Giustizia: le bugie del ministro Orlando sull’emergenza carceri di Valerio Federico (Radicali Genova) www.radicali.it, 6 aprile 2014 Così il governo italiano sembra intenzionato ad affrontare l’ultimatum dato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per risolvere la disumana emergenza del sovraffollamento carcerario…. Negli ultimi giorni, a poco meno di due mesi dal termine fissato dalla Corte, il ministro della giustizia Andrea Orlando e il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) si sono esibiti in un’imbarazzante e contraddittoria attività mistificatoria, piuttosto emblematica dello scarso interesse a volere effettivamente uscire dalla situazione di sostanziale flagranza criminale in cui si trova lo Stato italiano. Tutto comincia lo scorso 25 marzo, quando il ministro Orlando vola a Strasburgo per incontrare i vertici del Consiglio d’Europa e della Cedu, e per anticipare loro le misure che il governo starebbe sviluppando per porre rimedio all’emergenza carceraria. Dopo aver ribadito di non ritenere necessari "provvedimenti eccezionali" come amnistia ed indulto, il Guardasigilli chiede con molta fierezza che "si apprezzi e si dia una valutazione sugli interventi strutturali che stiamo facendo". A quali misure "strutturali" faccia riferimento il ministro, in realtà, è difficile comprenderlo. L’unico provvedimento preso da un anno a questa parte, il famoso decreto "svuota carceri", nonostante l’appellativo affibbiatogli dai soliti giustizialisti di professione non svuota un bel nulla ed incide in maniera solo minima sulla situazione delle carceri. Oltre a questo decreto, il vuoto. Pensare dunque di rassicurare in questo modo le autorità europee appare, alla prova dei fatti, piuttosto complicato, e rende vana la speranza di scacciare via lo spettro dei 50-100 milioni di euro all’anno di probabili multe. A far discutere, comunque, sono stati soprattutto i numeri forniti dal ministro Orlando. L’ex ministro dell’Ambiente ha affermato che, a fronte di 60.800 detenuti, la capienza regolamentare delle carceri è oggi di circa 50mila posti. Un dato che contraddice le cifre comunicate dal suo predecessore, Annamaria Cancellieri, che, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 fissava la capienza "regolamentare" a 47.599 posti, aggiungendo tuttavia un particolare già noto agli addetti ai lavori: "Il dato subisce una flessione abbastanza rilevante (quantificabile in circa 4.500 posti regolamentari) per il mancato utilizzo di spazi a causa degli ordinari interventi di manutenzione o di ristrutturazione edilizia". I posti disponibili nelle carceri, insomma, non sarebbero "circa 50mila", bensì, per inagibilità delle strutture, circa 43mila, ben 7mila in meno di quanto dichiarato dal ministro Orlando. A rendere ancor più imbarazzante la posizione del ministero ci ha pensato il capo del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), Giovanni Tamburino, che in un’intervista ha parlato, anche lui, di 50mila posti regolamentari nelle carceri. Il comportamento tendenzioso del ministro e del capo del Dap ha mandato su tutte le furie la segretaria nazionale di Radicali italiani Rita Bernardini, giunta al suo 34esimo giorno di sciopero della fame: "È troppo chiedere al Governo e al Ministro della Giustizia Andrea Orlando che sia rispettato il diritto alla conoscenza del popolo italiano, mentre l’Italia è da anni condannata per la "tortura" in carcere e per la giustizia negata a causa dell’ "irragionevole durata" dei processi?". A mettere la parola fine alla diatriba è stato paradossalmente proprio il Dap, che, in una contraddittoria nota, dopo aver definito le parole di Bernardini "diffamatorie", ha di fatto smentito se stesso e il suo titolare, dando ragione ai radicali: "Il numero esatto dei posti detentivi effettivi disponibili è di 43.547". Vale a dire, sottolinea la segretaria radicale, "4.762 posti in meno della capienza regolamentare finora pubblicizzata ai quattro venti". Piuttosto che cercare di "barare" sui numeri, in definitiva, il capo del Dap e soprattutto il ministro della Giustizia farebbero meglio a delineare possibili soluzioni alla costante violazione dei diritti umani all’interno delle carceri italiane. Dato il lungo letargo della politica e viste le ultime arrampicate sugli specchi, il ricorso ad un’amnistia risulta ormai essere non solo auspicabile, ma indispensabile. Giustizia: dal Senato via libera a ddl riforma custodia cautelare, testo torna alla Camera Asca, 6 aprile 2014 Via libera dell’Aula del Senato al ddl che modifica il codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Il testo, già approvato dalla Camera e modificato durante l’esame a palazzo Madama, torna dunque a Montecitorio. Scopo del provvedimento è ridurre il sovraffollamento carcerario e limitare l’ambito applicativo della custodia cautelare. Gli articoli da 1 a 3 prevedono che il giudice non possa desumere esclusivamente dalla gravità del reato le situazioni di concreto e attuale pericolo. Inoltre, la misura della custodia cautelare non può essere applicata se il giudice ritiene che, all’esito conclusivo del giudizio, possa essere sospesa la pena. L’articolo 4 introduce il principio di residualità secondo cui la custodia cautelare in carcere può essere irrorata quando altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate. L’articolo 5 salvaguarda, per i reati più gravi, l’impostazione che riconduce l’applicabilità della misura cautelare all’astratta esigenza di far fronte al pericolo di fuga, all’inquinamento delle prove e alla reiterazione del reato. Per tutti gli altri reati, si prevede che, nel disporre la custodia cautelare in carcere, il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari. L’articolo 6 prevede che, in caso di trasgressione delle prescrizioni relative agli arresti domiciliari, il giudice dispone la revoca della misura. L’articolo 9 introduce la facoltà di applicare congiuntamente misure coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere. L’articolo 11 introduce modifiche al codice penale anche al fine di risolvere alcune controversie applicative circa il procedimento di riesame delle ordinanze che dispongono l’irrogazione di una misura coercitiva. L’articolo 13 prevede il potere del giudice di decidere, entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, l’ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva, qualora essa sia stata annullata con rinvio su ricorso dell’imputato. Giustizia: l’allarme del Pm di Roma Pignatone "stanno rendendo impossibile l’arresto" di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2014 L’ultimo allarme è arrivato dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone: "Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per delitti che considero di un certo allarme sociale", ha detto a un convegno. Si riferiva agli esiti della riforma della custodia cautelare, approvata il 2 aprile dal Senato e ora passata alla Camera. Con gli ultimi emendamenti approvati, il giudice non potrà disporre il carcere e neppure la detenzione in casa, se è prevedibile che l’indagato possa essere condannato a pene inferiori a 4 anni di carcere. "Questo significa lasciare fuori la corruzione e gli altri reati tipici dei cosiddetti colletti bianchi, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, malversazioni e altre violazioni di tipo economico", ha spiegato Pignatone. "Ma non solo: il legislatore deve sapere che così non si potrà arrestare nemmeno chi compie delitti di strada come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in una banca impugnando il kalashnikov". La legge che modifica la custodia cautelare ha una storia lunga. Il Pd aveva presentato in Parlamento un testo su questa materia anche nella scorsa legislatura. Ne ripropone uno simile nella primavera scorsa, primi firmatari Donatella Ferranti, Andrea Orlando, Anna Rossomando, con l’appoggio anche di Gennaro Migliore e dei parlamentari di Sel. Spiega Ferranti, oggi presidente della commissione Giustizia della Camera: "La nostra proposta cercava di rispondere al sovraffollamento delle carceri in cui, su 60 mila detenuti complessivi, 23 mila sono in custodia cautelare. E poi alle sentenze della Corte costituzionale, che dal 2010 in poi bocciano le norme dei cosiddetti pacchetti sicurezza che rendono automatico l’arresto per tutta una serie di reati. L’automatismo, dice la Consulta, ci può essere solo in caso di mafia. In tutti gli altri casi va motivato caso per caso". Il testo passa dalla commissione Giustizia della Camera (che ascolta in audizione anche l’Associazione nazionale magistrati) all’aula di Montecitorio, poi passa al Senato, dove viene approvato il 2 aprile con l’opposizione della Lega e l’astensione del Movimento 5 stelle. "Il problema - spiega Ferranti, - è che, nel viaggio, il nostro testo ha subìto molte modifiche". In più ha ricevuto l’innesto di alcune proposte formulate dalla commissione ministeriale guidata dal presidente della Corte d’appello di Milano, Giovanni Canzio. "Ora il pacchetto torna alla Camera con una formulazione diversa da quella iniziale e che - ammette Ferranti - effettivamente presenta alcuni problemi". Il più grave lo indica Maurizio Carbone, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati (che il Senato non ha ritenuto di consultare): "La custodia cautelare in carcere, o anche agli arresti domiciliari, viene esclusa in tutti quei casi in l’indagato potrebbe avere, alla fine del suo percorso processuale, una pena diversa dal carcere". Dunque: niente cella per chi potrà essere condannato fino a 2 anni, perché potrà beneficiare della sospensione condizionale della pena; ma niente carcere neppure per chi potrà essere condannato fino a quattro anni, perché fino a quella soglia si prevedono misure alternative al carcere. Con una soglia così alta, resteranno fuori anche i responsabili di reati gravissimi, come denuncia Pignatone. Ma non solo: questa legge trasforma il giudice delle indagini preliminari, che deve decidere se arrestare o no, in una sorta di Mago Otelma che deve prevedere il futuro. "Non dovrà più valutare le esigenze cautelari al momento del fatto commesso - spiega Carbone - ma dovrà prevedere l’approdo finale dell’iter processuale". Una specie di pratica divinatoria che dovrebbe anticipare una sentenza definitiva che arriverà dieci anni dopo. E che dovrebbe tener conto di tutti gli sconti di pena possibili nel nostro sistema. Questo è anche in contraddizione con lo spirito della legge, almeno quello proclamato: la custodia cautelare, dicono i "riformatori", non può essere un’anticipazione della pena definitiva. Giusto: ma proprio per questo deve dunque essere presa sulla base delle esigenze cautelari nel momento in cui il reato è commesso, non anticipare la pena futura. Carbone constata che il testo legislativo almeno un miglioramento lo ha avuto, nel suo viaggio, e proprio grazie ai suggerimenti dell’Associazione nazionale magistrati. È stato eliminato l’obbligo di lasciar fuori, per esempio, chi abbia commesso un omicidio, magari con modalità efferate, ma che è incensurato. Anche i mafiosi potrebbero brindare, di Davide Milosa Se la nuova norma sulla carcerazione preventiva fosse già legge, uno come Antonio Rognoni, ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, tra i grandi registi delle opere di Expo, non sarebbe finito in carcere. Il reato per cui è accusato, infatti, è la turbativa d’asta la cui condanna parte da un anno. Lo stesso dicasi per Lele Mora arrestato nel 2011 per bancarotta e finito a Opera. Il reato parte da un minimo di due anni. Senza contare che spesso anche i casi connessi alla mafia vengono puniti con sanzioni minime. Sì, perché qua il tetto è quello dei tre anni che diventano quattro quando si tratta di arresti domiciliari. Sotto questi limiti il codice prevede che l’esecuzione della pena venga sospesa. Da ciò prende spunto la proposta di limitare la custodia preventiva. Tradotto: in questi casi niente carcere fin da subito. Ecco, in sostanza, la novità contenuta nella norma al vaglio del Parlamento. Sulla carta, l’obiettivo è tutelare i diritti degli indagati, come segnalato spesso dalla Corte Costituzionale, ed evitare il sovraffollamento delle carceri. Tradotto: il 90% dei reati compiuti, se la proposta diventerà legge, non prevede l’arresto preventivo alla chiusura delle indagini preliminari. Per capire, le persone coinvolte nell’indagine milanese sulla società Kaleidos che ha scoperchiato la rete formigoniana della Compagnia delle opere, braccio finanziario di Comunione e liberazione, l’avrebbero fatta franca senza finire dietro le sbarre. Anche qui il reato è turbativa d’asta. E dunque, ragionando sul come potrebbe essere, niente carcere ma misure alternative. La parola magica è "pena edittale", ovvero la previsione del minimo richiesto dal codice. Un minimo che se non supera i 4 anni impone al giudice di calcolare una sentenza definitiva che non preveda il carcere. Una prognosi che deve essere ben motivata. Pena, l’annullamento dell’ordinanza. Ed è proprio partendo da questa prognosi che la nuova norma non chiede ma impone al giudice di escludere le manette (e i domiciliari) nella fase della custodia cautelare. Dentro, come detto, ci finisce di tutto: dal furto alla rapina ai reati da colletti bianchi e contro la pubblica amministrazione. Perché uno come Massimo Ponzoni, ex assessore regionale lombardo, accusato di bancarotta nel 2011, seguendo la nuova proposta, non sarebbe finito dentro. Per la bancarotta, infatti, il codice prevede pene a partire da due anni. In tutti questi esempi, la nuova norma affida un’ampia discrezionalità al giudice. In un caso come quello del faccendiere Pierangelo Daccò, accusato del crack San Raffaele, probabilmente nessun gip, vecchia o nuova legge, avrebbe concesso misure alternative. Daccò è stato condannato a 9 anni in Appello. Ma non ci sono solo i reati contro la pubblica amministrazione come la corruzione, ci sono anche quelli predatori che hanno forti ricadute sul fronte dell’allarme sociale. E anche qui qualche problema potrebbe insorgere. La nuova norma non prevede la custodia in carcere per gli scippatori oppure per i furti o, in certi casi, anche per i rapinatori. Il rischio è immaginabile: con una direzione normativa del genere ci si potrebbe trovare davanti all’eventualità di fermare uno scippatore già in attesa di giudizio. Il codice, per questo reato prevede pene che partono da un minimo di un anno. E poi c’è la mafia. In questo caso a rischio sono anche i partecipi dell’associazione mafiosa (416 bis) che non hanno il ruolo di capi e che molto spesso incassano condanne inferiori ai quattro anni. Per chi, invece, ha ruoli apicali il carcere è obbligatorio. E poi ci sono i reati connessi. Come la droga. Non l’articolo ex 74, ma il 73 che punisce lo spaccio semplice. In elenco anche i reati contro la pubblica amministrazione aggravati dall’articolo 7 (il metodo mafioso). In questo caso la nuova norma li associa all’omicidio, al sequestro di persona, all’estorsione. Tutti casi per i quali il legislatore dice al giudice: il carcere è la via principale, ma è necessario perlustrare tutte le altre misure alternative prima di decidere. Su queste pesa la reiterazione del reato che ora dovrà essere dimostrata a partire dall’attualità. Insomma, la norma se da un lato assolve alla necessità di tutelare i diritti evitando gli abusi, dall’altro rischia di ridurre lo strumento della custodia preventiva. Giustizia: #shelfie e #bookforprisoners… l’iniziativa per leggere anche in carcere di Stefano Anastasia www.huffingtonpost.it, 6 aprile 2014 Da una settimana una piccola scheggia del web sembra impazzita: retwittate dall’Howard League for Penal Reform si susseguono foto di scaffali di libri con gli hashtag #shelfie e #bookforprisoners. È questa la forma di protesta in rete promossa da una delle più antiche organizzazioni per i diritti dei detenuti che il mondo conosca contro la decisione del Governo inglese di vietare l’ingresso in carcere dei pacchi per i detenuti: di qualsiasi tipo di pacco, per qualsiasi tipo di detenuto. Sarebbe, questa escogitata dal Gabinetto di Sua Maestà, una modalità per contrastare la circolazione di droghe in carcere e per attuare una non meglio "rivoluzione della riabilitazione" che, guarda un pò, passerebbe attraverso restrizioni e discrezionali valutazioni di merito nell’accesso a cose che dovrebbero essere offerte a tutti. Il 26 marzo scorso, con una lettera aperta pubblicata sul Daily Telegraph sono scesi in campo accanto all’Howard League scrittori del calibro di Mark Haddon, Alan Bennet, Salman Rushdie, Ian McEwan, Carol Ann Duffy, Irvine Welsh, Nick Hornby and so on. Qualcosa di simile si era sentita in Italia l’ultimo giorno dello scorso anno, quando la cronaca di Caltanisetta del Giornale di Sicilia informava che a un detenuto in 41bis era stata vietata la lettura de Il nome della rosa. Poi l’Amministrazione penitenziaria avrebbe rettificato che la censura non era motivata dai contenuti del libro (che narra, ricordiamo, della censura di un libro in una comunità monastica medievale), ma dalla sua forma (la copertina rigida) che avrebbe potuto contenere materiali pericolosi per la sicurezza pubblica. Si potrebbe discutere di questa e di altre prescrizioni per questo o quel tipo di detenuti (e noi italiani siamo bravissimi a sezionare e costruire divieti ed eccezioni per ogni specie di recluso), ma la pretesa urbi et orbi del governo inglese è molto più interessante perché chiara e netta, e dice pari pari quanto ambigua e contraddittoria possa essere la pretesa della riabilitazione e della sicurezza in carcere. E se invece partissimo dal semplice fatto che la privazione della libertà è tutto quanto lo Stato può pretendere dai detenuti, riconoscendogli ogni altro diritto con essa compatibile, ivi compresa la ricezione dei pacchi, la lettura dei libri e la decisione sul se e il come costruirsi un’altra vita dopo il carcere? Giustizia: dalla Lega una sfida di piazza allo Stato "no a idee in galera" Ansa, 6 aprile 2014 All’insegna del motto "Le idee non si arrestano" scritto sotto un Leone di San Marco con la spada sguainata, la Lega chiama a raduno oggi a Verona il popolo verde per solidarizzare con i secessionisti arrestati due giorni fa. Obiettivo del Carroccio, oltre a quello di far sentire la propria vicinanza a Rocchetta, Chiavegato, Faccia, Badii e altri, l’accusa alla magistratura di non perseguire i reali mali del paese ma, per dirla con Roberto Maroni, incaponirsi in "vicende giudiziarie grottesche". "Se lo Stato pensa di far paura a qualcuno sbaglia di grosso", sostengono i deputati della Lega Nord, Marco Marcolin e Roberto Caon: "Aiuta i clandestini, cancellando il reato di clandestinità, libera migliaia di delinquenti con lo svuota-carceri, e arresta chi vuole l’Indipendenza", denunciano sfidando un "regime che ha paura e vuole mettere la museruola a tutti i veneti che chiedono libertà". In piazza dei Signori alle 18 si ritroveranno leghisti non solo veneti: dalla bergamasca sono infatti attesi una decina di pullman e altre corriere sono state organizzate da Brescia. Tra i big della politica del Sole della Padania, il segretario federale Matteo Salvini, i governatori di Lombardia e Veneto Roberto Maroni e Luca Zaia, il sindaco di Verona Flavio Tosi. Proprio Zaia oggi ha lanciato un appello per la liberazione "di tutte le 24 persone arrestate. È opportuno - ha detto - che siano giudicate senza le manette ai polsi, perché non scapperanno. Domani - ha quindi ricordato - è bene che un po’ tutti siano presenti, perché lanceremo una petizione popolare per la liberazione di questi ragazzi. Spero anche - ha concluso - che i parlamentari del Veneto, nell’ambito delle loro funzioni, prendano in mano questa partita e presentarla al Parlamento affinché fatti del genere non accadano più". "È roba da matti - fa sentire la sua voce Salvini - mettere in galera le idee. Che qualcuno di normale possa credere che quella ruspa spara-supposte potesse far del male - ha aggiunto - è una cosa degna di uno stato fallito e finito. Ma la soddisfazione - ha concluso - è che tanta gente leghista e non leghista ci è vicina". Su questo ci conta Patrizia Bisinella che si augura per domani una "grande partecipazione. La magistratura, con l’arresto di questi cittadini, non sta facendo altro che contribuire a far crescere la voglia di autonomia dei veneti. La reazione spropositata dello Stato ad una legittima domanda di libertà del Veneto non fa che confermare l’incapacità di comprendere quanto i cittadini della nostra regione siano stanchi di sottostare ad un sistema accentratore, immobile, e dove l’autonomia locale viene temuta e proprio per questo vessata". Ma la voce più forte, oggi, è quella del leader dei secessionisti, Franco Rocchetta, che davanti al Gip ha assicurato il proprio "ripudio della violenza quale strumento di autodeterminazione dei popoli. Ogni volta che c’è stata - ha detto nel corso dell’interrogatorio a Treviso - gli effetti sono stati controproducenti perchè la violenza semina dolore, rancori, vendette, disequilibri sociali". Il suo avvocato, che definisce la sua carcerazione la cosa "più grave e violenta" che possa fare uno Stato contro una "persona non giudicata" assicura comunque che il suo assistito "sta bene come può stare bene chi è a posto con la propria coscienza". Giustizia: il Governo studia il "salario minimo garantito", carcere per chi lo viola di Alfonso Neri Ansa, 6 aprile 2014 L’idea non è nuova, ma ora è più definita: salario minimo con rischio del carcere per il datore di lavoro che dovesse sottopagare, contemporanea introduzione di forti deroghe ai contratti collettivi nazionali, che sarebbero molto depotenziati. Lo annuncia di fronte a manager e imprenditori il viceministro dell’Economia Enrico Morando, che chiarisce gli obiettivi temporali del governo: perché le riforme funzionino dovrebbe durare fino al 2018. Poi sarebbe comunque meglio un nuovo esecutivo guidato da Renzi. Ora che imprenditori e grandi sindacati, pur con forti contrasti interni alla Cgil, si sono accordati sulle norme di rappresentanza "si potrebbe fare alla svelta una legge sul salario minimo che preveda il carcere per gli imprenditori che non la rispettino". Da una parte ci si avvicinerebbe alla Germania dove la norma sta impedendo situazioni al limite dello schiavismo dall’altra, dove il limite fosse inferiore a quanto previsto dai contratti collettivi nazionali, questi di fatto non avrebbero efficacia. Forse è l’obiettivo principale, con Morando (Pd) che propone "accordi di secondo livello che possano derogare su tutto, tranne che sulle disposizioni di legge, rispetto al contratto nazionale". E l’accoglienza è buona: la platea del workshop Ambrosetti di primavera, quello dedicato ai temi finanziari, promuove a pieni voti il governo Renzi. Secondo un sondaggio gestito dagli organizzatori tra un centinaio di partecipanti, il 59% ha un’opinione favorevole dell’esecutivo, con il 44% che esprime un giudizio positivo e il 15% molto positivo. Il 24% si dice neutrale e l’8,5% sfavorevole, diviso in un 5% dal voto negativo e in limitato 3,5% fortemente negativo ("terrible" in inglese). Lettere: negato il ricovero in Comunità, 37enne muore nel carcere di Civitavecchia di Francesca Di Paolo* Ristretti Orizzonti, 6 aprile 2014 Manifesto in nome della Comunità "Il Merro" la nostra vicinanza alla famiglia di Fabio Giannotta, classe 1977, deceduto ieri notte nel carcere di Civitavecchia. Aspettavamo il sig. Giannotta da circa tre mesi per poterlo ospitare presso la nostra struttura. Abbiamo nel frattempo integrato la documentazione necessaria a garanzia dei magistrati che si occupavano del caso al fine di provvedere tempestivamente alla sua scarcerazione, date le sue gravi condizione di salute, evidenti ed incompatibili con il regime carcerario. *Presidente Associazione "Il Merro", comunità residenziale di pronta accoglienza Lettere: una proposta di carcere auto-gestito di Paolo D’Arpini* www.politicamentecorretto.com, 6 aprile 2014 In seguito alla discussione sorta fra il presidente Napolitano - accusato da alcune forze politiche di voler favorire Berlusconi - ed il M5S in merito al suggerimento ai presidenti delle Camere, sul problema del sovraffollamento delle carceri, si è riacceso il riflettore sul problema. Al di là della questione politica, necessario è un intervento per una situazione che è causa di degrado, suicidi, corruzione interna agli istituti di pena, nonché di enormi spese di gestione, a carico dello Stato, per il mantenimento delle strutture e della sorveglianza. Idee e proposte arrivano anche dal "basso", tra queste quella di un carcere autogestito dagli stessi detenuti, coadiuvati da assistenti laici e volontari non stipendiati. La proposta, nella fattispecie, arriva da Paolo D’Arpini, attivista del circolo vegetariano di Treia, che già nel 2008 presentò una proposta al Ministro di Giustizia: "necessario è un intervento per una situazione che è causa di degrado, suicidi, corruzione interna agli istituti di pena, nonché di enormi spese di gestione, a carico dello Stato, per il mantenimento delle strutture e della sorveglianza". Al Presidente del Consiglio Al Ministro della Giustizia Alle Commissioni Parlamentari Preposte Il sottoscritto firmatario, in considerazione delle condizioni pessime in cui versano i detenuti e del costo altissimo sostenuto dalla comunità nel mantenimento degli attuali Istituti carcerari, invita gli Organi dello Stato, le Camere e le Commissioni Parlamentari preposte a intraprendere un esperimento di riorganizzazione carceraria che sia realmente educativo e induttivo al pieno reinserimento sociale dei sottoposti al carcere. A tal fine il sottoscritto propone un modello di carcere basato sulla auto-conduzione da parte dei detenuti, affiancati da volontari laici non stipendiati e con gli stessi poteri dei carcerati e conviventi stabilmente negli Istituti rieducativi stessi. Il modello suggerito è quello di un "carcere-comunità" in cui i membri volontariamente accettano di seguire questa metodologia e possono gestire la struttura e provvedere al suo mantenimento sia economicamente che regolamentariamente, scegliendo lo svolgimento di un lavoro autonomo od organizzato collegialmente all’interno della struttura stessa. Un sistema carcerario cooperativo che prevede la produzione in proprio di beni, cibo, opere d’arte, oggetti e suppellettili scambiabili o commercializzabili liberamente, sia all’interno che all’esterno, come pure la possibilità di eseguire prestazioni d’opera per conto terzi. I membri lavoratori di questo carcere modello rinunciano ad ogni rimessa in denaro (da parenti od amici) prevista dall’attuale regolamento carcerario e si impegnano quindi a vivere unicamente del proprio lavoro, gestendo inoltre anche la mensa ed i vari altri servizi interni. Gli addetti al controllo (le attuali guardie carcerarie) saranno ubicati all’esterno dell’Istituto ed avranno la funzione di impedire l’uscita (o l’entrata) non consentita dal perimetro carcerario e di svolgere quegli interventi che si rendessero necessari in casi di emergenza. Si consiglia che un siffatto carcere modello possa sorgere in zone disabitate ove sia possibile occuparsi di agricoltura, pastorizia o simili attività. Si consiglia inoltre che tale esperimento si effettui inizialmente per quei condannati non recidivi, naturalmente sensibili a questo metodo edificante, lasciando però la possibilità anche nei penitenziari (riservati ai detenuti recidivi) di giungere all’autogestione, ove le condizioni generali lo consentano. Il sottoscritto ritiene che questa proposta innovativa, oltre che portare vantaggi alla società ed alle casse dello Stato e garantire dignità umana ai detenuti, sia portatrice di Civiltà, Emendamento e Compassione. *Presidente Circolo Vegetariano VV.TT. - Treia (Mc) - Tel. 0733.216293 Liguria: un vero progetto "svuota carceri", le strutture riabilitative diffuse sul territorio www.ivg.it, 6 aprile 2014 Lo hanno battezzato "Giù le sbarre": è un’iniziativa di Legacoop Liguria e della Cooperativa sociale "Il Faggio" di Savona, e ha per obiettivo quello di risolvere il problema del sovraffollamento penitenziario mediante la realizzazione in via sperimentale di strutture riabilitative diffuse sul territorio. Offrire un’alternativa al carcere, permettendo un vero processo di recupero dei detenuti, come scritto nella Costituzione: tutto ciò è però spesso un’utopia, soprattutto per colpa di un sistema carcerario sempre sull’orlo del collasso. La Liguria non fa eccezione e anzi lamenta numeri allarmanti: nella nostra regione i detenuti presenti sono 1.666, a fronte di una capienza regolamentare di 1.108, con un sovraffollamento quantificabile in 558 unità. Pertanto se a livello nazionale gli istituti di pena sono soggetti ad un sovraffollamento pari al 28,79%, in Liguria la percentuale sale al 50,36%. "Assistiamo - spiega Gianluigi Granero, presidente di Legacoop Liguria - ad una vera emergenza nelle carceri italiane, talmente superaffollate da non consentire spesso quel percorso di riabilitazione sociale e di reintegro nella società che la nostra Costituzione prevede. Sia il parlamento con la commissione giustizia, sia il ministro hanno indicato un percorso di superamento dell’attuale modello e della sua modernizzazione. Noi come cooperative siamo presenti all’interno di molte carceri e pensiamo di poter dare il nostro contributo. Si tratta di un percorso di discussione e confronto: tra un mese ci sarà un convegno tra gli esperti del settore, intanto vogliamo cominciare attraverso un blog a raccogliere le tante esperienze che ci sono in tutta Italia". "Abbiamo iniziato - spiega Antonio Bonjean, presidente della coop Il Faggio - partendo da esperienze già vissute, sia nella integrazione di persone in pene alternative, sia perché le nostre strutture psichiatriche già ospitano persone provenienti dagli ex manicomi giudiziari. Tenendo conto che la popolazione carceraria è costituita da persone che hanno forme di fragilità, noi riteniamo di avere la consapevolezza di saper come agire". Sappe: ancora dati allarmanti in Liguria Come si vive nei penitenziari liguri alla vigilia del varo del legge delega in materia di depenalizzazione e introduzione di pene detentive non carcerarie, con la quale si dovrebbero "alleggerire" le carceri italiane? Un quesito a cui ci sta lavorando Michele Lorenzo, segretario regionale ligure del Sappe, il maggiore sindacato di categoria. Siamo in possesso dei dati relativi ad aprile e non sono incoraggianti - commenta Lorenzo. Ad esempio oggi Marassi ha toccato la punta di 802 detenuti e tutta la Liguria ne gestisce ben 1634, erano 1666 al 31 Marzo. Un trend evidentemente in discesa anche se frenato. Le carceri della Liguria sono state progettate per ospitare 1098 reclusi quindi se ne ospitano ben 536 in più. Questi numeri continuano a produrre ostacoli all’operatività dei poliziotti penitenziari liguri ancora in sotto organico, 950 poliziotti presenti su 1264 previsti che solo nei primi tre mesi hanno fronteggiato 287 eventi critici tra i quali ben 6 tentati suicidi (4 a Marassi) sventati dal nostro personale, al quale va veramente tutta la nostra stima e considerazione per il servizio svolto ai quali le Istituzioni devono riconoscerli l’elevato senso di dovere. Sicuramente il Ddl che è stato approvato in via definitiva dalla Camera, ha il potenziale per riuscire a ridurre la presenza dei detenuti nelle carceri italiane e Liguri in particolare, ma nutriamo dubbi sulla tempistica attuativa. Deduco che bisogna attendere non meno di 18-24 mesi prima di poter tirare il famoso sospiro di sollievo, anche se il capo del dipartimento, Giovanni Tamburino tramite l’agenzia di stampa Adnkronos ha assicurato "che entro il 15 aprile non ci sarà neppure un detenuto in Italia recluso con uno spazio inferiore a tre metri quadri nelle celle. Entro maggio dovremmo arrivare oltre i 50.000 posti disponibili effettivi". Ma in Liguria - lamenta Lorenzo - devono ancora iniziare i lavori di rimodernamento del carcere di Chiavari che non sarà pronto se non tra poco più di un anno e di altri ampliamenti o costruzioni non se ne ha nessuna notizia, anche il carcere di Savona non rientra nel piano di "nuova costruzione" quindi che si fa? Bisogna solo sperare che la legge delega sia trattata con procedura d’urgenza per la depenalizzazione di alcuni reati: ad esempio i reclusi per uso e piccolo spaccio di droga, al 31.12.2013 erano 604 dei quali 330 stranieri e 495 tossicodipendenti, 166 stranieri. Detenuti che, se non sottoposti ad altra misura cautelare,-sottolinea il Sappe- potrebbero ritornare in libertà. Invece, il dato interessante proviene, sempre al 31.12.2013, dai sottoposti a regime alternativo alla detenzione: in Liguria sono 659 agli arresti domiciliari e 728 sono in affidamento al servizio sociale. Quindi ben 1387 persone che vivono la loro "detenzione" fuori dalle mura carcerarie che, sommandoli ai 1634 reclusi, si raggiunge la ragguardevole quota di ben 3021 soggetti sottoposti in Liguria alle misure cautelari. Se volessimo azzardare alcune previsioni - conclude il segretario regionale Lorenzo - la Liguria potrebbe sperare in 6-700 detenuti in meno. Quindi riportarsi entro la soglia dei 1000 detenuti, il che sarebbe già un ottimo risultato. Lazio: il Garante; in 2 mesi solo 87 detenuti in meno, si attenua effetto del decreto carceri Ansa, 6 aprile 2014 "Sembrano aver perso forza nella Regione Lazio gli effetti del Decreto svuota carceri varato nei mesi scorsi dal ministro Anna Maria Cancellieri. Negli ultimi due mesi infatti i detenuti nelle 14 carcere della Regione sono diminuiti di soli 87 unità, attestandosi a quota 6.769 presenze". Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, citando dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Dal 4 febbraio scorso ad oggi i detenuti sono passati da 6.856 a 6.769. Rispetto al primo dicembre 2013 le presenze sono diminuite di 331 unità. Il Lazio continua però ad essere la terza regione italiana per numero di detenuti dopo Lombardia (8.698 reclusi) e Campania (7.781). "Se da un lato è innegabile che ci sia un calo delle presenze - ha detto il Garante - dall’altro bisogna prendere atto che la diminuzione è insufficiente a riportare il sovraffollamento entro limiti accettabili e a garantire standard minimi di qualità di vita all’interno degli istituti di pena". Dai dati emergono, invece, ulteriori spunti di riflessione: scende infatti la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio definitivo che nel Lazio sono 2.683, il 39,6% del totale, 2,5% in meno rispetto allo scorso febbraio. Sono 1.044, infatti, quelli in attesa di primo giudizio e 1.639 i condannati non definitivi. Sono, invece, 4.067 i reclusi che stanno scontando una pena definitiva. Abruzzo: nasce sezione regionale dell’Associazione Antigone per carceri giuste Il Centro, 6 aprile 2014 Braghini eletto presidente regionale: riserveremo attenzione agli otto istituti di detenzione abruzzesi afflitti da gravi problemi tra cui il sovraffollamento. Nasce anche in Abruzzo l’associazione Antigone. Sono 22 i soci fondatori, tra docenti di scuola superiore, avvocati, operatori sociali, che ieri si sono riuniti ad Avezzano nella sede del Centro Servizi Volontariato. "Lo scopo", ha spiegato il presidente, Salvatore Braghini, "è di sensibilizzare le comunità, le associazioni, i partiti, le istituzioni pubbliche, sulle violazioni dei diritti dei cittadini nonché proporre azioni di tutela, analisi e informazione sulla condizione carceraria, volte al rispetto delle finalità costituzionalmente previste per la pena detentiva". Nella prima seduta dell’associazione è stato eletto oltre al presidente regionale Braghini; il vicepresidente Jacopo Angelini; i consiglieri Vincenzo Rea, Simona De Luca, Claudia Sansone, Cristiana Lucci e Daniela Clementi; segretario, Camelia Nita. Gli altri soci fondatori sono Luigi Scoccia, Maurizio Cichetti, Valeria Di Nicola, Isaia Cipollone, Francesca Organtini, Irene Lancia, Linda Fracassi, Renzo Lancia, Chiara Marchionni, Sandro Valletta, Maria Teresa Mossa, Nusha Zhuba, Natalina Cerri. La sede regionale si trova ad Avezzano in Corso della Libertà, 61. Antigone è autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare tutti e 205 gli Istituti di pena italiani ed ora anche una delegazione della sezione abruzzese potrà visitarle. Particolare attenzione verrà riservata alle 8 carceri abruzzesi, afflitte anch’esse - come ha evidenziato il presidente Braghini "da gravi e insistenti problematiche. Basti pensare al sovraffollamento: 1.980 detenuti (1.907 uomini, 73 donne) a fronte dei 1.432 posti disponibili, con un surplus di 548 presenze che fa attestare la media del sovraffollamento regionale al 38,3 %". Nello scorso anno - si è detto nel corso dell’assemblea fondativa - i detenuti che hanno posto in essere proteste soggettive (scioperi della fame, rifiuto del vitto, rifiuto della terapia) risultano essere 188, con 27 proteste collettive (battiture, sciopero del carrello dei pasti). Diversi gli atti di aggressione perpetrati ai danni di poliziotti penitenziari mentre si registra una carenza di personale e assistenza sanitaria. Napoli: nel carcere di Poggioreale la "cella zero" è un sistema… sono tutti coinvolti di Valentina Soria www.popoff.globalist.it, 6 aprile 2014 Interviste esclusive ad ex-detenuti aprono nuovi, inquietanti, scenari sulla stanza delle torture. E non solo a Poggioreale, anche a Taranto e Perugia. Nuove testimonianze che arricchiscono di particolari e protagonisti il caso della "cella zero", che sta facendo tremare gli ambienti del carcere di Poggioreale a Napoli. Dichiarazioni che disvelano una "rete" dell’orrore, un vero e proprio ingranaggio, in cui ognuno ha il suo ruolo. "Non si tratta di due o tre persone soltanto che scatenano tutta la loro violenza sui detenuti. Si tratta è di un sistema interamente corrotto, dal primo all’ultimo della gerarchia". Così Ciro, nome di fantasia, ex-detenuto del carcere di Poggioreale definisce quello che si rivela come un "apparato", che opera nella struttura degli orrori, disseminando terrore. Violenze gratuite, percosse, abusi ad opera di una squadretta di agenti di polizia penitenziaria che di notte si scatena sui detenuti al piano terra del carcere, in una stanza chiamata "cella zero", priva di telecamere, macchiata del sangue dei malcapitati. Ma se Poggioreale fosse solo una spia, un campanello d’allarme, seppur gravissimo, di un "modus operandi" che appartiene a diverse realtà carcerarie italiane? È il sospetto che emerge dalle interviste, rilasciate in esclusiva a Popoff, da alcuni ex-detenuti che hanno conosciuto l’orrore di Poggioreale e non solo. "Sono finito in carcere per la mia prima volta nel 2009 e sono tornato in libertà solo nel 2013. Una pena di quasi cinque anni per minaccia con metodo mafioso. È successo dopo la perdita di mio fratello, due mesi prima che fossi arrestato, morto in seguito ad un agguato in auto, dove era con la moglie e la figlioletta di un anno. Quest’episodio mi portò a minacciare gente malavitosa, che pensavo fosse coinvolta nell’assassinio di mio fratello". Ciro, attualmente sorvegliato speciale, titolare di un bar a Maddaloni nel casertano, così ricorda il suo ingresso nel mondo penitenziario, gli occhi ancora colmi di rabbia. "Un giorno a Poggioreale presi un rapporto, non ricordo nemmeno il motivo, e così mi portarono al piano terra in una cella di isolamento. A pochi metri dalla mia stanza ce n’era un’altra. La chiamavano "cella zero". Una sera vidi trascinare lì un detenuto e lo sentivo urlare. Mi colpì il rumore lancinante delle percosse inflitte sul suo corpo. Poi grida sempre più forti. Uno strazio. Io mi allarmai al punto che cominciai ad inveire verbalmente contro gli agenti di polizia penitenziaria che erano lì. Mi sentivo impotente. Il detenuto subì l’aggressione per circa quindici minuti, che mi sembrarono lunghissimi. Poi uscirono da quella stanza e due agenti mi si avvicinarono. Avevano ancora i guanti di lattice, che usavano per percuotere in modo da non lasciare tracce e difendersi da possibili infezioni. Insieme ai due agenti c’era anche l’ispettore. Mi intimarono di dormire e dimenticare quello che aveva visto e sentito quella sera". La voce tremula, ma carica di amarezza di chi ha visto con i propri occhi l’indegnità e la vigliaccheria umana. Odori, suoni, visioni, che difficilmente Ciro riuscirà a cancellare dalla propria mente. "La sera stessa in cui portarono il detenuto nella "cella zero" io vidi arrivare un’infermiera per medicarlo. Sentivo il giovane lamentarsi e chiedere aiuto alla donna, ma lei non rispondeva. Restò tutto il tempo in silenzio. La mattina dopo quell’episodio io ero ancora nella cella d’isolamento. Passarono per i corridoi l’ispettore e la direttrice. Io lo guardai dritto negli occhi, ma non dissi niente. Il pomeriggio venne da me l’ispettore, soprannominato "piccolo boss", e mi chiese perché lo avevo guardato con aria minacciosa la mattina, quando era passato nel corridoio con la direttrice. Io gli risposi che non accettavo il suo sistema crudele e violento. Le mie parole lo turbarono visibilmente. Così fece aprire la mia stanza e mi portarono nella "cella zero" dove c’erano due agenti, sempre gli stessi, con i guanti in lattice alle mani. L’ispettore mi fece perquisire, e mi disse che dovevo spogliarmi nudo. Io però gli feci presente che ero un pugile professionista e che se mi avessero anche solo toccato io avrei reagito immediatamente. Ricordo i suoi occhi fissi sui miei per quasi un minuto. Uno sguardo gelido e impietoso. Poi si rivolse all’agente e gli ordinò di riportarmi nella mia stanza. Credo di essere stato molto fortunato quel giorno. Cercai di comunicare quanto accaduto alla direttrice, ma c’erano sempre gli agenti vicino. Lo stesso avveniva con la psicologa o la psichiatra. Parlai allora con il sacerdote, il quale mi consigliò di denunciare tutto. Ma io non lo feci". Ciro parla per la prima volta di quanto ha visto e subito nel carcere di Poggioreale. Non ha mai voluto denunciare perché ha perso fiducia nelle istituzioni. "Il penitenziario è un mondo corrotto, marcio nelle fondamenta, malato. È un sistema di soprusi che si poggia sulle coperture e sul "tacito assenso" di tutti. In questo modo gli aguzzini si sentono inviolabili", continua rammaricato. "La cosa più disumana è che coloro che dovrebbero tutelare la legalità diventano fautori di violenza. Io se non lo avessi visto con i miei occhi non ci avrei mai creduto che fosse possibile tutto ciò. Molte persone, che il carcere non l’hanno conosciuto, a queste storie non credono. Questo mi fa ancora più paura". Ciro non è stato solo rinchiuso nel carcere di Poggioreale. Ha conosciuto anche la realtà della casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, dove dichiara di "averne viste di cose terrificanti". "Prima di Poggioreale ho scontato parte della mia pena nel penitenziario di Taranto, dove lavoravo nell’infermeria, in quanto considerato un soggetto non pericoloso e di buona condotta. Anche lì ricordo una cella di isolamento al piano terra, dove portavano chi riceveva un rapporto o chi doveva essere "punito". Era una cella vuota, senza tavolo, né materasso. C’era solo una branda di ferro. Mi capitava sempre di vedere i detenuti passare dalla cella di isolamento all’infermeria. Erano in pessimo stato, pieni di lividi, ematomi, sangue. Anche lì c’era la "squadretta" e l’ispettrice che, come ogni altro membro del carcere, sapeva tutto e appoggiava quel sistema. La cosa che più atroce, a cui mi capitava di assistere era quando arrivava in carcere qualcuno malato di mente destinato all’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario). Lo lasciavano in infermeria in attesa di trasferimento. Lo facevano svestire e lo legavano. Mi ordinavano di entrare prima che mettessero il detenuto e di svuotare la stanza, compresi gli sgabelli, il tavolo, le coperte. Poi mettevano i suoi vestiari in una busta fuori la cella. Così iniziavano a picchiarlo e io sentivo le grida, ma non potevo fare niente. Di nascosto, dopo le percosse, cercavo di passargli quello di cui aveva bisogno, come gli indumenti. Non riuscirò mai a dimenticare il lamento di quelle persone, completamente indifese. Anche a Taranto comandano gli agenti di polizia penitenziaria, e si scagliano contro i più deboli, contro coloro che non posso difendersi e non reagiscono. Se un detenuto è più forte e può avere una reazione nei loro confronti si dotano di cinque, sei scudi e non risparmiano nessuno. La maggioranza dei detenuti subisce i maltrattamenti in silenzio perché non vuole essere trasferita. Il tribunale di sorveglianza è abbastanza clemente e i reclusi sperano nei permessi-premio per uscire. Ricordo la rabbia che mi assaliva quando si svolgevano le visite istituzionali nel carcere. Avevamo ordine di ripulire tutto e loro nascondevano le celle di isolamento, dove spesso avvenivano le torture. I luoghi delle violenze erano inavvicinabili per i politici o altri rappresentanti istituzionali che visitavano la struttura". "Il carcere è un mondo a parte", conclude Ciro, senza nascondere un’amara constatazione che ha il sapore della rassegnazione. Un uomo, sicuramente non l’unico, che porta nello sguardo un orrore incancellabile, che non si è arrestato una volta fuori, che ha varcato la soglia delle sbarre di Napoli come di Taranto. Duemila e ottocento detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di mille trecentottanta, stipati in meno di tre metri quadrati. L’attività di formazione è assente. Gli educatori carcerari sono diciannove a fronte di circa settecento agenti di polizia penitenziaria. Il lavoro interno è destinato solo a duecento detenuti, che sono coinvolti in progetti di rieducazione. Due le ore di aria concesse: una la mattina e una la sera. Queste le cifre di Poggioreale. Dall’altra parte il penitenziario di Taranto, entrato in funzione a metà degli anni Ottanta. Molte le problematiche strutturali che lo rendono, in alcune aree, pericolante. Un carcere costantemente sovraffollato, con cinquecento venticinque detenuti a fronte di una capienza regolamentare di duecento posti. I detenuti in attesa di primo giudizio sono centocinquantatré, mentre coloro che scontano una sentenza definitiva di condanna sono trecento diciotto. Il quaranta per cento degli ospiti sono tossicodipendenti. In un’interrogazione parlamentare presentata dalla radicale Rita Bernardini a Paola Severino, ministro della Giustizia, nel mese di settembre del 2012, per chiedere notizie sulla struttura di Taranto, si fa riferimento all’atavico sovraffollamento presente nel carcere, alle pessime condizioni di vivibilità e all’alto tasso di suicidi tra i detenuti. Ad oggi nessuna risposta. A Taranto come a Poggioreale esiste un margine molto sottile tra il sovraffollamento e l’acuirsi di episodi di violenza, che trovano così terreno fertile. "Nel carcere di Poggioreale eravamo anche in dodici, tredici in una cella. Mancava l’aria. Compiere anche i più elementari movimenti diventava complicato ed eravamo tutti particolarmente irritabili, specie durante il periodo estivo". Piero (nome di fantasia), originario dell’hinterland partenopeo, ha trascorso in carcere circa dieci anni, dal 1999 al 2009, per reati di rapina e spaccio. Ora vive a Roma e ha famiglia, ma quei giorni passati tra le fredde mura di Poggioreale ancora lo tormentano. "È tutto vero quello che altri detenuti hanno denunciato riguardo alla "cella zero". Esiste davvero la camera delle torture. Posso aggiungere, però, che non è un’unica cella. Ce n’è una per ogni padiglione, e si tratta di sale d’attesa in cui di notte si scatena la violenza degli agenti penitenziari". Si apre quindi un’ulteriore ipotesi: più stanze degli orrori, tutte, però, al piano terra. "A me non è mai capitato, ma bastava un banale pretesto per essere scaraventati nella "cella zero". In carcere esistono delle regole da rispettare: è vietato passare qualsiasi cosa da una cella all’altra. Ci sono poliziotti che chiudono un occhio e permettono di passare sigarette o anche vestiti, scarpe. I problemi sopraggiungono quando tra i sei, sette agenti di polizia penitenziaria in servizio c’è anche la squadretta: "ciondolino", "melella" e "piccolo boss", il più pericoloso, perché picchia forte. Allora un errore, come passarsi una sigaretta da una cella all’altra o uno sguardo sbagliato, possono costare caro. La punizione arriva impietosa. Si spalanca l’orrore della cella zero. Chi è in carcere da molto tempo queste cose le sa, ma per i nuovi arrivati il pericolo è maggiore e diventano più facilmente le vittime delle belve umane". Piero non rivela la sua identità: "Non si sa mai se nella vita dovessi ritornarci e la "squadretta" potrebbe riempirmi di botte". Analoghi inquietanti scenari anche nelle parole di un altro detenuto, che lasciano trapelare una realtà infernale, fatta di corpi violati e abusi di potere. "Sono uscito a fine marzo dal carcere di Poggioreale. È uno schifo. È peggio di un canile". Queste le prime, drammatiche parole di Tony Sciarra, emigrato in America all’età di dodici anni per raggiungere i suoi genitori che avevano lasciato l’Italia quando lui aveva due anni, mentre lui era rimasto in collegio. Il suo ritorno in terra natia, nell’agosto del 2004, per curare le proprietà agricole della famiglia. Poi il carcere. La prima volta nel 2006, nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano. A Poggioreale Tony arriverà solo nel marzo del 2013 per uscire esattamente un anno dopo. "Negli Stati Uniti la "bella vita" per me non è durata a lungo. Mio padre me lo diceva. E da un giorno all’altro i soldi facili, la droga, mi hanno portato dietro le sbarre. Sono stato rinchiuso nel Federal Correctional Complex Allenwood, la prigione federale della Pennsylvania. Poi è stata la volta del penitenziario di New York. "La ferocia che ho visto a Poggioreale non l’ho vista da nessuna altra parte. Solo una volta mi dissero di andare nella "cella zero". Era dicembre scorso. Avevo avuto un problema con un agente di polizia penitenziaria. Ero nel padiglione Salerno. Quella stanza è un luogo atroce, dove cominciano a picchiarti e inveire su di te con tutta la loro rabbia e violenza. Non auguro a nessuno, neanche al mio peggior nemico, di finirci. La mattina dopo, ricordo, alle 7.30, dovevo, insieme ai miei compagni di cella, stare in piedi vicino la mia branda, in onore del passaggio della direttrice, del "piccolo boss" e dell’ispettore. È vero, abbiamo sbagliato e dobbiamo pagare, ma dovremmo essere trattami come umani". Ed è proprio l’umanità violata, offesa, quella che emerge dai racconti delle vittime di un sistema di sopraffazione, che continua a perpetrarsi. Ex-detenuti che parlano per la prima volta e raccontano la loro esperienza quali protagonisti diretti di una realtà che si fatica a pensare possibile. Loro non si fidano più delle istituzioni come garanti dei loro diritti ed hanno scelto di non denunciare agli organi competenti quanto visto e subito. Ci sono altri loro compagni che vivono nella paura di denunciare. "Nella maggior parte delle carceri italiane l’amministrazione penitenziaria e gli stessi agenti fanno di tutto perché non si sappia che all’esterno ex-detenuti hanno denunciato quel "modus operandi" fatto di violenza interno al carcere. Non si fanno circolare nemmeno giornali che possono parlare di detenzione e di quello che avviene nei penitenziari. Lo fanno per non alimentare possibili reazioni nei detenuti, che potrebbero acquisire coraggio e prendere coscienza dei loro diritti". È la testimonianza di Florisbela Inocencio de Jesus, cinquantotto anni, brasiliana, ex-detenuta nel carcere di Capanne a Perugia, dove si trovava per spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti. Florisbela è autrice del libro autobiografico "Passeggiando con Amanda", che racconta la vita dietro le sbarre della giovane americana Amanda Knox, accusata in primo grado di essere concorrente nell’omicidio, insieme a Raffaele Sollecito, della studentessa inglese Mederedith Kercher, avvenuto la notte del primo novembre del 2007. Florisbela ricorda con orrore e sdegno la realtà carceraria: "Il carcere è un mondo a sé. Gli agenti di polizia penitenziaria fanno quello che vogliono e alcuni se ne approfittano e abusano del loro ruolo. Hanno le loro regole e nessuno dice niente. È uno schifo". Ancora parole taglienti, parole dure verso un sistema scandito da regole ben precise, che non sono quelle della legalità. Un copione che sembra ripetersi a qualsiasi latitudine geografica, da Taranto a Poggioreale, a Perugia. Tra ombre, smentite e conferme. Sono più di novanta le denunce per maltrattamenti subiti nel carcere di Poggioreale rilasciate alla Procura partenopea da Adriana Tocco, la garante dei diritti dei detenuti. Testimonianze scritte, di detenuti ed ex-reclusi, che hanno portato all’apertura di un’inchiesta condotta dal pm Pietro D’Avino nel mese di gennaio per far luce sui presunti aguzzini di Poggioreale e sulla famigerata "cella zero". È un dato inconfutabile che i racconti dei detenuti si assomigliano tutti e disvelano una trama dell’orrore, che potrebbe costituirsi di più livelli, oltre quelli più apparenti e tangibili. Una trama ancora più pericolosa, perché ben radicata e articolata in tutti gli ambienti amministrativi. Trapela dalle parole degli ex detenuti una "cupola" del sopruso che avvicina tutti i vertici della gerarchia istituzionale e perciò più difficile da smantellare. Agrigento: due detenuti ai domiciliari coltiveranno le piante nella Kolymbethra La Sicilia, 6 aprile 2014 Da domani saranno due condannati alla detenzione domiciliare a occuparsi della coltivazione di piante aromatiche nel Giardino della Kolymbethra, per altrettanti mesi. Riparte la collaborazione con l’associazione di volontariato Andromeda Sicilia, che, nell’ambito delle proprie attività di rieducazione e reinserimento sociale dei soggetti a rischio (Progetto I.Ri.De. - Inclusione e riqualificazione dei detenuti), promuove uno stage work-experience, dopo la formazione in aula. I due detenuti presteranno servizio da lunedì a sabato, per 6 ore al giorno, fino a tutto maggio. Uno stage, finanziato dall’assessorato regionale Famiglia, Politiche Sociali e Lavoro in partenariato con ministero della Giustizia, Casa Circondariale di Sciacca, Istituto Penitenziario di Agrigento, Uffici locali per l’esecuzione penale esterna e Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria. "Gli allievi conseguiranno il titolo di operaio specializzato nella coltivazione di piante aromatiche - dice Giuseppe Lo Pilato, direttore del Giardino della Kolymbethra - avranno diverse mansioni agricole e si occuperanno di gestire le siepi, che alla fine dello stage, saranno in mostra per i turisti, mentre il loro prodotto, raccolto e confezionato, andrà al bookshop". Una collaborazione già sperimentata la scorsa estate e valida per il futuro, che, a ben vedere, potrebbe essere mutuata da altri enti, come i comuni. Primo fra tutti, il comune alle prese con la carenza di personale per la gestione del verde pubblico che, potrebbe così rinfoltire il numero degli operai, ossequiando l’art. 27 comma 3 della Costituzione, per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Livorno: Pianosa e Capraia… le ex colonie penali oggi sono isole perdute nel degrado di Antonio Fulvi La Nazione, 6 aprile 2014 Per più d’un secolo, sono state isole in gabbia: Gorgona, Capraia e Pianosa, paradisi naturali ingabbiati dalle colonie penali agricole che hanno avuto storie simili alla famigerata Guayana francese. Storie di detenuti e di guardie letteralmente sepolti vivi: e i piccoli cimiteri isolani testimoniano in silenzio gli alti numeri di suicidi, specie tra gli agenti. Poi le sbarre delle gabbie sono cadute, almeno per Capraia e Pianosa. E come spesso accade in questo Paese, le isole del diavolo - i detenuti le avevano così battezzate - sono diventate "le isole dello spreco". Uno spreco che grida vendetta al Cielo: da più di vent’anni a Capraia, da quasi dieci a Pianosa. Perché questi paradisi ex-inferno sono stati abbandonati al degrado, vietati dall’incrocio delle burocrazie di Stato a ogni utilizzo produttivo, trasformati in motivi del contendere con le comunità locali - dove le comunità sono rimaste, come a Capraia, arrangiandosi per sopravvivere - e con le altre istituzioni del territorio. Milioni e milioni di investimenti pubblici lasciati lentamente marcire. Dice il sindaco di Capraia, Gaetano Guarente, che sull’isola c’è stato fin da bambino con il padre che era un agente carcerario: "Siamo stati e rimaniamo figli di un Dio minore". E c’è tutta l’amarezza di chi, per ben tre mandati (non consecutivi) da sindaco, si è sfinito in battaglie con il ministero di Grazia e Giustizia, con la Regione, con le varie avvocature di Stato per liberare l’isola dalle gabbie della burocrazia ottusa. Con una sola vittoria, peraltro parziale: quella in Cassazione che ha riconosciuto la normativa degli "usi civici", ma di fatto consente solo qualche orto e piccole attività turistiche. Due battaglie diverse, quelle per Capraia e Pianosa, ma entrambe con un assurdo di base: il loro patrimonio di immobili, di caserme, di diramazioni carcerarie e tanto altro è stato vietato a ogni uso e lasciato andare in rovina. Quando la colonia di Capraia ha chiuso i battenti circa vent’anni fa, dopo che era rimasta in funzione dal 1873 - in quel terzo d’isola che aveva in concessione c’erano strade, impianti di irrigazione, pozzi artesiani, una intera località (la Piana) coltivata a frutta, vigna e ortaggi, una centrale elettrica, uno spaccio per i residenti (in gran parte famiglie di guardie o pescatori immigrati da Ponza) a prezzi calmierati: e anche le più sperdute "diramazioni" sulla montagna avevano acqua e luce, erano collegate da strade praticabili, con rimboschimenti curati dai detenuti. Poi la decisione di chiudere, legata anche al criterio - indubbiamente realistico - che ormai la delinquenza contadina era surclassata da quella urbana e quasi nessuno dei detenuti sapeva più coltivare la terra. E si chiuse. Lasciando che tutto andasse in malora, e senza rispettare l’antico patto del 1873 secondo il quale tutto sarebbe dovuto tornare al Comune. Pianosa è peggio, con qualche spunto di pseudo-turismo in perenne guerra con le zecche e altri parassiti. A Capraia qualche imprenditore caparbio ci prova: è nato un porto turistico, alla Piana è tornata la coltivazione della vite con vini Doc, una piccola parte della ex colonia ha attività di micro agriturismo con le norme degli usi civici. Ma sono punture di spillo contro un immane, vergognoso spreco di Stato. Del quale non si intravede la fine. Teramo: detenuto si appella "mi devo operare, sospendete la pena" Il Centro, 6 aprile 2014 Da sette mesi è agli arresti domiciliari per scontare una condanna ad un anno e mezzo per spaccio: ogni giorno, dietro autorizzazione del tribunale di sorveglianza, va in ospedale per curarsi. Perchè G.C., 36 anni, soffre di una grave patologia al setto nasale che può sfociare in una infezione cerebrale: così hanno certificato i tanti medici a cui si è rivolto. Gli stessi che hanno scritto nero su bianco che deve operarsi subito. Per questo il suo legale Antonio Di Gaspare ha chiesto la sospensione della pena con affidamento ai servizi sociali, ma fino ad oggi non c’è stata ancora nessuna risposta. La prossima udienza è in programma il 5 maggio. Dice l’avvocato Di Gaspare: "Il diritto alla salute crediamo debba essere garantito con le più ampie tutele e con il diritto alle migliori cure a tutti, anche a chi sta giustamente scontando una pena". Sulla carta lo ha stabilito già l’Organizzazione mondiale della sanità che proprio in tal senso ha emesso delle direttive intitolate "Principio di equivalenza delle cure" con cui ha sancito l’esigenza di garantire al detenuto le stesse cure mediche e psicosociali che sono assicurate a tutti. Una indicazione a cui molto probabilmente si sono rifatti i giudici della Cassazione. Secondo la giurisprudenza più recente della Suprema corte, infatti, "in tema di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena sussiste il dovere per il giudice di tenere conto, indipendentemente dalla compatibilità o meno dell’infermità con le possibilità di assistenza e cure offerte dal sistema carcerario, anche dall’esigenza di non ledere, comunque, il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità previsti dagli articoli 32 e 27 della Costituzione". Ma nell’attesa del riconoscimento di un diritto passano giorni, settimane, mesi. "All’inizio del manifestarsi di questa patologia", spiega ancora l’avvocato, "il mio assistito risiedeva ad Alba Adriatica e quotidianamente si recava al pronto soccorso dell’ospedale di Giulianova. Successivamente poiché quello di Teramo risultava maggiormente attrezzato per questa tipologia, ha trasferito la detenzione domiciliare a Teramo dove attualmente risiede. Abbiamo fatto visitare l’uomo da numerosi specialisti che hanno confermato la patologia e il continuo suo aggravarsi, quindi la necessità di cure quotidiane e di un intervento che può essere fatto solo in alcune cliniche o ospedali specializzati". Caltagirone (Ct): Sappe; con l’ampliamento del carcere ci vorranno più agenti di Mariano Messineo La Sicilia, 6 aprile 2014 In meno di due anni il carcere di Caltagirone è destinato a ospitare circa 600 detenuti e a diventare, quindi, una delle strutture penitenziarie con il maggior numero di ospiti in Sicilia. S’impone, quindi, una particolare attenzione all’organico degli agenti di polizia penitenziaria, oggi assolutamente carente. A lanciare l’Sos, richiedendo "attenzione e gli interventi del caso", è il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). "La casa circondariale di contrada Noce - sottolinea il segretario nazionale del sindacato Francesco Pennisi in una nota inviata alle massime autorità nazionali e regionali (il provveditore regionale per la Sicilia Maurizio Veneziano) dell’amministrazione penitenziaria -, aperta dal 2002, oggi ospita poco meno di 300 reclusi di media sicurezza. Ma, con l’apertura, prevista entro l’estate, del nuovo reparto (ex infermeria) per 100 ospiti e con la conclusione dei lavori (entro il 2015) del nuovo padiglione (che avrà altri 200 detenuti), il numero dei reclusi raddoppierà. A fronte dei numeri attuali e di quelli che si prospettano nel breve e medio termine e che sono destinati a fare del carcere calatino uno fra i più capienti nell’Isola, l’organico degli operatori è, però, assolutamente insufficiente. Oggi, rispetto ai previsti 160, ce ne sono appena 110: 50 in meno di quanti ne occorrerebbero e, quindi, troppo pochi. "Servono - aggiunge il segretario nazionale del Sappe - adeguati interventi da parte dell’amministrazione penitenziaria che vadano incontro a queste legittime esigenze". Daniele Buscemi, segretario provinciale del Sappe, evidenzia "l’urgenza di un impinguamento dell’organico, anche perché - argomenta Buscemi - Caltagirone rappresenta ormai, di fatto, una delle realtà penitenziarie più importanti della Sicilia orientale, dove viene già in parte applicato il cosiddetto regime delle "celle aperte" (celle aperte otto ore al giorno e possibilità, per i reclusi, di muoversi lungo il piano), che a breve sarà attuato in quasi tutto l’istituto". "Questo - prosegue Buscemi - comporta e determinerà ulteriori carichi di lavoro per il personale di polizia penitenziaria che, nonostante ciò, continua a operare con sacrificio e abnegazione, per salvaguardare l’ordine, la disciplina e la sicurezza dell’istituto". Pennisi, supportato da un altro addetto ai lavori, il segretario locale di Catania - Bicocca Giacomo Sciacca, punta, inoltre, i riflettori "sull’assoluta precarietà operativa in cui versa il Nucleo traduzioni e piantonamenti: vi sono impegnate appena sette unità - spiega il segretario nazionale del sindacato, mentre ce ne vorrebbero almeno il doppio, con l’inevitabile conseguenza che i servizi di traduzione vengono espletati spesso sotto scorta, vale a dire in palese inferiorità numerica". Caserta: detenuto diabetico fa lo sciopero dell’insulina "le istituzioni non mi ascoltano…" di Biagio Salvati Il Mattino, 6 aprile 2014 Devastato dal diabete e, da alcuni mesi, sulla sedia a rotelle perché ha perso l’uso delle gambe, un detenuto di 61 anni recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ha deciso di iniziare lo sciopero dell’insulina perché lamenta disinteresse delle istituzioni nei suoi confronti. Baldo Iavarone, questo il nome del detenuto originario di Aversa, è rinchiuso da oltre cinque anni al terzo piano del penitenziario sammaritano: la mancanza di personale e l’ascensore guasto, ironia della sorte, lo costringono a rinunciare spesso all’ora d’aria ma anche all’attività ricreativa in una sorta di biblioteca che si trova allo stesso piano della cella. Una situazione paradossale, nonostante l’impegno della direzione del carcere, che ha spinto il detenuto a proclamare uno sciopero della terapia salvavita dopo un anno di attesa. Oristano: "Leggendo Insieme", parte dal carcere campagna per promozione della lettura Ansa, 6 aprile 2014 Farà tappa, per ben quattro volte, anche tra le celle della Casa circondariale di Massama il tour della terza edizione di "Leggendo ancora insieme" ancora insieme organizzata da diverse associazioni culturali oristanesi e la collaborazione del Comune nell’ambito della campagna nazionale per la promozione della lettura "Il maggio dei libri". A Oristano si comincia però già martedì prossimo e si continuerà fino a giugno. Primo appuntamento proprio con i detenuti del carcere. Il programma prevede 90 minuti di letture affidate a quattro diversi lettori. Apertura ufficiale della rassegna invece il 23 aprile nel giardino dell’antico ospedale giudicale con la scrittrice Mariangela Sedda e Bepi Vigna. Poi per tutto il mese di maggio, tutte le mattine dal lunedì al venerdì laboratori di lettura in piazza Eleonora con gli studenti delle scuole cittadine. In date ancora da definire gli incontri di lettura con gestanti e neomamme al parco di viale Repubblica, con gli anziani nel quartiere di Torangius, con i bambini del reparto di Pediatria all’ospedale San Martino e appuntamenti conclusivi a giugno con i non vedenti nei giardini pubblici di via Solferino. Sport: domani si corre per Uisp-Vivicittà, anche nelle carceri di Rebibbia e Milano Opera Agi, 6 aprile 2014 Si corre domani Vivicittà: saranno 45 le città italiane e 10 quelle all’estero che scatteranno simultaneamente alle ore 10,30, per la XXXI edizione della classica corsa podistica organizzata dall’Uisp-Unione Italiana Sport Per tutti. A Roma e Opera-Milano si corre in carcere: un modo per dare anche ai detenuti occasione di vivere momenti di sport che coinvolgono l’intero Paese. E non acaso il via all’intera manifestazione verrà dato da Radio1 Rai in diretta dalla casa di reclusione di Rebibbia. Nelle altre locaità, il percorso della gara competitiva è sulla distanza dei 12 km, mentre le non competitive variano da uno a quattro chilometri. Alla fine è prevista la classifica unica a circuiti compensati, maschile e femminile. A Palermo è confermata la partecipazione di Yuri Floriani, fondista azzurro. Una grande partecipazione di giovanissimi è attesa a Reggio Emilia, dove si punterà a vincere la gara delle scolaresche più numerose. Scommetteranno su numeri da capogiro anche Varese e Matera, e nella città lucana è confermata la presenza del vincitore della scorsa edizione locale, Daniele Caruso. Numeri altrettanto importanti si attendono anche a Firenze, sia alla non competitiva di 10 km., sia alla mezza maratona (Firenze è l’unica città che si cimenta sulla distanza di km. 21,097), dove parteciperanno le keniane Hellen Jepgurgat e Jane Chelagat, mentre in campo maschile sono attesi il ruandese Sylvain Rukundo e il keniano Julius Rono. A Pescara la corsa verrà aperta con una dedica speciale a cinque anni dal terremoto in Abruzzo: "Vivicittà con L’Aquila nel cuore". Al via ci sarà anche Ivan Di Mario, titolato atleta locale. Vivicittà a Genova avrà il suo fulcro nel Porto Commerciale di Voltri Prà, grazie al forte coinvolgimento di tutte le associazioni del ponente cittadino. Paesaggio suggestivo anche a Cagliari dove la corsa si svolgerà nel fronte mare e dove prenderà il via il campione sardo Giuseppe Mura. Bello lo scenario anche a Siena con partenza in piazza del Campo. A Gorizia il percorso agonistico sarà riservato esclusivamente alle donne e metterà in collegamento transfrontaliero Gorizia con Nuova Gorica. Tutti i partecipanti di vivicittà 2014 potranno twittare una foto della corsa, della camminata o una frase attraverso l’hastag #vivicittà e poi #scattadiscatto, che sarà visibile in tempo reale anche sul sito nazionale Uisp www.uisp.it attraverso una speciale ‘finestrà durante tutta la mattinata di domani. La manifestazione ha il patrocinio della presidenza del Consiglio dei ministri e, tra gli altri, del ministero dell’Ambiente, della Giustizia, degli Affari Esteri. Ci sono anche importanti brand commerciali che sostengono l’iniziativa e c’è la collaborazione della Fidal, di Federambiente, Agenda 21 e Lifegate. Immigrazione: Boldrini (Camera); su reato clandestinità finalmente si volta pagina Ansa, 6 aprile 2014 Sul reato di clandestinità "si volta finalmente pagina, rispetto al pensiero dominante degli ultimi anni che troppo spesso ha criminalizzato i migranti". Lo sottolinea la presidente della Camera, Laura Boldrini, nel video settimanale pubblicato sul suo sito in cui ricorda come questa settimana l’Aula abbia approvato "tre importanti provvedimenti. Il primo è quello sulla cosiddetta messa alla prova: il testo prevede una delega al governo per superare il reato di immigrazione clandestina". "Lo considero un segno di maturità del Parlamento l’essere intervenuto per archiviare una normativa che per altro non è servita a ridurre gli arrivi irregolari ma ha solo appesantito il lavoro dei magistrati", sottolinea ancora Boldrini nel tradizionale video in cui fa il punto sui lavori parlamentari della settimana. E la presidente della Camera spiega che il testo della messa alla prova indica una serie di "disposizione per incentivare le misure alternative al carcere con l’obiettivo di far fronte ad una gravissima situazione di sovraffollamento". Ricordando gli altri due "importanti" provvedimenti della settimana Boldrini cita quello che "punisce lo scambio elettorale politico-mafioso", provvedimento che nasce "in risposta alle richieste della campagna "Riparte il futuro", promossa da Libera e dal gruppo Abele. E "io non dimentico di essere entrata in questa Camera portando al polso come tanti altri deputati il braccialetto bianco, simbolo dell’impegno a fare presto una buona legge su questo tema", prosegue la presidente della Camera ricordando infine il terzo provvedimento approvato alla Camera in questi giorni, il ddl Delrio su Province e Città metropolitane. Molteni (Lega): Boldrini tradisce dovere imparzialità "Il primo dovere del presidente della Camera è quello dell’imparzialità. Altro che andare nelle piazze a ‘recepire le istanze dei cittadini’. Altro che catalogare come buoni o cattivi i provvedimenti licenziati dal Parlamento. Boldrini sistematicamente non rispetta l’imparzialità che il suo ruolo richiede. Questa volta plaude all’abolizione del reato di clandestinità e al sì all’ennesimo svuota carceri". Così Nicola Molteni, deputato della Lega Nord, commenta il messaggio della presidente della Camera sull’immigrazione. "Vergogna due volte: primo perchè se vuol far politica allora farebbe bene a lasciare la poltrona della presidenza e secondo perchè con queste parole offende tutti i cittadini onesti che rispettano le regole e le vittime e i loro familiari che vedranno per le strade girare indisturbati i loro carnefici che invece dovrebbero stare in galera. E vergogna, presidente Boldrini perchè è davvero inqualificabile il fatto che lei usi i mezzi istituzionali, come il sito della Camera, per fare propaganda e veicolare i suoi messaggi politici. Sappiamo che non si dimetterà mai, sebbene dovrebbe. Perchè la verità - conclude - è che Boldrini ha solo un obiettivo, per altro raggiunto: occupare una poltrona". Gran Bretagna: rifiutata la libertà su cauzione a Rancadore, boss condannato in Italia Adnkronos, 6 aprile 2014 Il Tribunale di Westminster ha rifiutato la libertà su cauzione al boss mafioso Domenico Rancadore, nuovamente arrestato a seguito di un mandato di cattura europeo giunto dall’Italia. Come riporta la Bbc, il 65enne Rancadore comparirà di nuovo in tribunale la prossima settimana per una nuova richiesta di scarcerazione. Nell’udienza di oggi i legali del boss mafioso, condannato in Italia a sette anni di carcere per associazione mafiosa negli anni tra il 1987 e il 1995, hanno definito il nuovo arresto un "abuso procedurale". Il mese scorso, Rancadore aveva evitato l’estradizione in Italia dopo che un giudice britannico aveva stabilito che le condizioni delle carceri italiane avrebbero violato i suoi diritti. La procura della Corona non aveva presentato richiesta di appello entro i tempi previsti e quindi l’uomo, arrestato nell’agosto del 2013, era stato rimesso in libertà. Per venti anni Rancadore era riuscito a sfuggire alla cattura. Insieme alla moglie e ai due figli nel 1994 si era trasferito a Uxbridge, nella periferia occidentale della capitale britannica, adottando il nome di Marc Skinner, il cognome da nubile della suocera. In una precedente udienza il boss aveva riferito di essersi trasferito nel Regno Unito per dare una "vita migliore" ai figli e tagliare completamente i ponti con la Sicilia e l’Italia. Pakistan: condannati a morte marito e moglie cristiani, "inviarono sms blasfemo" Agi, 6 aprile 2014 In Pakistan, un tribunale ha condannato a morte una coppia cristiana perché accusata di avere inviato un sms "blasfemo", contenente cioè insulti a Maometto. Il giudice Mian Amir Habib ha notificato loro la sentenza venerdì, nel carcere di Toba Tek Singh. Lo riferisce l’avvocato della difesa, Nadeem Hassan. I due, Shafqat Emmanuel e Shagufta Kausar, entrambi sulla quarantina, hanno tre figli e vivono nella città di Gojra, che è stata spesso teatro di violenze contro i cristiani. Entrambi negano l’accusa e faranno appello. Era stato un muftì locale, Maulvi Mohammad Hussain, a denunciarli il 21 luglio dello scorso anno, accusando il marito di avergli inviato un messaggio contenente un insulto al Profeta dal cellulare della moglie. Secondo la difesa, il messaggio partì da un telefonino e che la coppia aveva perso qualche tempo prima dell’incidente; la coppia sospetta di essere stata tirata in ballo da qualcuno che aveva risentimenti nei loro confronti. Il Pakistan ha leggi molto severe per chi diffama l’Islam, compresa la pena di morte per chi insulta il profeta Maometto. Gli attivisti a tutela dei diritti umani sostengono tuttavia che spesso tali leggi vengono utilizzate per dirimere controversie personali. Gojra nel 2009 fu teatro di un pesante attacco alla comunità cristiana, dopo che si era sparsa la voce che era stato profanato un Corano: una folla inferocita assalì il quartiere cristiano e diede alle fiamme 77 case; nelle violenze trovarono la morte di 7 persone. Stati Uniti: la Cia tra inganni e torture di Michele Paris www.altrenotizie.org, 6 aprile 2014 Ad aggiungere un nuovo capitolo allo scontro in corso negli Stati Uniti tra il Congresso e la Cia è stata la pubblicazione questa settimana sul Washington Post di alcune anticipazioni relative all’indagine condotta da una commissione del Senato sugli interrogatori con metodi di tortura di presunti terroristi durante l’amministrazione di George W. Bush. Le rivelazioni, basate su fonti anonime che hanno avuto l’opportunità di leggere il rapporto classificato di oltre 6 mila pagine, rappresentano un’ulteriore devastante conferma del grado di criminalità dei vertici dell’agenzia di Langley e dello stesso governo americano, accusati di ricorrere in maniera ripetuta a pratiche illegali nell’ambito della "guerra al terrore" e di avere deliberatamente mentito sia sulla loro efficacia sia sull’entità stessa delle minacce alla sicurezza nazionale provenienti dal fondamentalismo islamico. Secondo un esponente del governo Usa citato dal Washington Post, "la Cia sosteneva sia con il Dipartimento di Giustizia sia con il Congresso che i programmi [di interrogatorio] consentivano di ottenere informazioni fondamentali e impossibili da ottenere in altra maniera per sventare trame terroristiche e salvare migliaia di vite". Alla domanda se questa tesi corrispondesse al vero, la stessa fonte del quotidiano della capitale americana ha risposto con un secco "no". Uno degli aspetti sottolineati dal rapporto prodotto dalla Commissione sui Servizi Segreti del Senato sarebbe appunto l’intervento dei vertici della Cia per manipolare i risultati degli interrogatori, ingigantendone l’importanza. Il materiale di intelligence più significativo nella lotta contro Al-Qaeda - incluse le informazioni che avrebbero portato all’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan nel 2011 - non è stato però reperito grazie alle cosiddette "tecniche avanzate di interrogatorio", vale a dire torturando i detenuti, ma con i metodi tradizionali. Ad esempio, le informazioni rivelate da Abu Zubaydah - ritenuto dagli americani uno dei massimi esponenti di Al-Qaeda - sarebbero state ottenute durante normali interrogatori ad opera dell’agente dell’Fbi Ali Soufan in un ospedale in Pakistan e non dopo che lo stesso sospettato era stato sottoposto a torture varie, tra cui il "water boarding" per ben 83 volte. Ciononostante, spiega il rapporto del Senato, il percorso delle informazioni raccolte dall’agente Soufan verso i vertici del governo era stato falsificato, in modo da dare l’impressione che esse fossero state il risultato dei durissimi interrogatori della Cia. La stessa posizione ricoperta da Zubaydah all’interno di Al-Qaeda era stata esagerata, visto che in seguito molti esperti di terrorismo islamico avrebbero affermato che il ruolo nell’organizzazione del cittadino saudita ora detenuto nel lager di Guantánamo era soltanto quello di aiutante nelle operazioni di reclutamento. Lo stesso schema fuorviante la Cia lo utilizzò anche nel caso di Hassan Ghul, la cui testimonianza sarebbe servita a identificare il corriere di bin Laden e a rivelare la residenza del leader di Al-Qaeda in Pakistan. Ghul aveva cioè detto quanto sapeva già alle autorità curde nel nord dell’Iraq, ma le informazioni di maggiore rilievo sarebbero state fatte successivamente confluire in quelle di minore importanza ottenute dalla Cia in una delle prigioni segrete gestite dall’agenzia, in questo caso in Romania, dove il detenuto è stato in seguito trasferito. Nel rapporto del Congresso sono descritte nel dettaglio anche alcune delle pratiche criminali usate contro i detenuti nel corso degli interrogatori. Significativa in questo senso è la vicenda di Ammal al-Baluchi, nipote di Khalid Sheik Mohammed, autodefinitosi la "mente" degli attentati dell’11 settembre. Dopo la cattura a fine aprile 2003 a Karachi, in Pakistan, Baluchi venne trasferito in una prigione segreta della Cia a Kabul, dove fu sottoposto a svariate torture. Tra di esse, il rapporto elenca una tecnica mai inclusa nella lista approvata dal Dipartimento di Giustizia, come l’immersione in una vasca di acqua gelata, nella quale inoltre gli agenti americani gli tenevano forzatamente la testa impedendogli di respirare. Il trattamento riservato a Baluchi prevedeva poi regolari percosse con bastoni, mentre la sua testa veniva frequentemente sbattuta contro il muro. Ad assistere agli interrogatori vi era sempre un "medico" della Cia, con l’incarico di monitorare le funzioni vitali dei sospettati ed evitare che i maltrattamenti risultassero fatali. Rendendo il tutto ancora più inquietante, le torture sarebbero continuate ad avvenire anche dopo che Baluchi, come molti altri detenuti, aveva deciso di collaborare con i propri torturatori. Ugualmente, i vertici dell’agenzia ordinavano spesso di proseguire con questi metodi anche quando veniva accertato che non era possibile estrarre ulteriori informazioni dai detenuti. Quest’ultima rivelazione smentisce perciò clamorosamente tutte le dichiarazioni ufficiali dei membri dell’amministrazione Bush e dello stesso ex presidente repubblicano, i quali avevano più volte sostenuto l’importanza delle informazioni raccolte con metodi di tortura per evitare un altro 11 settembre. Allo stesso modo, lo smascheramento delle menzogne del governo Usa - assieme alla conferma del ricorso a torture spesso nemmeno contemplate dai già vergognosi pareri legali del Dipartimento di Giustizia, redatti per giustificare le violenze commesse ai danni dei detenuti durante gli interrogatori - dovrebbe servire a mettere sotto accusa anche l’amministrazione Obama, colpevole fin dal suo insediamento di avere insabbiato qualsiasi procedimento giudiziario nei confronti dei responsabili. Lo stesso rapporto del Senato, d’altra parte, non conterrebbe alcuna raccomandazione per punire o anche solo sottoporre a indagine coloro che hanno autorizzato e portato a termine questi crimini o che hanno mentito alla popolazione americana per nascondere colossali violazioni dei diritti umani. La rivelazione della sostanziale inutilità ai fini pratici delle torture impiegate dalla Cia con il consenso dell’intero governo solleva soprattutto inquietanti interrogativi legati alle reali finalità dell’intera "guerra al terrore". In altre parole, come la costruzione di un apparato pseudo-legale contrario alle basilari norme democratiche e costituzionali è servito a gettare le fondamenta di un sistema autoritario dotato di strumenti da stato di polizia per contrastare qualsiasi minaccia derivante nel prossimo futuro dalle esplosive tensioni sociali interne agli Stati Uniti, così il ricorso alle torture avrebbe potuto anche avere l’obiettivo di legittimare o testare metodi estremi di interrogatorio da utilizzare in circostanze simili. La pubblicazione dell’esclusiva del Washington Post si inserisce in ogni caso in un momento estremamente delicato nei rapporti tra la Cia e il Congresso. Poche settimane fa, infatti, la presidente della Commissione sui Servizi Segreti del Senato, la democratica Dianne Feinstein, era stata protagonista di un discorso senza precedenti, nel quale accusava la Cia di avere violato il principio costituzionale della separazione dei poteri. L’agenzia di Langley aveva cioè spiato i computer dei membri della commissione deputata al suo controllo e dei loro collaboratori per scoprire a quali documenti segreti e non autorizzati questi ultimi avevano avuto accesso nella loro indagine sugli interrogatori post 11 settembre. In particolare, i senatori erano riusciti a visionare un rapporto classificato nel quale la Cia sembrava appoggiare le conclusioni critiche nei suoi confronti espresse dal rapporto della commissione. Pubblicamente, al contrario, i vertici della principale agenzia di intelligence americana avevano invece respinto le accuse del Congresso. Il rapporto della commissione del Senato rimane comunque segreto, anche se almeno una parte di esso potrebbe essere pubblicata nel prossimo futuro. Giovedì, infatti, nonostante la contrarietà di quasi tutti i suoi membri repubblicani, la Commissione sui Servizi Segreti ha approvato una risoluzione che intende sollecitare la Casa Bianca a declassificare qualche centinaio di pagine del rapporto stesso. Il presidente Obama, da parte sua, ha più volte lanciato segnali positivi in questo senso, anche se la versione che sarà resa pubblica risulterà pesantemente oscurata e, oltretutto, i tempi della pubblicazione potrebbero essere molto lunghi. L’amministrazione democratica, inoltre, pur cercando di apparire intenzionata a fare chiarezza sugli abusi della Cia, ha appoggiato nemmeno troppo velatamente l’attuale direttore dell’agenzia di intelligence, l’ex consigliere di Obama per l’anti-terrorismo, John Brennan, nella diatriba con il Congresso. Come è apparso di recente sui giornali americani, infine, la stessa Casa Bianca si era anche rifiutata di fornire alla Commissione del Senato più di 9 mila documenti utili all’indagine sui programmi illegali della Cia. Grecia: detenuto albanese muore dopo aver subito torture, 8 guardie carcerarie arrestate ww.fainformazione.it, 6 aprile 2014 Si può morire sotto tortura in una prigione di un paese dell’Unione Europea? In Grecia accade anche questo. Dalle prime indagini svolte sembra trattarsi, infatti, di un atto di vendetta da parte delle guardie carcerarie quello che ha provocato la morte del detenuto albanese Ilya Kareli, 42 anni, nel carcere greco di Nigrita la scorsa settimana. Lo denuncia il blog Ktg. Kareli stava scontando una condanna a 20 anni per tentato omicidio e rapina nella prigione di Malandrino, dove il 25 marzo ha ucciso una guardia carceraria, Giorgios Tsironis, di 46 anni. Kareli, riporta Ktg, si è difeso asserendo che Tsironis gli aveva negato di vedere la madre: ecco la ragione del trasferimento dal carcere di Malandrino a quello di Nigrita, dove è stato trovato morto la notte successiva. Le guardie di Nigrita affermano che Kareli aveva già segni di percosse una volta arrivato alla nuova prigione: sembra che abbia subito violenze durante il trasferimento o nel corso di una breve sosta alla stazione di polizia di Itea. I segni presenti sul corpo indicano che Kareli è stato torturato e su di lui sarebbe stato utilizzato addirittura dell’elettroshock, violenza che ha poi determinato la sua morte. Sono stati già emessi 8 mandati di arresto contro le guardie carcerarie ritenute responsabili di tali atti. Pakistan: liberati 13 detenuti talebani dopo decisione di cessate il fuoco del gruppo Ttp Ansa, 6 aprile 2014 Il governo pachistano metterà in libertà 13 prigionieri talebani come gesto di riconciliazione dopo l’estensione del cessate il fuoco fino al 10 aprile deciso dal Tehrik e Taliban Pakistan (Ttp), il principale gruppo militante che ha sede nel nord ovest. Lo ha riferito ai giornalisti il ministro degli Interni Chaudhry Nisar Ali Khan. "Siamo convinti che questo processo di riconciliazione porterà la pace in Pakistan" ha detto commentando la decisione di scarcerare i militanti. Il ministro ha poi precisato che nei giorni scorsi sono stati liberati 17 detenuti "non combattenti" di comunità tribali del nord ovest. In cambio, il governo intende chiedere al Ttp il rilascio di soldati da loro catturati e alcune personalità sequestrate, tra cui il figlio dell’ex premier Raza Yousuf Gilani e quello dell’ex governatore del Punjab Salman Tasir. Ma secondo fonti talebane i due giovani sarebbero deceduti duranti il sequestro. Egitto: peggiorano le condizioni di salute del giornalista di "al Jazeera" in carcere Nova, 6 aprile 2014 Peggiorano le condizioni di salute di uno dei tre giornalisti dell’emittente televisiva "al Jazeera", in carcere in Egitto. Secondo quanto riferiscono i familiari di Abdullah al Shami, giornalista di "al Jazeera-Mubashir", in carcere da otto mesi, le sue condizioni di salute si stanno deteriorando a causa dello sciopero della fame intrapreso 74 giorni fa per protestare contro il suo stato di detenzione. Al Shami è stato arrestato nel giorno del blitz dell’esercito per sgomberare il sit-in permanente dei Fratelli musulmani in piazza Rabiya al Adawiya al Cairo, il 14 agosto scorso, insieme ad altre 400 persone. Al Shami è stato arrestato mentre svolgeva il suo lavoro di reporter e dal carcere scrive che la sua "è una battaglia per la libertà". Libia: miliziani sequestrano 150 egiziani per chiedere rilascio trafficante armi Aki, 6 aprile 2014 Centocinquanta camionisti egiziani sono stati sequestrati insieme ai loro mezzi da uomini armati in Libia mentre stavano rientrando in Egitto. Lo denuncia il quotidiano al-Ahram, che sul sito spiega che il rapimento di massa è una forma di protesta per fare pressione sulle autorità del Cairo che hanno condannato a 25 anni di carcere un cittadino libico, Salama Mohamed Salama, per traffico illecito di armi al confine tra i due Paesi. I cittadini egiziani sono stati fermati nel distretto di Ajdabiya in Libia, come spiega ad al-Ahram Omran Ambewa, membro della tribù Al-Qanashat. Al momento non in corso negoziati tra le milizie libiche, l’intelligence militare e leader tribali per ottenere il rilascio dei cittadini egiziani e dei loro camion.