sindaco di Roma Ignazio Marino: "Il Comune sostiene questa manifestazione: un veicolo di comunicazione sociale che va oltre le classifiche e promuove i veri valori dello sport", ha dichiarato Pancalli pochi minuti prima della partenza. Il via è stato dato in diretta radiofonica da Radio1 Rai alle 10.30. Gli "esterni", podisti provetti o semplici appassionati di corsa, si sono svegliati di buon mattino per arrivare a Rebibbia alle 8 e attraversare le sbarre lasciando fuori i telefoni cellulari e tutti i collegamenti diretti col mondo esterno per poter entrare e fare riscaldamento nel piazzale antistante la Cappella del carcere. I detenuti indossavano tutti la maglietta color vinaccia della manifestazione: il solo tratto distintivo che li caratterizzava rispetto a chi - venendo da fuori - correva con la divisa sociale della squadra di appartenenza o con canottiere e pantaloncini anonimi. Pettorali, classifiche e percorsi uguali per tutti. Tra i reclusi l’entusiasmo per questa giornata è palpabile: non si tratta della solita "aria" da consumare in un cortile, ma pur sempre in gabbia, quanto piuttosto di una vera passeggiata a contatto con la natura - che tra i viali del carcere cresce rigogliosa - e con altre persone venute apposta da fuori per condividere un momento di sport. Tutti di corsa in fuga per la vittoria, che per molti è rappresentata dal solo fatto di poter partecipare e correre liberi spalla a spalla con decine di altre persone. Il primo classificato sul percorso di 12 chilometri è un atleta delle Fiamme Azzurre, ma oggi si vinceva semplicemente prendendo parte alla gara. Poca voglia di parlare, ma per qualcuno la presenza di un taccuino - dietro la garanzia dell’anonimato - rappresenta la possibilità di far uscire parole che altrimenti resterebbero relegate nelle pagine di un diario o sul muro di una cella: "manca l’acqua calda"; "siamo in sei in una cella di quattro metri per tre dove mangiamo e facciamo i nostri bisogni"; "qui sopravviviamo". Chi invece non si è sottratto a qualche domanda è stato l’ex governatore della Sicilia "Totò" Cuffaro - condannato in via definitiva a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio - che da gennaio 2011 sta scontando la sua pena proprio nel carcere romano. Si è presentato alla partenza con il pettorale n. 4053, rasato di fresco e pronto a correre: "In carcere sono venuti a trovarmi parlamentari di tutti gli schieramenti, tranne i grillini. Berlusconi no, ma mi ha scritto". Per pensare al futuro c’è ancora tempo, ma Cuffaro ha le idee chiare: "Quando esco farò l’agricoltore e, se posso, anche il medico: sono radiologo". Ma oggi, per tutti, è stata una domenica diversa e nei corridori con la maglietta color vinaccia prevale la voglia di godersi la gara: correndo a perdifiato o passeggiando, per un giorno "liberi" a pochi metri dalla libertà vera. Oggi vicina più che mai. Roma: per errore rimase in carcere tre anni con l’accusa di omicidio, ritrovata cadavere in casa di Marco De Risi Il Messaggero, 7 aprile 2014 C’era un dramma nella vita di Adriana Vasilica Jacob, la romena di 45 anni trovata morta nella sua abitazione a Tor Vergata venerdì mattina in circostanze ancora tutte da chiarire. La straniera, infatti, fu vittima di un clamoroso errore giudiziario. Venne accusata di un omicidio che, in realtà, non fu mai commesso. Un caso di malagiustizia per cui scontò addirittura tre anni di carcere. E quando le venne riconosciuto un risarcimento per 210mila euro, l’Avvocatura dello Stato riuscì a impugnare la decisione sostenendo che lei, alcolizzata cronica, col suo comportamento trasse in inganno gli investigatori che ipotizzarono che a uccidere l’anziana a cui badava fosse stata proprio lei. Insomma fu tutta colpa sua. Poco importa che l’anziana, come si appurò dopo, fosse deceduta per cause naturali. Di tutta questa brutta storia, Adriana Vasilica Jacob, non era mai riuscita a liberarsi. E per questo ancora adesso, nei suoi ultimi giorni, soffriva di una profonda depressione senza poi, come hanno verificato gli inquirenti, riuscire a lasciarsi alle spalle i problemi d’alcolismo. Sarà l’autopsia, che si terrà nei prossimi giorni al policlinico di Tor Vergata, a stabilire se le lesioni trovate sul corpo della romena siano dovuta a cause naturali oppure no. A trovare il cadavere, il fidanzato preoccupato per non averla sentita dal giorno prima, dopo che la poveretta gli aveva mandato un sms dicendo di non sentirsi molto bene, che aveva litigato con qualcuno ricevendo pure un pugno. Una storia assurda quella di Adriana Vasilica, che suscitò anche un’interrogazione parlamentare da parte del partito Radicale. Ma andiamo con ordine. È l’8 gennaio del 2008 quando Paola Iori, un’anziana di Albano, accudita da Adriana, viene trovata prima di vita nella sua abitazione. La badante romena viene arrestata per omicidio. Passa tre anni in carcere e viene condannata in primo grado, nel 2009, a 14 anni dalla Corte d’Assise di Frosinone. Ma durante il processo d’Appello, alla fine del 2011, viene fuori la sconcertante verità: l’anziana non è stata uccisa. Lo stabiliscono senza ombra di dubbio le nuove perizie: Paola Iori è morta a causa per un infarto e a fratturarle le costole "post mortem" è stato il massaggio cardiaco dei medici del pronto soccorso. La donna romena, attraverso il suo legale chiede quello è previsto dalla legge: un indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ma ad Adriana viene negato anche questo e si scatena una battaglia legale. "La Jacob - si legge nel ricorso dell’Avvocatura generale dello Stato - si rifugiava in un uso smodato di sostanze alcoliche. Tale condizione, in aggiunta della presenza di gravi lesioni sul corpo della persona che doveva accudire e ai cattivi rapporti di colei che doveva assistere, ha ingenerato il grave sospetto di omicidio anche per sua colpa". Teatro: "Siamo tutti detenuti", intervista ad Armando Punzo, creatore della Compagnia della Fortezza di Katia Ippaso Gli Altri, 7 aprile 2014 Fai una quasi monografia sul carcere e pensi ad Armando Punzo, alla sua Compagnia della Fortezza a Volterra. Poi parli con Punzo e capisci che siamo tutti vittime di automatismi, e che questi automatismi sono un po’ anche le nostre celle. E allora invece di chiudere il discorso, tenti di aprirlo, anche se a volte certe dichiarazioni possono farci saltare in aria, ma ogni tanto vale la pena di saltare in aria, perché magari c’è un’altra scena ancora da vedere, dentro e fuori di noi. In mano abbiamo un libro importante, appena uscito, È ai vinti che va il suo amore (Edizioni Clichy, pp.336, 25 euro) che raccoglie 25 anni di materiali esistenziali e teatrali. Un vaso di Pandora, da cui si possono tirare fuori visioni molto poco rassicuranti, discorsi in prima persona che non possono non riguardare tutti, coloro che non sono liberi e noi che ci crediamo liberi. Cito dal suo libro: "Non mi interessano quelli che si interessano di carcere in una maniera buonista e migliorista opposta ad una forcaiola. Tutti non fanno che confermare il carcere per quello che è, cioè lo immettono nella Storia". Che cosa vuol dire esattamente? Io non credo a chi si limita a dire: aboliamo il carcere! Se un’affermazione come questa non viene supportata da una pratica efficace, allora è pura ideologia. E non solo. L’effetto di queste affermazioni generiche è che si produce ancora più prigione, nel senso che alza ancora di più le mura e non si libera nessuno. Dire cose di questo tipo può creare una illusione di libertà in chi le dice nel momento in cui le dice, ma non si pensa veramente ai detenuti né tantomeno a come è fatto un uomo. E lo dico dopo un’esperienza di quasi 26 anni dentro il carcere di Volterra. Anche chi si occupa del carcere, se ne occupa con un senso realistico che non può che essere parziale. Per quanto sia un’azione illuminata quella di denunciare la situazione mostruosa di sovraffollamento (come si fa a non essere d’accordo?), non basta dire questo, bisogna agire in senso trasformativo. È meglio fare così che non farlo, d’accordo. Ma non risolve la rimozione in corso. Quale è il tabù? Innanzitutto il problema delle prigioni non interessa a nessuno. Ma la faccenda è più complessa e per cercare di spiegarla ricorro a Genet. Lui diceva: se vogliamo occuparci di questo mondo chiamiamolo marginale, diverso, non possiamo pensare di "complimentarci" con queste persone dai vissuti difficili per i percorsi che hanno fatto e perché sono diventate delle brave persone. Solo riuscendo come cittadini e spettatori a provare "pietà", compiamo delle azioni cariche di verità. Il tabù sta nella pena stessa. Il tabù sta nella vista del male. Chi commette un’azione criminale, è tutto nell’azione che ha commesso. Non è forse legittimo cercare la verità e aspirare alla libertà? È legittimo aspirare a un mondo in cui non ci siano più le prigioni. Sarebbe la realizzazione di un’umanità completamente altra, cosa a cui lavoro e a cui penso tutti i giorni. Ma nel modo tutta la differenza tra chi fa qualcosa e chi si limita a fare dichiarazioni retoriche. Per me il teatro è una possibilità concreta. Stiamo parlando del lavoro dell’immaginario che sposta la realtà… Il carcere in un certo senso non esiste, nel senso che è un’invenzione umana. Il carcere è un pensiero, una delle strutture che l’essere umano ha dentro. E queste strutture tu puoi metterle in crisi. Come detenuto, puoi fare un percorso di consapevolezza per affrancarti dalla prigione, anche se resti dentro perché non hai finito la pena da scontare. C’è un modo per uscire fuori dalla propria biografia, dalla propria storia, un modo talmente forte da far sì che il carcere si dissolva. E questo non vale soltanto per i detenuti. Io per esempio sono visto come quello che fa il teatro con i delinquenti, ma non si capisce come tutto questo sia metafora della vita. Per questo ho voluto scrivere il libro, per dire come la pensavo io. Lei parla di questi venticinque anni come direttore artistico della Compagnia della Fortezza come anni di "autoreclusione". Rispetto alla vita, io mi sento un detenuto/cittadino. Però nel carcere si può anche trovare la luce. Parlo della possibilità di pensare come filosofo, di operare una radicale trasformazione di sé, che non significa ovviamente avere l’opportunità di leggere in carcere. Quelle sono sciocchezze. Il detenuto lasciato a se stesso, rinchiuso per un numero infinito di ore, produce solo dolore e odio. In questo modo, nessuno si affranca da nulla. Certo, il carcere ti ferma. L’arresto è l’arresto. Quale è la sua concezione, anzi l’esperienza, del male? Io di azioni eclatanti in quel senso non ne ho mai fatte, ma le ho pensate tante volte. Ognuno di noi ha dentro una porzione di male. Bisogna vedere quale è la parte di me giocata nell’esperienza del male. Lei oppone il "reale", che è il luogo del conforme e della violenza tutta interna alla normatività, al "teatro", capace di creare metamorfosi. L’esperienza di Volterra ha creato un innesto tra questi due mondi. E in che modo si può parlare di libertà? Un individuo non libero (almeno per noi è così) rimane un individuo non libero. Dal momento che è soggetto ad una rimozione continua, il carcere è un luogo del reale. Io adesso sono dentro la mia casa a Volterra e guardo fuori e vedo una piazza, un campo sportivo, delle case. In questa mappatura di Volterra c’è anche il carcere. Che cosa voglio dire? Che il carcere è ovviamente un luogo oscuro, un luogo che non vogliamo conoscere, che espelliamo da noi, ma è un luogo umano, cioè è un luogo dell’umanità. È un luogo dentro l’uomo. È una architettura che conosciamo benissimo perché è tutta interna all’uomo. Il carcere mi ha sempre interessato perché io mi sento prigioniero. Stando in un luogo che è rappresentazione concreta di questo mio essere prigioniero, io incontro una struttura carceraria con le sue stanze e i suoi meccanismi di prigionia che riconosco molto bene. Ma le riforme si fanno per chi la libertà non ce l’ha. Da una parte c’è un lavoro politicamente giusto, ma le riforme devono essere fatte con grande consapevolezza. Se applichi certe riforme a Volterra, è una cosa, siamo già preparati, ma se per esempio applichi le stesse riforme a Poggioreale, dove non è stato fatto con i detenuti nessun tipo di lavoro, allora è chiaro che c’è il rischio dell’esplosione della violenza a tutti i livelli. In "relazione per un’Accademia", il personaggio di Kafka dice che non esiste "libertà", ma solo "una via d’uscita, una via di fuga". Non mi piace pensarmi in fuga. A me piace pensare di costruire altra realtà. In tutte cose che faccio l’esigenza primaria non è quella di rappresentarmi una realtà, ma di creare realtà. Foucault dice che si è inesorabilmente fuori dal fuori. Questa è la questione da porsi. Se è mai possibile essere fuori. E io penso che in un ceto senso è possibile.. È quello che dice Aniello Arena (ndr. l’attore della Compagnia della Fortezza premiato con il Nastro d’Argento per Reality di Matteo Garrone) quando dice: "Il mio corpo si ritira dentro, ma io sono fuori". Sudan: il Presidente al Bashir annuncia liberazione detenuti e offre garanzie a ribelli Nova, 7 aprile 2014 Il presidente sudanese, Omar al Bashir, ha annunciato la liberazione di un gruppo di detenuti politici rinchiusi nelle carceri di Khartoum, così come ha offerto garanzie ai gruppi ribelli nel caso in cui aderissero al suo piano di dialogo nazionale. In un discorso pubblico tenuto ieri sera, durante un incontro con le forze politiche sudanesi nell’ambito del processo di dialogo da lui avviato, il presidente sudanese ha annunciato che "sarà permesso a tutte le forze politiche, sia quelle presenti stasera che quelle assenti, di svolgere liberamente la propria attività così come garantirò libertà di informazione e di stampa".