Giustizia: Opg della vergogna… non sarà l’ultimo rinvio di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 5 aprile 2014 "L’estremo rammarico" con cui alcuni giorni fa il Quirinale ha emanato il decreto legge n° 52 non esprime solo il disagio di chi - già nel luglio 2011 - aveva denunciato "l’orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibili in qualsiasi paese appena appena civile". La decisione del governo di rimandare ancora di un anno la loro definitiva chiusura, infatti, appare borderline se misurata con il metro della Costituzione. Nessuno nega la complessità della procedura in atto per il superamento dei sei manicomi criminali operanti in Italia. Tuttavia, la straordinarietà di un decreto legge è, costituzionalmente, sinonimo di imprevedibilità. Ed è arduo considerare tale una scadenza nota da tempo, originariamente fissata al 2011 dalla riforma della sanità penitenziaria, salvo slittare - di decreto legge in decreto legge - al 31 marzo del 2013, poi del 2014 e ora del 2015. Non sarà l’ultimo rinvio. Non servono doti divinatorie per predirlo: basta uno sguardo alla relazione ministeriale al parlamento sull’attuazione dei programmi regionali per il superamento degli Opg. Del resto, la Conferenza delle regioni auspicava un rinvio più lungo, al 1° aprile 2017. Né la scadenza ora fissata è messa in sicurezza dalla possibilità per il governo di sostituirsi alle regioni inadempienti: quel meccanismo era già nel precedente decreto legge, ma non ha impedito il rinvio che oggi registriamo. Cambiano i fattori: il ritardo dei decreti interministeriali necessari ad avviare i programmi regionali, la lentezza di talune regioni sulla tabella di marcia, i tempi biblici per le procedure di gara e la realizzazione delle nuove strutture. Ma il risultato è sempre lo stesso. È un risultato che pone ulteriori problemi di costituzionalità, perché le condizioni cui costringiamo gli internati in Opg sono inumane e degradanti. E lo sappiamo tutti, da quando la sera del 20 marzo 2011 Riccardo Iacona ha fatto entrare nelle nostre case, senza filtri e mediazioni, l’orrore medioevale della vita quotidiana in Opg. Quel filmato è agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale della scorsa legislatura. Il regista Francesco Cordio ne ha tratto un film (Lo Stato della follia) che ci costringe a guardare ciò che non vogliamo vedere. Invero, da molto tempo, chi doveva e voleva sapere, poteva. Quella realtà, infatti, era stata denunciata dal Commissario europeo per i diritti umani nel giugno 2005 e dal Comitato di prevenzione della tortura nel settembre 2008. Ma già prima, nella XI Legislatura, la Commissione sanità del senato aveva segnalato la grave degenerazione delle condizioni degli Opg. Eppure la dignità del soggetto internato non è bene sacrificabile, neppure in nome di esigenze di tutela della collettività, come si legge nella giurisprudenza costituzionale. Da qui i reiterati moniti della Consulta alle camere sulla necessità di superare la detenzione manicomiale: prima inascoltati, ora postergati. Chi conosce quella giurisprudenza sa anche svelare l’altra (finta) novità dell’ultimo decreto legge, laddove consente ai giudici di disporre l’internamento in Opg solo in assenza di altre misure idonee allo scopo. È una facoltà già presente nei codici, imposta proprio da una serie di pronunce costituzionali. Anche per questa parte, dunque, il decreto legge ricicla come nuove norme già vigenti, per nascondere meglio ciò che in realtà è: lo spostamento in avanti di una scadenza costituzionalmente doverosa. Quel decreto è, dunque, una resa senza condizioni. Siamo costretti a leggere ancora una volta in Gazzetta Ufficiale che l’Italia non è in grado di fare fronte ai bisogni di circa mille internati. Molti dei quali, peraltro, dimissibili perché non più socialmente pericolosi. Eppure ancora rinchiusi, perché la famiglia d’origine o le strutture sanitarie territoriali non sono in grado di prendere in carico chi pure dall’Opg avrebbe tutto il diritto di uscire. Così facendo, però, è la Costituzione ad essere violata. Perché trattenerlo significa infliggergli una ingiustificata detenzione, negargli il diritto alla cura più adeguata al suo stato di salute, riservargli un trattamento gravemente deteriore rispetto ai comuni malati di mente. Tra il 2010 e il 2012, le dimissioni dagli Opg hanno conosciuto un significativo incremento. Eppure non basta, specie se il futuro ci riserverà l’ennesimo rinvio. Ecco perché è necessario - come propone Antigone - investire su questo fronte parte dei fondi stanziati per la realizzazione delle nuove strutture, completando quanto già la legge n° 9 del 2012 prevedeva si dovesse fare "senza indugio". Superare gli Opg è costituzionalmente necessario. Si doveva fare prima. Si poteva fare meglio, perché la vera follia giuridica è nella misura di sicurezza dell’internamento in manicomi criminali (e in quegli altri buchi neri chiamati case di lavoro e colonie agricole). Quando finalmente verrà superata questa oscena eredità del codice Rocco, sarà sempre troppo tardi. Giustizia: emergenza carceri, il punto di vista "dentro le sbarre" di Sabrina Labate www.dazebaonews.it, 5 aprile 2014 Con 332 sì, il 2 aprile, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il testo sulle pene alternative, contenente tra l’altro anche l’eliminazione del reato di clandestinità. Con 288 voti a favore il Senato ha poi promosso il disegno di legge che modifica il codice di procedura penale sulle misure cautelari. Era il 30 settembre del 1999 quando una raccomandazione del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea invitava tutti gli Stati aderenti ad adottare misure per evitare situazioni di sovraffollamento carcerario. Ad oggi l’Italia è l’ unico Stato a non esser riuscito a dar seguito al monito di Bruxelles. Dieci anni dopo, nel 2009, il numero dei detenuti italiani ha raggiunto i massimi livelli dal dopoguerra, con un totale attorno ai 64.000 (150% circa della capienza massima tollerabile e 280% della capienza massima regolamentare). Sempre nel 2009 arriva, non poi così inaspettata, la prima condanna da parte della "Corte Europea dei diritti dell’uomo" Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per "trattamenti inumani e degradanti", con risarcimento danni a carico. Da allora è stato tutto un susseguirsi di decreti svuota-carceri, nuove multe dall’ Europa, indulti ed ultimatum dalla Corte di Strasburgo. Per quanto ciclicamente se ne parli, però, farsi un’idea di cosa davvero succeda dietro le sbarre è piuttosto difficile per un cittadino qualunque, poiché quello penitenziario è probabilmente il contesto di vita umana più "chiuso" ed inaccessibile di tutti. Proviamo ad addentarci virtualmente nel mondo degli istituti penitenziari. Insieme a Serena Tomassoni, presidentessa (dal 2011) della Conferenza regionale Volontariato Giustizia delle Marche, cercheremo di "aprire" al pubblico, per quanto è possibile, il mondo carcerario, dando voce a coloro che al proprio interno sono reclusi o lavorano. La Tomassoni, che opera perlopiù all’interno della Casa Circondariale di Ancona Montacuto, spiega innanzitutto che quello che i volontari offrono ai detenuti è "un sostegno di tipo materiale: da un vestito nuovo ad una telefonata ai propri familiari". Mediante la promozione della Caritas, che dal 2000 supporta l’ azione di Volontariato e Giustizia, si tentano così di colmare quelle piccole esigenze della vita quotidiana che la condizione di reclusione ovviamente ostacola. Il volontario entra in carcere, incontra il detenuto nella stanza dei colloqui, esce e, dopo un iter di autorizzazione, rientra in carcere portando quel che il detenuto aveva richiesto. Il volontario, quindi, è uno dei pochi ad avere accesso agli istituti penitenziari, ossia l’ occasione di toccare con mano in che cosa la condizione detentiva consista. Certo, il suo passaggio è limitato alla stanza dei colloqui, al massimo ai corridoi, e le celle rimangono off limits, ma si viene comunque a creare "una qualche forma di comunicazione tra interno ed esterno, essendo il volontario come un "ponte", ed in quanto tale può spaventare l’ istituzione". A proposito d’istituzioni, chiediamo a Serena Tomassoni cosa ne pensi di quel che i vari governi italiani hanno fatto e stanno facendo per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, e quale sarebbe secondo lei la strada più giusta da percorrere. "Le misure alternative alla detenzione sono la strada giusta, e l’ ordinamento penitenziario già le prevede. Andrebbero però applicate". L’affidamento ai servizi sociali, la detenzione domiciliare, il lavoro esterno etc. sono modalità di scontare la pena che la legge infatti già contempla per tutelare la popolazione carceraria e migliorare la gestione degli istituti penitenziari. La soluzione su cui puntar tutto non può essere quindi l’ indulto, perché "con l’indulto il carcere si svuota e poi nuovamente si riempie; è una misura di efficacia breve, solo momentanea". L’articolo 27 della Costituzione italiana, va poi ricordato, recita che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". "La funzione rieducativa della pena è ciò su cui puntare: il detenuto prima o poi uscirà dal carcere, sarà reintegrato nella società, ed è interesse di tutti che egli non esca da lì così come vi era entrato". Per l’attuazione della funzione rieducativa dettata dalla legge, aggiunge la presidentessa della Conferenza regionale Volontariato e Giustizia, "servono prima di tutto fondi, e parallelamente un’apertura dei magistrati, degli organi di sorveglianza e dei cittadini". Capita invece che il detenuto venga considerato dalle folle una sorta di cittadino di serie B, e che la pena venga scambiata per vendetta. Il nodo della questione è quindi il delicatissimo equilibrio tra sicurezza collettiva e dignità personale. "La persona che ha commesso reato deve scontare il proprio debito con la società, ma in maniera costruttiva". È inoltre dimostrato che nelle carceri in cui sono attuate misure sperimentali (dalle attività lavorative in carcere fino all’ affidamento in prova ai servizi sociali), la percentuale di recidiva è nettamente inferiore rispetto a quelle in cui tali misure non vengono attuate. "Quello che purtroppo accade - spiega Serena Tomassoni - è che la persona venga identificata con il reato", dimenticandosi che "sulla persona si può lavorare" e che comunque sia "lo stato di reclusione è già pena in sé". Il problema perciò è troppo spesso "l’ostilità della gente, sintomo di un più generale difetto culturale". Quello delle carceri è senz’altro un mondo chiuso. La chiusura però è fino ad un certo punto fisiologica, oltre un certo limite patologica. Diventa fondamentale, allora, una maggiore informazione, perché tutti siano a conoscenza di cosa effettivamente sia l’emergenza-carceri in Italia. È per questi motivi che, oltre all’ offerta di un concreto sostegno materiale ai reclusi, i volontari del carcere attuano una costante e capillare opera di sensibilizzazione e prevenzione, in particolar modo sui ragazzi: perché si apprenda che la pena non è vendetta né sicurezza. Perché anche i detenuti tornino ad essere visti prima di tutto come persone, e per l’ inscindibile beneficio che tale riabilitazione personale può innescare ad un livello di sicurezza collettiva. Giustizia: nessun rinvio, la riforma va fatta a giugno di Davide Giacalone Libero, 5 aprile 2014 Come lutti i salmi finiscono in gloria, così tutti i governi finiscono con l’avere il problema della giustizia. Né potrebbe essere diversamente, visto che in questo campo si danno appuntamento tre flagelli: il sistema giudiziario che non funziona, le condanne europee che umiliano l’Italia, lo squilibrio fra poteri dello Stato e la politicizzazione dell’azione penale. All’ennesimo tentativo di affrontare la questione assistiamo a una singolare contraddizione: mentre il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, annuncia che la riforma della giustizia sarà fatta a giugno, il ministro della giustizia, Andrea Orlando, sostiene che prima di fare le riforme si deve porre rimedio alle emergenze. Escluso che tali rimedi possano miracolosamente materializzarsi nel mese di maggio, posto che non s’è ancora mossa una foglia, resta da stabilirsi se i due si sono parlati. Qui di seguilo il perché l’approccio di Renzi è più irrealmente realistico. Quello di Orlando è più tradizionale, posto che ha tradizionalmente fallito: prima turiamo le falle e poi rsdisegnia-mo lo scafo. Non funziona, perché lo scafo è rotto, da troppo tempo. Se non se ne appronta uno nuovo il solo modo per tamponare le falle, ad esempio diminuendo l’affollamento carcerario, consiste nel far uscire i condannati. Cioè nel rinunciare alla giustizia. Orlando, del resto, si rallegra per il fatto che i detenuti tossicodipendenti si avvieranno numerosi verso le comunità di recupero, sgomberando le celle. Operazione giusta, che fin qui non s’è fatta perché a essere contrario è stato il suo partito, o, meglio, i genitori del suo partito, i quali davano a noi dei repressori totalitari dacché volevamo quel che ora festeggiano. Lo spettacolo del Pd che s’impegna a fare il contrario di quel che ha sostenuto la sinistra italiana è avvincente, ma anche deprimente. Non è bello far carriera grazie a partiti di cui, a quel che sembra, non si condivideva un’idea che fosse una. In ogni caso: procedendo à la Orlando non si arriva da nessuna parte. Si irrita, il ministro, quando gli si chiede cosa pensa della sorte di un condannato, Silvio Berlusconi. Capisco l’imbarazzo. Gliecché non farà nessuna riforma se perderà il consenso della parte politica che il condannato fondò, dato che i suoi compagni la pensano ancora come la pensavano, quindi hanno ancora nelle vene sangue giustiziarla e manettaro. Annunciare, al contrario, che la riforma si farà a giugno è irrealistico. Al massimo potranno fare una riforma modello provincie, cui i titoli dei giornali dicono addio e quelle restano dove sono. Ma è politicamente più realistico, perché coagula forze diverse e crea una significativa spinta riformatrice, non rassegnata a subire interferenze corporative e blocchi girotondini. La ricetta Renzi è ardita, ma il piatto che promette più appetibile. Gli ingredienti li conosciamo a memoria: separazione delle carriere; cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale; tempi certi del procedimento, non derogabili; responsabilità dei magistrati; fine dell’autogoverno corporativo e ritorno dell’organizzazione giudiziaria nelle mani del ministero (come previsto dalla Costituzione). C’è chi ci mette il pepe, chi l’aglio, chi lo zenzero, ma lazuppa è quella. Siccome l’arretrato giudiziario è spaventoso, dopo averla cucinata, per evitare che orde barbariche la usino per la minzione, sarà opportuna un’amnistia. Che ha il difetto d’essere oscena, ma il pregio di risolvere sia il problema delle carceri che quello dei tribunali. Quel che il governo deve fare è decidere quale delle due strade imboccare. Se sceglie la linea Orlando noi garantisti, amanti del diritto e della giustizia, torniamo a occuparci d’altro. Tanto non se ne fa nulla. Se sceglie la linea Renzi la cosa si fa interessante, sapendo che la scomoda e incresciosa condizione in cui si trova il leader del centro destra può tornare utile, anziché essere considerata un fastidio. Scegliere, però, devono farlo subito, altrimenti passano cose come la legge sul voto di scambio, che fanno tanta bella propaganda, ma poi, nella pratica, si scoprirà che non serve a neutralizzare i voti dei mafiosi, bensì a far entrare le procure nel gioco elettorale. Senza contare che alle politiche gli eletti sono scelti dalle segreterie, sicché se si persegue uno di loro per voto di scambio occorrerà coinvolgere anche chi lo scambiò per un portatore di buoni voti. Già le procure sono entrate nell’urna dei voti parlamentari. Fatele entrare anche in quelle dei voti popolari e poi voglio vedere quanti avranno il coraggio di profferire verbo circa le toghe straripanti. In quel caso vince Orlando, cui non auguro certo di far la fine di Clemente Mastella, ma gli suggerisco di studiarla con attenzione: a prestar servizio al bar delle toghe si finisce col puntare alla mancia e prendere una manciata di schiaffi. Giustizia: il ministro Orlando; i penitenziari minorili sono fiore all’occhiello del sistema di Giorgio Petta La Sicilia, 5 aprile 2014 È stato confermato il regime del carcere duro per Aldo Ercolano. Il Guardasigilli Andrea Orlando ha firmato, infatti, il provvedimento che rinnova l’applicazione del 41 bis che era stato revocato nei giorni scorsi per effetto dell’annullamento del precedente decreto ministeriale disposto dal Tribunale di sorveglianza di Roma su istanza dello stesso detenuto. L’annuncio arriva mentre il ministro è a Palermo per partecipare alla prima giornata dei lavori del convegno "Ripensare l’Antimafia" che si sta svolgendo nello storico Palazzo Steri. Molti i temi sul tappeto e i problemi da affrontare. Il voto sulla modifica dell’articolo 416 ter sul voto di scambio, l’introduzione nel codice penale del reato di auto riciclaggio, la situazione carceraria con il caso Provenzano, le strategie antimafia, la riforma dell’Agenzia dei beni confiscati, sempre nell’occhio dei ciclone dopo le ultime polemiche e ancora in attesa della nomina di un nuovo direttore. Cominciamo dall’Agenzia dei beni confiscati. Ministro, che futuro avrà? "Penso che dobbiamo utilizzare il lavoro svolto dai due gruppi istituiti alla presidenza del Consiglio e al ministero della Giustizia per ridare vitalità e slancio a questa struttura. Il come, credo sia una conseguenza delle scelte di merito che faremo, cioè con quali figure sarà più utile proseguire". Rosy Bindi ha proposto la nomina di un commissario. È d’accordo? "Intanto, bisogna affrontare la crisi di identità che l’Agenzia ha attraversato". È più vicino, dopo il passaggio alla Camera, il traguardo per il reato di voto di scambio? "Mi auguro che la riforma del 416 ter sia approvata prima delle prossime elezioni. Mi sembra che ci siano tutti presupposti politici perché questo avvenga. Forse non c’è bisogno di fare un decreto. Mi sembra possibile che il testo approvato alla Camera possa passare rapidamente al Senato. Altrimenti vedremo quali sono le strade per dare corso al cambiamento prima della prossima campagna elettorale". E l’auto-riciclaggio? "Il nostro Paese ha un sistema di contrasto alla criminalità organizzata molto evoluto, ma ci sono alcune lacune. Credo che quella che dobbiamo affrontare per prima sia l’introduzione del reato di auto riciclaggio, che costituisce uno strumento molto importante per affrontare la criminalità che sta a cavallo fra economia e crimine in senso stretto. Una lotta a quella fascia grigia che in questi anni è stata il terreno in cui si sono espanse le organizzazioni mafiose". Si può fare di più per combattere la mafia? "In questi giorni abbiamo fatto una seria ricognizione del sistema di contrasto alla criminalità organizzata, della normativa attuale e dei possibili interventi in merito. Il nostro è un sistema già evoluto che sarà alla base di alcune direttive europee, ma nel quale ci sono falle dovute all’evoluzione del sistema mafioso. Falle che vanno ovviamente colmate e in parte è già avvenuto in via giurisprudenziale. Ora anche il legislatore deve fare la sua parte. Ciò avviene con il voto di scambio e credo debba avvenire anche con l’auto riciclaggio. È chiaro che tutti gli strumenti e gli interventi sono insufficienti se non si accompagnano a una lotta politica e sociale ai fenomeni criminali. Questa è anche la lezione dell’esperienza siciliana". Sistema penitenziario. Perché ha voluto visitare il carcere minorile di Malaspina? "Credo che sia giusto riportare l’attenzione sul sistema penitenziario del Paese. Spesso l’abbiamo riportata sulle realtà che non funzionano. Ma ritengo che bisogna focalizzarsi anche su quelle che invece funzionano bene come la giustizia minorile che rappresenta un punto di eccellenza. Mi devo rendere conto non solo delle criticità, ma anche dei processi virtuosi che nel nostro Paese di sono realizzati". Il caso Bernardo Provenzano, malato e sempre al 41 bis, nonostante il parere delle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze. Perché? "Non c’è nessuna volontà punitiva. Ma se la Procura nazionale antimafia indica un’eventuale e ancora possibile azione di comando di uno qualunque dei ristretti al 41 bis, è mio dovere tenerne adeguatamente conto. Le valutazioni del procuratore nazionale Franco Roberti sono state poste alla mia attenzione. Ho chiesto al Dap di tenermi costantemente aggiornato sulle condizioni di Provenzano. Ribadisco che non c’è una volontà punitiva". Giustizia: il condannato al Colle... gli indagati in galera di Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2014 Mi chiedo in quale altro Paese al mondo il capo dello Stato riceverebbe un pregiudicato, non una persona che qualche anno prima ha avuto una condanna e ha pagato i suoi debiti con la giustizia, ma un soggetto che è in fase di esecuzione della pena e che solo per ragioni d’età non è ancora a San Vittore. Se il capo dello Stato avesse ricevuto Totò Riina per parlare della questione mafiosa sarebbe stata la stessa cosa. E non lo dico per paradosso. Giorgio Napolitano per giustificare in qualche modo il suo "rendez-vous" con Berlusconi si è richiamato, implicitamente, a quanto disse la prima volta che incontrò il leader di Forza Italia già condannato in via definitiva: "Un’udienza che non poteva essere negata. Perché a chiederla era il capo di un partito che ha svolto un ruolo di primo piano per un periodo notevolmente lungo della vita politica e istituzionale del Paese". E che vuol dire? Da quando in qua il consenso autorizza a compiere delitti? Se si seguisse questa logica- illogica, Berlusconi, che gode del seguito di nove milioni di voti, potrebbe uccidere sua moglie e salire lo stesso al Quirinale. Naturalmente una volta concessogli di salire al Colle Berlusconi non si è limitato a fare gli auguri di Pasqua al capo dello Stato: "O mi dai un salvacondotto, fai in modo che io non sconti la pena, o bloccherò quelle riforme cui tieni tanto". Un ricatto al limite dell’estorsione. C’è una malattia che colpisce i vecchi, si chiama "ma solo sospettati, in carcere, l’altro, già condannato, ricevuto al Quirinale. Mugugna, ma porta pazienza. Tra l’altro Berlusconi è stato condannato per un reato (frode fiscale, che non è semplice evasione, ma vuol dire aver messo in piedi un’organizzazione per frodare il fisco) che dovrebbe risultare particolarmente odioso alla cosiddetta "gente co m u n e " in un periodo in cui è tartassata dalle imposte e se non riga più che dritta, si trova puntato alla gola il coltello di Equitalia. Uno pensa che il cittadino dovrebbe essere incazzato a morte col super frodatore impunito, la cui colossale evasione ricade, pro quota, sulla sua testa. Invece no. Mugugna, pazienta. Anzi in molti continuano a votarlo. È proprio vero quello che dice Etienne de La Boétie, che siamo sudditi perché vogliamo esserlo: "Co m ‘è possibile che tanti uomini sopportino un tiranno (ma al posto del "Tiranno" si può mettere qualsiasi altro regime, perché per de La Boétie, come per Stuart Mill, ogni potere è di per sé illegittimo, ndr) che non ha forza alcuna se non quella che essi gli danno?". Il popolo, si sa, è bue. Paziente come un bue. Ma bisogna stare attenti a non abusare troppo della sua pazienza. Il silenzioso contadino piemontese che per quarant’anni ha zappato pazientemente la terra, subendo nel frattempo ogni sorta di angherie, un giorno, di colpo, senza alcuna apparente ragione, dà una tremenda roncolata al primo che gli capita a tiro. Perché, come dice la Bibbia, "terribile è l’ira del mansueto". Giustizia: Cassazione; niente sospensione della pena per motivi di salute a Provenzano www.tgcom24, 5 aprile 2014 Parma, respinto il ricorso motivato dalle gravi condizioni di salute del boss. Il ministro Orlando gli aveva già prorogato il regime del 41bis. Niente sospensione della pena per Bernardo Provenzano, il boss di Cosa Nostra detenuto al regime del 41bis nel carcere di Parma. Lo ha deciso la Cassazione che ha respinto il ricorso dei legali del capomafia che, invano, hanno sostenuto che le condizioni di salute di Provenzano, affetto da patologie neurologiche, non siano compatibili con il carcere. La scorsa settimana il Guardasigilli Orlando gli aveva prorogato il regime di carcere duro. In particolare, la Prima sezione penale della Cassazione - presidente Renato Cortese, relatore Giuseppe Locatelli - ha respinto, con condanna alle spese, il ricorso degli avvocati Rosalba Di Gregorio e Francesco Marasà contro l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, il 27 agosto, aveva respinto la richiesta di differimento della pena "per grave infermità" per Provenzano. Per le cattive condizioni di salute del boss - condannato a 20 ergastoli, 33 anni e sei mesi di isolamento diurno, 49 anni e un mese di reclusione e 13mila euro di multa - le Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze avevano dato parere negativo alla proroga del 41bis che invece era stata approvata dalla Direzione nazionale antimafia che ritiene che Provenzano sia ancora, potenzialmente, in grado di dare ordini a Cosa Nostra. Provenzano è già stato ricoverato in ospedale, in coma, e, secondo quanto riferito dai suoi familiari ai media, è tra l’altro nutrito attraverso un sondino nasogastrico. Lazio: Fns-Cisl; i detenuti in regione aumentano, potenziare il personale negli Uepe Ansa, 5 aprile 2014 Pur continuando a diminuire i detenuti nelle carceri italiane il dato per la Regione Lazio è in controtendenza, seppur di poco, rispetto a quanto fornito dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), aggiornato al 31 Mmarzo. Si rappresenta, infatti, che ad oggi i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 6.777 di cui 465 donne (1.939 in più rispetto ai 4.838 posti disponibili). In considerazione al dato fornito, in data 28 febbraio 2014, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) i detenuti sono aumentati, quindi, di 21 unità. Sovraffollamento che comunque continua a risultare elevato rispetto al dato nazionale dei detenuti reclusi nei 205 Istituti Penitenziari, 60.197 contro una capienza regolamentare di 48.309. Prima l’entrata in vigore della Legge c.d "svuota carceri" e, successivamente la nuova legge, approvata solo alcuni giorni fa, in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio che, contiene disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, produrranno in questi mesi per quanto concerne il sovraffollamento delle carceri degli effetti deflativi mentre, per quanto riguarda, le misure alternative vi sarà un aumento esponenziale di carico di lavoro sugli uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe), che per la Fns Cisl, non risultano (in risorse sia di personale che economiche) adeguatamente potenziati per recepire tali effetti, pur apprezzando lo spirito delle leggi tendenti a responsabilizzare maggiormente il detenuto offrendogli, quindi, strumenti idonei ad evitare la recidività e a favorirne il reinserimento nella società. Friuli Venezia Giulia: la Giunta regionale approva accordo per Sanità penitenziaria Ansa, 5 aprile 2014 È stato approvato dalla Giunta regionale lo schema di protocollo d’intesa che prevede l’avvio di forme di collaborazione tra l’ordinamento sanitario e quello penitenziario con l’obiettivo di erogare l’assistenza ai detenuti negli istituti penitenziari del Friuli Venezia Giulia. Il protocollo sarà sottoscritto tra la Regione e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Veneto, Trentino Alto Adige, Fvg. Si prevede una fase sperimentale della durata di un anno e un registro delle criticità, al fine di poter definire congiuntamente l’eventuale revisione dell’accordo. Si stabiliscono le modalità di raccordo tra il Ssr e l’ordinamento penitenziario, con l’obiettivo di garantire le funzioni di sanità penitenziaria nel Fvg senza alcun onere a carico dell’Amministrazione regionale. La Giunta ha infine dato mandato alle Aziende per i servizi sanitari competenti per territorio di redigere protocolli locali con i singoli istituti carcerari che siano coerenti con le disposizioni dell’accordo. Sardegna: Di Gregorio nominato Provveditore regionale facenti funzioni alle carceri Ansa, 5 aprile 2014 Silvio Di Gregorio, già direttore dell’Istituto penitenziario di Parma e attualmente responsabile dell’ufficio del personale del Corpo di polizia penitenziaria del ministero, è stato assegnato alla Sardegna in qualità di vicario in attesa della nomina di un nuovo provveditore regionale dopo il definitivo trasferimento a Roma di Gianfranco De Gesu. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, facendo osservare che "le particolari condizioni del sistema penitenziario in Sardegna richiedono un provveditore che si occupi esclusivamente delle problematiche dell’isola dove si protraggono ulteriormente i tempi per l’inaugurazione della nuova casa circondariale di Cagliari-Uta". "La Sardegna - sottolinea l’esponente socialista - continua ad essere considerata marginalmente dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Non solo sono insufficienti i direttori degli istituti di pena, ma anche il provveditore regionale risulta spesso occupato in altri ruoli". Sulmona (Aq): incontro tra i Sindacati di PolPen e il Provveditore, ma i problemi restano di Maria Trozzi www.quiquotidiano.it, 5 aprile 2014 Non è recuperando agenti della Polizia penitenziaria nel territorio regionale che si risolve la questione del carcere di Sulmona. Era logico pensare che l’incontro, svolto ieri a Pescara, tra le organizzazioni sindacali e il Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria per l’Abruzzo (Prap), Bruna Brunetti, non sortisse l’effetto sperato dai rappresentanti di categoria che intravedono la possibilità di superare le carenze di organico, nella Casa di reclusione peligna, solo guardando al di là dei confini abruzzesi, cercando gli agenti necessari attraverso un interpello nazionale. Moltissimi agenti di Sulmona sono impegnati nelle carceri del Nord Italia e da tempo chiedono un riavvicinamento alle proprie famiglie in Abruzzo per lavorare nel carcere ovidiano. Tutt’ora attendono risposta 149 agenti: 127 uomini, 9 donne, 13 Ispettori e sovrintendenti. Se anche solo si potesse soddisfare metà delle domande, il penitenziario sulmonese sarebbe più sicuro e molta parte della vertenza peligna sarebbe appagata. All’opposto, si è provato a risolvere la drammatica situazione limitandosi a soluzioni locali e il problema, insoluto, perdura. Ai sindacalisti impegnati a ricomporre le fila del personale della Polizia penitenziaria di Sulmona, il Provveditore Brunetti ha ammesso di avere le mani legate e di non poter far nulla per venire incontro alle richieste perché le altre carceri abruzzesi non sono immuni dalle carenze di organico. La Uil penitenziari, nel ribadire la propria posizione sull’inefficacia derivante da un paventato interpello regionale ne ha subito bocciato la sua eventuale implementazione e ha rincarato la dose sulla necessità di spostare altrove la ricerca del personale. Secondo la Uil Penitenziari, una soluzione che si limita all’Abruzzo scatena una vera e propria guerra tra i poveri e potrebbe irrigidire ulteriormente il rapporto degli agenti con le rispettive famiglie già fin troppo sacrificate dal gravoso impegno lavorativo chiesto attualmente e inasprito da un eventuale distacco, per di più senza il benché minimo incentivo, morale o materiale che sia. Una eventualità, quella dell’interpello regionale, che non convince affatto la Uil, memore del tentativo fatto, qualche tempo fa, di obbligare dei poliziotti penitenziari a prestare la loro opera, distaccandoli dalle sedi di Chieti ed Avezzano, a Sulmona. Dopo un solo giorno di servizio, gli agenti si ammalarono. Tre le richieste che per Mauro Nardella, Segretario regionale (facente funzioni) della Uil Penitenziari, possono ridare ossigeno e speranze alla Casa di reclusione di Sulmona: 1) interpello nazionale da estendere a 125 agenti che hanno fatto richiesta di avvicinamento, attualmente operanti negli istituti del Nord Italia; 2) Implementazione degli apparati di videosorveglianza, di allarme ed anti scavalcamento; 3) Utilizzo dell’esercito per rinforzare il presidio esterno del carcere ivi compreso il servizio di sentinella. "Purtroppo, per il secondo punto ben poco si potrà fare nell’immediato, atteso che è necessario oltre un milione di euro (1.070.000 per l’esattezza) e sono stati assegnati solo 250mila euro, somma a malapena sufficiente a coprire le spese per la messa a punto dell’impianto di videosorveglianza - dichiara Nardella - Bisognerà altresì porre particolare attenzione all’aspetto burocratico che dilaterà, non poco, i tempi che serviranno per la sua predisposizione. I soldi per i progetti sono pochi, ma cosa ancor più incredibile, molti di meno sono i fondi assegnati dal Dap, non più di 150mila euro destinati alla manutenzione degli istituti di pena di tutto il distretto. Quello effettuato dal Prap nei confronti del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), per salvaguardare le proprie strutture dal continuo decadimento sta divenendo un vero e proprio accattonaggio. Era stato previsto per il carcere peligno un progetto di adeguamento alle disposizioni del Dpr 230/99 (docce in camera e rivisitazione di tutti gli spazi) per un importo pari a 1 milione 568mila euro che, se fosse stato attuato, avrebbe ridotto il carico di lavoro degli agenti costretti invece a fare chilometri e chilometri per lavorare nelle sezioni detentive - conclude il Segretario regionale. La coperta è sempre più corta anche per il taglio dell’organico regionale di almeno 100 unità rispetto alle previsioni di cui al decreto ministeriale del 2001, disposto in maniera unilaterale dal Dap e che ha ridimensionato drasticamente le aspettative di tutti gli operatori penitenziari abruzzesi. Una coperta che non riesce più a scaldare i nervi delle OO.SS. sempre più intenzionate a proseguire nel percorso di protesta che continuerà con sempre maggiore intensità qualora non si risolva, nel breve periodo, l’annosa questione". Lamezia Terme: documento congiunto delle associazioni, contrarietà a chiusura carcere www.lametino.it, 5 aprile 2014 Pubblichiamo il documento congiunto su no chiusura carcere firmato dalle seguenti associazioni: Associazione Nazionale Forense, Aiaf, Aiga, Camere Civili, Sappe, Cisal, Cgil, Funzione Pubblica Catanzaro/Lamezia, Amolamezia, Cittadinanzattiva, Comitato Civico, Sintal, Comitato Salviamo la Sanità del Lametino, I Lametini 2.0, Insieme per Lamezia, Italia Nostra, Lamezia Libera, Mondo Libero. "Nessuna ipotesi subordinata di sostituirlo con altro. Diciamo un no secco e senza alternative alla progettata chiusura del Carcere di Lamezia Terme. E di motivi per dirlo ne abbiamo fin troppi. Il nostro è uno dei pochi carceri d’Italia in regola con i parametri previsti dal Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, Dpr 230/2000, essendo stato, per esempio, il primo a essere dotato dei bagni nelle celle detentive come locali a sé e delle docce all’interno di ogni cella. Quasi tutte le novità introdotte per adempiere alla nota sentenza "Torreggiani", con la quale la Corte Europea ha condannato l’Italia per trattamento disumano nelle carceri del nostro paese, sono state rese immediatamente operative all’interno della struttura lametina: i colloqui detenuti-familiari vengono effettuati giornalmente; viene data la possibilità ai detenuti ai fini della cosiddetta socialità di trascorrere almeno otto ore al di fuori delle celle detentive, sia nei cortili passeggio, sia nelle aree ricavate all’interno delle sezioni, sia attraverso la frequenza di appositi corsi (scolastici di elementare e media, musica, pittura, teatro, alfabetizzazione informatica, ecc., che hanno visto anche la costante e valida presenza di esperti esterni e del volontariato). La struttura, seppure antica, è stata fatta oggetto di costanti interventi diretti ad innalzare i già ottimi livelli di sicurezza. I vari controlli semestrali, cui l’istituto è sottoposto (ad esempio quelli della Asp locale o ispezioni presso la cucina detenuti) non hanno mai rilevato particolari criticità. L’Istituto è stato adeguato alla normativa in materie di sicurezza sui posti di lavoro nel 2012/13. Si tratta comunque di una struttura che ha ospitato detenuti come Pino Scriva, uno dei primi pentiti mafiosi della Calabria, nonché altri grandi collaboratori di giustizia sia mafiosi che terroristi. Il Generale Dalla Chiesa lo ritenne all’epoca come uno dei carcere più sicuri d’Italia, tanto che vi fece aprire una sezione femminile per le Brigatiste Rosse. Come ha affermato l’Osservatorio Antigone, il carcere di Lamezia Terme si presenta come una struttura di dimensioni ridotte, ma anche molto curata, tanto da non assumere quelle caratteristiche tipiche dei carceri italiani, che hanno portato alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea. Attualmente le celle detentive sono 11, di diversa grandezza, e prevedono una presenza dai 2 ai 7 posti letto, per una capienza complessiva di 47 detenuti in pieno rispetto dei dettami della sentenza Torreggiani. Tant’è che episodi conflittuali o di protesta e anche atti di autolesionismo, molto frequenti in altre realtà penitenziarie, nel carcere di Lamezia sono praticamente pari allo zero. Anziché chiuderlo, l’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe invece indicare il Carcere di Lamezia alla Corte Europea come esempio virtuoso degli sforzi dei suoi volenterosi agenti e dirigenti di adeguarsi ai dettami della sentenza Torreggiani. Quanto a disfunzioni e costi ricadenti sulla Pubblica Amministrazione dalla sua chiusura Il Tribunale di Lamezia Terme ha un bacino di utenza di circa 130 mila abitanti e una forte presenza di organizzazioni criminali. La sua soppressione, come sta già accadendo con la sua chiusura temporanea, sarebbe causa di notevole sovraccarico di lavoro e spreco di tempo per i magistrati e per il personale di cancelleria che dovrà recarsi in trasferta per gli interrogatori. Il problema si ripropone anche per la stessa Polizia Penitenziaria di stanza a Catanzaro che, come sta già venendo, verrebbe ad essere sovraccaricata di notevole surplus di lavoro e spreco di tempo per gli adempimenti di notifica e per la traduzione di detenuti nei giorni del processo. Inoltre, nel Comune di Lamezia, per la grave carenza di personale, a svolgere il servizio di vigilanza notturna possono essere preposte soltanto una gazzella di Carabinieri ed una volante di PS. La volta in cui dovesse accadere che entrambe operino in contemporanea degli arresti con la conseguente necessità di tradurre gli arrestati nei vicini carceri di Catanzaro o Vibo Valentia, la città rimarrà di fatto per tutto il resto della notte senza alcun effettivo controllo di polizia. Quanto allo spreco di denaro pubblico Solo dieci anni fa il Carcere di Lamezia è stato oggetto di una integrale ristrutturazione. Ma le spese di adeguamento non sono terminate lì, in quanto esso è stato via via adeguato alle esigenze di civiltà e umanità carceraria. Il costo complessivo di tutti i lavori che è gravato sulla collettività è quantificabile, certamente per difetto, in almeno € 400/500.000 che con la chiusura del Carcere non solo sarebbero da considerarsi buttati al vento, ma comporterebbero un ulteriore gravoso costo di demolizione e smaltimento per la Pubblica Amministrazione che dovesse decidere di riutilizzare per altri scopi la struttura. In tempi di c. d. spending review sono costi insopportabili per le casse pubbliche ed intollerabili da parte dei cittadini. Soprattutto perché, per quanto riguarda i cittadini lametini, avrebbero addirittura una ricaduta economico-sociale regressiva, facendo venire a mancare quella parte di indotto economico, alquanto rilevante per l’economia cittadina, di commercio e servizi che gravitano intorno alla presenza del Carcere intesa non solo come struttura, ma anche come persone che con esso hanno a che fare (personale, detenuti, familiari, avvocati, ecc.). In conclusione Altri istituti ben più piccoli di Lamezia non sono stati e non vengono attualmente dimessi (ad es. Camerino, Massa, Lauro, Empoli, Sondrio) e nel complesso sono oltre trenta gli istituti a livello nazionale che non raggiungono la capienza di 60 detenuti. La chiusura del Carcere di Lamezia trova, quindi, unicamente origine, per come chiarito anche dal Provveditore Regionale dott. Acerra, dalla necessità di aprire il "nuovo" padiglione di Catanzaro e dalla conseguente necessità di recuperare altrove il personale di polizia penitenziaria. Mentre sembrerebbe che dagli interpelli effettuati dall’Amministrazione altro personale avrebbe dato la disponibilità ad essere trasferito presso il nuovo padiglione di Catanzaro. È, dunque, davvero impossibile comprendere come in un momento in cui l’Europa ci condanna per il disumano sovraffollamento delle nostre galere, in cui aleggia di continuo il ritornello dell’amnistia da usare come svuota-carceri, in cui il Ministro di Giustizia in adeguamento alla sentenza Torreggiani progetta di pagare una indennità giornaliera ai detenuti per risarcirli della ulteriore pena inflitta con il sovraffollamento, che ci sia qualcuno che pensi a chiudere un Carcere come quello di Lamezia, che potrà essere ancora in minima parte inadeguato, ma non è certo disumano. Per finire, una domanda non retorica. Vorremmo sapere se con l’apertura di nuove strutture i Dirigenti che ne assumono l’onere e gli onori vengano anche a godere di premialità e incentivi economici legati alla realizzazione del progetto della nuova struttura". Firenze: nel carcere minorile di via Orti Oricellari… che ogni anno ospita 150 giovani di Mario Neri La Repubblica, 5 aprile 2014 Ci transitano 150 minori all’anno. Quasi tutti da Toscana e Umbria, quasi tutti stranieri: marocchini, tunisini, albanesi, romeni. Ma anche qualche italiano. Il tempo medio di permanenza è di 3-4 mesi: custodia cautelare in attesa del processo o di misure alternative. Perlopiù ci finiscono perché li hanno sorpresi a spacciare, per furto o rapina. Raramente approdano al Meucci ragazzini che si sono macchiati di omicidio. In ogni caso, qualunque sia il reato, qualunque l’accusa o la condanna, le storie (e le vite) dirottate dalla giustizia italiana all’Istituto penale minorile di Firenze hanno sterzato qui, dentro le mura trecentesche di questo ex convento in via Orti Oricellari, perché hanno preso la piega sbagliata. "Sono entrate in un vicolo cieco. Ma il nostro compito non è risparmiargli una pena ma fare in modo che serva ad una rieducazione, e qui ci riescono", dice il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi (Ncd), venuto a visitare il carcere minorile (maschile) per "capire in che condizioni fosse e in che modo aiutarlo". Un progetto c’è già: "Vorremmo aprirci un ristorante didattico aperto alla città - dice Fiorenzo Cerruto, direttore dal 1988 - un locale dove i detenuti imparino sul campo un mestiere da spendere fuori". I piani e lo slancio del direttore però sono "azzoppati" dai lavori di restauro al piano terra. "Ci hanno costretto a ridurre la capienza, possiamo ospitare solo 12 ragazzi e non 31. Abbiamo dovuto trasferire gli uffici degli educatori in uno dei due piani destinati alle stanze". Le chiama stanze. Non celle. Ma chi sono e come vivono i ragazzi del Meucci? Dicono che le celle non sono poi così male. Se ne lagnano, certo, "ci sono i mobili vecchi, i materassi un pò sfondati, ma sono pulite e c’è il bagno con la doccia", racconta Hamid, 17 anni, giovane marocchino finito dentro per spaccio e solo perché non ha né famiglia né una casa dove scontare i domiciliari. Capita spesso ai detenuti del Meucci. Le sezioni sarebbero due, una da 8 "stanze" e una da 7. Ognuna da tre posti, "ma per via dei lavori di ristrutturazione, ne vengono utilizzate solo 4", spiega il direttore Fiorenzo Cerruto. Non è un caso che il cantiere sia il primo luogo che ci mostri durante il viaggio nel carcere minorile: "Alla fine sarà costato 6 milioni di euro". I giornalisti non li fanno salire. Bisogna accontentarsi di un resoconto: "Le celle sono spaziose, ci sono le finestre, ma intendiamoci - precisa il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi - ci sono sbarre e porte blindate, siamo in una prigione". I ragazzi del Meucci sono tipi turbolenti. Un pò piccole canaglie e un po’ figli della disperazione, venuti da una frontiera sociale che quasi mai finisce sotto i riflettori. "Ora li vedete tranquilli, vogliono fare bella figura - confessa una guardia penitenziaria - ma alcuni sono tremendi. Vengono dalla strada, hanno un passato di violenza". Nessuno dei secondini - 31 quelli che si alternano su tre turni - è in divisa e armato. Un strategia distensiva voluta da Cerruto. "Chi passa di qui deve poter cambiare rotta". A volte sono rotte deragliate, altre soltanto traiettorie da correggere. Wai, 20 anni, tunisino, è qui da sei mesi e ha già cominciato a riempire le pareti e i quaderni con il suo rap. "Le mie canzoni? Scrivo di libertà e ingiustizia. L’ultima l’ho dedicata ai presidenti: Napolitano, Letta, Renzi... e anche a Berlusconi. "Silvio tu sei impunito e io invece carcerato sono finito", canta in dialetto partenopeo. L’ha imparato in quattro anni di pellegrinaggio fra comunità e istituti penitenziari di Italia. Accanto a lui, nel laboratorio di cucina, ci sono due romeni. Schivi, non parlano una parola di italiano. "Uno è qui da due giorni, è entrato per rapina, sequestro di persona e lesioni", racconta una guardia. "Un altro ha ammazzato un rivale", sospira un ragazzino. Alcuni sono maggiorenni. "Se entrano minorenni, restano nei circuiti protetti fino a 21 anni, è la legge", spiega Toccafondi. "A me mi hanno preso a spacciare tre volte - riprende Wai - mi hanno dato 4 anni". Nel frattempo è uscito e rientrato. "A febbraio ho avuto un figlio, gli ho dedicato un rap". "Io sono qui per rapina", alza la mano Parec, 17 anni, albanese. Qui Wai fa da capo branco. È lui il più chiassoso del gruppo. "Direttò direttò, ecco ‘o gelato, ma quand’è che ci fate uscire? Mandaci a lavorà", si era presentato avanzando con un vassoio pieno di coppette uscendo nel cortile alberato. "Molti vorrebbero un articolo 21", spiega Claudio Bacaloni, vicedirettore dell’Ufficio regionale scolastico, "lavoro al mattino e rientro alla sera". Il gelato l’hanno preparato con l’aiuto di Vetulio Bondi, presidente dell’associazione Gelatieri artigiani fiorentini che due volte alla settimana, dal 2010, tiene un corso al Meucci per insegnare a chi sta dentro un mestiere per cavarsela una volta fuori. Già due dei suoi ragazzi ce l’hanno fatta. "Qui prepariamo anche la pizza, i biscotti e il pane", dice Wagadi, 17 anni, marocchino, indicando il laboratorio con i forni, la macchina per la pasta, i frigoriferi. "Inoltre ci aiutano almeno 80 volontari", spiega il direttore. La cooperativa Ulisse ha istituito una officina per il restauro delle bici rottame come a Sollicciano, la Cat ha portato l’hip pop e la musica, Comune e Provincia finanziano i laboratori, fra cui falegnameria e pittura. La stanza di arte è piccola, forse un pò troppo, ma piena di acquerelli che raccontano i desideri di chi è passato qui. Erik ha disegnato le sue mani ammanettate che stringono la Terra, qualcuno ha imitato Picasso, altri sognano una crociera, donne mitologiche e l’albero della vita. Su un cavalletto c’è un cartello: "Non vogliamo vivere in galera perché è brutta". In carcere lavorano due psicologi, c’è un presidio dell’Asl, un mediatore culturale, ogni giorno una maestra elementare viene a fare scuola. "Ma nella stanza ci sono due tavoloni scassati". Quasi tutti hanno bisogno di un’alfabetizzazione di base. Al Meucci c’è finito anche Nipun, 14 anni, italiano di seconda generazione: "I miei sono dello Sri Lanka, io sono nato a Genova. Mi hanno arrestato in un carrugio mentre rapinavo la gente: cellulari, portafogli". Abbassa lo sguardo. "Io non sono un delinquente, voglio tornare a casa". Un ristorante nel carcere dei minori (cuochi) Un ristorante dentro il carcere minorile. È il progetto dell’istituto penitenziario Meucci, in via degli Orti Oricellari, dove entro il 2015 potrebbe nascere una speciale pizzeria dove cuochi, camerieri e pizzaioli saranno i minorenni reclusi. Un progetto ambizioso, ma non certo irrealizzabile visto che i giovani detenuti svolgono da anni - all’interno del regime carcerario - laboratori di pizzeria, panetteria, pasticceria e gelateria. Sarà un "ristorante culturale", spiega il direttore dell’istituto Meucci, Fiorenzo Cerruto, dove la cena sarà accompagnata da "incontri e dibattiti sul tema del carcere". Il luogo deputato ad ospitare il ristorante sarà l’ampia cantina dello stabile, un elegante spazio fatto di archi e colonne che faceva parte dell’antica chiesa risalente al 1200. Ieri mattina il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi ha visitato l’istituto per verificare lo stato dei lavori di ristrutturazione: "I lavori dovevano finire a metà 2014, in realtà non termineranno prima del 2015 e in queste condizioni il carcere può ospitare soltanto otto detenuti anziché 31". Attualmente gli ospiti del carcere sono soprattutto ragazzi stranieri, molti dei quali si trovano in arresto presso la struttura per reati legati allo spaccio. Uno di loro sta scontando invece il reato di omicidio. Firenze: ok dalla Giunta comunale all’Icam, la Casa per le madri detenute, avrà 10 posti La Repubblica, 5 aprile 2014 Nasce la "casa" per le mamme detenute di Sollicciano. Ieri la giunta comunale ha approvato il riconoscimento di interesse pubblico per la realizzazione dell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam) e il relativo schema di convenzione per la nuova struttura che nascerà in via Fanfani, in un immobile messo a disposizione dalla Madonnina del Grappa. Potrà ospitare un massimo di otto - dieci minori (da zero a sei anni) con relative mamme. "Il segnale di una città attenta alla tutela dei minori", dichiara il vicesindaco Dario Nardella. Soddisfatta la vicepresidente della Regione Stefania Saccardi che aveva seguito il progetto da assessore al sociale del Comune. La nuova "casa" è finanziata dalla Regione Toscana, che ha stanziato 400.000 euro. Un ulteriore stanziamento è arrivato dal Ministero della Giustizia. Livorno: l’ambasciatore delle vigne, un ettaro di libertà nell’isola-carcere della Gorgona di Antonella Mollica e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 5 aprile 2014 La "medaglia di Cangrande" a Mazzerbo, direttore del carcere di Gorgona, per il progetto con Frescobaldi e i detenuti Una piccola vigna di un ettaro nell’isola più piccola dell’Arcipelago toscano, "residenza" di settanta detenuti. È partita da qui l’avventura che ha permesso al direttore del carcere di Gorgona Carlo Mazzerbo di diventare "ambasciatore del vino". Domani a Vinitaly, la più nota kermesse di enologia italiana che si tiene a Verona, gli consegneranno la "medaglia di Cangrande" e il titolo di "Benemerito per la viticoltura" in Toscana. È stato l’assessore regionale Gianni Salvadori a indicare il direttore specializzato in carceri-frontiera, per aver saputo valorizzare la cultura vinicola della propria terra. Mazzerbo, 56 anni, catanese di origine, è nell’amministrazione penitenziaria da trent’anni. Pianosa, Gorgona, Porto Azzurro e ancora Gorgona dove ha trascorso ventuno anni. Nell’isola di due chilometri quadrati a diciotto miglia marine dalla costa ha scritto il libro Ne vale la pena dove racconta la sua vita e il suo lavoro in quello "scoglio" fuori dal mondo. La sua scommessa è partita lì nel lontano 1999 quando spunta la prima vigna che segna la nuova vita del carcere-laboratorio diventato poi istituto-modello, nonostante qualche sconfitta, (la più pesante i due omicidi di dieci anni fa). "In quegli anni tutti volevano andare via dall’isola senz’anima, deserta e desolata - racconta Mazzerbo - con i detenuti ingabbiati quotidianamente tra sbarre e monotonia. Poi la scoperta di quel potenziale enorme. Anche chi ha sbagliato ha delle qualità". Quindici anni dopo quella vigna è diventata un progetto che porta il marchio Frescobaldi, la storica dinastia del vino fiorentina. "È nato un particolare vino bianco a base di vermentino e ansonica, arricchito da un subbuglio di emozioni", dice Lamberto Frescobaldi, padre del progetto nato quasi per caso nell’estate 2012. "Ricevo una mail di un educatore del carcere che chiede aiuto a una serie di aziende per far decollare quella vigna di un ettaro. Resto subito affascinato dall’idea, rispondo alla mail e scopro che sono stato il primo e unico. Decido di andare a vedere di persona l’isola che non avevo mai visto". È l’inizio di una doppia sfida: dare lavoro ai detenuti e mettere nelle loro mani una professionalità da spendere una volta fuori. "Non sono esperto del settore - spiega Frescobaldi - ma mi hanno detto che tra i detenuti che lavorano il rischio di tornare a delinquere si abbassa notevolmente. In quest’ultimo anno un solo detenuto è stato scarcerato, volevo assumerlo nella mia azienda ma lui ha preferito tornare dalla sua famiglia a Bolzano". Si inizia a lavorare sulla vigna, poi sulla cantina: "Abbiamo vinificato sull’isola, abbiamo insegnato ai detenuti come fare il vino, come potare la vigna". Si parte da zero: macchine non ce ne sono, attrezzature neppure. Poi un giorno arriva un trattore, regalo di un’azienda a cui si rivolge Frescobaldi. Al "vestito" ci pensa Simonetta Doni "che fa delle etichette stupende. A tutti dico chiaramente che non ci sono soldi, spiego che al massimo possiamo guadagnare una fiche per il paradiso, ma tutti accettano con entusiasmo". A maggio arriva il vino: 2.700 bottiglie destinate a ristoranti ed enoteche più prestigiose. Tra un mese andrà in bottiglia il "Gorgona" anno secondo. Palermo: ragazzi detenuti diventano ciceroni. Il Sindaco "nuovo passo per loro recupero" Adnkronos, 5 aprile 2014 Detenuti ciceroni. Accade a Palermo, dove gli ospiti del carcere minorile Malaspina, da oggi a domenica racconteranno Villa Palagonia ai visitatori all’interno dell’istituto per minorenni. È una delle novità della ventesima edizione de "La Scuola adotta la città", l’iniziativa promossa dal Comune, che trasforma gli studenti in piccoli ciceroni, pronti ad accogliere i visitatori e raccontare loro i segreti e la storia dei monumenti cittadini. "Esprimo il mio apprezzamento - ha detto il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando - per il coinvolgimento diretto dei ragazzi dell’Istituto penale Malaspina. Questo è un nuovo processo del cammino di recupero di questi ragazzi e della loro partecipazione alla vita quotidiana". Villa Palagonia è stata adottata assieme ai ragazzi del Malaspina dagli studenti dell’Istituto comprensivo "Giotto-Cipolla", dell’Istituto comprensivo "Manzoni-Impastato" e dell’Ipia "Salvatore D’Acquisto" di Bagheria. Catania: negato permesso a detenuto per funerali della madre "...e noi teniamo la salma" di Vittorio Romano La Sicilia, 5 aprile 2014 Non potrà partecipare alle esequie della madre. I parenti: "Aspettiamo che esca". "La salma di mia suocera resterà a casa finché mio marito non avrà il permesso di tornare per assistere al funerale di sua madre. Il corpo è tenuto al fresco e si conserverà bene per tutto il tempo necessario. Aspettiamo, premura non ne abbiamo". La signora Sebastiano Baialardo, 40 anni, è la moglie di Orazio Cunsolo, 51, detenuto nel carcere di Caltagirone per scontare una condanna a 7 anni per rapina e altri reati. "Questo è l’ultimo anno di pena - dice la donna - poi tornerà a essere un uomo libero. Mia suocera, Vincenza Mauceri, era malata da tempo e a Orazio non hanno mai consentito di venire a casa per vederla e confortarla, neanche per un paio d’ore. Ieri mia suocera se n’è andata, a 83 anni, e io ho inviato un fax al carcere per ottenere un permesso per mio marito e contestualmente il nostro avvocato ha fatto istanza al giudice di sorveglianza di Catania. La risposta è stata negativa. Non può assolutamente uscire di prigione. E questa è democrazia? Dove sta la pietà?". La signora si fa scura in volto e aggiunge: "Abbiamo perso un figlio, 2 anni fa, per un incidente stradale. Aveva 13 anni, si chiamava Giuseppe. Mio marito decise di donare gli organi. In quell’occasione lo fecero uscire dal carcere. In men che non si dica mio figlio era a Palermo, su un freddo lettino di ospedale, per l’espianto degli organi che avrebbero fatto rivivere altre persone malate. Mi facciano allora capire: in questi ultimi due anni di carcere Orazio s’è trasformato in un mostro? O è forse diventato un criminale pericoloso al quale bisogna impedire perfino di partecipare al funerale della madre? Mi sembra una cosa davvero assurda, fuori da ogni logica, cattiva". Le esequie si sarebbero dovute svolgere oggi alle 11. Ma, per volontà della famiglia, sono rinviate a data da destinarsi. Sassari: troppe effusioni con la fidanzata durante i colloqui, detenuto assolto di Luigi Soriga La Nuova Sardegna, 5 aprile 2014 Gli abbracci e le carezze duravano un po’ troppo tempo. Certo, è normale che i detenuti non vedano l’ora che arrivi il momento dei colloqui, di ritrovarsi con i propri familiari e soprattutto con le proprie fidanzate. Ma quelle effusioni prolungate stavano diventando imbarazzanti e quella coppia attirava l’attenzione di tutti. Così alla fine la guardia carceraria si è avvicinato ai due e li ha invitati a mantenere un comportamento più morigerato. La risposta non è stata delle più garbate. Prima la versione in sassarese: "Cosa c...u boi. Ca ti gunnosci". E poi la traduzione in italiano, a scanso di equivoci: "Cosa c...o vuoi da me". E non era certo una frase sussurrata all’orecchio. Così un ispettore, visto che le cose stavano per mettersi male, si è deciso ad intervenire. Valter Mura infatti, affronta a muso duro la guardia, e si tranquillizza solo con la mediazione dell’altro agente. E spiega anche il suo comportamento e la sua reazione. In pratica quell’abbraccio e quelle carezze non erano vere e proprie effusioni, ma dei gesti consolatori. Infatti la fidanzata aveva avuto dei grossissimi problemi, era molto triste e giù di morale, e lui stava solo cercando di tirarla su. Ecco perché l’intromissione della guardia gli era sembrata così inopportuna e lui aveva reagito in maniera così istintiva e brusca. Ma nonostante le scuse, il provvedimento disciplinare scatta lo stesso, e anche la querela per minacce a pubblico ufficiale e ingiurie. Ieri mattina, difeso dall’avvocato Elias Vacca, l’ex detenuto Valter Mura si è presentato in aula davanti al giudice. È stata sentita anche la guardia, che nel frattempo aveva già messo una pietra sopra l’episodio. E anche il pm ha chiesto l’assoluzione per il carcerato affettuoso. Roma: domani a Rebibbia torna "Vivicittà", iniziativa dell’Uisp su ambiente e solidarietà Dire, 5 aprile 2014 "Città sostenibili, comunità attive". Con questo slogan domenica in contemporanea in 45 città italiane e 10 estere torna Vivicittà, la corsa podistica di Uisp da sempre simbolo dello sport per tutti. La 31esima edizione è stata presentata nei giorni scorsi a Roma nella sala della Giunta del Coni alla presenza, tra gli altri, del presidente del Comitato olimpico nazionale, Giovanni Malagò, e del presidente nazionale Uisp, Vincenzo Manco. Quest’anno Vivicittà avrà come riferimento principale il tema delle carceri: la corsa, infatti, si terrà anche all’interno di alcuni istituti penitenziari, tra cui quello di Rebibbia. E proprio da Rebibbia sarà dato il via alla gara in diretta radiofonica nazionale grazie alla collaborazione del Gr1 Rai, ospitato, assime al presidente nazionale Uisp, Vincenzo Manco, all’interno dell’istituto. La gara è aperta a tutti, al costo simbolico di un euro. Unica condizione per la partecipazione è essersi iscritti entro il 19 marzo al sito www.uisp.it/roma assieme a una copia del documento di identità e alla copia della tessera Uisp, Fidal o altro ente di promozione sportiva in corso di validità. Il percorso della competitiva misura 12 km in ogni città, mentre le non competitive variano da uno a quattro chilometri. "Vivicittà è da sempre una manifestazione sportiva dai tanti significati sociali- dice Manco- una corsa per tutti che lega insieme la tutela dell’ambiente e il bisogno di sport, la solidarietà internazionale e la vivibilità dei centri storici. Quest’anno abbiamo scelto di dare il via dalle carceri di Rebibbia a Roma e di Opera a Milano, perché i problemi delle carceri, come hanno ricordato il Papa e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, riguardano tutta la comunità. Lo sport riesce a far comunicare i luoghi della reclusione con il territorio e con le città". La corsa Vivicittà, oltre a promuovere i temi di rispetto per l’ambiente e sostenibilità, è anche un’iniziativa a forte impatto sociale internazionale: l’edizione 2014 proseguirà l’impegno già iniziato negli anni scorsi in Libano con il progetto "Sport & Dignity" in collaborazione con Unrwa-Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Vivicittà raccoglierà fondi per allestire 12 nuove palestre per la ginnastica e la pallavolo, formare nuovi operatori ed acquistare tutto il materiale necessario ad avviare le attività con i bambini. "Il nostro Paese ha bisogno di acquisire valori attraverso lo sport - commenta Malagò - per tutti rappresenta un’occasione per lanciare messaggi importanti ai giovani e all’opinione pubblica". L’appuntamento a Roma è per domenica alle 8, all’ingresso del carcere di Rebibbia di via Raffaele Majetti 70, per poter entrare all’interno dell’istituto dove saranno allestiti due percorsi: uno da 4 km per la prova non competitiva e uno da 12 km per la prova competitiva. Si correrà lungo le mura del carcere, fianco a fianco con i detenuti che avranno modo di divertirsi e competere con le atlete e gli atleti. Alla fine della gara è prevista una classifica unica a tempi compensati in base alle difficoltà del tracciato. Immigrazione: depenalizzazione clandestinità, Procura di Agrigento archivia 16mila casi Dire, 5 aprile 2014 Lo ha annunciato il procuratore capo di Agrigento, Renato Di Natale, che ieri ha partecipato ad un convegno a Palermo, a Palazzo dei Normanni, sulle politiche per l’immigrazione in Europa. Sono 16mila i casi di clandestinità che la Procura della Repubblica di Agrigento archivierà a seguito della depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina dopo l’entrata in vigore del nuovo disegno di legge sulle carceri. Lo ha annunciato il procuratore capo di Agrigento, Renato Di Natale, che ieri ha partecipato ad un convegno a Palermo, a Palazzo dei Normanni, sulle politiche per l’immigrazione in Europa, al quale ha partecipato anche il ministro Angelino Alfano. "Terremo presenti i migranti come testimoni - ha affermato il magistrato - ma non ha senso colpire loro, artefici di alcun crimine e finora penalizzati da una normativa che mirava solo all’espulsione". Durante l’incontro il ministro Alfano ha parlato di circa 600mila persone, in Nordafrica, in attesa di transitare per il Mediterraneo. "La frontiera di Lampedusa - ha detto Alfano - è anche frontiera d’Europa. Noi ci batteremo perché l’Europa difenda le frontiere". Droghe: depenalizzata la coltivazione della cannabis… anzi no di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 5 aprile 2014 La legge delega riguarda solo le violazioni commesse da istituti universitari e laboratori pubblici di ricerca che hanno ottenuto autorizzazione ministeriale alla coltivazione. È stata inserita nel decreto "svuota carceri", che ha abrogato tutta un serie di reati minori. Con 332 voti favorevoli, 104 contrari e 22 astenuti, la Camera dei deputati ha approvato mercoledì una parziale, e ingannevole, depenalizzazione della coltivazione della cannabis, oltre che del reato di clandestinità (motivo per cui c’è stato l’ostruzionismo di M5S, Lega e Fratelli d’Italia), con l’obiettivo di ridurre il numero dei detenuti che stanno attualmente affollando le strutture carcerarie italiane. Per questi due punti controversi si tratta però di una legge delega. In pratica, il governo ha 18 mesi di tempo per emanare i decreti che daranno attuazione al principio. Inoltre, per quanto attiene alla marijuana, il provvedimento in questione si riferisce soltanto all’articolo 2 del testo unico sugli stupefacenti, quello che riguarda i soggetti che hanno già un’autorizzazione alla coltivazione di sostanze psicotrope per scopi scientifici, sperimentali o didattici, concessa dal ministero della Salute. Quindi, università e laboratori di ricerca che se non rispettano "prescrizioni e garanzie cui l’autorizzazione è subordinata", non incorreranno più in sanzioni penali (fino a un anno di carcere), come è stato fino ad ora, ma solo amministrative (dunque pecuniarie). Per chi non ha l’autorizzazione ministeriale resta dunque il reato penale, come prima. Secondo alcuni, si tratta comunque di un piccolo passo in avanti che arriva dopo l’ok che il governo Renzi ha dato all’utilizzo, anche nel nostro Paese, della cannabis per scopi terapeutici. Il 10 marzo l’esecutivo aveva infatti deciso di non impugnare la legge della Regione Abruzzo, promulgata lo scorso 4 gennaio, che consente la prescrizione e l’erogazione gratuita a carico del servizio sanitario di medicinali cannabinoidi. Altre Regioni sono sulla stessa strada. Giamaica: police killings, la strage degli innocenti di Flavio Bacchetta Il Manifesto, 5 aprile 2014 Nell’isola del reggae ogni anno si registra un massacro ai margini della guerra tra gang e polizia. Vittime troppo spesso i bambini, quasi sempre a causa dell’imperizia criminale delle "forze dell’ordine". In Giamaica il conflitto armato tra forze dell’ordine e gang criminali, la cui manovalanza è sovente sfruttata dai politici, insanguina il territorio e miete le sue vittime soprattutto tra i giovani e le donne, le più esposte ai due fuochi. Le statistiche riferite al 2013 registrano un incremento degli omicidi ordinari, oltre 1200 vittime, e di quelli extra giudiziari perpetrati dalle forze dell’ordine; l’anno scorso i police killings sono stati quasi 300, molti innocenti uccisi per errore o incompetenza. Dal 2000 a oggi, sono circa 5.000 gli omicidi riconducibili alle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni; oltre la metà delle vittime sono innocenti, coinvolti in incidenti collaterali o fatti fuori per peccati veniali, come piccoli furti o linguaggio osceno nei confronti delle autorità, o sono vittime di clamorosi scambi di persona. L’Ong Jamaicans for Justice, che fornisce assistenza legale gratuita alle famiglie delle vittime, chiede con forza le dimissioni del Capo della polizia, per la sua incapacità di eliminare le schegge impazzite e la scarsa professionalità dei suoi subordinati. Troppi tragici equivoci, come quello di Mickey Hill, il capitano del catamarano di Negril scambiato per un trafficante di armi e ucciso a freddo davanti ai suoi fratelli e ai turisti. La percentuale dei casi risolti, poi, è tristemente irrisoria. Trucidati in età scolare Il numero di giovanissimi, addirittura bambini in età scolare, trucidati dagli agenti, è alto. Alcuni esempi: Michael Scarlett, 18 anni, freddato davanti alla sua fidanzata, incinta di otto mesi, nell’aprile del 2002, perché accusato di nascondere una pistola, mai rinvenuta; Lance Zab, 14 anni, trucidato nell’agosto del 2007; Jevaughn Robinson, 13 anni, ucciso nel settembre del 2008, disarmato e a piedi scalzi, mentre era in attesa di essere perquisito; Winston Malcolm Jr., 17 anni, ucciso insieme al padre, nel dicembre 2008, dopo un irruzione illegale della polizia nella sua abitazione; Nicketa Cameron, 12 anni, uccisa l’8 marzo del 2012, insieme ad altre 5 persone, tra cui due anziani di 75 e 80 anni, nel ghetto di Denham Town a Kingston, durante un’irruzione della polizia; Vanessa Kirkland, 13 anni, falciata alcuni giorni dopo davanti alla scuola mentre era a bordo di un taxi, scambiato per un auto rubata; Kevon Shue, 17 anni, ucciso nell’ottobre 2013 a Mountain View, Kingston. Dopo quasi dodici anni, solo nel primo caso, quello di Scarlett, gli accusati sono stati arrestati e rinviati a giudizio, sebbene siano ora liberi su cauzione. Per ultimo citiamo l’omicidio di Kayann Lamont, 25 anni, ammazzata a sangue freddo davanti alla sorella a Yallahs nel 2012, solo perché aveva risposto male a un agente durante la perquisizione del minibus su cui viaggiava. Kayann era incinta di otto mesi, per cui il nascituro è la vittima più giovane della serie. In ampi settori dell’opinione pubblica, permane la sensazione che la polizia debba essere comunque giustificata, anche di fronte ad eccessi simili. Sono soprattutto i ceti abbienti, che temono più di tutti la criminalità, a ritenere che la polizia debba essere autorizzata a usare il pugno di ferro, anche a scapito di vittime innocenti. Indecom alla riscossa Il 27 novembre 2013, la Commissione indipendente d’investigazione (Indecom) istituita dal governo fa arrestare per omicidio volontario 6 poliziotti, per due episodi differenti: nel primo, il 13 aprile, un cittadino viene ucciso sulla porta di casa dagli agenti Victor Mitchell e Andrew Hudson. La motivazione, avallata dai testimoni, parla di indecent language, ingiurie che la vittima avrebbe rivolto ai due, mentre tentavano di entrare in casa senza mandato; nel secondo, altri quattro agenti, due donne e due uomini, vengono incriminati per l’omicidio di Trevor Edwards, passeggero di un taxi abusivo crivellato di proiettili nel dicembre 2010 a Denham Town. Tutti liberi su cauzione. Altri agenti sono ora sotto inchiesta per tre omicidi avvenuti lo stesso giorno, il 27 novembre 2013, vittime Miguel Wilson, Dean Nelson e Mark Clarke. Ancora, ne febbraio di quest’anno, cadono a Kingston cinque persone, quattro uomini e una donna, durante rastrellamenti nei ghetti. Gli agenti avrebbero risposto al fuoco e la donna è stata colpita casualmente. Versione contraddetta da Indecom, che non ha ritrovato alcuna arma; inoltre uno dei quattro uomini, ferito, pare sia stato trasportato nella stazione di polizia invece che all’ospedale, e lasciato morire senza soccorso. Indecom cita chiaramente, nel rapporto del 10 febbraio 2014, le death squads, squadre della morte responsabili del massacro, e ricorda che da inizio anno sono oltre 30 i nuovi police killings. La ricchezza più grande In Tower Street, una traversa a destra di King Street, nella downtown di Kingston, c’è uno splendido monumento che rappresenta una testa di bronzo, incastonata nel legno, con delle lacrime bianche che sgorgano dagli occhi chiusi. Sulla base, scolpiti in una targa di marmo, i nomi di tante piccole vittime innocenti, uccise dalla violenza delle strade e domestica. Sono tantissime, e si riferiscono solo a due anni, 2004 e 2005. De pickney dem, i bambini nel dialetto patois, sono la ricchezza più grande, spesso l’unica, delle classi indigenti. Che siano uccisi dalla criminalità comune, dalle rappresaglie della polizia, o dai conflitti interni alle famiglie, non fa alcuna differenza. Sono comunque il risultato del fallimento di una società adulta, profondamente malata, che, come il Conte Ugolino, divora i propri figli. Gran Bretagna: mandato di arresto europeo, torna in carcere il boss Rancadore Tm News, 5 aprile 2014 È stato nuovamente arrestato a Londra, dove si è rifugiato da quasi vent’anni, l’ex capo mafia siciliano Domenico Rancadore, soprannominato "il Professore". L’arresto, avvenuto sulla base di un nuovo mandato europeo lanciato dall’Italia, è avvenuto ieri sera presso il domicilio di Rancadore a Uxbridge, ovest di Londra. Rancadore, 65 anni, condannato in Italia a 7 anni di carcere per associazione mafiosa, sarà ascoltato oggi dal tribunale di Westminster. Il 17 marzo scorso un tribunale londinese aveva deciso di non accogliere la richiesta di estradizione avanzata dall’Italia, stimando che le carceri italiane non garantiscono condizioni di detenzione conformi ai diritti dell’uomo. Svizzera: trasferimento detenuti in Kosovo "ogni caso sarà valutato singolarmente" www.tio.ch, 5 aprile 2014 L’accordo tra Berna e Pristina che deve consentire il trasferimento nelle patrie galere dei detenuti kosovari in Svizzera dovrebbe entrare in vigore prossimamente: il termine referendario scade domenica 6 aprile. Il ministro della giustizia del Kosovo smorza però gli entusiasmi: il trasferimento, che riguarderebbe anche gli svizzeri condannati in Kosovo, non sarà automatico, ogni caso sarà valutato singolarmente. "L’informazione riguardante il trasferimento di detenuti è stata pubblicata anzitempo", ha indicato in una nota l’ambasciata del Kosovo a Berna. Essa cita una notizia pubblicata oggi dal quotidiano kosovaro "Zeri" e puntualizza: "Il ministro della giustizia del Kosovo, Hajredin Kuçia, ha dichiarato che non c’è nulla di concreto attualmente, che un accordo è stato firmato, che deve essere ratificato in Svizzera e che in seguito ogni caso sarà trattato singolarmente". La convenzione è stata firmata il 14 maggio 2012 dai due paesi, poi adottata dal parlamento elvetico lo scorso 13 dicembre in votazione finale. Una volta scaduto, il 6 aprile 2014, il termine referendario la ratifica sarà effettiva e i due paesi procederanno a uno scambio di lettere, seguito in linea di principio dall’entrata in vigore entro 30 giorni. Il trasferimento di condannati permetterebbe di ridurre la quota, attualmente in crescita, di stranieri nelle prigioni elvetiche, dove i kosovari sono particolarmente numerosi, è stato spiegato durante il dibattito in parlamento. L’accordo ha anche uno scopo umanitario: per un detenuto è infatti molto più facile reinserirsi nella società se ha la possibilità di scontare la pena nel suo contesto culturale. La convenzione non conferisce comunque alla persona condannata il diritto di scontare la pena in patria. Gli Stati non sono infatti obbligati ad accettare le domande di trasferimento. Il trattato bilaterale prevede pure, a determinate condizioni, la possibilità di trasferire i condannati contro la loro volontà, in particolare se la persona che si trova in prigione dovrà essere espulsa al termine della pena. Contro tale decisione, in Svizzera, si potrà inoltrare ricorso al Tribunale penale federale. L’accordo stabilisce anche, contrariamente a quanto prevede la convenzione del Consiglio d’Europa, che sarà lo Stato di condanna ad assumersi le spese di trasferimento. Tale clausola è stata inserita per impedire che un trasferimento non possa essere eseguito poiché lo Stato d’esecuzione non può o non vuole assumerne i costi. India: violentarono una giornalista, tre giovani condannati a morte La Stampa, 5 aprile 2014 Prime esecuzioni decretate dall’entrata in vigore della legge anti-stupro approvata in seguito alle proteste sollevate dal "caso Nirbhaya", la ragazza di New Delhi deceduta dopo un abuso sessuale. Un tribunale di Mumbai ha condannato oggi a morte tre giovani accusati dello stupro di una giornalista che stava fotografando un’area dismessa della metropoli. Lo riferisce la tv Cnn-Ibn. Si tratta di tre ragazzi di 28, 21 e 19 anni, già condannati all’ergastolo per aver aggredito un’altra donna nel complesso di Shakti Mills, nel sud di Mumbai. La polizia aveva arrestato in totale sette sospetti per i due crimini avvenuti nel luglio e agosto 2013. I tre giovani, Vijay Jadhav, Kasim Bengali e Salim Ansari, sono i primi a essere condannati all’impiccagione in base all’articolo 376-E di una nuova legge anti-stupro creata dopo le proteste popolari sollevate dal caso "Nirbhaya", la studentessa di New Delhi morta dopo una brutale violenza sessuale commessa da sei ubriachi su un autobus in movimento nel dicembre del 2012. Un quarto stupratore della fotoreporter 23enne di Mumbai è stato condannato all’ergastolo. Il fatto era successo il 22 agosto. La ragazza, in compagnia di un collega, stava facendo un reportage per un magazine in inglese nello Shakti Mills Compound, un ex cotonificio nella zona di Mahalaxmi, nell’ambito di una serie di servizi riguardanti edifici in disuso della città. Brasile: rivolta in carcere minorile S. Paolo, ferito direttore, reclusi tentano dargli fuoco Ansa, 5 aprile 2014 Il direttore della "Fundacao Casa do Itaim Paulista", un carcere minorile nella zona est di San Paolo, è ricoverato in gravi condizioni dopo essere stato ferito, insieme ad altri tre agenti penitenziari, nel corso di una rivolta provocata dai giovani detenuti. La ribellione, iniziata ieri sera, è terminata solo a seguito dell’intervento del battaglione antisommossa della polizia. I reclusi avevano dato alle fiamme materassi, tavoli e sedie, oltre a fare sette ostaggi e ad aggredirne quattro. Il direttore è stato preso a bastonate dai rivoltosi, che hanno anche cercato di dargli fuoco.