Giustizia: carceri, urla dal silenzio di Luigi Manconi (Senatore Pd) e Stefano Anastasia (Presidente Antigone) L’Unità, 30 aprile 2014 È proprio il caso di dire: ogni giorno ha la sua pena. Nel senso che, con frequenza pressoché quotidiana, l’Italia viene sanzionata da organismi sovranazionali in ragione delle sue gravi inadempienze, o peggio, sul piano del rispetto dei diritti fondamentali della persona. Questa volta, particolarmente severo è stato il Consiglio d’Europa. Il quale ha ribadito un’aspra verità: nel settembre del 2012 abbiamo strappato alla Grecia il mortificante primato del sovraffollamento penitenziario tra i Paesi dell’ Unione europea; e nel più ampio bacino del Consiglio d’Europa siamo secondi solo alla Serbia. In estrema sintesi il rapporto è sempre quello: dove ci sono due posti letto, il sistema penitenziario italiano colloca tre detenuti. Si dirà: ma sono dati vecchi, che risalgono a quasi due anni fa. Vero. Ed è pur vero che da allora a oggi la popolazione detenuta è diminuita di circa 6.500 unità, ma il sovraffollamento resta e quasi ventimila detenuti ancora oggi non hanno un posto letto regolamentare. Quando il Consiglio d’Europa ha fatto la sua rilevazione per il rapporto presentato ieri a Strasburgo, la Corte europea dei diritti umani non aveva ancora deciso a proposito del caso Torreggiani. E non aveva ancora formalmente ammonito l’Italia a ricondurre il sistema penitenziario entro i binari della legalità. Eppure il presidente della Repubblica già si era espresso con forza contro "una realtà che ci umilia in Europa" e il governo Monti aveva già adottato il suo decreto cosiddetto "svuota carceri". Poi, dopo quella rilevazione, è venuta la sentenza Torreggiani, un nuovo decreto (Cancellieri I), il messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere (8 ottobre 2013) e un nuovo decreto (Cancellieri II). Dopo tutto questo, la popolazione detenuta è diminuita solo di 6.500 unità su un’ eccedenza di circa ventimila: un po’ pochino per poter dire di aver fatto i compiti a casa. Aveva ragione il presidente della Repubblica: il sovraffollamento penitenziario si batte con riforme ordinarie e con misure straordinarie. Con le riforme destinate a introdurre un ampio ventaglio di alternative alla detenzione in cella, con la drastica riduzione del ricorso alla custodia cautelare e con un radicale mutamento della legislazione sulle sostanze stupefacenti e sull’immigrazione irregolare. E con le misure straordinarie che riportino immediatamente il nostro sistema penitenziario nella legalità, mettendo fine alla perdurante violazione dei diritti umani che si consuma nelle nostre carceri. Insomma, prima di adottare le terapie ordinarie (le riforme di sistema), è necessario abbassare drasticamente la febbre che affligge e deforma il corpo malato del sistema penitenziario. Solo dopo aver abbattuto quella temperatura così parossisticamente alterata e aver introdotto un po’ di normalità, attraverso un provvedimento di amnistia e indulto, si potrà intervenire con misure di lungo periodo e che agiscano in profondità. Un ceto politico pavido ha futilmente discettato dell’uovo e della gallina, se vengano prima le riforme o un misurato ed efficace atto di clemenza; e non ha avuto il coraggio di dire (e di fare) quello che il presidente della Repubblica sollecita, quello che Marco Pannella tenacemente richiede, quello che papa Francesco - nel solco dei suoi predecessori appena canonizzati - si è impegnato a sostenere ("Cristo è stato prigioniero", così ai reclusi nel carcere minorile di Casal del Marmo). Il 28 maggio, data di scadenza dell’ultimatum della Corte europea dei diritti umani, si avvicina. Il governo ha ancora in serbo qualche "rimedio compensativo", finalizzato a riportare il contenzioso sulle condizioni delle carceri alla competenza dei giudici nazionali. Ma che ne è dei rimedi preventivi? Che ne è della richiesta all’Italia di rimuovere la cause strutturali del sovraffollamento? Sarà uovo o sarà gallina? La via impervia della riforma ordinaria del nostro sistema penale e penitenziario non riesce a cancellare qui e ora lo scandalo del sovraffollamento. Ne abbiamo un esempio in Parlamento in queste ore: si vota la fiducia al decreto- legge sulle droghe e la principale misura di decarcerizzazione in materia resta quella compiuta dalla Consulta con la dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi. Nel merito, le Camere non riescono ad andare più in là di quanto viene loro imposto dai giudici della Corte costituzionale. È una sconfitta della politica, questa, ma è anche il segno che la politica - il confronto tra diversi programmi e diverse culture - ha bisogno di trovare tempi e modi per scelte condivise. Intanto, però, la realtà urge, la "nuda vita" reclusa e degradata in carcere chiede dignità e diritti. Possiamo permetterci di continuare a ignorarla? Giustizia: peggio dell’Italia solo la Serbia… ma per il Dap "lo spazio vitale è assicurato" di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 aprile 2014 Mentre il Consiglio d’Europa diffonde (come sempre un anno e mezzo dopo) i dati delle carceri in Europa relative all’anno 2012 che confermano la situazione italiana come tra le peggiori del continente - seconda per sovraffollamento solo alla Serbia e per suicidi solo alla Francia, ma prima, in quella triste classifica, per numero di reclusi stranieri e, nell’Europa a 28, di detenuti in attesa di giudizio - il Dap precisa al manifesto che "non c’è alcuna guerra di cifre sui detenuti", come scritto su queste colonne ieri. "Contrariamente a quanto sostiene anche il sindacato di polizia penitenziaria Sappe - spiega Luigi Pagano, vice capo del Dap, il dipartimento di amministrazione penitenziaria - oggi il problema del sovraffollamento che ci è costato la condanna della Corte europea dei diritti umani è superato. Nel senso che siamo certamente sopra quel limite minimo vitale dei tre metri quadri a testa che corrisponde al trattamento inumano e degradante. Anche se non abbiamo ancora raggiunto lo standard che le nostre leggi ci impongono di sei metri quadri a testa e il regime di "cella di pernotto". Il problema però ora è arrivare a una riforma di tutto l’ordinamento penitenziario e dell’esecuzione penale, in modo da incidere sulla qualità della vita in carcere e sull’efficacia della pena detentiva". Anche il capo del Dap, Giovanni Tamburino, ieri è tornato a ripetere che rispetto alla situazione del 2012, un anno prima della condanna di Strasburgo, quando nelle carceri italiane c’erano 145 carcerati per ogni 100 posti, con 66.271 detenuti a fronte di 45.568 letti disponibili secondo il rapporto del Consiglio d’Europa, oggi "la presenza dei detenuti in carcere è quantificabile in 59.700, ai quali - precisa Tamburino - vanno tolti 800 mila che sono in semilibertà e quindi si trovano in sezioni esterne al carcere". E i posti disponibili? "Su circa 48 mila regolamentari - precisa Luigi Pagano - sono realmente disponibili 44 mila perché alcune strutture sono da ristrutturare". Dunque sembrerebbe che secondo il Dap la situazione sia completamente cambiata rispetto all’ottobre scorso, quando la precedente Guardasigilli Anna Maria Cancellieri aveva riconosciuto come buona la cifra diffusa da Antigone di 37 mila posti realmente disponibili. D’altra parte la Circolare che vieta ai direttori degli istituti di fornire dati all’associazione Antigone non è stata ancora ritirata. "In questo momento di grande difficoltà a inquadrare tutti i problemi e fare dei calcoli precisi - spiega Pagano che è il firmatario di quella circolare - gli unici che possono dare dati attendibili siamo solo noi del Dipartimento centrale. Non è per mancanza di fiducia nell’associazione, ma è per coerenza e per dare un minimo di trasparenza al sistema". Fortunatamente la trasparenza, sia pure in ritardo, ce la garantisce il Consiglio d’Europa che nel report 2012 diffuso ieri colloca l’Italia al secondo posto per sovraffollamento dopo la Serbia che ha quasi 160 detenuti per ogni 100 posti. Allora - e non è cambiato praticamente nulla - il 36% della popolazione carceraria era straniera e il 45% in attesa di giudizio. Ma a fine marzo la Commissione europea di Giustizia ha inviato nel nostro Paese una delegazione di quattro osservatori capeggiata da un giurista socialista spagnolo per fare il punto della situazione a due mesi dalla scadenza imposta dalla sentenza Torreggiani. E nel rapporto, che non assolve affatto le carceri italiane, il peggiore è Poggioreale dove "le condizioni igieniche precarie fanno proliferare le malattie, i tossicodipendenti non ricevono cure adeguate e i prigionieri (anche quelli afflitti da problemi psichici) vengono scaraventati nelle celle di sicurezza. I suicidi e gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno". Non solo nel carcere napoletano, si potrebbe aggiungere: ieri, per esempio, a Padova si è suicidato un poliziotto di 49 anni, padre di tre figli: "Cento casi dal 2000 ad oggi sono una enormità", commenta il Sappe dandone notizia. E se nel 2011 solo in Francia si tolse la vita un numero superiore di detenuti che in Italia (100 francesi e 63 italiani), nei primi quattro mesi del 2014 sono già 13, secondo le stime di Ristretti Orizzonti. E 45 sono le morti dietro le sbarre. Molte delle quali ancora senza un perché. Italia seconda solo a Serbia per sovraffollamento L’Italia è seconda solo alla Serbia per sovraffollamento nelle carceri. Lo afferma un rapporto del Consiglio d’Europa relativo al 2012 e reso pubblico oggi, nel quale si legge che i Paesi dove la situazione rimane più grave sono Serbia, Italia, Cipro, Ungheria e Belgio. Presentando le Statistiche penali annuali il Consiglio d’Europa afferma che il sovraffollamento dei penitenziari è un problema che persiste nei Paesi europei, e raccomanda ai governi di fare un uso più ampio di misure alternative alla detenzione. Nel rapporto si legge che i Paesi europei non hanno ridotto significativamente il sovraffollamento nelle carceri, nonostante l’aumento dei casi monitorati dalle agenzie per la libertà vigilata. Secondo le Statistiche penali annuali dal 2011 al 2012 il numero di detenuti nelle prigioni europee è diminuito da 99,5 a 98 ogni 100 posti disponibili. Nonostante la riduzione di quasi 90mila individui nella popolazione delle carceri (un 5% di riduzione dai 1.825.000 del 2011 e dal 1.737.000 del 2012), il sovraffollamento rimane un problema grave per 21 amministrazioni penitenziarie in Europa. Secondo le statistiche del Consiglio d’Europa gli enti giudiziari emettono spesso sentenze di custodia molto brevi, il che comporta che circa il 20% dei detenuti sconta pene di meno di un anno. Anche se si registra un significativo aumento delle persone sotto la supervisione di servizi di custodia e di libertà vigilata (fino al 13,6% dal 2011 al 2012, e del 29,6% rispetto al 2010), molti Paesi non stanno introducendo abbastanza alternative alla detenzione, e la usano raramente per sostituire la detenzione prima dei processi: solo il 7% degli imputati in attesa di processo è stato messo sotto la supervisione dei servizi di libertà vigilata. Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa e altri enti come il Comitato per la prevenzione delle torture hanno raccomandato agli Stati membri di affrontare il problema del sovraffollamento con forza, e di aumentare le possibilità di reintegrazione dei rei. Ricordando che la privazione della libertà dovrebbe essere una sanzione di ultima istanza, hanno chiesto ai governi di fare il più ampio uso possibile di alternative alle sanzioni di custodia. Quasi 124 euro al giorno per detenuto nel 2011 Dai dati diffusi dal Consiglio d’Europa e che si basano sulle informazioni fornite dall’amministrazione penitenziaria italiana, il nostro Paese ha speso in media 123,75 euro al giorno per ogni detenuto nel 2011, quasi 7 euro in più rispetto all’anno precedente (116,68 euro). Dallo stesso rapporto emerge anche che tra il 2011 e il 2012 è aumentato il numero di guardie carcerarie, mentre al contempo scendeva il numero di detenuti. Le guardie carcerarie sono passate tra il 2011 al 2012 da 35.458 unità a 36.794, mentre i detenuti sono scesi da 67.104 a 66.271. L’Italia resta quindi uno dei grandi paesi europei dove si spende di più per i detenuti e c’è un migliore rapporto tra il loro numero e quello di guardie carcerarie. In Francia nel 2011 sono stati spesi in media 96 euro per detenuto e nel 2012 c’erano 25.082 guardie carcerarie per un totale di 66.704 detenuti. In Germania nello stesso anno c’erano 26.768 guardie carcerarie per 69.268 detenuti, mentre la Spagna, con quasi lo stesso numero di detenuti, aveva 18.620 guardie carcerarie. Italia prima in Europa per stranieri detenuti L’Italia nel 2012 è stato il paese del Consiglio d’Europa con il maggior numero di detenuti stranieri nelle sue carceri. In totale erano 23.773, e rappresentavano quasi il 36% dell’intera popolazione carceraria. Il 45% era in attesa di giudizio, e quasi il 21% era un cittadino di un altro Stato membro dell’Unione europea. Questi sono alcuni dei dati contenuti nel rapporto del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria nei 47 Stati membri, fotografata al settembre 2012. In base ai dati forniti dal Consiglio d’Europa, dopo l’Italia i paesi con più detenuti stranieri sono la Spagna (23.423), la Germania (19.303), la Francia (13.707) e l’Inghilterra e il Galles (10.861). In termini percentuali il paese con la più alta presenza di detenuti stranieri è però il Principato di Monaco, dove i non monegaschi rappresentano il 95% dei detenuti. Sempre in termini percentuali seguono l’Andorra, la Svizzera, il Lussemburgo e il Liechtenstein e Cipro. Per quanto riguarda invece i detenuti stranieri in attesa di giudizio l’Italia ne ha più di tutti in termini assoluti, 10.717. In Spagna sono quasi 6mila, mentre in Germania sono 5.171. La Germania è invece lo Stato in cui sono detenuti più cittadini di altri paesi dell’Unione europea, 6.580, contro i 4.970 in Italia, i 4.875 in Spagna, mentre in Francia i cittadini di altri Stati Ue sono 3.330 e in Inghilterra e Galles 3.808. Italia seconda Europa per suicidi, peggio Francia Nelle carceri italiane nel 2011 si sono suicidate 63 persone. Il nostro paese è secondo solo alla Francia, dove nello stesso anno si sono tolti la vita 100 detenuti. Seguono poi le carceri d’Inghilterra e Galles (57), Germania (53) e Ucraina (48), secondo i dati del Rapporto 2012 del Consiglio d’Europa. L’Ucraina è invece lo Stato dove si registra il maggior numero di morti dietro le sbarre, 1009, seguono poi la Turchia (270), la Spagna (204) e Inghilterra e Galles (192). In Italia invece il numero di detenuti deceduti in carcere è di 165, cifra che ricomprende i suicidi, anche se per le altre morti il nostro Paese, come quasi tutti gli altri, non fornisce dati sulle cause. Si sa solo che per il 2011 l’Italia dichiara che nessuna di queste persone è stata vittima di omicidio. Dap: dati del Consiglio d’Europa precedenti a riforme I dati sulle carceri diffusi dal Consiglio d’Europa "fanno riferimento al 2012 e non tengono conto dei molteplici interventi" adottati negli ultimi tre anni "per stabilizzare il sistema penitenziario e adeguarlo alle prescrizioni della Cedu". È quanto precisa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ricordando che, negli ultimi tre anni, in Italia sono stati messi a punto "interventi di carattere gestionale e organizzativo che hanno consentito, ad oggi, di assicurare lo spazio minimo di vivibilità non inferiore ai tre metri quadrati, all’interno delle camere detentive", nonché interventi di "natura edilizia, attraverso l’apertura di nuovi penitenziari e nuovi padiglioni che hanno aumentato la capacità ricettiva di circa 4mila posti". Il Dap, inoltre, ricorda le riforme che "hanno inciso sulla custodia cautelare e sull’aumento di misure alternative". Il Dap sottolinea i "molteplici interventi che sono stati adottati nel corso degli ultimi tre anni per stabilizzare il sistema penitenziario e adeguarlo alle prescrizioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo", "interventi di carattere gestionale e organizzativo che hanno consentito, ad oggi, di assicurare lo spazio minimo di vivibilità (non inferiore ai tre mq) all’interno delle camere detentive; interventi di natura edilizia attraverso l’apertura di nuovi penitenziari e nuovi padiglioni che hanno aumentato la capacità ricettiva di circa 4 mila posti; interventi legislativi che hanno inciso sulla custodia cautelare e sull’aumento delle misure alternative". Il Dipartimento fornisce quindi una serie di dati: a fronte delle 65.701 presenze registrate al 31 dicembre 2012, alla data odierna la popolazione detenuta è di 59.728 unità; dal 2009 la custodia cautelare è calata di circa 10 punti in percentuale, dal 46% al 36%; per le misure alternative si registra un aumento di 17.00 presenze in più rispetto alla fine del 2009, che tenderà ad aumentare grazie alle recenti disposizioni normative; al 31 dicembre 2012 la capienza regolamentare era di 47.040 posti detentivi, oggi è pari a 49.131 posti, con un aumento di 2.091 posti detentivi. I posti non disponibili, ad oggi, sono 4.762. "L’Amministrazione, nei limiti delle risorse disponibili, sta concentrando gli sforzi per recuperare in tempi rapidi il maggior numero di posti inagibili", si legge ancora nella nota. In calo anche i "suicidi dal 2011, anno in cui si verificarono 63 casi. Nel 2012 sono stati 57 e 42 nel 2013. Alla data di oggi per il 2014 i suicidi nelle carceri sono 13". I detenuti ristretti per reati connessi alla criminalità organizzata sono 9.752, pari al 16,33%. Di questi 333 in alta sicurezza e 715 in 41 bis. Giustizia: fra un mese scade il termine fissato da Strasburgo, l’Italia rischia un miliardo € di Claudia Osmetti Libero, 30 aprile 2014 Un mese. Il 29 maggio l’Italia dovrà pagare una maxi penale a causa della situazione "disumana e degradante" delle nostre carceri. Ce lo impone l’Europa, anzi la Corte di Strasburgo, che l’anno scorsoci ha condannato. Perché le nostre prigioni - dice la Cedu - non garantiscono ai detenuti uno spazio vitale accettabile, considerato che sotto i 3metri quadri a testa si parla di "tortura". Insomma, tra un mese toccherà iniziare a sborsare risarcimenti a destra e a manca. E sembra difficile che la situazione possa cambiare nei prossimi giorni. Proprio ieri al Palazzo d’Europa è stato presentato il rapporto riferitoal2012: i numeri sono di quelli cui andare poco fieri. Con 145,4 detenuti ogni 100 posti le prigioni italiane sono le ultime dell’Unione Europea (dove invece la media è di 98 su 100), mentre se si allarga lo sguardo ai 47 Paesi che compongono il Consiglio d’Europa peggio di noi fa soltanto la Serbia. Ma quanto ci costerà quest’inadeguatezza? La sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013 ha stabilito un indennizzo, nel caso di specie, di circa 100mila euro a favore dei 7 detenuti che in quell’occasione hanno cercato un giudice in Europa (non trovandolo in Italia): qualcosa come 14.285 euro a testa. Questa però è solo una prima pronuncia, che potrebbe innescare una serie di ricorsi analoghi. Stando agli ultimi dati del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) attualmente sono presenti in Italia 60.167 carcerati a fronte di una capienza a pieno regime di 48.309 posti "a norma". Sorvolando su alcune precisazioni sollevate dai Radicali che hanno messo in discussione queste stime nelle quali rientrerebbero anche strutture non agibili o in via di ristrutturazione, si deduce che i detenuti in eccesso nelle nostre carceri siano 11.858. Ora, moltiplicando la quota di ciascun ricorrente così come indicata da Strasburgo per ogni detenuto in eccesso, la sentenza Torreggiani potrebbe costare all’Italia quasi 170 milioni di euro (169.391.530, per la precisione). E questo solo se prendiamo in considerazione i numeri In eccedenza - ma nella pratica è difficile individuare chi sia fisicamente il recluso di troppo. In ogni caso, se lo Stato dovesse rimborsare l’intera popolazione carceraria, la cifra da sborsare lieviterebbe fino a sfiorare di poco il miliardo (854.485.595 euro). Certo, si tratta dinumeri indicativi. Anzitutto perché non è detto che le scrivanie dei magistrati verranno inondate di richieste di risarcimento. Anzi, il timore di eventuali "ritorsioni" spesso frena i carcerati. Spesso, sì, ma non sempre: i ricorsi italiani presentati a Strasburgo in tema di carceri, infatti, sono sensibilmente aumentati dopo la sentenza Torreggiani. Se prima del 2013 se ne contavano "solo" 600, già alla fine dell’anno scorso erano saliti a circa 2.500. Un incremento di cui occorre tener conto. E che cosa sta facendo il nostro Paese per evitare di metter mano al portafoglio, visto che alla coscienza è più difficile? Niente o quasi. Il decreto svuota carceri non contiene grosse misure strutturali in grado di sanare una volta per tutte la situazione. Norme come quella sul braccialetto elettronico subordinato alla disponibilità della polizia giudiziaria o la messa alla prova dei lavori socialmente utili per i reati fino ai 4 anni, non hanno una portata incisiva. D’altro canto, amnistia e indulto restano ancora tabù per un sistema giustizia che preferisce ipotizzare la costruzione di nuove carceri (con tutte le contraddizioni del caso: anche ammesso che in un mese sia possibile, sorgono problemi di natura concreta. Il personale di polizia addetto dove lo si prende? E con che soldi lo si paga?) piuttosto che cercare altre soluzioni. Ma Matteo Renzi si è detto positivo. Dichiarando che, dopo le elezioni, metterà mano al sistema giustizia. Peccato che, con il voto in programma il 25 maggio, il premier avrà solo tre giorni per impostare una riforma che questo Paese non vede da trent’anni. Giustizia: in corso riforma di sistema penale e carceri, da Strasburgo arriverà la proroga? di Gabriella Monteleone Europa, 30 aprile 2014 Negli ultimi due anni le camere hanno approvato vari provvedimenti "strutturali" per limitare il sovraffollamento. I primi effetti fanno sperare in vista della scadenza di fine maggio. Il rapporto annuale del Consiglio d’Europa più che novità aggiunge conferme sulle condizioni dei detenuti: il nostro paese è secondo per sovraffollamento e suicidi, terzo per detenuti in attesa di giudizio. Nulla di cui andare fieri. Ma, a parte il fatto che le carceri sono sovrappopolate in 22 dei 47 membri dell’Ue, i numeri si riferiscono comunque al 2012 (con dati del 2011); poi, l’8 gennaio 2013, è arrivata la famosa sentenza Torreggiani, quella che ha messo in mora l’Italia per le condizioni "inumane" della vita dei detenuti spingendo Napolitano a inviare più di sei mesi fa l’unico suo messaggio alle camere con cui invitava governo e parlamento a provvedere con riforme strutturali, non escludendo anche il ricorso a misure eccezionali, indulto e amnistia, per correggere l’"illegalità" delle nostre carceri. Al messaggio in sé del capo dello Stato, il parlamento è rimasto quasi sordo a parte una tardiva discussione alla camera. Così come è rimasto sordo ai ripetuti appelli e scioperi della fame e della sete di Pannella. Napolitano, che delle condizioni di vita dei detenuti è sincero partecipe, è tornato domenica a sollecitare le camere a "fare il punto sulle misure adottate e da adottare" ringraziando papa Bergoglio per la telefonata di sostegno a Pannella, anche perché, se entro il 28 maggio non si adegua alla sentenza Ue, l’Italia rischia di dover risarcire "tra i 50 e i 100 milioni di euro l’anno" ai detenuti che hanno fatto ricorso. C’è da dire che sotto questa spada di Damocle il parlamento non è rimasto con le mani in mano negli ultimi due anni: prima con la Severino e la Cancellieri quindi ora con il guardasigilli Orlando si è riusciti a far approvare varie riforme strutturali che stanno già producendo effetti, non risolutivi per stessa ammissione di Orlando, ma che segnano una decisa inversione di tendenza. Se due anni fa i detenuti erano quasi 70mila, ieri erano "59.700", conferma il presidente del Dap Tamburino, con una diminuzione mensile tra i 350 ai 450 detenuti. Effetti positivi della legge sulla detenzione domiciliare, dell’attenuazione degli effetti della recidiva (ex Cirielli) che ha reso possibile l’estensione delle misure alternative al carcere, poi della riforma sulla messa alla prova; l’ampliamento della possibilità per i detenuti stranieri di espiare la pena nel paese d’origine, lo stesso decreto legge sulle droghe sul quale il governo ha posto ieri la fiducia: tutte questi provvedimenti, già approvati, stanno dispiegando, e dispiegheranno, i loro effetti sul calo del numero dei numeri dei detenuti. E, con la consegna di tremila posti carceri, sul miglioramento delle loro condizioni di vita. Mancano all’appello l’importante riforma della custodia cautelare, ora tornata alla camera; una seria depenalizzazione, senza contare che non è mai troppo tardi per riformare il vecchio codice penale (Pisapia, Nordio, Grosso: ben tre commissioni ministeriali l’hanno messa a punto). Insomma, una seria via di riforme è tracciata e il governo è deciso ad andare avanti al di là dell’emergenza: è per questo che puntare su un’apertura di credito da parte delle istituzioni europee, e dunque su "una proroga" anche solo di sei mesi, della scadenza di fine maggio, non sarebbe così irrealistico (senza fornire alibi). Giustizia: Tamburino; abbiamo fatto passi avanti… indulto e amnistia? problema politico Agi, 30 aprile 2014 "Dalle ultime stime di ieri, la presenza dei detenuti nelle nostre carceri è quantificabile in poco meno di 60 mila, esattamente 59.700, ai quali vanno tolti 800 che sono in semilibertà, e quindi si trovano in sezioni esterne al carcere". Così Giovanni Tamburino, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ai microfoni di "Prima di tutto", Radio 1, affronta il tema sull’emergenza carceri. "Ma il fenomeno del sovraffollamento esiste ovviamente. Però - ha aggiunto Tamburino - va detto che il problema dell’indulto e dell’amnistia è prettamente politico, sono misure che devono essere decise dal Parlamento a maggioranza, visto che dal 1990 è stata apportata una modifica costituzionale che richiede il voto favorevole dei 2/3 del Parlamento. Quindi si tratta di una scelta politica che deve essere ampia e condivisa". Per Tamburino "il messaggio del Capo dello Stato poneva l’accento sull’esigenza di procedere a rimedi straordinari, proprio perché su di noi pende una sentenza europea, con un termine che si sta avvicinando, il 28 maggio. Strasburgo ci ha chiesto che le condizioni carcerarie in Italia siano riportate nell’alveo della legalità, della normalità. Naturalmente, il ricorso a misure alternative al carcere fa sì che si possa scendere ulteriormente dalla quota di popolazione carceraria, e l’indirizzo in questo senso lo stiamo portando avanti da un po’ di tempo". Per quanto attiene invece allo spazio a disposizione di ogni detenuto, Tamburino ha detto: "In realtà, rispetto a questo, abbiamo fatto un grande passo in avanti, e voglio elogiare tutti i componenti dell’amministrazione Penitenziaria che hanno fatto un lavoro straordinario. E questo riguarda il 99,9% dei detenuti. Non c’è più nessuno che ha uno spazio vitale inferiore ai 3 metri quadri. E questo è un risultato importante ma non sufficiente, perché trattasi della condizione minima imposta dalla Corte Europea. Sotto questa soglia, si infrange l’articolo 3, quello che vieta i trattamenti disumani e degradanti. Ma l’obiettivo è quello di arrivare almeno ai 4 metri quadri, obiettivo possibile ma ancora non raggiunto e nemmeno facilissimo, visto che tra i 3 e i 4 metri quadrati abbiamo circa 19mila detenuti". Entro un anno chiudere ospedali psichiatrici "Credo che sia una decisione giusta la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, e va seguita con attenzione". Per Giovanni Tamburino, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ospite a "Prima di tutto", su Radio 1, "vi è stato purtroppo un rallentamento e lo slittamento di un anno, ma noi per marzo 2015 dovremo essere in grado di chiudere gli ospedali psichiatrici. Per quanto ci compete, come amministrazione penitenziaria, facciamo e faremo di tutto per supportare le strutture regionali, affidate alla sanità pubblica, che dovranno farsi carico del problema". Giustizia: Antigone; sulle carceri finora fatte solo piccole riforme, semestre Ue sia decisivo Ansa, 30 aprile 2014 Le "piccole riforme legislative" adottate hanno prodotto "una riduzione limitata e non determinante del sovraffollamento carcerario". Per questo le associazioni che da sempre si occupano delle carceri rivolgono un appello, prima firmataria Antigone, al Presidente del Consiglio Renzi perché il semestre Ue di guida italiana sia decisivo "per migliorare sostanzialmente e durevolmente le condizioni di vita" in cella. "Nelle carceri italiane - si sottolinea nell’appello - la gran parte dei detenuti è a basso indice di pericolosità e occorre evitare il rischio che l’attenzione legittima che si riversa alle poche migliaia di detenuti pericolosi finisca per condizionare il trattamento di tutti gli altri". Dunque, si sostiene "la gestione dei detenuti non deve essere necessariamente affidata unicamente a chi ha nella sua biografia una storia, seppur meritoria, di investigazione giudiziaria". Secondo le associazioni serve coniugare l’esigenza di sicurezza sociale con il necessario (obbligatorio per lo Stato) ritorno alla società della persona che ha sbagliato, attraverso un percorso rieducativo. "Parallelamente la gestione del personale penitenziario (oltre 50 mila persone) richiede un’attenzione particolare dove al centro ritorni lo scopo per cui queste persone sono assunte. Proprio dal riacquistare il senso del proprio lavoro dipende molto di quello che, di bello o di brutto, accade negli istituti". Tema centrale per il miglioramento della qualità della vita dei detenuti, si prosegue nell’appello, è il lavoro dentro e fuori dal carcere ovvero per chi è in esecuzione penale esterna. Il tasso di disoccupazione nelle carceri Italiane è del 96%. Esiste una legge del 2000, conosciuta come legge Smuraglia che fatica a funzionare a causa della ridotta copertura di spesa. Il lavoro qualificato è essenziale quale fattore di riduzione, pressoché totale, della recidiva e va concretamente incentivato, riducendo quegli intoppi burocratici che spesso non consentono il pieno funzionamento di pur positive leggi esistenti. Anche in questo ambito ci vuole una regia pubblico-privato forte, autorevole e di impronta manageriale. Infine, concludono le associazioni, va decisamente e definitivamente favorito l’invio in comunità di detenuti (ad esempio tossicodipendenti o malati mentali, ma non solo) in affidamento. Giustizia: Della Vedova (Sc); scadenza Cedu vicina, servono misure eccezionali clemenza La Notizia, 30 aprile 2014 "L’ennesima censura del Consiglio d’Europa e l’approssimarsi della scadenza del termine del 28 maggio, assegnato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per legalizzare la situazione delle carceri, pone il Parlamento e ciascuna forza politica di fronte a una inderogabile responsabilità". Lo afferma il sottosegretario agli Esteri e portavoce politico di Scelta Civica Benedetto Della Vedova. "Anche non volendo considerare le pesanti conseguenze finanziarie che deriveranno dal protrarsi di una situazione di insostenibile affollamento degli istituti di pena e dalle sanzioni che saranno comminate all’Italia - aggiunge Della Vedova - le istituzioni italiane non possono prescindere, né su questo né su altri temi, dalle sentenze delle corti internazionali alla cui giurisdizione il nostro Paese è sottoposto. Nonostante le riforme meritoriamente approvate dagli ultimi governi per ridurre la detenzione carceraria appare sempre più evidente che senza il ricorso a misure eccezionali di clemenza, richiamate nel messaggio alle camere del Presidente Napolitano, l’Italia non potrà adempiere a quanto prescritto. In ogni caso qualunque sia la soluzione prescelta, l’Italia non può continuare a eludere il problema, come se non esistesse. Sarebbe - conclude - una gravissima violazione dei diritti umani dei detenuti e degli obblighi a cui il nostro paese è non solo politicamente, ma giuridicamente tenuto". Giustizia: Patriciello (Fi); in Europa subito una riforma del sistema carcerario italiano Ansa, 30 aprile 2014 "Credo che sia imprescindibile una riforma del sistema carcerario italiano che parta dall’Europa e che, tramite misure strettamente connesse alle caratteristiche dei nostri penitenziari, risolva il problema del sovraffollamento e delle condizioni di vita. - lo ha detto l’On. Aldo Patriciello a seguito dei dati diffusi dal Consiglio d’Europa sulla spesa media del nostro Paese per ogni detenuto (123.68 euro) e che vede un aumento di quasi sette euro rispetto agli anni precedenti. Dallo stesso rapporto emerge anche che tra il 2011 e il 2012 è aumentato il numero di guardie carcerarie, mentre al contempo scende il numero di detenuti. "In alcuni casi strettamente legati alla sicurezza c’è bisogno di più unità operative all’interno delle carceri italiane che nonostante la contrazione del numero di detenuti risultano sempre troppo piene; l’obiettivo improrogabile però è legato a come si vive nei penitenziari - continua il candidato forzista alle prossime Europee. Negatività sottolineata anche dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo che ha accusato l’Italia di violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Io mi sono sempre battuto affinché le condizioni di vita nelle carceri migliorino e annullino i numerosi episodi di suicidio. Spesso mi sono recato tra i detenuti per capire come intervenire e sono convinto che l’impegno deve essere diversificato. La gestione del personale deve prevedere una differenziazione di compiti ed obiettivi; sulla base di ciò le risorse devono essere riservate soprattutto ai programmi di reinserimento sociale. Chi sconta una pena detentiva deve avere la possibilità di effettuare un percorso riabilitativo specifico che possa garantirgli il reinserimento nella società ed evitare così recidive. Credo che conciliando tali fini, insieme ad una gestione oculata delle risorse, possiamo non solo evitare spese inutili ma garantire un sistema carcerario efficace ed efficiente. Indispensabile, infine, un iter giudiziario celere, troppi detenuti sono in attesa di giudizio; dato che causa non solo il blocco del sistema giudiziario ma anche un intasamento delle carceri inutile e deleterio". Giustizia: 30mila detenuti possono votare alle Europee, ma farlo davvero sarà un’impresa Redattore Sociale, 30 aprile 2014 In Italia solo un detenuto su 10 tra gli aventi diritto riesce ad esprimere il proprio voto. A pesare difficoltà burocratiche e mancanza di informazioni su procedure e tempi. Antigone: "Basterebbe che il Dap comunicasse in anticipo informazioni per poter votare". Elezioni europee 2014 alle porte, ma tra gli aventi diritto di voto c’è qualcuno che non riuscirà a raggiungere le urne. Sono i detenuti rinchiusi nei diversi penitenziari lungo lo stivale. Ad oggi sono circa 30 mila i detenuti che hanno diritto al voto, ma tra questi soltanto uno su dieci riuscirà a esprimere la propria preferenza. A snocciolare i numeri di una complessa questione ad un mese delle elezioni è l’associazione Antigone. Secondo i dati raccolti dalle ultime consultazioni elettorali del 24 e 25 febbraio 2013, i detenuti che votanti sono stati 3.426. Un dato che oscilla, visto che nel 2008, i votanti sono stati soltanto 1.368, ma nel 2006 erano ancora una volta il 10 per cento degli aventi diritto. Di nuovo uno su dieci. Tuttavia, dati ufficiali su quanti abbiano diritto ad esercitare il voto tra le mura carcerarie non ce ne sono "poiché il ministero della Giustizia si dichiara non depositario di tale dato". Certi, soltanto quelli di quanti hanno avuto la possibilità di votare. E dalle ultime elezioni emerge che la Puglia è stata la regione con il maggior numero di votanti, 552 su 4.127 presenti (il 13,3 per cento), seguita dalla Sicilia, 524 su 7.111 presenti (7,3 per cento), mentre in Lombardia hanno votato in 374 su 9.222 presenti (4 per cento), nel Lazio 484 su 7.183 presenti (6,7 per cento), in Umbria hanno votato solo 25 detenuti su 1.606 presenti (1,5 per cento), meno che in Basilicata, dove su 462 presenti hanno votato 38 detenuti (8,2 per cento). Non tutti i detenuti possono votare. Rispetto agli stati appartenenti al Consiglio d’Europa, l’Italia non risulta essere tra quanti negano in modo assoluto la possibilità di esprimere il proprio voto ai detenuti. Tra questi la Bulgaria, l’Estonia, ma anche il Regno Unito. Sono tanti, invece, i paesi che non hanno alcuna restrizione al diritto di voto dei detenuti. Il nostro Paese, invece, lega il diritto di voto alla gravità del crimine commesso, così come accade in altri sedici stati (Germania, Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Francia, Grecia, Lussemburgo, Malta, Monaco, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Slovacchia e Turchia). Per la legge italiana il diritto di voto è negato in maniera perpetua ai condannati alla pena dell’ergastolo o a pene superiori a cinque anni di carcere. Voto negato, ma in modo temporaneo e cioè per cinque anni, invece, per chi ha avuto una pena non inferiore a tre anni. Poi ci sono le interdizioni legate al tipo di reato. "Nei casi di reati contro l’amministrazione dello Stato - spiega Antigone - non si tiene conto della entità della pena ma della natura del delitto". C’è poi la "riabilitazione", le cui condizioni sono dettate dall’articolo179 del codice penale. Riabilitazione concessa "quando siano decorsi almeno tre anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o sia in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta". Diritto di voto concesso a chi ha pene brevi o è in custodia cautelare. "I detenuti in custodia cautelare e quelli condannati in via definitiva per reati sentenziati come non ostativi - spiega Antigone -, sono cittadini aventi pieno diritto al voto; tutti costoro, in base agli articoli 8 e 9 della legge 23 aprile 1976, n. 136, possono votare nelle carceri con la costituzione di un seggio elettorale speciale". Ed è qui che si inceppa il meccanismo. "Si tratta di un procedimento molto complicato e lungo - spiega Alessio Scandurra di Antigone. Alla fine in fondo a questo procedimento arrivano solo in pochi". Per poter votare, il detenuto deve fare una richiesta al sindaco del Comune nelle cui liste elettorali è iscritto. Si tratta di una dichiarazione di volontà di votare presso il luogo in cui si trova, deve essere fatta entro tre giorni dalle elezioni e tramite l’Ufficio Matricola del carcere. Dichiarazione che deve essere corredata dell’attestazione del direttore del carcere che provvede anche all’inoltro. Il sindaco, che riceve la richiesta, deve includere i nomi dei richiedenti in appositi elenchi consegnati al presidente di ciascuna sezione. Sindaco che deve anche attestare l’avvenuta inclusione negli elenchi previsti, anche per telegramma. Ovviamente, per votare occorre avere la tessera elettorale e in mancanza della stessa occorre farne richiesta al comune di appartenenza. Tutti passaggi che, tra le mura di un penitenziario, sono ancor più macchinosi. "Di solito, la gente si sveglia un po’ tardi - spiega Scandurra, sia per quanto riguarda i detenuti, sia gli operatori. Ci si mette in moto quando il tema diventa di attualità in televisione, ma a quel punto, generalmente, non si fa più in tempo". Procedure e tempi burocratici che in questo caso sono il vero ostacolo da superare per il pieno godimento di un diritto. "Quello che si può fare è automatizzare il processo di informazione da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - aggiunge Scandurra - estraendo i nomi degli aventi diritto, mandare loro in automatico una comunicazione con largo anticipo e con tutte le informazioni per poter votare". Giustizia: lo sfregio su Aldrovandi, al Congresso del sindacato Sap ovazione agli assassini di Roberto Rossi L’Unità, 30 aprile 2014 Cinque minuti di applausi a tre dei quattro poliziotti condannati per l’omicidio durante il congresso del sindacato Sap. La madre: "Rivoltante". Le ferite alla memoria di Federico Aldrovandi, il ragazzo ferrarese ucciso il 25 settembre del 2005 dopo un fermo da parte di una volante della polizia mentre stava tornando a casa, non finiscono mai. Il caso è chiuso, la Cassazione ha condannato quattro poliziotti per omicidio colposo, ma questo non basta. Non per tutti. Certamente non per il Sap, il sindacato autonomo di polizia, che da tempo si è messo dalla parte degli assassini di Federico in maniera plateale, pianificata, brutale, aggressiva. Ieri, durante la sessione pomeridiana del suo congresso, in svolgimento nella città di Rimini, tre dei quattro poliziotti sono stati accolti in sala da cinque minuti di applausi. Un’eternità. Che segna la distanza tra il buon senso e l’ottusità, tra la verità e la calunnia. Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani sono stati accolti da questo gruppo di poliziotti, di destra è bene ricordarlo, come degli eroi per aver pestato, schiacciato, soffocato un ragazzo di diciotto anni una notte di autunno e aver cercato di coprire in tutti i modi quell’omicidio alterando la realtà dei fatti. Oltre ai tre poliziotti presenti al congresso riminese, nel caso Aldrovandi era coinvolta anche un’altra poliziotta, Monica Segatto, che ieri, però, non era presente in sala. I quattro hanno trascorso solo alcuni mesi in carcere, graziati dall’indulto, e sono tornati al lavoro. "È terrificante, mi si rivolta lo stomaco" ha detto Patrizia Moretti dopo aver appreso dell’applauso. "Cosa significa? Che si sostiene chi uccide un ragazzo in strada? Chi ammazza i nostri figli? È estremamente pericoloso". Il Sap, ha aggiunto Moretti su Facebook, "applaude a lungo i condannati per l’omicidio di mio figlio. Provo ribrezzo per tutte quelle mani. Alessandro Pansa era lì?", si domanda la Moretti. Il capo della polizia, in realtà, aveva lasciato il congresso del sindacato da alcune ore e da quel palco, ironia della sorte, aveva annunciato nuove regole d’ingaggio per la polizia. Non è la prima volta che il Sap si concede il lusso della vergogna. Lo scorso 17 febbraio, ad esempio, il segretario Gianni Tonelli aveva detto, a poche ore dalla marcia alla quale parteciparono migliaia di ferraresi per chiedere la destituzione dei quattro agenti riammessi in servizio una volta scontata la condanna, che "le vere vittime della morte del diciottenne Federico Aldrovandi sono i quattro agenti che lo hanno ucciso". Il Sindacato Autonomo di Polizia non è stato il solo a schierarsi apertamente dalla parte dei colpevoli. In principio fu il Coisp, altra sigla sindacale di destra ma meno rappresentativa della prima. Il 27 marzo del 2013 arrivò a manifestare sotto la sede di lavoro della madre di Federico a Ferrara. Una decina di poliziotti, sotto la tutela politica dell’europarlamentare ex Pdl e poi Fli Salato, inscenò un sit-in con lo slogan "la legge non è uguale per tutti". Per quella manifestazione fu rimosso il questore di Ferrara, arrivarono le scuse del ministro degli Interni Cancellieri, non quelle dei poliziotti. E andando dietro nel tempo come non ricordare l’uscita, nel giugno 2012, di uno degli autori dell’omicidio, Paolo Forlani, sulla pagina Facebook di Prima Difesa Due (poi chiusa dalla polizia postale). Forlani scrisse, in riferimento proprio a Patrizia Moretti, "ma che faccia da culo aveva sul tg". La pagina era gestita da Simona Cenni, che a sua volta scrisse: "Federico faceva uso di sostanze stupefacenti, alcool e mamma e papà sapevano… dormiva dal nonno Federico e non a casa con i genitori… e Federico ha dato tanto alla sua famiglia dopo la morte. Due milioni di euro… riposa in pace ragazzo… sapendo che se i tuoi ti avessero aiutato saresti ancora vivo". C’è un modo per mettere fine a questa vergogna? Il capo della polizia batta un colpo. Lettere: quasi meglio una galera serba di Giuliano Ferrara Il Foglio, 30 aprile 2014 Potrebbe andare peggio solo in Serbia. E con tutto il rispetto per un paese che è tra gli ultimi arrivati nel consesso delle democrazie europee, non è affatto un buon risultato. Il rapporto annuale sulle statistiche carcerarie del Consiglio d’Europa, reso noto ieri, certifica ancora una volta l’imbarazzante verità per la quale l’Italia è già stata condannata quale nazione che pratica la "tortura" (dalla sentenza Torreggiani del 2013 della Corte dei diritti dell’uomo, sospesa fino a maggio del 2014 per dare tempo allo stato italiano di rimediare). Il parametro di riferimento è lo stesso: le condizioni inumane dello spazio di reclusione. Il Consiglio d’Europa certifica infatti che per quanto riguarda il sovraffollamento, con i suoi 145 detenuti per 100 posti nominali nelle celle, il nostro paese è il peggiore dell’Unione europea a 28 paesi, mentre se si considerano tutti i 47 paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa soltanto la Serbia ha un sovraffollamento maggiore. Anche tenendo conto che il dato preso in considerazione è del 2012, e che con gli ultimi provvedimenti d’emergenza attuati proprio per sfuggire alle sanzioni della sentenza Torreggiani la situazione è un po’ migliorata, come ha dichiarato ieri il capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino (nel 2012 i detenuti erano oltre 80 mila, oggi "solo" 60 mila su una capienza di circa 40 mila), restano in tutta la loro scandalosa evidenza sia lo stato di degrado dell’amministrazione della giustizia, sia l’inerzia colpevole della politica chiamata a riforme mai nate. Qualche giorno fa è tornato a parlarne anche il presidente Napolitano, richiamando al contenuto del suo disattesissimo messaggio alle Camere del 7 ottobre 2013 e sostenendo l’urgenza di fare il punto "sulle misure adottate e da adottare". Due giorni prima era stata la telefonata di Papa Bergoglio a Marco Pannella, con l’offerta di sostegno per il suo impegno pressoché solitario sulle carceri, ad accendere per un attimo la commozione pasquale e l’interesse mediatico. Ma non si tratta soltanto di ribadire una pur legittima, oltre che nobile, posizione umanitaria. E nemmeno del dovere civile di trarsi al più presto dalla vergogna nazionale di un giudizio tanto negativo (il 46esimo posto su 47, la "tortura") proveniente dall’Europa cui tanto spesso ci appelliamo. Ciò di cui la relazione di Strasburgo costringe a prendere atto (o dovrebbe: magistratura compresa) è la crisi conclamata dell’intero sistema di giustizia italiano, di cui l’istituzione penitenziaria è solo l’ultimo, conseguente girone infernale. Se solo si riflettesse su quanto i numeri del sovraffollamento siano in gran parte gonfiati dalla custodia cautelare, utilizzata in percentuali spropositate rispetto alle medie europee, ci sarebbe materia su cui agire. Lettere: carcere… l’alternativa c’è di Giovanni Ramonda (Comunità Papa Giovanni XXIII) Ristretti Orizzonti, 30 aprile 2014 La telefonata a Marco Pannella è un gesto illuminato dallo Spirito che abbraccia i tanti che compiono atti di giustizia anche se lontani dalla Chiesa. E lo leggiamo anche come un’esortazione all’unità, a lavorare insieme cristiani e laici, nella lotta per migliorare il sistema carcerario. Siamo convinti che, a fianco di "amnistia" ci sia un’altra parola chiave: "perdono". Un perdono responsabile a cui si arriva attraverso percorsi di riconciliazione personale e sociale. Solo attraverso programmi di recupero che educano al cambiamento è possibile ottenere una vera sicurezza che l’attuale sistema vendicativo non garantisce per nulla. Un’affermazione questa confermata dai dati. Primo tra tutti quello sulla recidiva: la percentuale chi sconta la pena in carcere e torna a delinquere una volta fuori è del 75% mentre per chi beneficia di pene alternative si abbassa al 22%. Anche il presidente Napolitano esorta le Camere a fare il punto sulle misure adottate e da adottare, ricordando la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che nel gennaio 2013 ha condannato l’Italia per la situazione delle carceri, dandole tempo fino al 27 maggio per individuare le soluzioni. Perché non "approfittare" di questo momento allora per lavorare tutti insieme, associazioni, istituzioni e persone di buona volontà, nella ricerca e attuazione di risposte definitive? In quest’ottica la Comunità Papa Giovanni invita tutti a partecipare al quinto Pellegrinaggio "Fuori le sbarre, la certezza del recupero", che si svolgerà a Rimini il prossimo 11 maggio. Una marcia per chiedere al Signore di stare a fianco di chi soffre all’interno del carcere, detenuti, famiglie, operatori e polizia penitenziaria, e per richiamare l’attenzione del mondo politico sul bisogno che c’è di leggi adeguate. La Comunità opera nel mondo carcerario da più di 40 anni. Da 10 porta avanti il Progetto Cec (comunità educante con i carcerati), un modello di recupero basato su accoglienza in strutture comunitarie, su formazione e ricerca valoriale, con l’obiettivo del cambiamento personale. Oggi 300 tra detenuti ed ex detenuti beneficiano del progetto, e la recidiva per chi ha concluso è abbattuta al 10%. Vercelli: "troppa indifferenza", detenuto 61enne si uccide in cella con la bombola del gas di Michela Trada Notizie Oggi, 30 aprile 2014 "Qui si può anche morire nell’indifferenza di quelli che ricoprono un ruolo. Anche a Billiemme sono in aumento gesti disperati di autolesionismo e tentati suicidi ma vengono celati all’opinione pubblica, sotto un velo stagnante di ipocrisia". Iniziava in questo modo la lettera portataci personalmente in redazione, lo scorso mese di gennaio, da un ex detenuto della Casa Circondariale di via del Rollone. Un’accusa di pancia nata da mesi di sofferenza dietro alle sbarre di un’angusta cella perché "è vero che abbiamo sbagliato, ma siamo pur sempre essere umani e la dignità è un diritto inviolabile". A Pasqua, uno di quei gesti disperati messo in evidenza nella missiva, si è però nuovamente ripetuto. Un 61enne ha deciso di farla finita intossicandosi con la bombola a gas presente nella sua camera di reclusione, strumento in dotazione per consentire ai detenuti di cucinarsi pasti frugali. Il corpo dell’uomo, ormai privo di vita, è stato rinvenuto il giorno dopo da una delle guardie della struttura. "Soffriva da tempo di una forte depressione - ci racconta al telefono la moglie di un vercellese tutt’ora ristretto al Billiemme. Questo non giustifica, ad ogni modo, una fine del genere. In carcere c’è troppa indifferenza, una parola di conforto per chi trascorre un’intera giornata in cella può rivelarsi fondamentale; i detenuti, invece, troppo spesso sono abbandonati a loro stessi. Chiediamo a volontari ed educatori di fare qualcosa prima che la situazioni degeneri ulteriormente". Testimonianze che ricordano pure le parole di Ercole Quartarone che, nell’aprile del 2012, descrisse al nostro giornale le condizioni "disumane" all’interno delle celle della nostra casa circondariale e parlò di miracolo per il fatto che non si fossero mai accese rivolte. Pure il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) è più volte intervenuto sui media locali a mezzo lettera per sottolineare le difficili condizioni di esistenza tra le mura del carcere cittadino. "I politici dicono di interessarsi al problema facendo un giro di mezza giornata nella struttura per finire sulle pagine dei giornali - conclude la vercellese. È giusto che si scontino le pene dei propri misfatti, ma non è allo stesso modo corretto continuare ad ignorare determinate problematiche". Padova: si spara dentro il garage di casa, muore suicida un agente di polizia penitenziaria di Cristina Genesin e Cristina Salvato Il Mattino di Padova, 30 aprile 2014 Uno sparo che interrompe la quiete del dopo pranzo, un uomo che si affaccia e vede il corpo del vicino riverso a terra, in una pozza di sangue, all’interno del garage. Una telefonata ai soccorsi, purtroppo inutili. Ha scelto di andarsene così, ieri intorno alle 14.40, un agente di Polizia penitenziaria in servizio nella casa circondariale di Padova. Si chiamava Marco Congiu, 48 anni il prossimo 4 settembre, nato in Germania anche se originario della provincia di Oristano, residente da molti anni Taggì di Sopra (nel Comune di Villafranca Padovana) in via Rossini, con la moglie e i tre figli. Inspiegabile, almeno per ora, il motivo del suo gesto: i carabinieri della stazione di Limena, chiamati dal vicino, non hanno trovato nessun messaggio destinato a spiegare la ragione di quella decisione estrema. Solo un sms inviato al figlio diciottenne: il papà lo invitava a prendersi cura della mamma. Niente di più. Poco dopo pranzo l’uomo è andato in garage armato della sua pistola d’ordinanza. L’ha puntata sotto il mento e ha esploso un colpo cadendo a terra. Colpo che udito da un vicino: è bastata un’occhiata, il corpo era a terra ed è scattato l’allarme. In quel momento Marco Congiu era solo casa. In pochi minuti è arrivata l’ambulanza del Suem mentre l’elicottero del Servizio di emergenza era già atterrato nella piazza della frazione. Tuttavia ogni intervento è stato inutile. Sono trascorse ore prima che il corpo fosse spostato per i rilievi. Qualche vicino ha lamentato quel ritardo, preoccupato per il dramma che stavano vivendo i figli, due in minore età. È una tragedia senza un perché: Marco Congiu, introverso e riservato di carattere, non aveva manifestato particolari preoccupazioni o malesseri. Non sembrava depresso, non beveva e, in famiglia, il clima era sereno. Alle 16 di ieri l’uomo avrebbe dovuto iniziare il turno in carcere fino a mezzanotte. "Siamo sgomenti perché questo grave fatto avviene a meno di un mese da un’analoga tragedia a Siena" commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), "Una riflessione va fatta sulla piaga dei suicidi nella Polizia penitenziaria: 100 casi dal 2000 a oggi sono un’enormità. È il prezzo che paghiamo per un lavoro durissimo che non ha attenzione da parte dei vertici del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Vertici, il capo Tamburino e il vice Pagano, che devono dimettersi. E subito: il personale delle carceri è abbandonato a se stesso. Da anni chiediamo l’istituzione di punti di ascolto con esperti psicologi, dove gli agenti possano rivolgersi in situazioni di difficoltà". "Esprimiamo solidarietà e affetto alla famiglia" spiega Giampietro Pegoraro, coordinatore veneto della Cgil-Polizia penitenziaria, "Purtroppo l’elenco dei suicidi fra gli agenti della polizia penitenziaria s’allunga. Come Cgil, abbiamo lanciato richieste di intervento al Governo e al Ministero della Giustizia, tutte rimaste inascoltate. Le condizioni di lavoro per gli agenti sono sempre più difficili: in carcere finiscono malati anche psichiatrici, tossicodipendenti in crisi, tantissimi stranieri. E gli agenti sono del tutto impreparati a gestire situazioni complesse e spesso al limite, costretti a turni pesanti con 40-50 ore di straordinari al mese, tante volte non pagati. Basta pensare che mancano circa 7 mila agenti nelle carceri italiane". Comunicato Sappe "Ancora una tragedia nei Baschi Azzurri della Penitenziaria, ancora un poliziotto suicida. È stato trovato oggi a Padova il corpo di un poliziotto penitenziario di 49 anni, M.C., di origini sarde, padre di tre figli, in servizio alla Casa Circondariale patavina, che si è sparato nel garage vicino casa. Siamo sconvolti e sgomenti, anche perché questo grave fatto avviene a meno di un mese da una analoga tragedia, a Siena". A darne notizia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Una tragedia senza un perché - aggiunge Capece. Noi ci stringiamo con tutto l’affetto e la solidarietà possibili al dolore indescrivibile della moglie, dei figli, dei familiari, degli amici, dei colleghi". Capece aggiunge poi che "una riflessione deve essere fatta sulla piaga dei suicidi tra i poliziotti: 100 casi dal 2000 ad oggi sono una enormità. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: l’istituzione di apposite convenzioni con Centri specializzati di psicologi del lavoro in grado di fornire un buon supporto agli operatori di Polizia - garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene - può essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti anche dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria". "Su queste tragedie - conclude - non possono e non devono esserci colpevoli superficialità o disattenzioni". Giarre (Ct): l’udienza per la scarcerazione slitta di 4 mesi, detenuto malato muore in cella di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 30 aprile 2014 Il penitenziario aveva segnalato l’incompatibilità con la reclusione per la malattia. Il giudice di sorveglianza ha rinviato per due volte la discussione. Affannato da un’asma che era diventata un rantolo continuo, pillole e spray in quantità, la notte si incollava a naso e bocca la maschera delle ventilazione forzata per annaspare l’ossigeno che all’alba del 25 aprile non è più bastato. Forse per un guasto all’apparecchio. Ed è morto così, nella sua cella del carcere di Giarre, Nicola Sparti, 32 anni, alto un metro e cinquanta, 150 chili addosso, ufficialmente "cardiopatico sottoposto a ossigenoterapia". Soffocato senza che nessuno se ne accorgesse, per una beffa del destino a soli 5 giorni dall’udienza fissata in Tribunale per sancire l’incompatibilità della patologia col regime carcerario. Doveva andarci domani davanti al giudice di Sorveglianza Ma doveva andarci già quattro mesi fa. Sarebbe stato il terzo tentativo, dopo le due precedenti udienze saltate a gennaio e a marzo perché la magistratura aveva preferito rinviare, dando la precedenza ad altro, senza tempo per questo povero diavolo adesso all’obitorio dell’ospedale Garibaldi di Catania, in attesa di autopsia. È il nuovo clamoroso scandalo del pianeta carceri, consumato all’ombra dell’Etna, a venti chilometri da Catania, nello stesso carcere dove con un cappio alle sbarre quattro anni fa si impiccò un detenuto di 37 anni. "Ma era stata da mesi la stessa amministrazione penitenziaria a sollecitare in questo caso l’incompatibilità fra malattia e detenzione", precisa il direttore generale del Dap, Roberto Piscitello, magistrato di lungo corso contro la mafia, a capo della gestione detenuti e dei provvedimenti sul carcere duro, il "41 bis". Sfronda così il campo da ogni responsabilità della sua amministrazione. Anche se l’inchiesta aperta dalla Procura di Catania dovrà accertare alcuni problemi legati al ventilatore meccanico che potrebbe essere andato in tilt. "Esclusa la presenza in cella di una bombola di ossigeno", ripetono a Piscitello i funzionari del Dipartimento fra Catania e Palermo. Pur senza smentire le bordate del segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Donato Capece sulla scarsità di vigilanza: "Nel reparto custodia attenuata dove il detenuto si trovava, un solo agente controlla stabilmente da 80 a 90 reclusi". Il destino ha voluto che la tragedia maturasse ad un soffio dalla possibile liberazione per motivi di salute, anche se il "fine pena" per i furti commessi restava fissato al 2019. Ma al Garibaldi il direttore del Dipartimento Emergenza Sergio Pintaudi non azzarda ipotesi definitive: "Potremmo solo dire che la detenzione può essere stata una concausa del decesso". Insiste invece Capece sull’indifferenza della macchina burocratica e giudiziaria: "Questa morte, ancorché dovuta a cause naturali, deve fare riflettere sulla drammaticità delle attuali condizioni penitenziarie. Qui pagano ormai persone disagiate, poveracci, prigionieri che probabilmente mai godranno di interessamenti istituzionali autorevoli per le loro condizioni di vita in cella". L’avvocato di Nicola ci ha provato e riprovato a convincere i magistrati ad accelerare la pratica per ottenere i domiciliari o il trasferimento in ospedale. Una battaglia persa. Senza nemmeno potere usufruire della spinta dell’ufficio regionale del Garante per i diritti dei detenuti, chiuso in Sicilia l’anno scorso dopo astiose polemiche sulla gestione affidata a uno degli amici politici più vicini a Marcello Dell’Utri, l’ex senatore forzista Salvo Fleres. Adesso è lui a passare al contrattacco per l’inattività di un ufficio mai più riaperto dal governatore Rosario Crocetta. Mozione Radicali Catania Documento dell’associazione Radicali Catania sulla morte di Nicola Sparti nel carcere di Giarre (Ct) il 25 aprile. Quella del giovane Nicola Sparti è l’ennesima morte in carcere che poteva - e doveva - essere evitata. Ci chiediamo perché Sparti si trovava ancora ristretto in carcere se i medici - come ha dichiarato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - avevano certificato per ben due volte che le sue condizioni di salute non erano compatibili con il regime carcerario? Le condizioni carcerarie denunciate dal suo avv. Enzo Merlino e dal medico legale Edoardo Tusa prefigurano purtroppo il classico caso nel quale nessuno risulterà responsabile. Segnaliamo che le condizioni di degrado e di abbandono del carcere di Giarre sono state dettagliatamente descritte nell’interrogazione parlamentare presentata da Rita Bernardini dopo una visita a sorpresa effettuata il 3 aprile 2011; in questa interrogazione (a cui i ministri interrogati non hanno fornito alcuna risposta) vengono sottolineate le gravissime criticità dell’istituto in particolare sotto il profilo dell’assistenza sanitaria e della carenza di agenti di polizia penitenziaria, nonché in relazione al ruolo e ai ritardi della magistratura di sorveglianza. L’associazione Radicali Catania si limita a denunciare che, nel complessivo degrado della condizione delle carceri in Italia, la Sicilia è appesantita da fatti politici che aggravano ulteriormente il grado di afflizione cui sono sottoposti i detenuti nell’isola. Nel caso di Nicola Sparti, quarantacinquesimo decesso in carcere dall’inizio del 2014, riteniamo molto probabile che siano intervenute, perlomeno come concause, almeno le seguenti inadempienze specificamente imputabili alla Regione: mancato completamento del passaggio delle competenze della sanità carceraria dall’amministrazione penitenziaria alle Asp (competenza regionale). È emerso che Sparti si trovasse in cella collegato ad un ventilatore polmonare che lo costringeva a dormire appoggiato su di un tavolo perché non era collegabile al letto. Chiediamo, chi ne aveva la responsabilità medica? mancata nomina da oltre sette mesi del Garante dei detenuti per la Sicilia. Il fatto è tanto più grave in quanto l’ufficio del Garante dipende direttamente dalla presidenza della regione Sicilia. Un efficiente ufficio del Garante avrebbe potuto dare migliore interazione con il magistrato di sorveglianza per condizioni di detenzione più adeguate come i domiciliari richiesti dai familiari. Ciò, sebbene, in questo caso, la difesa sembra aver esperito ogni possibile mezzo legale come la sospensione della pena o in subordine, la detenzione domiciliare. Radicali Catania esprime piena solidarietà ai familiari di Nicola Sparti. Indipendentemente dal fatto specifico però, anche solo le due menzionate inadempienze sono foriere di altre morti evitabili nelle carceri siciliane. Chiediamo che venga pienamente completato il passaggio della sanità penitenziaria alla competenza regionale (Asp) incrementando i livelli di assistenza. Troppe volte, purtroppo non solo in carcere, non vengono garantiti i Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) e questo caso sembra proprio uno di quelli. Che venga ricostituita un’autorevole figura del garante regionale dei detenuti, oggi sminuita in carica onorifica inadeguata alla funzione, e che, a tale carica, venga nominata persona di comprovato indipendente impegno nella denuncia delle attuali degradanti condizioni delle carceri siciliane. Ciò anche perché, allo stato, esiste un ufficio del Garante che ci risulta consti di circa 15 dipendenti con tanto di dirigente ma che privo di alcuna guida politica è sostanzialmente paralizzato nelle proprie attività. Se tarda la nomina del garante, vorremmo sommessamente suggerire di chiudere l’ufficio e di trasferire tale qualificato personale ad altre mansioni. Ad esempio, nella rinnovata sanità penitenziaria regionale. L’associazione Radicali Catania denuncia, in base ad informazioni raccolte direttamente, il persistere, in pressoché tutte le carceri siciliane, di condizioni detentive inumane e degradanti, e non sola per la violazione del limite di spazio di tre metri per detenuto, già di per sé tortura. Soprattutto per la mancata implementazione di misure atte a favorire il reinserimento dei detenuti (assoluta mancanza della funzione rieducativa della pena) e tutte quelle altre misure che possano concorrere ad una espiazione che non sia tortura. Eppure tutte le ricerche mostrano che la recidiva criminale varia notevolmente a seconda delle condizioni di detenzione e delle possibilità rieducative offerte. Radicali Catania aspira a un sistema di sanzionamento penale nel quale la detenzione penitenziaria sia realmente residuale nel sistema della pena, sufficiente a mettere in condizioni di non nuocere il minor tempo possibile chi si trovi in uno stato di pericolosità per gl’altri. L’associazione Radicali Catania aderisce al Satyagraha "abbiamo contato gli anni, ora contiamo i giorni" invitando i propri iscritti e simpatizzanti ad un giorno di sciopero della fame collettivo fissato per giovedì 1 maggio per lottare contro queste condizioni carcerarie inumane e degradanti. Roma: processo per morte di Simone Penna a Regina Coeli, a ottobre requisitoria del pm Tm News, 30 aprile 2014 "Un medico incaricato è presente nella struttura penitenziaria 3 ore al giorno. Ricordo che dal 2008 l’organizzazione dell’assistenza sanitaria è diventata di competenza dell’azienda sanitaria locale. Il direttore comunque vagliava gli atti che poi firmava per alcuni secondi, una volta che gli venivano sottoposti". Ha detto così l’ex coordinatore dell’area sanitaria del carcere di Regina Coeli, Antonio Acampora, nel corso della sua testimonianza nell’ambito del processo per la morte di Simone La Penna, il 32enne deceduto nel penitenziario romano nel novembre del 2009. A rispondere dell’accusa di omicidio colposo ci sono l’ex dirigente Andrea Franceschini e due dottori. Il direttore del carcere all’epoca dei fatti, Mauro Mariani, da parte sua ha detto di non sapere quale esame operasse il direttore sanitario per procedere alla firma di un atto. Uno dei legali di parte civile, l’avvocato Roberto Randazzo, al termine dell’udienza ha spiegato: "La Penna era affetto da una grave forma di anoressia. Le sue condizioni di salute erano incompatibili con la detenzione". Secondo l’accusa del pm Eugenio Albamonte i tre imputati avrebbero omesso di "improntare un tempestivo approccio specialistico di natura psichiatrica alla patologia diagnosticata che veniva avviata solo dopo 43 giorni dal trasferimento a Regina Coeli" e di "esercitare il doveroso controllo sulla effettiva somministrazione della terapia farmacologica prescritta dal medico psichiatra". Rispetto alla inefficacia del trattamento sanitario complessivo Franceschini e gli altri avrebbero omesso "di assumere, di propria iniziativa, le determinazioni mediche preordinate a favorire il trasferimento del detenuto presso una struttura sanitaria in grado di meglio fronteggiare la patologia". I medici, insomma, anziché vigilare sulle sue condizioni, lo avrebbero lasciato morire senza prestargli le dovute attenzioni benché la gravità del caso fosse evidente e senza considerare che fu ricoverato per anoressia già nel 2003 e poi nel 2005. La prossima udienza è fissata per il 25 giugno per l’ascolto di alcuni testi della difesa. Il 17 ottobre la parola passerà al pubblico ministero per la requisitoria. Entro la fine dell’anno è presumibile che si arrivi alla sentenza. Treviso: nel carcere di Santa Bona 56 detenuti di troppo e disturbi psichici in aumento di Valentina Calzavara La Tribuna di Treviso, 30 aprile 2014 La sveglia suona alle sette e trenta. Si puliscono le celle, l’angolo cottura, il gabinetto e quei pochi metri quadrati dove si dorme e si condivide lo spazio in tre o quattro persone. È accaduto anche questa mattina. Inizia così la giornata dei 243 detenuti del carcere di Santa Bona. Sei mesi fa erano 300 a fronte di una tolleranza stimata per un massimo di circa 187 ospiti. Anche il penitenziario trevigiano, come molti altri in Italia, soffre quel problema di sovraffollamento che anche in questi giorni il presidente Giorgio Napolitano ha segnalato, chiedendo alle Camere di intervenire. Al Santa Bona c’è un’assenza di metraggi adeguati cui si collegano ben altri problemi: la convivenza forzata, la difficoltà di attrezzare stanze per l’attività lavorativa, la mancanza di un luogo dedicato alla sessualità, peraltro non previsto dalla legge. È così che nelle celle italiane cresce il disagio, un malessere silenzioso che assume i contorni dell’insonnia, della depressione e, nei casi peggiori, della morte dietro alle sbarre. Il più delle volte per impiccagione o per soffocamento. Basta un lenzuolo per farla finita. Condizioni di detenzione che l’Europa ha definito "inumane e degradanti", sanzionandoci. E per questo il presidente Napolitano è tornato in questi giorni sull’argomento. I numeri ben esprimono il malessere, negli ultimi mesi i detenuti che si sono tolti la vita in Italia sono stati 99. Nonostante tutto però, la casa circondariale di Treviso è tra quelle "messe meglio", se comparata ad altri istituti. In 25 anni si è registrato un solo tentativo di suicidio e i casi di ferite provocate volontariamente vanno dai 2 ai 3 all’anno. Cifre in controtendenza, rispetto ad altre realtà, ma il monitoraggio dev’essere continuo. Per questo, l’Usl 9, che a Santa Bona garantisce la presenza di 7 medici, uno al minorile, e 6 infermieri, ha appena aderito al progetto "Ccm Salute 2012". Con un budget di 32 mila euro circa, l’azienda sanitaria trevigiana valuterà lo stato di salute dei carcerati, raccoglierà informazioni cliniche e pianificherà azioni preventive contro la morte volontaria. Un’iniziativa avviata dalla Regione, che aggiunge un ulteriore tassello all’attività di controllo già partita col piano di sorveglianza locale. Piano che prevede per ogni detenuto del Santa Bona una scheda informatizzata personale che documenta patologie ma anche situazioni di disagio, così da garantire un intervento immediato in caso di depressione. "Il rischio suicidario rappresenta uno degli aspetti più impegnativi che la sanità deve affrontare nelle carceri", spiega Giancarlo De Nardi medico dell’Asl 9, "il sovraffollamento è la causa principale dei disturbi del sistema nervoso. Già la privazione della libertà è un motivo di stress, se poi si aggiunge la condivisione del poco spazio e l’assenza di privacy, ci possono essere dissapori e litigi che sfociano in atti contro la propria persona". Da non sottovalutare l’autolesionismo che si manifesta in varie forme. "Tagli effettuati con le scatolette del tonno oppure smontando le lame dei rasoi monouso, ma anche ematomi da pugni contro il muro, abuso e intossicazione da farmaci. Queste sono le modalità più utilizzate per esprimere il proprio malessere", spiega De Nardi. Ma ci ferisce anche con il braccetto del lettore cd che incide la pelle, oppure con i filtri di sigaretta, racconta il medico. E la vigilanza da sola non basta. Sport e occasioni di lavoro così la rieducazione funziona Nonostante l’emergenza carceri del nostro Paese, la Casa circondariale di Santa Bona riesce a fare meglio di molti altri, puntando sulla prevenzione e su misure che offrono ai detenuti lavoro e sport durante le 8 ore d’aria concesse. È così che i tentati suicidi a Treviso sono di gran lunga inferiori rispetto alle medie nazionali. Vale lo stesso per l’autolesionismo. Un buon risultato che Francesco Massimo, direttore del carcere trevigiano dal 1988, spiega così: "Partiamo dal presupposto che il carcere debba rieducare: nel farlo, non posso che ringraziare la sinergia encomiabile che c’è tra Polizia Penitenziaria e operatori, cui si aggiunge l’intesa con l’Usl 9". Attraverso la convenzione firmata tra azienda sanitaria trevigiana e direzione del carcere, la salute fisica e psicologica dei detenuti viene costantemente osservata. "La sottoscrizione funziona, abbiamo introdotto anche la "cartella informatizzata" che ci dà un quadro completo del soggetto al suo ingresso per allocarlo nel migliore dei modi. Teniamo poi presente che il suicidio in carcere è spesso legato alle tipologie di reato, chi ammazza un figlio è maggiormente esposto e quindi ci si attiva per controllarlo di più sotto il profilo di sicurezza e sanitario" spiega Massimo. I detenuti a Santa Bona sono oggi 243 con un’età media di 35 anni. Gli stranieri sono più del 40% . Magrebini, albanesi e rumeni i paesi prevalenti, spaccio, rapine, furti e qualche omicidio, i reati più diffusi. Ma il monitoraggio del rischio suicidario non è tutto: in questi anni si è puntato alla prevenzione della depressione dietro le sbarre, inserendo opportunità occupazionali e formative. "I detenuti possono lavorare a turnazione svolgendo attività domestiche quali lo "scopino". Ne abbiamo poi 25 che lavorano con la cooperativa Alternativa e altri 25 per l’amministrazione. Per due detenuti abbiamo stipulato una convenzione per lavori socialmente utili col comune di Villorba ed è in via di definizione anche un accordo con Treviso". Nel frattempo però la Corte Europea dei diritti umani ha sanzionato l’Italia. "Una cosa è la teoria, un’altra la pratica. L’Europa ci vede malissimo e ci condanna, è vero, ma ogni carcere ha le sue dinamiche interne". In che senso? "Le faccio un esempio. Per legge, nelle celle di tutte le carceri italiane ci dovrebbero essere le docce. In molti non è così. In alcune realtà la doccia comunitaria non è un problema, sarebbe molto più problematico togliere ai detenuti il fornelletto (non previsto per legge) con cui si cucinano il ragù della domenica. Se succedesse a Poggio Reale, dove ho diretto il reparto di massima sicurezza, più di 3 mila detenuti, scoppierebbe una rivolta". Napoli: carcere di Poggioreale nel caos, il ministero revoca l’incarico al direttore di Stella Cervasio La Repubblica, 30 aprile 2014 Cambio della guardia a Poggioreale. Dopo il severo giudizio della commissione europea che ha visitato il carcere il mese scorso, il Dap del ministero avvia la procedura di revoca dell’incarico alla direttrice Teresa Abate, che ha 15 giorni per replicare. Il nuovo dirigente dovrà entro la fine di maggio ridurre a meno di 2000 unità la presenza dei detenuti, pena sanzioni dall’Europa. I reclusi, all’ora della refezione, hanno inscenato una protesta chiedendo l’indulto e battendo pentole e posate contro le grate del penitenziario. "Non è così che si risolve il sovraffollamento", dice il senatore Pd Enzo Cuomo. "Indulto… indulto". Gridano da dietro le sbarre i detenuti dell’inferno Poggioreale nella mattinata in cui è in forse il direttore del carcere sovraffollato per eccellenza del sud d’Italia. Bufera sul penitenziario napoletano: a Teresa Abate l’amministrazione penitenziaria ha notificato un provvedimento nel quale si chiede di indicare una nuova sede per un incarico diverso. A Radio Radicale che le chiedeva conto dei pestaggi denunciati dai detenuti, così replicava la direttrice: "A me non risulta. Il carcere non è più quello di una volta: è trasparente". Il Dap di Roma ha disposto un cambio della guardia, il cui iter è con in cambio di direzione". Il contratto triennale della dirigente sarebbe scaduto nel 2015, entro 15 giorni è prevista la replica. Un cambio di marcia chiesto da Roma per uno dei penitenziari con la maggiore criticità in Italia, accolto all’ora della refezione di Poggioreale con una rivolta "sonora", in gergo carcerario "battitura": posate che percuotono pentole, metallo di oggetti quotidiani contro metallo delle finestre occluse dai letti a castello dove manca l’aria. Restano i cinque vicedirettori, mentre anche il comandante delle guardie, Salvatore D’Avanzo, se ne andrà a fine anno per raggiunti limiti d’età. Non ci saranno altre mobilità in Italia, fatta eccezione per un altro pensionato, il direttore del carcere di Fuorni nel salernitano. Per la successione a Poggioreale si fa il nome di Antonio Fullone, l’attuale dirigente (dal 2011) della casa circondariale di Lecce, che ha dovuto vedersela con una situazione simile a quella di Napoli: 1230 detenuti quando il carcere pugliese poteva ospitarne fino a 650. Nessun nesso diretto tra la revoca alla direttrice Abate e le criticità cresciute negli anni, facendo di Poggioreale un carcere con la piaga del sovraffollamento e di un turnover continuo. Anche se l’amministrazione si sta muovendo per ridurre le presenze: da 2.750 di qualche mese fa, ora i detenuti sono 2.100 e entro la fine di maggio, quando la Corte di Strasburgo potrebbe sanzionare l’Italia per la situazione carceri, dovranno scendere sotto i duemila. Il problema, il ministro della Giustizia Andrea Orlando l’ha trovato sulla scrivania e anche questo deve aver consigliato un cambio di rotta. Insieme con la minaccia dei giudici della Cedu di multe miliardarie, Orlando ha dovuto subire gli strali della commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo, venuta in visita il 28 marzo. La missione, guidata dal socialista spagnolo Juan Fernando Lopes Aguilar, ha ascoltato il sindaco de Magistris, la Garante dei detenuti Adriana Tocco, il cappellano del carcere don Franco Esposito, il responsabile della sanità penitenziaria Amendola e il sindacalista Emilio Fattorello del Sappe Campania. Severi i giudizi della Commissione, che ha definito "medioevale" la situazione di Poggioreale. "Non sarebbe giusto - osserva il senatore del Pd Vincenzo Cuomo - far ricadere sul corpo della polizia e sul personale dell’amministrazione i deficit strutturali che hanno determinato le condizioni registrate dalla commissione europea attesa l’inefficacia nell’adozione di misure strutturali da parte del ministero della Giustizia da 15 anni. Non saranno certo amnistie e indulto legiferate ad intermittenza a risolvere i problemi". Napoli: le celle di Poggioreale teatro di episodi di maltrattamento, malasanità, abbandono di Irene De Arcangelis La Repubblica, 30 aprile 2014 Duemila e cento detenuti a oggi, a fronte di una capienza di 1.500. Presenza media 2.800, punta massima raggiunta nel settembre 2013 con 2.900 detenuti. Praticamente quasi il doppio del previsto. Tanto da diventare dodici in una cella per sei. Di questi almeno mille "definitivi", che dunque non dovrebbero essere in quel carcere. Poggioreale inferno a Napoli, ma anche frequente passerella di massime autorità che spesso sollevano il problema sovraffollamento nelle celle. E ancora: teatro di episodi di maltrattamento, malasanità, abbandono. Un carcere dove vengono gestiti in media ben 115mila colloqui tra detenuti e familiari all’anno. È una città. Ma una città senza servizi per i suoi pur costretti cittadini. Basta un dato dell’osservatorio Antigone: su dodici padiglioni solo tre hanno le docce in cella, un quarto le ha solo per metà. Basta questo, per avvertire il disagio di chi ci vive. C’è una sola cucina in tutto il carcere. Di contro, il super lavoro della polizia penitenziaria. 730 agenti in servizio a fronte di una pianta organica che ne prevede 946. Cifre che supportano l’allarme "sovraffollamento", causato in buona parte dai tanti casi di custodia cautelare preventiva, di fatto pene scontate prima della condanna che magari non arriverà. Tema ricorrente, sollevato periodicamente dalle proteste dei detenuti che si affidano al fracasso delle "battiture", le stoviglie battute contro le sbarre. Perché costretti a convivere fino a dodici in una cella. È il carcere più affollato d’Italia, richiama più volte la preoccupata attenzione del presidente della Repubblica. Napolitano viene più di una volta a Napoli. "Non è giustizia - dirà ai detenuti durante la visita del 2013 - essere costretti a scontare la pena nel modo in cui molti di voi sono costretti a scontarla". Invia un messaggio alle Camere, chiede l’indulto. Nulla succede. Fino alla condanna nero su bianco del Consiglio d’Europa, che arriva a un mese di distanza della visita dell’europarlamentare Juan Fernando Lopez Aguilar, capo delegazione della Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari istituzionali del Parlamento Europeo. "Solo la Serbia è peggio dell’Italia per sovraffollamento delle carceri in Europa", si legge ora nel rapporto europeo. Certo su quel giudizio devono aver influito molto le cifre di Poggioreale, se questo è il carcere più affollato d’Italia. I suoi numeri hanno alzato la media italiana. Poggioreale che è fonte di polemiche anche su altri fronti. Ad esempio le inchieste della magistratura in seguito a denunce di ex detenuti (settanta in un primo fascicolo, cinquanta in un secondo). È il caso della "Cella zero". È una fantomatica cella dove verrebbero portati i detenuti per essere pestati a sangue da una "squadretta" di agenti penitenziari. Viene aperta un inchiesta in Procura, mentre il sindacato Uil-Pa Penitenziari spiega che invece si tratta di una cosiddetta "cella liscia", dove vengono isolati detenuti a rischio suicidio. Inchiesta ancora in corso, nulla è stato fino a questo momento provato, c’è una indagine del Dipartimento amministrazione penitenziaria ma l’attenzione, nel solo 2014, torna di nuovo ad accendersi su Poggioreale per due nuovi gravi episodi. 8 novembre 2013: muore il detenuto trentaduenne Federico Perna. Era malato di tumore, in gravi condizioni, in attesa di trapianto di fegato. È sua madre a lanciare l’allarme, non le hanno detto neanche dove è morto il figlio, è stata informata dell’accaduto con una lettera del compagno di cella di suo figlio. I sospetti che Perna abbia subito una aggressione spingono l’allora ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri a disporre una ispezione nel carcere di Poggioreale. L’autopsia, in seguito, escluderà pestaggi. Ma è una storia amara di abbandono. La madre di Perna riceverà anche le condoglianze del giurista Stefano Rodotà durante la sua visita nel carcere. Gennaio 2014: il detenuto Vincenzo Di Sarno, trentacinquenne condannato a sedici anni per omicidio, malato di tumore, chiede a Napolitano di concedergli l’eutanasia. Sua madre preme per la grazia. Il presidente della Repubblica lo conosce, lo ha incontrato durante la sua visita a Poggioreale. Ma il magistrato di sorveglianza rigetta la richiesta di differimento della pena presentata dai difensori di Vincenzo Di Sarno, il detenuto viene infine trasferito al Cardarelli. Due episodi a fronte di inquietanti statistiche, ad esempio delle morti per varie cause in carcere. Nel 2013 a Poggioreale ci sono stati nove decessi. Torino: dall’Università degli Studi accordo per migliorare condizioni di vita dei detenuti www.controcampus.it, 30 aprile 2014 Università degli Studi di Torino. Firmato l’accordo all’Unito per la riqualificazione degli spazi e migliori condizioni di vita per i detenuti. Ieri martedì 29 aprile presso il Campus Luigi Einaudi dell’Unito, il dott. Enrico Sbriglia, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Piemonte e la Valle d’Aosta, la prof.ssa Laura Scomparin, il Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Unito, e il prof. Marco Vaudetti, ordinario del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, hanno firmato il Protocollo d’Intesa per la riqualificazione degli spazi e il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. L’iniziativa Unito si inserisce a pieno titolo nel programma di interventi attuati dall’Amministrazione penitenziaria in esito alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013 (cd. sentenza Torreggiani) che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di persone detenute, obbligando lo Stato italiano a sanare la situazione entro il prossimo 27 maggio. Certamente uno degli elementi qualificanti della programma definito dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per migliorare le condizioni della vita detentiva è legato alla riqualificazione degli spazi detentivi. D’altra parte da tempo è in corso una collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino per favorire attività didattica e di ricerca in ambito penitenziario, sancita già con un Protocollo d’Intesa , firmato due anni fa con la Casa Circondariale di Torino. Ovviamente il nuovo Protocollo firmato all’Unito avrà un più ampio respiro ed interesserà tutti gli Istituti penitenziari del distretto, essendo finalizzato a migliorare lo stato complessivo delle strutture architettoniche degli Istituti penitenziari del territorio. Per questo, oltre che favorire l’attività didattica, per lo svolgimento di tesi, progetti ed elaborati di laurea nel settore dell’architettura ed edilizia penitenziaria, nonché esercitazioni ed attività didattiche integrative a complemento della formazione degli studenti, il Protocollo prevede di ampliare la collaborazione per consulenze tecnico scientifiche ed attività di ricerca al fine anche di promuovere, in presenza di possibili finanziamenti, studi di fattibilità in campo europeo sulla qualità delle sedi penitenziarie. Sono previsti inoltre attività formative rivolte in modo specifico agli operatori penitenziari oltre che iniziative di promozione sociale. Roma: il Sippe denuncia; rissa nel carcere di Velletri, situazione insostenibile Comunicato Sippe, 30 aprile 2014 Ieri alle ore 19.00 circa un gruppo di sei detenuti ha innescato una rissa all’interno del penitenziario di Velletri, incendiando le celle. Uno dei detenuti avrebbe subito 7 punti di sutura e due poliziotti penitenziari sono stati feriti nel tentativo di portare alla calma i detenuti ed evitare il peggio. È immediatamente scattata l’allarme e sul posto sono intervenuti il Direttore del Carcere, il vice comandante e il capo dell’ufficio matricola. Questi fatti sono all’ordine del giorno - dichiara Alessandro De Pasquale, segretario generale del Sippe - in quanto al penitenziario di Velletri, sia il dipartimento che il provveditorato continuano ad assegnare detenuti sottoposti a grande sorveglianza e trasferiti per ordine e sicurezza. Nel turno pomeridiano solo circa 20 agenti impegnati nella gestione di circa 650 detenuti, molti dei quali con gravi precedenti penitenziari". Chiediamo al Dipartimento e al Provveditore, aggiunge De Pasquale, di assegnare il personale di polizia penitenziaria, svuotando anche gli uffici del Dap e del Prap se è necessario, e far fronte ad un’emergenza che ormai è costante nel tempo. La rissa di oggi nel carcere di Velletri non è un fatto isolato ma è la conseguenza di una gestione poco strategica dell’istituto dove si punta al trattamento penitenziario e non alla sicurezza dell’istituto che, oltretutto, nelle ore notturne rimane anche al buio perché i fari di sicurezza non sono funzionanti. Il personale è ormai stanco di subire le conseguenze di scelte sbagliate e pertanto le organizzazioni sindacali stanno valutando di indire una manifestazione unitaria di protesta davanti al carcere. Filippine: ambasciatore arrestato per pedofilia, ritardo della Farnesina (rispetto ai marò) di Pio d’Emilia Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2014 Daniele Bosio, diplomatico in Turkmenistan, è accusato dalle autorità filippine di abuso e traffico di minori. Dalle carte emergono però due elementi: non risulta un’accusa precisa, o anche il semplice sospetto di violenza o di "abuso" a sfondo sessuale. Inoltre, dal momento in cui è stato fermato, le sei di sera del 5 aprile, ha dovuto aspettare 15 ore prima di mettersi in contatto con le nostre autorità. "Sono assolutamente innocente. Ammetto di essere stato uno sprovveduto, e di aver inavvertitamente violato le leggi locali. Ma non sono un pedofilo e a quei bambini, come ho fatto in tanti altri casi ovunque io abbia vissuto o viaggiato, ho solo voluto regalare un po’ del mio tempo facendoli divertire. Spero che questo mostruoso equivoco finisca presto perché non ce la faccio più. Questa detenzione, profondamente ingiusta, comincia ad essere davvero pesante". Così Daniele Bosio, ambasciatore italiano in Turkmenistan, attualmente sospeso dal servizio perché detenuto nelle Filippine. Le accuse sono gravi e infamanti: abuso e traffico di minori. Se si andrà a processo rischia sino a 5 anni per la prima accusa e l’ergastolo per la seconda. Bosio è detenuto dallo scorso 5 aprile presso la stazione di polizia di Binyan, una cinquantina di chilometri da Manila. Divide la cella, uno stanzone di circa 30 metri quadri, con altre 80 persone. "Finora mi hanno trattato bene - ci dice - con rispetto. In cambio sto cercando di rendermi utile, ad alcuni compagni di cella insegno l’italiano ad altri l’inglese". Il 30 aprile ci dovrebbe essere l’udienza preliminare del Gip. "Può succedere di tutto - spiega Andrea, il fratello che assieme ad un amico di famiglia è qui sin dai primi giorni e che oggi verrà raggiunto dagli anziani genitori - può essere prosciolto, come noi tutti ci aspettiamo, rinviato a giudizio con o senza cauzione, o subire un nuovo rinvio. Un’ipotesi che ci terrorizza, perché comporterebbe il suo trasferimento a Manila, in condizioni detentive ben peggiori di quelle, pur difficili, alle quali è stato sinora sottoposto". Come ho già dichiarato nel mio blog personale, conosco da molti anni l’ambasciatore Bosio e sono intimamente convinto che sia innocente. Nel senso che pur avendo violato la legge filippina - che è giustamente durissima viste le proporzioni dello sfruttamento e della violenza che subiscono i minori - non riesco ad immaginarlo nell’atto di far del male. A chiunque, figuriamoci a dei bambini. Ma questa è una mia personalissima opinione. Penso sia corretto e doveroso dichiararlo, e spero che questa mia "sensazione" trovi presto conferma a livello giudiziario, ma non è certo il motivo per il quale, dopo essere stato a Manila e aver condotto, assieme al collega del Sole 24 Ore Stefano Carrer una approfondita inchiesta sulla vicenda, incontrando tutte le parti in causa (autorità diplomatiche locali, poliziotti che hanno effettuato l’arresto, legali, accusatrici e lo stesso ambasciatore detenuto) ho deciso di riprendere l’argomento. Il vero motivo è l’imbarazzo, per non dire l’indignazione, che si prova di fronte al totale abbandono in cui può finire per trovarsi un cittadino italiano - e parliamo di un ambasciatore - in una situazione di emergenza, all’estero. E questo aldilà dei reati contestati e del loro successivo accertamento. Nel leggere tutti i verbali (i primi interrogatori dei bambini, le dichiarazioni rilasciate da Bosio e le testimonianze delle accusatrici) che abbiamo avuto modo di consultare, due cose saltano agli occhi. Primo: che da nessuna parte risulta un’accusa precisa, o anche il semplice sospetto di violenza o di "abuso" a sfondo sessuale. I bambini, sentiti separatamente, dichiarano tutti la stessa cosa (leggi il verbale tradotto), ricostruendo i fatti esattamente come fa Bosio nella sua prima dichiarazione spontanea resa ai poliziotti che l’avevano arrestato su "segnalazione" delle due attiviste della Ong "Bahay Tulunan". Le quali a loro volta parlano solo di "atteggiamento strano", "contesto sospetto". "Ne vediamo di tutti i colori qui - ci ha spiegato la presidente dell’associazione e una delle testimoni d’accusa. Si tratta di Lily Flordalis, che siamo andati a trovare nella sede dell’associazione, in una zona degradata alla periferia di Manila dove svolge un encomiabile lavoro di aggregazione e educazione - e siamo convinti che prevenzione e rigorosa applicazione delle leggi siano fondamentali per sconfiggere questa immensa piaga sociale". E pur non volendo parlare direttamente della vicenda, ammette: "Io penso che l’ambasciatore abbia violato la legge, che punisce chiunque si accompagni, e tanto più trasporti altrove, dei minori senza legittima e provata autorizzazione. Il resto sarà la giustizia ad appurarlo. Per quanto mi riguarda, non ho alcun intento persecutorio. Penso di aver fatto semplicemente il mio dovere. Se tutti lo facessero, eviteremo, sul nascere centinaia di tragedie". Non fa una piega: e sbagliano, a mio avviso, quelli che pensano a delle invasate in malafede, un po’ bacchettone, in cerca di pubblicità e magari finanziamenti per la loro associazione. Da quel poco che abbiamo potuto osservare, l’associazione esiste dal 1997, è ben radicata sul territorio e svolge un ottimo lavoro. Lo stesso Bosio quando ne parliamo, ammette: "Anch’io credo nella loro, quanto meno iniziale, buona fede. Per questo ho accettato di spiegare tranquillamente la mia situazione, e di recarmi volontariamente presso il posto di polizia". Gli faccio presente che tuttavia, quando le abbiamo fatto vedere l’enorme mobilitazione che c’è stata su Facebook, con oltre 900 persone che hanno espresso solidarietà e testimoniato di casi specifici in cui l’ambasciatore aveva svolto opera di volontariato a favore di bambini, la Flordalis non sembrava troppo colpita. Anzi. "I pedofili sono difficili da riconoscere. Possono essere dappertutto. E operano sui tempi lunghi. Non è facile scoprirli. È un reato continuato, che va estirpato sul nascere". Bosio è d’accordo, ma ribadisce la sua assoluta innocenza. "Vi assicuro, non vedo l’ora di uscire e chiarire tutto con queste persone. Mi piacerebbe, se lo vorranno, partire da questa drammatica esperienza e magari lavorare con loro. Sarebbe il modo migliore di chiudere questa terribile vicenda". E passiamo al secondo, ancor più doloroso ed inquietante, se vogliamo, aspetto della nostra inchiesta. Dai verbali della polizia, e dalle dichiarazioni dell’ambasciatore Bosio, risulta che dal momento in cui è stato fermato, le sei di sera del 5 aprile, passano oltre 15 ore prima che lo stesso riesca a mettersi in contatto con le nostre autorità diplomatiche. D’accordo, è un sabato sera. Ma appunto, è un’emergenza. E le emergenze in genere avvengono il sabato notte, durante i giorni festivi, non alle dieci di mattina di un giorno feriale. Dovrebbero esserci dei numeri da chiamare. Che infatti sono scritti sui siti delle varie ambasciate. E sulla homepage della Farnesina. Solo che spesso non funzionano, non sono aggiornati. La polizia filippina è particolarmente disponibile, consente a Bosio non solo di accedere a internet, ma anche di usare liberamente il telefono. Bosio lo usa, e chiama l’unità di crisi, a Roma. Gli danno una serie di numeri, compreso quello di emergenza. Bosio li compone uno dopo l’altro, aiutato, nell’operazione, dai poliziotti. È scritto nel verbale, a firma del colonnello Noel Calderon Alinho, comandante della caserma: "Questo ufficio ha provveduto a chiamare numerose volte i numeri dell’ambasciata italiana, compreso il telefono di emergenza, senza peraltro ricevere risposta", si legge nel documento. Proprio una bella figura: provate ad immaginarvi di essere al posto di Bosio. Il quale tuttavia si rassegna, per la notte, fiducioso che la mattina dopo sarebbe riuscito a contattare i suoi colleghi. Ma dovrà aspettare sino all’ora di pranzo, quando finalmente, rintracciato il numero di casa dell’ambasciatore italiano a Manila, Massimo Roscigno, riesce a parlarci. "Si è subito scusato, per carità - spiega Bosio - dicendo che aveva lasciato il telefonino personale a casa, e la sera era fuori". E quello di emergenza? Quando deve essere in funzione, se non di sabato notte? Il ritardo con il quale Bosio è riuscito finalmente a contattare le nostre autorità ha avuto effetti disastrosi per la sua difesa. L’avvocato suggerito dall’ambasciata, infatti, pur essendo una luminare del diritto di famiglia, è una "civilista", per sua stessa ammissione non esperta di procedura penale. È domenica sera e quando Bosio riesce finalmente a contattarla, dalla caserma dove è detenuto e dove un difensore d’ufficio locale che gli è stato comunque affiancato gli sta sottoponendo un documento da firmare, gli dice, senza nemmeno farsi leggere il contenuto del foglio: "Firmi, firmi, firmi tutto quello che le suggerisce il collega". Bosio firma. E mal gliene incoglie: è l’accettazione formale di volersi sottoporre alle indagini preliminari, un discusso istituto locale che prevede la rinuncia ai diritti dell’indiziato previsti dall’art.145, e che prevede la scarcerazione entro 72 ore se l’accusa non viene formalizzata. L’avvocato d’ufficio evidentemente non lo sa, o si scorda di dirglielo, e così pure la "luminare" , che dovendosi preparare per una importante cerimonia non ha il tempo di andare a trovarlo in carcere. L’incubo, per Bosio, è cominciato, e non è ancora finito. Si dirà: se è colpevole, ben gli sta, per i pedofili, nessuna pietà. A parte che il diritto alla difesa è sacrosanto per tutti, compresi i responsabili dei crimini più odiosi ed efferati. Ma se Bosio fosse innocente? Possibile mai che alla Farnesina, compatta nel chiedere il rispetto del (presunto) diritto internazionale per i due marò non ci sia nessuno disposto a tutelare i diritti dell’evidentemente "presunto" colpevole Daniele Bosio? Egitto: il mondo contro le condanne a morte di 700 Fratelli musulmani "una vergogna" di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 30 aprile 2014 Non si placano le polemiche in Egitto per le condanne a morte di quasi 700 sostenitori della Fratellanza. "È una vergogna per il mondo intero", con queste parole il ministero degli Esteri turco ha commentato la sentenza. L’Iran ha avvertito che le condanne di massa destabilizzeranno il paese. Anche l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay ha condannato la sentenza, definendola "scioccante e oltraggiosa". "La Corte egiziana ha completamente distrutto la propria credibilità", ha aggiunto Hassiba Sahraoui di Amnesty International. Timidi rimproveri arrivano anche dagli Stati uniti. Eppure, pochi giorni fa, il Pentagono aveva annunciato la consegna di 10 elicotteri apache aprendo alla rimozione del congelamento di parte degli aiuti militari (pari a 1,3 miliardi di dollari l’anno), deciso dagli Stati uniti dopo il colpo di stato del 3 luglio scorso. Lo ha comunicato il Segretario di Stato Usa, John Kerry, in una telefonata al suo omologo, Nabil Fahmi, che è volato a Washington per suggellare il passo statunitense. Inoltre, è emerso ieri che la sentenza della Corte per gli affari urgenti che ha vietato le attività del movimento 6 Aprile si basa su intercettazioni che rivelerebbero finanziamenti dall’estero al gruppo (nato nel 2008 a sostegno degli scioperi). "Il presidente ad interim ha trasformato la Corte per gli Affari urgenti in un ufficio della Sicurezza di Stato", ha detto al manifesto Adly Malek del Centro per i diritti economici e sociali del comunista Khaled Ali. Proprio la diffusione di intercettazioni ambientali è tra le prove addotte dall’accusa anche nel processo contro l’ex presidente Mohammed Morsi. Ai Fratelli musulmani viene rimproverato il tentativo di formare un’Intelligence parallela, per stigmatizzare l’operato del movimento. Esercito e giudici puntano così tanto sulla denigrazione della Fratellanza da essere pronti a diffondere un inedito odio verso l’Islam e presentare l’Egitto come il "paese delle vacanze" insistendo nei poster pubblicitari urbani sulla bellezza delle immagini di piramidi e palazzi del centro storico del Cairo, come se l’identità islamica non fosse altrettanto centrale per il paese. Esercito e giudici svuotano il pluralismo politico, conquistato con i mille morti di piazza Tahrir, mettendo al bando i maggiori partiti di opposizione e censurando la stampa. Lunedì la televisione del Qatar al Jazeera ha chiesto allo stato egiziano un risarcimento di 150 milioni di dollari, in seguito alle minacce subite dal personale, alla chiusura di canali locali e all’arresto di quattro giornalisti. Infine, l’esercito ha risposto alla messa al bando di 6 aprile, riproponendo la formazione di un movimento politico giovanile sulle ceneri di Tamarrod (ribelli), il gruppo che ha permesso il colpo di stato organizzando la manifestazione contro Morsi del 30 giugno 2013. Eppure cresce il movimento contro la legge che vieta le proteste non autorizzate. Lo scorso sabato migliaia di persone hanno marciato verso il palazzo presidenziale di Heliopolis per chiedere il rilascio dei detenuti politici che hanno violato la norma. Stati Uniti: secondo uno studio nel braccio della morte è innocente un detenuto su 25 Adnkronos, 30 aprile 2014 Un detenuto su 25 rinchiusi nel braccio della morte delle prigioni americane è innocente. È quanto emerge da uno studio shock realizzato da quattro giuristi americani che considerano che oltre il 4% delle sentenze capitali emesse dai tribunali americani rischiano di mandare a morte un innocente. A scioccare è il fatto che il numero indicato da questa percentuale risulta essere oltre il doppio dei casi di condannati alla pena di morte che sono stati poi scagionati nei 30 anni che lo studio ha preso in analisi, sottolinea oggi l’Huffington Post. "La grande maggioranza degli innocenti condannati a morte non sono stati identificati e scarcerati, e l’obiettivo del nostro studio è quello di rendere conto proprio di loro", ha affermato Samuel Gross, professore della Law School della University of Michigan che ha guidato l’equipe di ricerca che ha analizzato 7482 condanne a morte pronunciate tre il 1973 e il 2004. Di queste 117, vale a dire l’1,6%, condannati sono riusciti a dimostrare in aula la propria innocenza. Ma Gross sostiene che il 4,1% di quei condannati sarebbero risultati essere innocenti: si tratta di oltre 200 detenuti, la maggior parte dei quali hanno ottenuto negli appelli la commutazione della pena capitale in ergastolo, senza però riuscire a dimostrare la propria innocenza. Nel periodo perso in analisi, infatti, il 35% delle pene di morte sono state commutate in ergastolo. "È una ricerca impressionate, che indica che il problema dell’innocenza è molto più grave di quanto pensassimo", ha dichiarato Richard Dieter, direttore del Death Penalty Information Center. 25 minuti di agonia, l’Ohio aumenta le dosi dopo l’esecuzione choc L’Ohio ha deciso di potenziare le dosi di farmaci usati per l’iniezione letale durante le esecuzioni. Il passo è stato deciso dopo che un detenuto, Dennis McGuire, 53 anni, colpevole di aver violentato e ucciso una donna incinta, è morto dopo un’agonia durata ben 25 minuti. Un tempo interminabile, durante il quale l’uomo ha avuto convulsioni e, alla fine, è come soffocato. Gli era stata iniettata una combinazione di farmaci letali mai usata prima negli Stati Uniti. L’Ohio Department of Rehabilitation and Correction è ricorsa a quella combinazione dopo aver esaurito le scorte di farmaci, provenienti in particolar modo da case farmaceutiche europee che si sono rifiutate di esportarli per motivi etici. Il Dipartimento si è quindi difeso sostenendo come non ci sia alcuna prova che McGuire sia andato incontro a sofferenze, ansia o angoscia prima di morire. Intanto il 19 maggio un altro detenuto sarà mandato a morte con la stessa combinazione letale usata per McGuire. Fallisce esecuzione, detenuto muore dopo pesanti sofferenze È fallita in Oklahoma la prima esecuzione capitale con una nuova formula di tre farmaci. Il detenuto, Clayton Lockett, dopo aver avuto delle reazioni incontrollabili è infine morto per attacco di cuore dopo alcuni minuti di grande sofferenza in cui si è mosso convulsamente sul lettino. Circa 10 minuti dopo la somministrazione del primo dei tre farmaci, un medico aveva stabilito che Lockett aveva perso conoscenza. Ciò nonostante il detenuto ha poco dopo iniziato a respirare a fatica, ad agitarsi sul lettino digrignando i denti e cercando di sollevare la testa dal cuscino. Vista la situazione, i funzionari della prigione hanno quindi deciso di abbassare una tenda per impedire a chi stava assistendo all’esecuzione di vedere cosa stesse accadendo. Il direttore del dipartimento carcerario dello Stato, Robert Patton, ha formalmente interrotto l’esecuzione 20 minuti dopo la somministrazione del primo farmaco, ma poco dopo Lockett ha avuto l’attacco di cuore che lo ha ucciso. In seguito a questo episodio, determinato da circostanze ancora da chiarire, Patton ha rimandato di 14 giorni l’esecuzione di un altro detenuto, Charles Warner, in programma subito dopo quella di Lockett. "È stata una scena molto difficile da osservare", ha affermato l’avvocato del condannato, David Autry, che ha espresso dubbi sull’utilizzo del farmaco midazolam come primo componente dell’iniezione letale. Secondo l’avvocato, infatti, "la quantità era eccessiva". Era la prima volta che il midazolam veniva usato in Oklahoma come primo farmaco per le esecuzioni. Lockett era stato condannato a morte per avere sparato alla 19enne Stephanie Neiman con un fucile a canne mozze e per avere guardato mentre due suoi complici seppellivano la ragazza ancora viva nel 1999. Iran: 29 detenuti giustiziati in 6 giorni, tre erano minorenni quando furono arrestati www.ncr-iran.org, 30 aprile 2014 Il disumano regime dei mullah ha mandato al patibolo otto detenuti tutti in una volta. Si trovavano nella prigione di Dizel-Abad a Kermanshah, una delle prigioni più terribili di tutto l’Iran. Uno di questi era Vali Khan Nazari ed aveva passato 19 anni in prigione. Il 22 Aprile cinque prigionieri sono stati giustiziati nella prigione di Gohardasht. Il 21 Aprile sei detenuti, tra i quali uno di vent’anni, sono stati impiccati nella prigione di Ghezel-Hessar di Karaj. Lo stesso giorno tre detenuti, tra i quali un ventenne, sono stati giustiziati a Mashhad. Il 17 Aprile quattro prigionieri sono stati impiccati nella prigione di Bandar-Abbas. Tra questi Ahmad Rahimi, Ali Fouladi ed Ali Sharifi che avevano rispettivamente, 17, 16 e 14 anni quando furono arrestati. Lo stesso giorno Samkou Khorshidi, 32 anni, un prigioniero curdo, è stato mandato al patibolo a Kermanshah con l’accusa di "Moharebeh" (inimicizia verso Dio). Due detenuti, Rasoul Fakhireh,50 anni e Ali Arab, 32 anni, sono stati impiccati nella prigione centrale di Zahedan il 19 e 22 Aprile. Quindi, dal brutale attacco contro i prigionieri politici a Evin avvenuto il 17 Aprile, 29 detenuti sono stati giustiziati in varie città. Almeno tre di essi erano minorenni all’epoca del loro arresto.