Giustizia: Ospedali psichiatrici giudiziari, la proroga della vergogna di Dario Stefano Dell’Aquila (Associazione Antigone) Il Manifesto, 2 aprile 2014 Ospedali psichiatrici giudiziari. Il governo rinvia di nuovo la chiusura al 1° aprile 2015. Il presidente Giorgio Napolitano: "Ho firmato con estremo rammarico il decreto legge". "Ho firmato con estremo rammarico il decreto-legge di proroga urgente della norma del dicembre 2011 relativa agli Ospedali psichiatrici giudiziari". Con queste parole, affidate ad una nota ufficiale del Quirinale, ieri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha comunicato il suo disappunto ufficiale al mancato rispetto del termine (già prorogato lo scorso anno) fissato per la chiusura di quelli che venivano chiamati "manicomi criminali". Con decreto legge approvato due giorni fa dal Consiglio dei ministri, infatti, il governo Renzi ha annunciato di avere prorogato, su proposta dei titolari dei dicasteri della Salute e della Giustizia, Beatrice Lorenzin e Andrea Orlando, i termini per il superamento degli Opg, spostandolo in avanti di un anno, al 1° aprile 2015. Per il governo la proroga si è resa necessaria poiché il termine iniziale "non risulta congruo per completare definitivamente il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, soprattutto in ragione della complessità della procedura per la realizzazione delle strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza". Serve un maggiore lasso di tempo per concludere i lavori di realizzazione e di riconversione delle strutture (le così dette Rems) che sostituiranno gli Opg, per le quali sono stanziati oltre 173 milioni di euro e la cui realizzazione è affidata alle Regioni. Un provvedimento atteso (richiesto dalle Regioni stesse) che, per fortuna, però è più ridotto rispetto alle voci iniziali (si parlava di una proroga sino al 2017). Nelle ore che hanno preceduto la redazione del decreto, il sindaco di Roma, Ignazio Marino (che da presidente della Commissione d’inchiesta sul Ssn si fece promotore della legge che ha fissato la chiusura degli Opg al 31 marzo 2013), aveva rivolto un appello al presidente del Consiglio e al capo dello Stato perché si procedesse subito alla chiusura. Il provvedimento di proroga del governo contiene alcune novità accolte con "sollievo" da Napolitano. Il decreto conterrebbe disposizioni in merito alla possibilità del giudice e del magistrato di sorveglianza di disporre misure alternative alla detenzione in Opg (fattispecie in realtà già prevista nel nostro codice) e soprattutto, ipotizza l’esercizio del potere sostitutivo del governo in caso di inadempienza delle Regioni. È stato previsto, pertanto, che entro sei mesi queste debbano comunicare al governo lo stato di avanzamento dei lavori di realizzazione e riconversione delle strutture destinate all’accoglienza dei soggetti oggi internati negli Opg e tutte le iniziative assunte per garantire il completamento del processo di superamento. Il governo, laddove evincesse che una o più Regioni non fossero in grado di rispettare il nuovo termine, si riserva di esercitare il potere sostitutivo con la nomina di un commissario ad acta incaricato di concludere i lavori. Novità, queste, accolte con favore dal Comitato Stop Opg, pur critico con la scelta della proroga. "Avevamo detto - hanno dichiarato Stefano Cecconi e Giovanna Del Giudice - che non era accettabile una proroga senza fissare precisi vincoli. In questo senso il nuovo decreto contiene due importanti novità ("commissariamento" per le regioni inadempienti e alternative alla detenzione in Opg). Bisognerà capire quanto queste norme siano effettivamente vincolanti, ma indubbiamente si tratta di primi passi nella direzione auspicata. Anche se non bastano". Per il Comitato è necessario, comunque, introdurre disposizioni più stringenti (come l’obbligo dei progetti di cura e riabilitazione individuali) che favoriscano le dimissioni e le misure alternative alla detenzione, unica soluzione per non far diventare le nuove Rems una specie di "mini Opg". Rimane, poi, sempre aperta la questione della proroga senza termini della misura di sicurezza detentiva, ad oggi vigente nel nostro codice penale. Se non si interviene su questa, il fenomeno dei cosiddetti "ergastoli bianchi" (proroghe lunghe decine di anni di internamento) è destinato a ripetersi. Bisogna dire che, a dispetto delle parole di rammarico e malgrado le novità del provvedimento governativo, attribuire ogni responsabilità di queste ritardi alle Regioni è forse eccessivo. In realtà, materialmente, le risorse sono state tecnicamente disponibili solo alla fine dello scorso anno e, considerati i tempi burocratici necessari per realizzare lavori pubblici, sembra quasi gioco forza che tra un anno si assisterà ad un’altra proroga. Le stime ufficiali indicano i tempi di appaltabilità e realizzazione di queste nuove strutture (in alcuni casi, vecchie strutture ospedaliere rimesse a nuovo), con capienza di 20 posti ciascuna, in un intervallo compreso tra i 6 i 25 mesi. Anche le Regioni più virtuose non avrebbero mai terminato i lavori in tempo utile. Certo è che questa terra di mezzo tra carcere e manicomio, che sono gli Opg, rischia di rimanere ancora un luogo abitato da vite dimenticate e sospese. Un inferno dei viventi a cui nessuno sembra porre fine o rimedio. Giustizia: Napolitano; decreto su Ospedali psichiatrici giudiziari firmato "con rammarico" di Margherita De Bac Corriere della Sera, 2 aprile 2014 È uno dei temi che gli stanno più a cuore, dunque non sono una sorpresa le parole del presidente della Repubblica: "Ho firmato con estremo rammarico il decreto legge di proroga urgente relativa alla chiusura degli ospedali psichiatrici". Il capo dello Stato si riferisce al rinvio dello stop ai sei manicomi criminali slittato di un altro anno. Ultima data 31 marzo del 2015. Rammarico soprattutto nei confronti delle Regioni "per non essere state in grado di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e rispetto della dignità di persone deboli". Castiglione delle Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Secondigliano, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia. In tutto restano dentro dalle 900 alle 1.000 persone da sistemare in ambienti sanitari e non di detenzione. Napolitano apprezza però "gli interventi previsti nel decreto legge di proroga per evitare ulteriori inadempienze e per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario solo quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alle persone internate e fare fronte alla loro pericolosità sociale". È la solita storia all’italiana quella che ha impedito ai luoghi "dell’orrore" di essere smantellati. Finora già due proroghe. Rimpallo delle responsabilità. Le Regioni dovevano realizzare strutture alternative al carcere; ora puntano il dito sul ministero della Salute che non avrebbe dato via libera a progetti e finanziamento. Tutti si dicono determinati a chiudere. Però la data non arriva mai. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando promette che ci saranno interventi anche pesanti sulle amministrazione ritardatarie. Attacca Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, una delle associazioni più agguerrite: "Tutti si lamentano e denunciano il degrado degli ospedali psichiatrici e niente cambia. Bisogna nominare un commissario. I soldi stanziati per la chiusura nel frattempo devono essere spesi per gli internati". Le Regioni replicano: "Anche noi siamo rammaricati, noi stiamo facendo il possibile, c’è un progetto per la riabilitazione di queste persone. Non si può dare un giudizio generalizzato perché c’è chi sta facendo bene", si difende l’assessore alla sanità della Liguria, Claudio Montaldo. Ogni Regione ha fatto scelte differenti prevedendo strutture non lontano dalla sede carceraria. In genere si tratta di microstrutture. In teoria gli internati dovrebbero essere trasferiti nei luoghi di provenienza dunque nel rispetto delle loro origini. Molti di loro hanno perso i contatti con le famiglie. In Marche ed Emilia Romagna i piani per il superamento sono in fase avanzata. A breve avranno anche le risorse per il personale (un finanziamento a parte) che verrà assegnato alle nuove strutture. Ma per la Cgil la soluzione non sono le residenze alternative disegnate dal ministero della Salute. Ne è convinto Stefano Cecconi: "Andrebbero potenziati i servizi di salute mentale sul territorio che dovrebbero prendere in carico gli internati negli ospedali psichiatrici ancora in funzione". Realacci (Pd): affrontare in modo risolutivo questione Opg "Capisco il rammarico del Presidente Napolitano nel firmare il dl di proroga della norma del dicembre 2011 relativa agli ospedali psichiatrici giudiziari. Accanto al tema del sovraffollamento carcerario, bisogna affrontare in modo risolutivo la questione degli ospedali psichiatrici giudiziari e dare effettività alla legge che ne prevede la definitiva chiusura". Lo scrive in una nota Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente Territorio e Lavori Pubblici della Camera, sulla questione degli Opg. "Sarebbe utile all’obiettivo -scrive Realacci- un’iniziativa del governo, tramite i ministeri competenti, per implementare un piano nazionale di azione e di assistenza ai malati mentali ancora reclusi negli Opg così da raggiungere su tutto il territorio nazionale un uniforme e dignitoso livello di assistenza sanitaria, garantendo al tempo stesso la sicurezza pubblica. Proprio per affrontare questa situazione non degna di un paese civile da tempo mi occupo di tali problemi con atti di sindacato ispettivo che sollevano sia il tema del sovraffollamento, che quello della salute e degli ospedali psichiatrici giudiziari, il più recente dei quali - conclude - l’interrogazione 4-00965, depositata il 20 giugno 2013". Prc: rammarico Napolitano su ospedali psichiatrici non basta "Il rammarico del presidente Napolitano non basta, è scandalosa ed incivile la proroga della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari Opg". Lo affermano Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, e Nando Mainardi, responsabile nazionale Welfare del partito. "Il rammarico del Presidente Napolitano per il decreto che proroga di un anno la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari non è sufficiente. Questa ulteriore proroga, la stessa cosa era accaduta nel 2013 - sottolineano Ferrero e Mainardi in una nota - rischia di far perdere credibilità a qualunque tentativo di superamento degli Opg, rigettandoli nell’oscurità. Come Prc da sempre chiediamo il superamento di queste strutture e il rispetto dei diritti delle centinaia di persone ricoverate ancora oggi negli Opg italiani". Associazione Antigone: fondi chiusura Opg a servizi salute mentale Destinare parte dei fondi stanziati per la realizzazione delle nuove strutture che dovrebbero nascere dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), rinviata al 2015, ai dipartimenti di salute mentale, perché possano prendere in carico le persone non più pericolose che ancora sono internate. Lo propone il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, sottolineando come da "due anni oltre 100 mln di euro, destinati alle nuove residenze, sono ancora fermi e non utilizzati". "Ad oggi - sottolinea Gonnella - non è ancora chiaro se e quando verranno realizzate le Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza previste in alternativa agli Opg, né è chiaro cosa dovrebbero diventare. Così, da due anni, oltre 100 milioni di euro destinati alla loro realizzazione sono fermi". Tali fondi, rileva Gonnella, "potrebbero invece essere utilizzati appunto per potenziare i servizi di salute mentale che, prendendo in carico da subito tutti gli internati non più ritenuti pericolosi, avrebbero come effetto del loro operato lo svuotamento degli Opg restanti. In questo modo, si renderebbe necessario anche un minor numero di Rems rispetto a quelle preventivate, ovvero circa una ventina, con un notevole risparmio per lo Stato". Ciò anche considerando, conclude il presidente di Antigone, che "attualmente le Rems non sono ancora state realizzate ed è molto difficile che possano entrare a regime entro un anno". Cgil; residenze al posto Ospedali psichiatrici non sono soluzione La misura relativa alla Residenze alternative agli ospedali psichiatrici giudiziari Opg non è la "soluzione". Ad affermarlo, commentando il decreto varato ieri e che prevede lo slittamento al 2015 della chiusura degli Opg, è il responsabile Cgil per le politiche della Salute, Stefano Cecconi. Le cosiddette Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), previste in alternativa agli Opg dopo la chiusura di questi ultimi, "dovrebbero rappresentare una misura solo residuale. Al contrario - afferma Cecconi - andrebbero potenziati i servizi di salute mentale sul territorio, che dovrebbero prendere in carico gli internati negli Opg ancora in funzione". Alle Rems "andrebbero così indirizzati - conclude il responsabile Cgil - solo gli internati ritenuti socialmente pericolosi". Stop Opg: si protrae sofferenza, il Parlamento stabilisca norme più stringenti Opg chiusura rinviata con decreto: si protrae sofferenza, il Parlamento stabilisca norme più stringenti nella conversione in legge della proroga. Il primo aprile scadeva il termine fissato dalla legge per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e invece, come previsto, il Governo ha approvato un decreto di proroga per un altro anno. Si protrae così la grande sofferenza per le persone, quasi mille, ancora internati nei sei Opg presenti sul territorio nazionale, definiti dal Presidente della Repubblica Napolitano strutture indegne per un Paese civile. Avevamo detto che non era accettabile una proroga senza fissare precisi vincoli. In questo senso il nuovo decreto contiene due importanti novità: 1) tra sei mesi "commissariamento" per le regioni inadempienti 2) dovere del Giudice (anche di sorveglianza) di verificare se in luogo del ricovero in un Opg può essere adottata nei confronti dell’infermo di mente una diversa misura di sicurezza. Bisognerà capire quanto queste norme siano effettivamente "vincolanti", ma, indubbiamente, si tratta di primi passi nella direzione auspicata. Anche se non bastano. Ora lavoreremo in sede di conversione del decreto in legge per introdurre disposizioni più stringenti (es. obbligo dei progetti di cura e riabilitazione individuali), che favoriscano le dimissioni e le misure alternative alla detenzione, che, insieme al non invio in Opg delle misure di sicurezza provvisorie, possono davvero "svuotare" l’Opg. Ciò vuol dire far diventare le Rems - i cosiddetti "mini Opg" regionali previsti dalla legge - "inutili" o quantomeno residuali. Per questo i finanziamenti destinati alla chiusura degli Opg vanno utilizzati subito per potenziare i servizi di salute mentale; ciò vale non solo per gli internati ma per tutti i cittadini, per rendere a pieno titolo efficace la Legge 180. Da ultimo deve essere fissato un termine alla misura di sicurezza, per porre fine ai tanti "ergastoli bianchi". Sappiamo che per abolire l’Opg, e fermare nuovi internamenti, bisogna cambiare il codice Rocco. A maggior ragione è importante che intanto il decreto riporti l’attuale processo di superamento degli Opg "nella carreggiata" della Legge 180, che chiudendo i manicomi ha tracciato la strada per restituire diritti e cittadinanza. Psichiatria Democratica: subito iniziative decise per la chiusura degli Opg Psichiatria Democratica è molto amareggiata per la necessità della proroga per la chiusura degli Opg. al 2015. Questa proroga, dicono i responsabili dell’Associazione fondata da Franco Basaglia, si sarebbe potuta evitare se, come avevamo proposto già nel 2012, si fosse dato vita ad task force in grado di coordinare a livello nazionale i progetti di dismissione, prevedendo, già allora le sanzioni per le regioni inadempienti con taglio dei trasferimenti dal fondo Sanitario nazionale come la titolarità dei progetti da parte dei Dsm. In questo modo si sarebbe potuto prevenire invii in Opg in applicazioni delle nota sentenza della Corte Costituzionale, non sufficientemente applicata e già rappresentata in diverse sedi, non ultima in febbraio al Consigliere giuridico del Capo dello Stato. Psichiatria Democratica, inoltre, chiede di rivedere assolutamente i progetti regionali ridimensionandoli nella consistenza dei posti letto e nel contempo di affrontare subito e senza indugi, le tematiche comuni in materia di imputabilità e vizio di mente, nell’ottica di quella revisione dei codici che sola, potrà affrontare in maniera radicale e definitiva le problematiche degli Opg. Garante detenuti Lazio: rammarico Napolitano sia stimolo per le Regioni "Il rammarico espresso dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al momento della firma del decreto che rinvia la chiusura degli OPG rappresenta, al tempo stesso, un monito ed uno stimolo per tutte le Regioni che, ad oggi, sono ancora in drammatico ritardo rispetto al dramma degli internati negli ospedali psichiatrici". Lo dichiara in una nota il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando la nota del Quirinale sulla firma, da parte del Presidente della Repubblica, del decreto che rinvia al 2015 la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il Garante ha ricordato che quello odierno è il terzo rinvio della data di chiusura degli Opg rispetto alla scadenza prevista dalla legge. "Le difficoltà di attuare la legge - ha detto Marroni - nascono essenzialmente dal fatto che la norma affida l’assistenza degli internati interamente al settore pubblico e, dunque, alle Asl deputate ad individuare e ad allestire strutture alternative di accoglienza. Nel Lazio, ad esempio, per ospitare 120 internati negli OPG di tutta Italia, ne sono state individuate cinque ma questi immobili necessitano di radicali lavori di ristrutturazione cui bisogna aggiungere i costi di allestimento e quelli per l’assunzione di personale. Il timore fondato, purtroppo, è che anche la scadenza di dicembre 2015 ufficializzata dal Decreto firmato oggi da Napolitano, venga disattesa". "La soluzione - ha concluso Marroni - è quella di interessare nella gestione degli ex internati degli OPG anche i privati, prevedendo il coinvolgimento di enti ed associazioni del privato sociale alcune delle quali già oggi sarebbero in grado di garantire accoglienza ed assistenza a queste persone. Nel medio termine, inoltre, occorrerebbe prevedere percorsi di reinserimento sociale, pur nel pieno rispetto delle esigenze di sicurezza". Giustizia: le difficoltà del reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro di Maghdi Abo Abia www.giornalettismo.com, 2 aprile 2014 Negli ultimi anni l’impegno di aziende, associazioni e direzioni carcerarie ha permesso a decine di detenuti di crearsi una carriera culminata in un lavoro ottenuto nel corso della detenzione e che ha permesso loro di abbandonare la carriera deviante e di costruirsi un futuro. Non mancano però le difficoltà anche a causa di una legislazione complessa. Il lavoro rende liberi. Questa frase, alla quale viene generalmente associato uno dei pensieri più cupi dell’età moderna, ha ancora la possibilità di assumere una valenza positiva per coloro che nel corso della vita hanno conosciuto il carcere e che proprio grazie al lavoro hanno la possibilità di riemergere. Attraverso il reinserimento nel mondo del lavoro i detenuti hanno l’occasione di poter dimostrare all’autorità ed all’azienda che apre le sue porte di poter compiere un percorso di riabilitazione che parte dalla persona per concludersi nell’esperienza lavorativa. L’associazione Antigone definisce quello che è il processo che porta un detenuto ad essere impiegato in un progetto che si conclude con un lavoro extra carcerario. E si capisce che per quanto l’obiettivo sia lodevole, il percorso che porta alla sua realizzazione è quantomeno accidentato. Intanto appare importante l’esistenza di una carriera lavorativa precedente alla condanna ed al carcere. Inoltre si valuta l’individuo analizzando le fasi della sua esperienza in prigione approfondendo lo sguardo relativamente alle misure alternative concesse. Nelle interviste prodotte dagli esponenti dell’associazione è emerso che la maggior parte dei detenuti, la cui vita è stata caratterizzata da una carriera deviante spesso legata allo spaccio di stupefacenti, ritengono la formazione scolastica e lavorativa un punto fermo per distanziarsi dagli elementi negativi della detenzione. Gli intervistati hanno espresso il loro auspicio per una trasformazione del carcere in un ruolo di ri-socializzazione e reinserimento sociale, con la speranza che la formazione locale sia orientata alla preparazione di figure professionali richieste dal mercato del lavoro e che le opportunità lavorative siano indirizzate verso settori richiesti. Il lavoro in carcere, secondo l’analisi condotta dall’associazione Antigone, rappresenta la base dei reinserimento sociale sia dal punto di vista economico sia soprattutto dal punto di vista della realizzazione personale e dall’uscita della devianza, così che i detenuti si sentano una volta tanto protagonisti di una storia a lieto fine che coincida con il riscatto sociale dell’individuo. Dalle interviste è emerso poi che l’aspettativa più alta e più comune in carcere è quella di avere un’attività da svolgere, indipendentemente dalla durata. Il lavoro, secondo molti detenuti, serve ad impiegare il tempo in modo più redditizio e formativo così da poter progettare un ritorno alla vita e la possibilità di riavvicinarsi alla propria famiglia. Gli imprenditori, dal canto loro, hanno ribadito la necessità oltre che l’importanza d’investire nel capitale umano dei detenuti, con l’interessamento di ex-carcerati che, arrivati a ricoprire incarichi professionali gratificanti, hanno espresso il desiderio di realizzare una gestione delle risorse umane in carcere. Ma la legge impone dei paletti che devono essere rispettati e che in alcuni casi possono rappresentare una grave limitazioni alle ambizioni ed al desiderio di rivalsa del detenuto. Parliamo delle cosiddette pene accessorie, ovvero quelle condanne in affiancamento alla pena detentiva che per un determinato periodo di tempo vincolano la libertà dell’individuo. Nello specifico, le pene che possono rappresentare un limite all’inserimento lavorativo dell’ex detenuto sono l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione da una professione o da un’arte, la condanna per delitti commessi con abuso di un pubblico ufficio o di una professione o di un’arte, l’incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione, la sospensione dell’esercizio di un’arte o di una professione. Ed è importante sottolineare che spesso queste pene non vengono considerate per quelle che sono, ovvero un ostacolo all’inserimento lavorativo. Anche perché per avvocati ed imprenditori intervistati dal progetto Antigone, è possibile sorvolare sulle pene accessorie visto che il discrimine vero è rappresentato dalla scarsa istruzione, dalla mancanza della patente di guida o da un livello culturale basso che non si concilia in alcun modo con eventuali concorsi pubblici. Un altro problema sottaciuto ma che appare evidente specialmente per gli imprenditori è dato dalle lungaggini della giustizia che portano i condannati in attesa dell’appello ad aspettare anche anni, paralizzando così le speranze dei detenuti di poter intraprendere una carriera lavorativa extra carceraria. Un altro problema è dato dall’etichettamento da parte della società esterna. Può capitare che un ex-detenuto possa essere bollato da parte dei colleghi nonostante non abbia mostrato alcun comportamento deviante nella sede del lavoro. E questo può rappresentare un problema dal punto di vista umano, in quanto il detenuto sente di non poter mai evadere dalla propria situazione. Eppure, come conferma l’Huffington Post, attraverso un percorso virtuoso di formazione e preparazione al lavoro da parte delle autorità nei confronti dei detenuti, è possibile ridurre sensibilmente il numero degli episodi recidivi e di una prosecuzione della carriera deviante da parte del condannato. Ad esempio ci sono i progetti del carcere di Volterra che ha portato ad una recidiva complessiva del 20 per cento, ben più bassa del 70 per cento della media. Ma è un piccolo caso inserito in un contesto difficile. Prendiamo quello che accade nelle altre carceri come Poggioreale, Novara, Cuneo, Ferrara, Lecce, Favignana, Trani, Campobasso dove la cronaca parla di botte, di torture, di celle lisce e di detenuti ammassati in celle prive d’igiene e con carenza d’acqua. Ci sono poi i pidocchi di San Vittore, il Wc in mezzo alla stanza a Favignana, le celle senza lavandino di Campobasso, i suicidi di Sulmona. In questo contesto appare evidente che la possibilità di un lavoro già nel corso della detenzione con una prospettiva a lungo termine rappresenta un obiettivo da cogliere ad ogni costo. In questo senso lo scorso venerdì, nel corso del convegno organizzato da Eni dal titolo "La formazione ed il lavoro, due valori indispensabili per il reinserimento sociale dei detenuti" si è parlato dell’importanza di responsabilizzare coloro che vogliono cambiare vita. Giustizia: coltivare marijuana e immigrazione clandestina non saranno più reati di Francesco Grignetti La Stampa, 2 aprile 2014 Via al piano di depenalizzazione. Lega e Fdi contro. D’ora in poi chi verrà trovato con piantine di marijuana potrebbe cavarsela pagando una sanzione. Diventa legge una delle riforme impostate a inizio di legislatura: salvo colpi di scena, con il voto di stamani alla Camera si vara la messa in prova, un sistema per venire incontro a chi finisce sotto processo per la prima volta, limitatamente a reati con pena fino a 4 anni, e che può concordare con lo Stato un percorso di riabilitazione e di lavori socialmente utili. Al termine, se le cose saranno andate bene, il reato risulterà estinto, il processo non si sarà celebrato e il soggetto non avrà fatto una sola notte di carcere. "Un indubbio passo avanti in termini di civiltà giuridica", dice il vice ministro della Giustizia, Enrico Costa, Ncd. "Con questo e altri provvedimenti passiamo da un sistema troppo ingessato, e incentrato sulla detenzione in carcere, a uno più flessibile. La messa in prova ci aiuterà nel deflazionare i tribunali e ad alleviare il sovraffollamento delle carceri. Ovviamente ci aiuterà anche con l’Europa che ci tiene sotto osservazione". È il sovraffollamento carcerario, al solito, l’incubo del governo. Quel sovraffollamento che ieri mattina, per dire, ha convinto un tribunale svizzero, a Bellinzona, a negare l’estradizione per un cittadino italiano, arrestato su mandato di cattura internazionale, perché in patria le carceri non sarebbero all’altezza di standard democratici. Ed è solo l’ultimo caso di una serie. Con il pensiero al sovraffollamento carcerario, sempre ieri, il ministro della Giustizia Andrea Orlando è volato in Marocco dove ha firmato un accordo bilaterale per cui sarà possibile far scontare gli ultimi due anni di pena ai detenuti marocchini a casa loro. "La popolazione marocchina nelle carceri italiane - dice il ministro - sfiora i 4.000 detenuti. Questo accordo, siglato nel rispetto delle Convenzioni Internazionali, può contribuire, a regime, ad affrontare le problematiche condizioni del nostro sistema penitenziario". Anche se la stragrande maggioranza del Parlamento è favorevole a questo ddl, però, ieri è stata una giornata di battaglia. Tra le pieghe del provvedimento, infatti, ci sono alcune depenalizzazioni significative per tutti i reati che prevedono, in caso di condanna, la sola pena della multa o dell’ammenda. Due in particolare: si depenalizzano il reato di immigrazione clandestina e quello di coltivazione di piante dagli effetti stupefacenti e quindi vietate. La legge prevede una delega al governo per introdurre sanzioni amministrative e civili alternative al reato penale. Ma se sulla depenalizzazione della coltivazione di marijuana nessuno si scandalizza, sulla depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina, "creazione" di Roberto Maroni, i leghisti fanno le barricate. Il segretario Matteo Salvini già annuncia un referendum: "La Lega non si arrende". Il vulcanico leghista Gianluca Buonanno, poi, durante il suo intervento tira fuori una spigola e la sventola per aria: "Sentiti certi discorsi, pensavo che fossimo davanti ad un pesce d’Aprile. Qui c’è chi si lamenta del fatto che gli immigrati sono trattati peggio dei turisti. Allora diamo le spigole ai nostri poveri". Espulso. Anche Fratelli d’Italia, però, si batte. Ignazio La Russa attacca gli "alleati" di Forza Italia: "Non mi meraviglia la sinistra, che è sempre stata coerente nella sua posizione, ma Forza Italia. Capisco gli esponenti dell’Ncd che sono al governo e che hanno quindi un obbligo di permanenza, non quelli di Fi che dicono di stare all’opposizione". Giustizia: Unione delle Camere Penali; continua il nostro viaggio nelle carceri italiane… www.camerepenali.it, 2 aprile 2014 Oggi il nostro obiettivo non é più solo quello di interloquire con i detenuti e con tutti gli operatori che lavorano all’interno di un carcere, di portare le loro voci nella società e nella realtà giuridica, scoprendo e rivelando ciò che avviene dietro quelle mura. Quali difensori delle garanzie e dei diritti di ogni persona, vogliamo monitorare l’attuazione di quelle circolari del Dap, fortemente caldeggiate dalla Commissione Palma, che hanno lo scopo di eliminare la disumanità della pena e di far sì che "pena" sia solo la privazione della libertà e null’altro in più. Continueremo a segnalare tutti i casi in cui tali direttive sono state ignorate oppure hanno avuto un’attuazione meramente burocratica, perché non basta aprire le celle per otto ore per rendere meno disumana la pena se in quelle otto ore il detenuto non potrà fare altro che fissare il muro del corridoio invece del muro della cella. Il 19 marzo una delegazione dell’Osservatorio si é recata nell’Istituto di Opera a Milano e un’altra nella Casa Circondariale di Vicenza. Abbiamo deciso di visitare il carcere di Vicenza per cercare di capire se le criticità denunciate dal Cpt erano state superate e se gli impegni assunti dal Governo avevano avuto concreta attuazione. Ricordiamo, infatti, che dal 13 al 25 maggio 2012 il Cpt aveva effettuato una visita periodica in alcune carceri italiane tra cui la Casa Circondariale di Vicenza. Il rapporto del Cpt e la risposta del Governo italiano sono stati resi pubblici il 19 novembre 2013. Nel carcere di Vicenza la delegazione del Cpt aveva raccolto un certo numero di segnalazioni di maltrattamenti (calci e pugni) inflitti ai detenuti dal personale penitenziario e di un eccessivo ricorso alla forza. Il Comitato aveva raccomandato che delle segnalazioni contenute nel rapporto fossero informati organi esterni e la magistratura e che fossero messe in atto procedure di segnalazione chiare. Il Governo italiano nella risposta dà atto di una visita effettuata al carcere di Vicenza dall’Ufficio per l’attività ispettiva e il controllo, che ha poi redatto un rapporto. Sono emerse situazioni preoccupanti per quanto riguarda la gestione complessiva dei detenuti, ancorata a rigorosi sistemi custodiali. Sono stati segnalati diversi episodi di maltrattamenti, di cui una relazione informativa è stata depositata presso l’Ufficio locale del procuratore della Repubblica. La gestione di detta struttura carceraria è "segnata da una connotazione custodialistica basata su una rigorosa applicazione del concetto di ordine e sicurezza". Al termine della visita, il direttore del carcere di Vicenza era stato invitato a riconsiderare la rigidità dei metodi adottati, che non affrontano il disagio, che spesso si manifesta attraverso atti di autolesionismo, sanzionando i meccanismi di questo tipo, che a volte avviene senza la partecipazione effettiva del detenuto. Nel corso di un incontro con il Provveditore Regionale, il direttore del carcere ha comunicato che le modifiche avevano avuto inizio (con lettera del 12 marzo 2013). Con lettera del 18 aprile 2013, indirizzata al direttore del carcere, l’Amministrazione ha raccomandato che il personale sia informato che ogni forma di maltrattamento subito dai prigionieri non sarà tollerato e sarà punito, e ha raccomandato anche che qualsiasi episodio in relazione agli infortuni inerenti a maltrattamenti deve essere segnalato alla Procura della Repubblica. Nei giorni scorsi la Procura di Vicenza ha chiesto il rinvio a giudizio di 15 agenti della polizia penitenziaria per maltrattamenti nei confronti di detenuti, fatti accaduti dal luglio 2012 al gennaio 2013. Giustizia: detenuti tossicodipendenti, Italia al top per la spesa… ma i dati sono sbagliati! di Francesco Sanna Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2014 Secondo uno studio del Centro europeo di monitoraggio il nostro Paese spende lo 0,08% del Pil, di poco sopra l’Olanda. Ma il report precisa: "Piani di azione senza budget". Italia primo paese in Europa per spesa pubblica destinata ai detenuti per reati di droga. Sicuri? L’European Monitoring Centre of Drugs and Drug Addiction ha recentemente pubblicato le stime sulla spesa pubblica annuale che i Paesi dell’Unione Europea hanno dedicato ai detenuti per reati di droga (dal traffico al piccolo spaccio) nel decennio 2000 al 2010. L’Italia risulta il primo, con la cifra record dello 0,08% del Pil (dato medio 2000-2010), di poco sopra l’Olanda e contro una media Ue22 dello 0,05%. Considerato che nel periodo analizzato il Pil italiano annuale viaggiava intorno ai 1.500 miliardi di euro, stiamo parlando di circa 1 miliardo e 239 milioni di euro. Spese per vitto, alloggio ed eventuale trasporto detenuti, spese per le forze dell’ordine deputate alla custodia (polizia penitenziaria), spese per il personale dell’area socio-psico-pedagogica e per i dirigenti, altri costi (come ad esempio i progetti educativi e lavorativi). Eppure nei dipartimenti e nelle associazioni che si occupano di dipendenze patologiche il sottofondo è permanente: "Ci mancano i soldi". Davvero spendiamo tutti questi soldi? E se sì, in tempo di spending review e tagli sontuosi, è così complesso accorgersi che questo tipo di spesa è figlia di un impianto normativo "retrò"? Ma non solo: l’Italia appare "virtuosa" solo perché ha fornito dati sbagliati. I dati sui detenuti per reati legati alla droga Secondo il report i Paesi con elevate percentuali di detenzioni per custodia cautelare costruiscono il dato principalmente sui reati legati alla droga. Ad esempio l’Italia, nel solo 2010, aveva il 45,8% della popolazione carceraria in custodia cautelare, di cui quasi un terzo - 8.627 persone - per il solo reato di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti. Le storie di Aldo Bianzino o Stefano Cucchi, per capirci, nascono da lì. Se non bastasse, del restante 54,2% di persone detenute cui invece è stata inflitta una condanna, il 38,4% la doveva a crimini legati alla droga, risultato che ci vedeva secondi solo alla Grecia dove questi rappresentavano il 52,3% del totale. Questi dati sono tanto più significativi se commisurati sia alla media europea - dove del 77,7% di detenuti con condanna solo il 18,5% è dentro per droga - sia ai Paesi più "virtuosi" che vedono la popolazione carceraria legata alla droga incidere sotto il 5% del totale dei condannati (Lituania 1%, Ungheria 3,1% e Romania 4,3%). Ma ancor più impongono riflessioni serie se associati allo stato delle carceri italiane, dove 66mila detenuti si affollano in spazi pensati per 44mila, e quindi l’incidenza dei quasi 30mila dentro per reati legati alla droga, assume un significato ben più pesante. Le leggi italiane La responsabilità di questa situazione descritta dall’Emcdda ricade indubbiamente su impianti legislativi poco inclini a misure alternative e opzioni d’avanguardia - come quelle adottate in Colorado, Washington e Uruguay nel 2013 - che nel caso italiano si sono rivelati viziati persino da incostituzionalità. Resta da capire se e quanto incideranno da qui in poi la pronuncia della Consulta sulla legge Fini-Giovanardi e il decreto "svuota carceri" che ha riformulato le pene per lo spaccio di lieve entità. Ad ogni modo dovrebbero essere analizzati in relazione al quadro fosco della crisi occupazionale, dove quelli che l’Emcdda chiama "crimini sistemici" - ovvero le attività legate al mercato illecito delle sostanze stupefacenti - sono elementi rischiosi di una filiera economica capace però di assicurare posti di lavoro e rendite là dove questi rappresentano quasi un sogno irrealizzabile. In tempo di spending review, tuttavia, vale la pena chiedersi perché in Italia sia ancora così difficile affrontare il tema della legislazione sulle sostanze stupefacenti partendo da una comparazione tra i risultati ottenuti dal resto dei paesi dell’Ue in tema di riduzione della domanda, contenimento del fenomeno e spesa pubblica. La risposta forse si lega ad un passaggio del report nel quale si annota che dal 2008, anno dello scoppio della crisi finanziaria, i contributi per questo tipo di detenuti hanno iniziato a calare, ma questa diminuzione è stata superiore rispetto alla riduzione del Pil. Come dire che si è preso a pretesto la crisi per acuire senza giustificazione il risparmio sul sistema detentivo e in particolare su quello dedicato ai detenuti per reati legati alla droga. William Burroughs scrisse ne La scimmia sulla schiena che "si scivola nel vizio degli stupefacenti perché non si hanno forti moventi in alcun’altra direzione. La droga trionfa per difetto". Il solo sentire l’eco di una responsabilità per quel difetto produce ancora il bisogno di togliersi davanti agli occhi i simboli delle sue conseguenze. Il Centro ha usato i dati forniti dall’Italia. Sbagliati Com’è possibile che in Italia, dal 2000 al 2010, si siano spesi mediamente un miliardo e duecento milioni annui di soldi pubblici per i soli detenuti in carcere per droga, quando persino il Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del ministero dell’Economia e delle Finanze associava all’intero sistema detentivo, nel solo 2010, massimo 400 milioni? Se si verificano le fonti dei dati del report si può leggere che in Italia "i piani di azione sulla droga non hanno associato budget", "non ci sono recensioni sulle spese esecutive" e "le stime per le spese correlate al tema sono molto limitate". Ma soprattutto "uno studio recente (il Report annuale 2011 del Dipartimento antidroga) che mirava a stimare i costi sociali del consumo di droga, ha incluso la stima della spesa pubblica, ma non ha dettagliato la metodologia utilizzata". Tradotto: non abbiamo fornito dati attendibili, ma l’Emcdda ha dovuto usare questi per elaborare le sue stime. Siamo primi, quindi, ma se si trattasse di elezioni sarebbero da invalidare per vizi di forma. Giustizia: il Senato modifica ddl sulle misure di custodia cautelare, che torna alla Camera 9Colonne, 2 aprile 2014 L’Aula del Senato ha concluso l’esame degli emendamenti al ddl sulle misure di custodia cautelare, ma alcune proposte di modifica passano, così il testo dovrà tornare alla Camera. Slitta quindi il voto definitivo del provvedimento Tra i "ritocchi" al provvedimento c’è quello che rende di fatto un illecito amministrativo, per il magistrato, il ritardo nel deposito della richiesta della misura cautelare. Gli articoli da 1 a 3 del provvedimento prevedono che il giudice non possa desumere esclusivamente dalla gravità del reato le situazioni di concreto e attuale pericolo. Inoltre, la misura della custodia cautelare non può essere applicata se il giudice ritiene che, all’esito conclusivo del giudizio, possa essere sospesa la pena. L’articolo 4 introduce il principio di residualità per cui si può irrogare la custodia cautelare in carcere quando altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate. L’articolo 5 salvaguarda, per i reati più gravi, l’impostazione che riconduce l’applicabilità della misura cautelare all’astratta esigenza di far fronte al pericolo di fuga, all’inquinamento delle prove, alla reiterazione del reato. Per tutti gli altri reati, si prevede che, nel disporre la custodia cautelare in carcere, il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari. L’articolo 6 prevede che, in caso di trasgressione delle prescrizioni relative agli arresti domiciliari, il giudice dispone la revoca della misura. L’articolo 9 introduce la facoltà di applicare congiuntamente misure coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere. L’articolo 11 introduce modifiche al codice penale, anche al fine di risolvere alcune controversie applicative circa il procedimento di riesame delle ordinanze che dispongono l’irrogazione di una misura coercitiva. L’articolo 13 prevede il potere del giudice di decidere, entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, l’ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva, qualora essa sia stata annullata con rinvio su ricorso dell’imputato. Giustizia: Vietti (Csm); basta interventi-spot sulle carceri, servono più pene alternative Agi, 2 aprile 2014 Basta "interventi spot, come gli svuota carceri che facciamo ogni tanto", bisogna "cambiare la linea politica che minaccia sempre il carcere" e "trovare misure alternative al carcere". Lo ha detto il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, durante un’intervista con Uno mattina, ricordando che "a fine maggio scadono i termini che l’Europa ci ha imposto, perché i detenuti hanno spazi insufficienti e vivono in condizioni non umane". Il vicepresidente del Csm ha ricordato che "la riabilitazione di un detenuto avviene più fuori dal carcere" e ha espresso apprezzamento per l’accordo firmato ieri dal guardasigilli Andrea Orlando in Marocco per il trasferimento, nel loro Paese, di detenuti marocchini attualmente in Italia. "È un buon esempio - ha osservato - che spero abbia un seguito". Sulla questione degli ospedali psichiatrici giudiziari la cui chiusura è stata prorogata di un anno con un decreto legge varato lunedì in Consiglio dei ministri, Vietti ha rilevato che "la proroga è un po’ un fallimento: il Parlamento aveva deciso di sopprimere gli ospedali psichiatrici giudiziari, constatando la loro situazione di degrado e grave inciviltà. Toccava alle Regioni trovare soluzioni alternative ma non è stato fatto niente. Il rinvio impone di trovare nuove situazioni per contemperare che si sconti la pena, accanto alla tutela della salute". Giustizia: Ordine Assistenti sociali; potenziare gli organici per Esecuzione Penale Esterna Ansa, 2 aprile 2014 Il Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti sociali sostiene l’ordine del giorno delle deputate del Pd Maria Antezza e Sofia Amoddio, riguardante l’adeguamento delle risorse del servizio sociale, per la realizzazione efficace dei progetti relativi alle misure alternative alla detenzione. "Anche per rispondere alle richieste della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che chiede condizioni di vita dignitose nelle carceri - dichiara Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine - si va sempre di più verso l’ampliamento delle misure alternative alla detenzione. Ampliamento che però difficilmente potrà avere risvolti positivi se contestualmente non vengono ampliate le risorse professionali e finanziarie indispensabili alla loro implementazione". L’Ordine del giorno vuole portare all’attenzione del Governo la necessità di potenziare gli organici degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe). "Le attuali dotazioni organiche, infatti - si legge nel documento - non consentono di gestire efficacemente il numero di sanzioni non detentive in corso né quelle conseguenti la normativa in via di approvazione". Tra l’altro, si chiede di risolvere il problema della dirigenza di esecuzione penale esterna, in attesa dell’espletamento dei concorsi pubblici per la copertura dei posti vacanti e di ripristinare l’organico di 1.630 assistenti sociali. Giustizia: Orlando firma accordo per trasferimento in patria dei condannati marocchini Asca, 2 aprile 2014 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha oggi sottoscritto a Rabat con il ministro della Giustizia e delle Libertà del Marocco, Mustafa Ramid, due Convenzioni, una in materia assistenza giudiziaria e di estradizione, l’altra in materia di trasferimento di detenuti condannati. La prima - si legge in una nota del ministero - consente di rafforzare il sistema di cooperazione e disciplina in maniera più sistematica i presupposti in presenza dei quali l’estradizione può essere concessa, quali il principio della doppia incriminazione. La seconda convenzione firmata ha un particolare rilievo perché consente che i cittadini di ciascuno dei due Paesi contraenti, condannati in via definitiva e detenuti nell’altro Stato, possano essere trasferiti nei loro Paesi di origine per scontarvi la pena residua. La finalità della convenzione è quella di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, facendole scontare la pena nel luogo in cui ha legami sociali e familiari. Il trasferimento potrà avere luogo, previo consenso del detenuto, dopo una sentenza definitiva che abbia sancito una pena superiore ad un anno e se il fatto che ha dato luogo alla condanna costituisca un reato per entrambi gli Stati. "Oggi la popolazione marocchina nelle carceri italiane sfiora i 4000 detenuti - ha dichiarato Orlando -.Questo accordo può contribuire, a regime, ad affrontare le problematiche condizioni del sistema penitenziario italiano, anche consentendo un’espiazione della pena nel luogo in cui molti di questi detenuti hanno mantenuto legami sociali e familiari". Sappe: bene l’accordo, fino ad oggi però numeri assai contenuti "Va certamente nella giusta direzione l’accordo firmato ieri a Rabat dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando che consente che i cittadini di ciascuno dei due Paesi contraenti, Italia e Marocco, condannati in via definitiva e detenuti nell’altro Stato, possano essere trasferiti nei loro Paesi di origine per scontarvi la pena residua. Da tempo noi sosteniamo che gli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile debbano espiare la pena nelle carceri dei Paesi d’origine, anche senza il consenso dell’interessato. Oggi abbiamo in Italia 21mila detenuti stranieri, il 35% di quelli presenti. E poco meno di 4mila sono quelli originari del Marocco". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, a margine della missione istituzionale in Marocco del Ministro della Giustizia Orlando. "È sintomatico", aggiunge il leader dei Baschi Azzurri, "che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni ‘90 sono passati oggi ad essere oltre 20mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". "Il dato oggettivo è però un altro" conclude Capece: "le espulsioni di detenuti stranieri dall’Italia sono state fino ad oggi assai contenute: 896 nel 2011, 920 nel 2012 e 955 nel 2013, soprattutto in Albania, Marocco, Tunisia e Nigeria". Giustizia: l’Ue e il diritto umanitario… intervista all’europarlamentare Niccolò Rinaldi di Domenico Letizia L’Opinione, 2 aprile 2014 Niccolò Rinaldi, europarlamentare dal 2009, fa parte del gruppo dell’Alde di cui fin dal 2000 è stato segretario generale aggiunto e del quale è vicepresidente. Membro della Commissione europarlamentare per il commercio internazionale, è da sempre molto attento alle problematiche delle persone meno tutelate, come i diversamente abili, gli immigrati ed i Rom. Alle prossime elezioni europee, analizzando il pensiero generale dell’opinione pubblica, sembrerebbe prevalere un forte consenso verso gli euroscettici di vario colore. Come affrontare tale situazione? Come riproporre nuovamente la questione europeista all’elettorato italiano? È un sogno ormai pensare che l’Europa possa continuare a restare divisa in ventotto e più Stati-nazione, ciascuno con le sue piccole prerogative politiche, diplomatiche, militari, legislative, in un mondo dove i 500 milioni di abitanti dell’Ue sono poca cosa al cospetto di ben altri giganti, e hanno invece bisogno di una ben maggiore coesione interna. La soluzione europeista non solo è fattibile ma è anche conveniente, dato che il Parlamento Europeo ha una composizione proporzionale, e già una notevole esperienza nel mettere al lavoro rappresentanti dei cittadini che provengono da tradizioni così diverse. Ci si dovrebbe accostare all’idea di un’Europa federale dalle competenze chiare - con maggiori risorse proprie e dove valgano per tutti regole comuni con decisioni democratiche e trasparenti, anziché gli attuali rapporti di forza tra singoli governi in incontri a porte chiuse - nemica della burocrazia e vicina alle imprese, ai lavoratori, alla libertà di ricerca, all’innovazione, all’autonomia dei territori. Dopo gli storici avvenimenti degli ultimi giorni, quali sono le forze politiche e associative ucraine che vogliono davvero rilanciare la politica ucraina verso una direzione liberaldemocratica ed europeista? Bisogna prendere atto del fatto che si è combattuto anche perdendo la vita alle frontiere dell’Ue per difendere i valori democratici di cui noi stessi ci facciamo promotori. Milioni di persone dall’Ucraina guardano all’Europa e questa crisi alle nostre porte sta dando all’Ue la possibilità di offrire un sogno a un popolo che ha dimostrato che i dittatori non vincono contro le persone. Purtroppo però l’invasione da parte della Russia della Crimea e il referendum, di orwelliana unanimità, delinea una spaccatura che di certo non facilita le forze democratiche nell’apertura di una nuova via. Con la riduzione temporanea e unilaterale delle barriere commerciali sulle importazioni di merci ucraine verso l’Ue si aiuteranno le aziende ucraine ad aumentare le loro esportazioni. In questo modo speriamo di alimentare le voci di quella parte del popolo ucraino che come noi confida nell’apertura economica e democratica, favorendo la creazione di una prospettiva di adesione per evitare il limbo nel quale ora si posiziona l’Ucraina, e supportare gli amici democratici. C’è chi lavora incessantemente per la creazione degli "Stati Uniti d’Europa": come proseguire al meglio lungo questo percorso? Senza un vero moto dalla cittadinanza, nessun federalismo arriva a maturità. Ma in Europa abbiamo bisogno anche di un impulso centralizzato, figlio diretto della consapevolezza che dopo i traumi del Novecento e alle prese con le sfide della globalizzazione, nessun governo nazionale può essere da solo all’altezza della situazione. Sicurezza internazionale, climate change e tutela dell’ambiente, immigrazione, regolamentazione del mercato e controllo della finanza, lotta alla burocrazia possono essere affrontati in modo credibile solo dall’Europa e non dai suoi singoli 28 Stati. Oggi l’Europa è per certi aspetti patetica con tutti questi tentativi di far restare a galla le proprie sovranità, mentre l’interdipendenza - tanto dei mercati quanto della nostra stessa vita quotidiana di cittadini - è tale che solo una federazione può cominciare a mettere ordine in discrepanze interne che alla lunga diventano esplosive. Nel prossimo futuro è imperativo un rilancio di una visione democratica e federalista dell’Europa, per creare un’unione economica e fiscale basata su politiche di crescita e di equità sociale. L’indicazione diretta, da parte dei raggruppamenti di partiti, del proprio candidato alla presidenza della Commissione europea; una disciplina di bilancio rigorosa per l’Eurozona controbilanciandola con la creazione di un bilancio Ue che finanzi sussidi di disoccupazione o un reddito di cittadinanza; lo scorporo della spesa per investimenti, che trainano l’occupazione, dal compito del deficit. E ancora: favorire l’integrazione europea, l’innovazione, la solidarietà sociale e il buon-governo aggiornando i criteri di convergenza a sostegno della coesione sociale e per porre un freno alla corruzione e all’evasione fiscale. Questi rappresentano i passi da percorrere e ciò resta augurabile perché i nostri popoli hanno bisogno di un’unione che permetta un salto in avanti, anche in termini di tutela dei cittadini attraverso un governo economico europeo. L’Europa può divenire il Continente del diritto internazionale umanitario? Come lavorare per tale percorso? Gli europei spesso si sottostimano: uniti sarebbero una potenza formidabile, per patrimonio culturale, sapere tecnologico, modello d’integrazione pacifica, intraprendenza economica, conquiste sociali. E non sarebbe una potenza come le altre, poiché l’Europa nasce per una scelta per molti aspetti negativa: evitare nuovamente la guerra. Credo che dunque la vocazione a porsi come potenza di pace fa parte del codice genetico della costruzione europea, anche se non è affatto sempre stato così in questi ultimi anni (e non mi riferisco tanto al Kosovo, quanto ad altri aspetti, come il cacofonico mercato degli armamenti o l’agghiacciante ruolo di alcuni Paesi europei nel genocidio ruandese). Esistono diverse concezioni dell’Ue come potenza "civile" o "normativa" ed effettivamente si potrebbe pensare a dimensioni di questo genere con riferimento all’umanitario così come anche per la politica estera tout court. Un’Unione in quanto "forza del bene" deve essere sostenuta da criteri e standard di valutazione che consentono di qualificare le sue azioni esplicitamente dirette alla protezione delle vittime dei conflitti armati. L’idea di un’Europa pacifica dalla nascita ha posto le basi per la protezione e la promozione di valori quali l’eguaglianza, la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la sicurezza di uno stato di diritto. Il percorso da seguire è quello di agire in tale senso per trasformare i parametri della politica di potenza con un focus sul rafforzamento del sistema giuridico internazionale promosso dall’Ue attraverso strategie che vanno da una voce unica per la politica estera fino al metodo intergovernativo. Inoltre va aggiunto che la Commissione europea ha proposto l’istituzione di un corpo volontario europeo di aiuto umanitario (EVHAC), che mira a incoraggiare i giovani europei a contribuire alle operazioni di aiuto umanitario dell’Ue e renderli più visibili. Ritengo che questo sia un fondamentale passo per mettere in pratica i principi di cui ci facciamo portatori. Oramai, grazie soprattutto all’azione di Marco Pannella e dei Radicali, il problema giustizia è considerato una "prepotente urgenza" in costatazione anche del fatto che i mezzi d’informazione iniziano a dedicare più informazione alla tematica di quanto avveniva in passato. Dal suo punto di vista può riassumerci quali sono stati i fattori di tale cambiamento in questi anni? Sia che si parli di giustizia internazionale che interna alla nostra nazione, certamente la tecnologia ha permesso di indirizzare l’attenzione dei più verso la verità e quindi il più delle volte verso la giustizia. I cittadini si sono resi partecipi (e ci si augura che continuino a farlo sempre di più) del processo decisionale, nella misura in cui hanno indagato sul perché e sul come e a scapito di cosa. A volte ciò è successo by-passando anche i mezzi di informazione che certamente, spinti da una più alta attenzione del grande pubblico, dedicano maggiore cura a temi scottanti che richiedono giustizia. Si riafferma sempre più il "Diritto alla Verità" come principio guida nelle relazioni internazionali, e i Radicali hanno di certo posto questo elemento come pilastro della loro politica anche attraverso la creazione di "No peace without justice". Partendo dalla considerazione che il multipolarismo a livello internazionale ha rimesso in discussione molteplici dinamiche politiche e diplomatiche derivanti dalle strategie di potenza. Giustizia è declinata in quanto rispetto di valori differenti dalla raison d’état, che è servita come giustificazione dei più potenti. Attraverso una democrazia più partecipativa che oggi va delineandosi, grazie anche a movimenti di advocacy e difesa dei meno rappresentati della società civile, il dialogo politico non rimane a porte chiuse ma si va verso un’agorà aperta a differenti voci che certamente vedono nella giustizia il compimento di un duro lavoro. Giustizia: l’odissea di Ambrogio Crespi; 7 mesi in galera, l’accusatore era uno squilibrato di Luca Fazzo Il Giornale, 2 aprile 2014 L’odissea di Ambrogio Crespi, fratello del sondaggista Luigi, nei guai per le frasi di un mitomane. I periti: "Ha gravi problemi psichiatrici". È uno strano processo, anche perché è un processo che nessuno vuole fare. La Procura aveva ottenuto il rinvio a giudizio davanti al tribunale, ma l’anno scorso il tribunale decise che essendoci di mezzo anche un sequestro, non era di sua competenza. Dovrebbe ripartire davanti alla Corte d’assise, il prossimo 8 maggio, ma le difese temono che neanche la Corte vorrà occuparsene, e a quel punto a sbrogliare il caos sarà la Cassazione. Nel frattempo, la conseguenza è che Ambrogio Crespi, che si è fatto sette mesi di galera, non ha davanti a sé un giudice cui chiedere di essere prosciolto seduta stante, come il codice prevede quando la dissoluzione della prova è evidente. Che la prova si andasse dissolvendo, a dire il vero, si poteva intuirlo già da molti mesi, quando Eugenio Costantino - unica attività nota, un negozietto di oro usato, promosso sul campo a faccendiere della ‘ndrangheta - aveva spiegato ai pm di essersi inventato tutto. "Ho iniziato all’età di sedici anni a millantare su tutta la mia vita. Il motivo non glielo so dire. Non ero contento della mia vita e mi sono creato una identità parallela. Dicevo di essere un commercialista, avvocato, architetto, ingegnere. È qualcosa di insito nella mia natura. Nell’ultimo periodo mi sono vantato di essere ‘ndranghetista". Tra le bubbole inventate per farsi bello, Costantino aveva citato proprio quella sui voti che Crespi avrebbe raccolto per conto della ‘ndrangheta per l’assessore Zambetti: "Dato che ormai Zambetti era stato eletto, a cose fatte mi davo una certa importanza. La storia dei voti procurati da Crespi Ambrogio a Zambetti me la sono inventata di sana pianta. È il mio modo di essere, io mi vanto con tutti, con mio padre, con il mio migliore amico. Sono fatto così. Ho inventato la storia dei napoletani e dei capi condomini conosciuti da Crespi Ambrogio". Il giorno dopo la pubblicazione di quei verbali, Crespi si aspettava di essere liberato su due piedi. Invece dovette attendere ancora quattro mesi, nel "repartino" del carcere di Opera. Poi, nonostante la ritrattazione di Costantino, è arrivato il rinvio a giudizio, anche se davanti ai giudici sbagliati. E ora ecco il deposito della perizia psichiatrica che porta il giudice a scarcerare Costantino: non è un boss della ‘ndrangheta ma uno con "gravi problemi psichiatrici", così evidenti da rendere incompatibile col suo stato di salute la permanenza in galera. D’altronde il 12 marzo scorso un’altra vittima delle fanfaronate di Costantino, l’ex presidente del consiglio comunale di Milano Vincenzo Giudice, era stato prosciolto su richiesta della stessa Procura. E la cosa straordinaria è che per capire che i voti di cui Costantino cianciava esistevano solo nella sua fantasia, bastava guardare i flussi elettorali a favore di Zambetti nei diversi collegi: compresi quelli dove secondo l’accusa Costantino raccattava voti malavitosi. "Nessuno spostamento significativo", scrisse Roberto D’Alimonte: lo stesso studioso di flussi elettorali che ha poi firmato l’Italicum di Matteo Renzi. Lettere: sorvegliare, punire, curare: le funzioni del carcere moderno di Mario Iannucci (Psichiatra, responsabile presidio salute mentale adulti del carcere di Sollicciano) Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2014 Ieri, su "Ristretti", è comparsa una lettera di Rita Argento, che immagino essere un Funzionario della Polizia Penitenziaria. Rita Argento si chiedeva chi dovesse effettuare, in ambito penitenziario, la sorveglianza a vista di un detenuto ad alto rischio di suicidio. Devono effettuarla gli operatori della Polizia Penitenziaria, quelli dell’Area Educativa e quelli del Servizio Sanitario Regionale (Ssr)? Rita Argento non dava una risposta definitiva, segnalando peraltro come le varie circolari ministeriali indichino tutte la necessità, di fronte a situazioni che mettono a rischio la vita o l’incolumità di un cittadino detenuto, di ricorrere a interventi trattamentali multidisciplinari e multi professionali. Proverò a utilizzare la questione sollevata da Rita Argento per avviare una riflessione un po’ più ampia. C’è infatti da chiedersi: nel carcere attuale, chi sono coloro che dobbiamo sottoporre alle varie forme di sorveglianza? Dovremmo sottoporre tutti alla sorveglianza dinamica, pochi alla grande sorveglianza, pochissimi alla sorveglianza a vista. Fra i pochissimi che sottoponiamo alla sorveglianza a vista e fra i molti da sottoporre alla grande sorveglianza, quanti sono quelli per cui ricorriamo a tali forme di sorveglianza per motivi sanitari? Quasi tutti, dire io. In carcere, dunque, ricorriamo alle forme "intensificate" di sorveglianza in prevalenza per motivi sanitari. Cosa ci insegna questa circostanza? Che il carcere attuale alberga un numero impressionante e prevalente di persone affette da un grave o gravissimo disagio psichico e che tale disagio condiziona spesso l’emergere di comportamenti delittuosi e trasgressivi che implicano, inevitabilmente, il ricorso a misure di custodia detentiva. Questo è il carcere attuale: chiunque misconosca tale ineludibile circostanza o è cieco, o è ipocrita oppure, per prevenzione ideologica o per una malintesa convenienza corporativa e di bottega, fa le viste di non vedere e di non pensare. Il carcere attuale è stracolmo di disperati/tossicodipendenti/malati di mente. Questa è la realtà e non serve a niente tentare di occultarla, anche se taluni, disperatamente, provano ancora con flebile voce a sostenere che la tendenza trasgressiva dei "malati di mente" è addirittura inferiore a quella dei "sani". E’ il carcere che ci ha sempre insegnato come sia davvero difficile la distinzione fra la "malattia" e la "salute mentale". Anche se noi, da psichiatri, da giuristi, da garanti di una possibile convivenza civile, questa distinzione è bene che si continui a farla. A meno che non si voglia ricorrere al "sistema del dottor Catrame e del professor Piuma"(*). Nicholas Kristof, penna prestigiosa de The New York Times, l’8 febbraio scorso ha pubblicato un articolo che aveva questo titolo: Inside a Mental Hospital Called Jail. Consiglio a tutti gli operatori penitenziari di leggere questo articolo(**). Io, che lavoro in carcere da trentacinque anni, mi accorsi subito, nel 1979, che il carcere altro non era che un grande e misconosciuto ospedale psichiatrico. Salvo pochissime eccezioni che in carcere ci transitano per una consapevole e "interessata" scelta di vita e di morte, oppure per sbaglio e in genere per pochissimo tempo, riuscendo subito a ottenere, quando condannati, misure trattamentali non detentive (come l’Affidamento in Prova al Servizio Sociale, di cui molto si parla in questi giorni in Italia). Tanto più il carcere sarà un ospedale psichiatrico se passerà, come preconizzano taluni insensati, la linea della eliminazione dal codice penale del proscioglimento per vizio di mente e del conseguente trattamento differenziato per coloro (sempre meno in verità) che il giudice riconosce abbiano compiuto dei reati perché in preda a un grave e riconosciuto disturbo mentale. Se tutti saranno responsabili delle loro azioni e quindi punibili, il carcere si riempirà allora, sempre di più, di un disagio psichico rilevantissimo, che implicherà l’adozione inevitabile di forme raffinate e intense di trattamento e di "sorveglianza". C’è dunque opportunamente da chiedersi, come fa Rita Argento: chi effettuerà questo trattamento e questa sorveglianza? Da trentacinque anni a questa parte ho assistito a una trasformazione radicale del personale addetto al trattamento penitenziario. Nel 1979 sono entrato in un carcere fatto da un direttore, da molti "secondini" e da sporadiche e fantasmatiche figure del trattamento e della cura. Ora, sebbene siano ampiamente insufficienti, si sono moltiplicati gli operatori del trattamento e quelli "sanitari". Accanto agli aspetti "retributivi" che permangono, la funzione "medicinale" della pena si afferma nei numeri di coloro che vi sono specificamente destinati e nelle azioni di tutti gli operatori. Eppure, per una sorta di sconsiderata pruderie, si evita ancora di parlare a chiare lettere di questa funzione terapeutica del carcere (riabilitativa/rieducativa), che è invece essenziale riconoscere e denominare. Gli operatori della Polizia Penitenziaria è non solo indispensabile, ma anche inevitabile che siano chiamati ad altri compiti oltre a quello della "vigilanza custodiale": il carcere attuale impone l’assunzione di questi compiti di cura e la cultura media della polizia penitenziaria lo consente. Certo occorrerà preparare tutti gli operatori penitenziari a queste funzioni difficili che sono insieme di sorveglianza, di trattamento, di cura e di punizione. Già, perché anche questa ultima funzione -quando esercitata perché debita, senza alcun compiacimento, nelle forme previste e con l’afflizione che è quella di una sconfitta civile che supponiamo transitoria- è del pari indispensabile. Ricordando costantemente che, se con Piero Calamandrei dobbiamo tenere conto che "il processo è essenzialmente studio dell’uomo", il trattamento penitenziario lo è ancora di più. Con l’oggetto del nostro studio che necessita altresì di una dedizione, un riguardo e un affetto irrinunciabili e costanti. Con i modi di una integrazione interprofessionale e interistituzionale (tribunale/carcere/sistema della salute) che sono da ricercare e da trovare. Con una integrazione che è tuttavia salutare per tutti, specie per gli operatori della polizia penitenziaria, i quali, trovando altre funzioni, altre vicinanze e altre soddisfazioni, esprimerebbero forse una minore sofferenza autolesiva. Nel 1979, quando entrai in carcere per la prima volta, imparai ben presto quanto fosse necessaria questa integrazione: me lo insegnarono un "secondino" estremamente umano e preparato nelle sue funzioni di assistente alla infermeria, il Brigadiere Cannavò. Ma me lo insegnò anche Pino, l’altro addetto all’infermeria che proveniva di là dalle sbarre. (*) The System of Doctor Tarr and Professor Fether  è un racconto scritto da Edgar Allan Poe e pubblicato per la prima volta nel novembre del 1845 sulla rivista The Graham's Lady's and Gentleman's Magazine di Filadelfia. (**) http://www.nytimes.com/2014/02/09/opinion/sunday/inside-a-mental-hospital-called-jail.html?_r=0 Sicilia: mancano mille agenti di Polizia penitenziaria, corteo di protesta a Palermo Ansa, 2 aprile 2014 Proroga della chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, "implementandola addirittura con una sezione femminile da destinare agli internati". È quanto denuncia il segretario generale aggiunto dell’Osapp, Domenico Nicotra, che lancia l’allarme sulla situazione generale della polizia penitenziaria in Sicilia. "A questo - continua Nicotra - deve aggiungersi che è stato sbloccato il decreto ministeriale che sancisce la chiusura di tre piccole realtà penitenziarie come quelle di Mistretta, Nicosia e Modica". Nel contempo "capita di doversi imbattere nelle scelte del Provveditore che vorrebbe aprire a giorni il nuovo padiglione del carcere di Pagliarelli, gravando solo sul personale attualmente in forza e senza nessun incremento di organico". "La Sicilia - conclude Nicotra - è carente di oltre 1000 poliziotti penitenziari e il personale che si recupererà dalla chiusura di piccoli istituti servirà solo a dare un po’ di sollievo agli istituti limitrofi, ma tuttavia è impensabile aprire nuove realtà detentive se non verrà previsto un congruo numero di poliziotti penitenziari". All’Ucciardone pochi agenti per troppi detenuti "Siamo troppo pochi, ma continuano ad aprire altri reparti". È la protesta degli agenti di Polizia Penitenziaria siciliani che stamattina hanno manifestato a Palermo, sfilando in corteo dal carcere dell’Ucciardone fino alla Prefettura. Circa quattrocento agenti sono scesi in strada per partecipare alla manifestazione di protesta promossa dai sindacati di polizia Sappe, Uil-Pa, Ugl, Sappe e Cgil. "Nelle altre regioni si lavora male, ma non come in Sicilia - spiega Franco Spanò della Cgil -. I dirigenti dovrebbero tutelare i lavoratori. Cosa che non fanno, utilizzando invece lo strumento del procedimento disciplinare per terrorizzare l’agente di polizia penitenziaria. E una forma di schiavitù, in violazione agli accordi contrattuali". Gli fa eco Calogero Navarra di Sappe: "C’è una gestione anarchica - accusa - perché il dirigente generale ha utilizzato metodica semplice: prendi tempo per perdere tempo. Non c’è una determina specifica del dirigente generale: ogni direttore di penitenziario fa quello che gli pare. Gioacchino Veneziano della Uil-pa invece denuncia le gravi carenze in organico. "In Sicilia - afferma - ci sono 7.100 detenuti per meno di 4 mila agenti. I vertici non ne tengono conto e anzi aprono nuovi reparti detentivi. L’ultimo è il nuovo reparto del carcere Pagliarelli di Palermo che dovrebbe contenere altri 400 detenuti. Solo che si prevede di prelevare il personale dallo stesso penitenziario, prevedendo turni di 8 ore, quando il contratto parla di 6 ore al massimo". Calabria: il Consigliere Mario Magno; non va chiusa la Casa circondariale di Lamezia Asca, 2 aprile 2014 Il consigliere regionale della Calabria, Mario Magno, "esprime personale compiacimento per l’approvazione in Aula, di un ordine del giorno da lui stesso presentato, "a seguito della notizia, nei giorni scorsi, del trasferimento dei detenuti dal carcere di Lamezia a quello di Siano a Catanzaro, che impegna il Presidente e la Giunta regionale ad attivarsi presso il Ministero della Giustizia, per rivedere la decisione". "L’obiettivo - spiega Magno - è quello di scongiurare l’ipotesi di chiusura prima che la stessa venga formalizzata con apposito atto amministrativo o, in subordine, quello di richiedere il recupero della struttura per destinarla a base logistica per l’amministrazione e la polizia penitenziaria. Contestualmente, il Consiglio regionale ha rinnovato la richiesta, già formulata con ordine del giorno del 4.8.2010 e del 28.3.2013, di prevedere la costruzione di un nuovo istituto penitenziario nell’area di Lamezia Terme". Secondo Magno "la decisione del trasferimento si pone in netta contraddizione con la nota continua emergenza penitenziaria che affligge il nostro Paese e che è stata di recente stigmatizzata anche dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Determinazione apparsa irragionevole rispetto alla struttura lametina - di recente messa in risalto dal rapporto "Antigone", nota associazione "per i diritti e le garanzie nel sistema penale ed anche alla luce della presenza a Lamezia del Tribunale del quale di recente si è scongiurata la chiusura". Siracusa: Sappe; quasi il 40% dei detenuti è in attesa di un giudizio definitivo di Maria Teresa Giglio La Sicilia, 2 aprile 2014 Quasi il 40% dei detenuti è in attesa di un giudizio definitivo. Il dato è fornito dal Sappe, sindacato di polizia penitenziaria che rileva la flessione, seppur lieve, di popolazione carceraria che aspetta l’esito del processo. Siracusa è invece in controtendenza con un aumento delle presenze nelle celle. "Il 30 settembre avevamo nelle carceri siciliane 6.987 detenuti che oggi sono saliti a 7.009". Il Sappe, che pure è scettico sulle possibilità che in Parlamento si possa varare un provvedimento di clemenza "svuota carcere", sottolinea "una volta di più come "la situazione è allarmante, anche se gli uomini e le donne della polizia penitenziaria garantiscono ordine e sicurezza a fronte di condizioni di lavoro particolarmente stressanti e gravose. Amnistia e indulto da soli non bastano: serve una riforma strutturale dell’esecuzione della pena, come pure ha sottolineato il Capo dello Stato Giorgio Napolitano nella sua lettera ai parlamentari di Camera e Senato sulla grave situazione penitenziaria del Paese". E proprio sulla questione sicurezza che interviene l’Ugl polizia penitenziaria: personale sempre più carente a fronte della continua crescita del numero di detenuti. In particolare viene denunciato il taglio degli stanziamenti per la copertura delle ore di straordinario che ogni anno gli agenti penitenziari sono chiamati a coprire, sia per il grave sovraffollamento sia - appunto - per la grave carenza dell’organico, a cui spetta non solo il servizio interno alle carceri, ma anche le traduzioni e i piantonamenti, oltre alle unità mancanti nel settore della giustizia minorile. "A fronte di una nuova riduzione di personale, viene ridotto lo stanziamento sullo straordinario. "Ciò mentre il ministro Orlando presenterà un piano per evitare ulteriori sanzioni della Corte di giustizia europea, che ha dato all’Italia tempo fino al 28 maggio prossimo per elevare lo standard detentivo, stante le sentenze che ne hanno decretato l’inadeguatezza sotto l’aspetto della dignità e umanizzazione della pena. Piano che non è stato ancora partecipato in modo compiuto alle organizzazioni sindacali. ma che, oltre ad offrire soluzioni di compensazione economica al disagio sofferto dai detenuti, si contrappone ad un’azione a danno del personale penitenziario che costretto ad espletare come ordinario ciò che è invece straordinario, non vede neppure riconosciuto il proprio diritto ad una retribuzione per il plus-lavoro svolto, con inevitabili ovvie ripercussioni in termini non solo di efficienza del servizio reso ma anche di stress psico-fisico". Una situazione al limite della tollerabilità - come i sindacati di categoria hanno fatto rilevare in più occasioni - soprattutto in quelle strutture in cui il numero di detenuti è ampiamente superiore rispetto a quello che dovrebbero ospitare. "E con un numero di agenti particolarmente ridotto e senza dubbio insufficiente, soprattutto con l’apertura del nuovo padiglione che imposto una nuova rimodulazione dell’organico, obbligando peraltro l’impiego di un solo agente per reparto nelle ore notturne, a scapito della sicurezza". Parma: muore in ospedale Carmelo Lo Bianco, era detenuto per scontare pena di 11 anni www.ilquotidianoweb.it, 2 aprile 2014 Il boss è deceduto nell’ospedale di Parma, dove era ricoverato. È considerato dagli inquirenti il capo indiscusso dell’omonimo clan. Dopo l’arresto, che risale al 2013, era stato trasferito nel carcere di Parma per scontare una pena ad oltre 11 anni. È deceduto nella notte all’età di 82 anni nell’ospedale di Parma, Carmelo Lo Bianco, detto "Piccinni", ritenuto dagli inquirenti boss indiscusso dell’omonimo clan e "patriarca" dell’omonima cosca operante sin dagli anni 70 nella città di Vibo Valentia. Il boss era stato arrestato il 20 febbraio 2013 sulla base di un ordine di esecuzione di pene concorrenti emesso dalla Procura generale di Catanzaro. Lo Bianco è stato in una prima fase rinchiuso nel carcere di Vibo, per poi essere trasferito nel a Parma dove stava scontando una condanna definitiva a 11 anni e 4 mesi di reclusione. Negli ultimi tempi, a causa delle precarie condizioni di salute, era stato trasferito in ospedale. Il 10 maggio 2012 la Cassazione l’aveva condannato a 5 anni e 4 mesi per usura ed estorsione, aggravate dal metodo mafioso, ai danni del fotografo vibonese Nello Ruello, poi divenuto testimone di giustizia. Altra condanna a 12 anni di carcere Carmelo Lo Bianco l’aveva rimediata per associazione mafiosa nel processo nato dall’operazione "Nuova Alba", mentre nell’ambito dell’operazione "The Goodfellas" era stato condannato a 4 anni. Nel 1984 era rimasto coinvolto nella prima storica operazione contro il clan Mancuso di Limbadi (che ha coinvolto Francesco Mancuso insieme ad altre 200 persone) e poi nel primo maxi-processo alla ‘ndrangheta del Vibonese (contro Mancuso Francesco più altre 98 persone). La cosca guidata da Carmelo Lo Bianco vanterebbe collegamenti e legami con i più potenti clan del Reggino. Bologna: il detenuto che ha dato fuoco alla cella non aveva mai chiesto misure alternative Ansa, 2 aprile 2014 Il detenuto che due giorni fa ha dato fuoco alla sua cella nel carcere bolognese della Dozza, causando fumo che ha intossicato otto persone, tra cui alcuni agenti, non ha mai richiesto forme di detenzione alternativa né la sua posizione era stata mai segnalata dall’amministrazione penitenziaria al tribunale di sorveglianza di Bologna. Lo rende noto lo stesso presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, Francesco Maisto, dopo notizie imprecise se non fuorvianti che sono circolate sulla vicenda. Tolmezzo: studenti in visita al carcere, conoscono il sottile confine tra "dentro" e "fuori" di Timothy Dissegna Messaggero Veneto, 2 aprile 2014 Capire veramente cos’è un sistema carcerario è un’impresa ardua se non si vede con i propri occhi cosa c’è dietro quelle impenetrabili mura in cemento armato. Ed è proprio per questo che le classi quarte dei licei Scienze Umane e Classico Europeo Uccellis sono andate a visitare il carcere di Tolmezzo, accompagnate dalla professoressa di religione Antonella Der Bortoli e dall’educatrice Domenica Baldassarre. Il primo impatto è sicuramente dei più forti con la vista del reparto che caratterizza questo imponente complesso, il 41bis, il regime di estrema sicurezza a cui vengono sotto posti i capi delle organizzazioni mafiose e che rende noto questo carcere in tutta Italia. Si entra dentro il corpo principale della struttura e, dopo aver oltrepassato i vari corridoi e appreso come viene schedato un nuovo detenuto, è il turno della sala cinema/teatro, dove ci si accomoda e le guide spiegano nei dettagli come funziona la vita nel sistema carcerario. Poi è il turno della testimonianza diretta di un carcerato, che racconta agli ospiti la sua storia, il perché si trova lì dentro e risponde senza mai tirarsi indietro alle domande dei ragazzi. Nonostante il reato che ha commesso sia uno dei più atroci, non si nasconde mai dietro facili alibi ed è consapevole che la responsabilità è tutto e solo sua. Purtroppo il tempo è tiranno e le classi devono rincasare. Si conclude rapidamente il giro e poi di nuovo fuori, oltre il cancello, ancora in fila indiana. Le parole ascoltate, le sensazioni provate in quelle troppo brevi ore rimangono impresse nella mente di tutti, indelebili. Mentre la corriera torna a Udine, il pensiero rimane in quello che è un carcere dove si vive comunque abbastanza dignitosamente (seppur le celle siano claustrofobiche) rispetto a tanti altri in Italia, il confine tra "dentro" e "fuori" è più sottile di quanto si immagini, una linea invisibile oltre la quale sei bestia senza diritti e basta. Saranno criminali, ma non per questo non sono anche esseri umani Piacenza: "non siamo dei criminali", sit-in pacifico di 13 profughi di fronte al carcere www.liberta.it, 2 aprile 2014 Si è tenuto questa mattina il sit-in pacifico di un gruppo di 13 profughi dell’ex Ferri Hotel, che si sono radunati di fronte al carcere delle Novate per manifestare solidarietà ai 4 stranieri arrestati giovedì scorso dalla polizia, in seguito ai gravi episodi avvenuti durante lo sgombero degli spazi comunali di via Taverna. Il gruppo di profughi si è raccolto in silenzio davanti alla casa circondariale, affidando a un cartello la dichiarazione di solidarietà per i loro 4 amici detenuti: "Se hanno sbagliato - recita il cartellone - è perché sono vittime dell’angoscia e figli della disperazione". Massiccio il dispiegamento di forze dell’ordine; al momento la situazione è molto tranquilla e non ci sono stati momenti di tensione. Firenze: con Officina Creativa le detenute-sarte producono prototipi per i giovani stilisti Ansa, 2 aprile 2014 La moda dei giovani stilisti dell’Accademia Italiana entra in carcere, grazie ad una collaborazione avviata con l’associazione no profit Officina Creativa s.c.s, una cooperativa fondata a Lecce da Luciana delle Donne, da anni impegnata in progetti di recupero delle detenute, soprattutto con progetti a marchio "made in carcere". Pioniere del progetto sono le case circondariali di Lecce e Trani, dove sono stati realizzati laboratori sartoriali che impegnano le detenute sei ore al giorno, regolarmente retribuite. In queste strutture sono stati inviati i prototipi degli studenti di Fashion Design dell’Accademia di Firenze, che poi saranno commercializzati online tramite il sito madeincarcere.it. Fra le proposte ci sono top di merletto bordati di ottone e bijoux, trousse damascate e portagioie da viaggio, tutti realizzati con tessuti recuperati, campionari di vecchie collezioni, rimanenze di magazzino o scarti. Inoltre grazie al progetto "Sigillo" c’è in programma anche il coinvolgimento di altri istituti penitenziari d’Italia, compreso quello di Firenze. Bari: agente della Polizia penitenziaria aggredita in carcere da una detenuta irpina www.campanianotizie.com, 2 aprile 2014 Una agente di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Bari è stata aggredita da una detenuta che l’ha spintonata e minacciata, episodio per il quale la donna reclusa è stata segnalata all’autorità giudiziaria. L’episodio è accaduto ieri ed è denunciato in una nota dal Coordinamento sindacale penitenziario (Cosp). Secondo quanto riferito dal Cosp, la detenuta autrice dell’aggressione ha 43 anni, è di Monteforte Irpino (Avellino), sta scontando una pena che avrà termine il 3 agosto 2015 e non sarebbe nuova ad episodi del genere. Il Cosp, prendendo spunto dall’episodio, denuncia nella nota "la precaria situazione della sezione femminile della casa circondariale di Bari, dove la polizia penitenziaria in organico ridotto comunque vigila, controlla e assicura la sicurezza per 30 recluse". Il sindacato segnala che il personale è costretto a svolgere un numero di turni di molto superiore a quanto previsto dal contratto nazionale di lavoro delle forze di polizia. Mondo: quei tremila italiani prigionieri nelle carceri straniere di Emma Farnè www.rainews.it, 2 aprile 2014 Arrestati per droga o perché nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Oltre ai marò, altri tremila connazionali sono in carceri straniere. Spesso dimenticati. Non ci sono solo i marò, o il caso di Roberto Berardi, detenuto in Guinea che ha lanciato un appello choc. Di detenuti italiani all’estero ce ne sono oltre tremila: arrestati per droga o rapina - spesso - vittime di errori giudiziari - altre volte. Secondo gli ultimi dati disponibili della Farnesina, sono 3109 gli italiani detenuti all’estero (annuario statistico 2013, su dati 2012). La maggior parte è in Europa (solo in Germania ce ne sono oltre mille), ma molti sono anche in Brasile, Perù, Venezuela, stati dove le condizioni delle carceri sono molto dure. I reati per cui sono condannati? Sempre la Farnesina fornisce i dati più aggiornati, quelli relativi al 2013: droga (il 71,3% nelle Americhe), rapina e truffa. E quando si parla di droga, non sempre è traffico di stupefacenti. A volte basta solo uno spinello per rischiare quattro anni di carcere. È successo a Lorenzo Bassano, regista di Cesena arrestato nel 2007 a Dubai - e poi graziato dallo sceicco - per 0,8 grammi di hashish in valigia. "Molti detenuti preferiscono tacere perché hanno paura", racconta Katia Anedda di Prigionieri del Silenzio. La Onlus si occupa della tutela dei diritti umani per i connazionali detenuti all’estero. Il primo caso è stato quello di Carlo Parlanti, nove anni in carcere con l’accusa di violenze contro la ex. Un processo senza prove di colpevolezza. Casi simili a quello di Carlo ce ne sono ancora molti, alcuni finiti male. Come quello di Simone Renda: "È stato arrestato nel 2007 in Messico, accusato di atti osceni dalla cameriera che aveva aperto la sua stanza con un passe-partout. È stato portato in carcere, soffriva di problemi di salute. Non l’hanno fatto uscire dicendo che il giudice non aveva la penna per firmare la scarcerazione" - racconta Anedda. Parlanti è morto poche ore dopo. A Varanasi, in India, due trentenni stanno scontando un ergastolo per omicidio. Si tratta di Elisabetta Boncompagni e Tomaso Bruno: erano in vacanza in India con un loro amico, Francesco Montis. Affittano per il Capodanno del 2010 una stanza alla periferia della città sacra. Il giorno dopo, lo trovano in agonia: "Hanno chiamato un’ambulanza, ma è arrivato solo un taxi che l’ha trasportato in ospedale. Lì un medico ne constata la morte. Tomaso chiama l’ambasciata, ma la polizia di Varanasi impone ai due di non uscire dall’albergo e gli vieta di usare internet". Li hanno arrestati per omicidio. "Ma l’autopsia sul corpo di Francesco è stata fatta da un oculista", denuncia la Anedda. Guinea Equatoriale: imminente la liberazione di Roberto Berardi per "motivi umanitari" Ansa, 2 aprile 2014 La Guinea è "impegnata per una soluzione rapida per liberare l’imprenditore" italiano Roberto Berardi detenuto nelle carceri del paese. Lo ha dichiarato il presidente della Guinea, dopo un incontro con il vicepresidente della Commissione Ue Antonio Tajani. "Il presidente mi ha annunciato l’imminente liberazione" per "motivi umanitari". "Non possiamo dire quando sarà liberato, ma stiamo negoziando rapidamente perché il cittadino italiano abbia la libertà", ha detto il presidente della Guinea Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, sottolineando l’aspetto "umanitario" dell’impegno preso dal governo del paese. La liberazione avverrà, ha riferito Tajani, "non appena verranno definiti alcuni dettagli tra il governo italiano e quello della Guinea Equatoriale". "Ho ringraziato il presidente Obiang per questo provvedimento di grazia adottato per motivi umanitari", ha aggiunto Tajani, sottolineando di considerare "molto positivo che l’annuncio della liberazione dell’imprenditore sia stato dato al Commissario europeo dell’industria, e ho fatto sapere al presidente che questo gesto sarà molto apprezzato dal mondo imprenditoriale europeo". Berardi, imprenditore edile, 49 anni, originario di Latina, accusato di truffa e appropriazione indebita, è stato condannato a scontare una pena di due anni e quattro mesi ed è detenuto da oltre un anno nelle carceri lager della Guinea. Segni di tortura in video shock È detenuto da oltre un anno nelle carceri della Guinea Equatoriale, con l’accusa di truffa e appropriazione indebita. Le ultime immagini di Roberto Berardi, imprenditore edile di Latina di 49 anni, risalgono a febbraio scorso ed erano state trasmesse dal Tg1. L’imprenditore appariva magrissimo, con la voce rotta e i segni di torture sul corpo. "Due mesi di isolamento senza vedere la luce - racconta nel video Berardi - Spero di resistere almeno per vedere i miei figli". Berardi si era recato in Guinea Equatoriale per motivi di lavoro ed entrato in società con il figlio del presidente della Guinea. Dal conto della società però sparirono dei soldi e per questa ragione Berardi fu arrestato e rinchiuso in carcere con l’accusa di frode e appropriazione indebita. Senza prove l’imprenditore è stato condannato a due anni e quattro mesi di reclusione. L’odissea vissuta da Roberto Berardi è stata denunciata nei mesi scorsi dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani, e oggetto di un’interrogazione della senatrice pontina del M5S Ivana Simeoni. Il comitato dei familiari, guidato da Guido Valenza, continua incessantemente da oltre un anno a chiedere la sua liberazione. Stati Uniti: torture e prigioni segrete… le rivelazioni del Washington Post sulla Cia Agi, 2 aprile 2014 Per anni la Cia occultò parte del proprio programma d’interrogatori a carico degli individui sospettati di terrorismo, letteralmente ingannando non solo l’opinione pubblica ma la stessa amministrazione Usa sul ricorso a tecniche particolarmente efferate, e sull’esistenza di luoghi segreti dove applicarle ai prigionieri, chiamati significativamente in codice black sites, siti neri: è quanto emerge da un rapporto in 6.300 pagine stilato dalla commissione Servizi Segreti del Senato federale, completato oltre un anno fa ma tuttora secretato, del quale è venuto in possesso il quotidiano The Washington Post. I metodi estremi erano impiegati addirittura in casi nei quali gli esperti erano certi non vi fosse ormai più nulla di rilevante da estorcere ai detenuti. Uno tra essi, comune soprattutto in un black site dell’Afghanistan, consisteva nel costringere i malcapitati a rimanere a lungo immersi in vasconi colmi di acqua ghiacciata: una sevizia in qualche misura analoga al ben più noto water boarding, l’annegamento controllato che prevede di riversare acqua nelle vie respiratorie del recluso il quale, non essendo in grado di controllarne il flusso, è indotto a pensare di essere prossimo alla morte. La differenza essenziale tra le due "tecniche rafforzate d’interrogatorio", come sono definite nel documento, non è tuttavia operativa bensì legale: la seconda è nota e, soprattutto, entro certi limiti approvata dal Pentagono; della prima invece non esiste traccia in alcuna lista ministeriale ufficiale dei metodi autorizzati. Una vera e propria crudeltà non sancita da regolamenti e ordini nè, tanto meno, da leggi o decreti. Stando anzi a diversi funzionari coinvolti nel programma, in servizio o a riposo, che il giornale ha interpellato, la Cia faceva persino di più: per ottenere il permesso di ricorrere a sistemi equivalenti nella sostanza ad autentiche torture, e più tardi difendere l’operato dei suoi agenti, in numerose occasioni sostenne che certe informazioni cruciali non si sarebbero potute raccogliere altrimenti, anche se poi i risultati di fatto non corrispondevano a tali asserzioni. Non solo: in parecchi casi l’importanza di far parlare quel determinato detenuto, il suo ruolo in complotti veri o presunti, la rilevanza degli stessi elementi così conseguiti, che spesso l’interrogato aveva rivelato spontaneamente, erano intenzionalmente esagerati. "La Cia", ha dichiarato uno dei funzionari interpellati che ha ovviamente preteso l’anonimato, "espose a più riprese il proprio programma, tanto al ministero della Giustizia quanto allo stesso Congresso, come in grado di procurare informazioni uniche e non altrimenti ottenibili, idonee a contribuire all’annientamento di macchinazioni terroristiche e di salvare migliaia di vite umane. Era davvero così?", si è chiesta in tono polemico la fonte riservata. "La risposta è no". Al contrario, milioni di dati raccolti ascoltando decine di prigionieri, secondo una cronologia che la relazione senatoriale indica nei dettagli, dimostrerebbero come in realtà le "tecniche rafforzate" nulla ebbero in concreto a che vedere con la soluzione dei casi più delicati: per esempio, non fu per tale via che si riuscì a localizzare il nascondiglio in Pakistan di Osama bin Laden, e infine a eliminare il fondatore di al-Qaeda nel maggio 2011. Nella relazione l’impiego delle tecniche segrete di interrogatorio-tortura è definito foriero di gravi conseguenze legali, fino all’incriminazione. Di qualcosa alla Casa Bianca a un certo punto ci si deve essere resi conto, tanto è vero che fin dal 2009 il presidente Barack Obama ordinò di far chiudere i black sites. E non a caso la senatrice Dianne Feinstein, che presiede la commissione Servizi Segreti, ha inoltre accusato la Cia di aver fatto violare da suoi agenti i computer in dotazione al personale ausiliario incaricato della materiale stesura della relazione, probabilmente per carpirne i risultati e magari continuare a nasconderli: una condotta che a parere della stessa Feinstein, esponente democratica ma schierata su posizioni tutt’altro che iper-garantiste (è tra l’altro una sostenitrice convinta della pena capitale), ha tutte le potenzialità per essere dichiarata illecita. Medio Oriente: Israele non libera i detenuti palestinesi e Abu Mazen ricorre all’Onu www.americaoggi.info, 2 aprile 2014 Si complicano i negoziati in Medio Oriente. Con un colpo di scena all’ultimo momento, il presidente palestinese Abu Mazen ieri ha deciso di chiedere l’adesione a 15 organizzazioni delle Nazioni Unite, compresa la Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili. E il segretario di Stato Usa John Kerry, per tutta risposta, ha annullato immediatamente la visita prevista oggi a Ramallah e a Gerusalemme, dove avrebbe dovuto dare la stretta finale ad un accordo che sembrava fatto. Il motivo è proprio la decisione di Abu Mazen che in tv ha addossato la responsabilità della scelta - votata all’unanimità dalla Olp - ad Israele per non aver rilasciato per la fine del mese scorso la quarta tranche di detenuti palestinesi in carcere. Una mossa che - secondo fonti concordanti - apre nuovi scenari su un accordo che sembrava in vista grazie alla mediazione del segretario di Stato Usa John Kerry. Che invece in serata non ha potuto far altro che ammettere che "al momento non c’è nessun accordo in vista" e che ora sta a israeliani e palestinesi "decidere cosa vogliono fare". Partito ieri mattina dalla regione, il capo della diplomazia americana sarebbe dovuto tornare oggi per incontrare sia Abu Mazen sia Netanyahu per dare la stretta finale alle intese. Ma ora Kerry non verrà. Secondo fonti israeliane - in attesa di una presa di posizione ufficiale - quello di Abu Mazen sarebbe un tentativo di esercitare in extremis una pressione per aumentare le concessioni a favore dei palestinesi nell’ambito della mediazione di Kerry. "Non facciamo questo contro gli Stati Uniti ma è il nostro diritto. Non saremo mai d’accordo - ha detto Abu Mazen - nel rinunciare ai nostri diritti. Kerry ha fatto grandi sforzi ed io mi sono incontrato con lui 39 volte dall’inizio dei negoziati. Noi non stiamo lavorando contro nessuno, ma non abbiamo altra opzione". L’ultimo sforzo di Kerry - giunto nella regione lunedì pomeriggio da Parigi, dove aveva incontrato il ministro russo Sergey Lavrov sul dossier Crimea - per tutto il pomeriggio sembrava riuscito. L’intesa avrebbe permesso di rilanciare i negoziati orami in stallo, superando la spinoso problema del rilascio dei detenuti da parte di Israele e il prolungamento temporale dei colloqui stessi per tutto il 2014. Tra i punti dell’accordo - considerato appunto una boccata di ossigeno ad un’azione di più ampio respiro - ci sarebbero stati: la liberazione della spia Jonathan Pollard dalle carceri Usa entro la pasqua ebraica del 14 aprile (anche se il presidente Barack Obama ha fatto sapere di non avere ancora deciso e lo stesso Pollard negli Usa avrebbe rifiutato di seguire le procedure per la libertà su parola); la convergenza tra le parti per trattative per tutto il 2014 con l’impegno per i palestinesi di non ricorrere alle Nazioni Unite; la liberazione da parte di Israele della quarta tranche di detenuti, compresi, come chiesto dai palestinesi, arabo-israeliani; infine, durante i prossimi negoziati, ci sarebbe stato un addizionale rilascio di 400 detenuti palestinesi "senza sangue sulle mani" scelti da Israele. Lo stato ebraico si sarebbe impegnato inoltre per un parziale congelamento di nuove abitazioni: no a nuove case in Cisgiordania, ad esclusione di quelle nei sobborghi ebraici di Gerusalemme est, oltre la Linea Verde del 1967. Proprio oggi d’altra parte le autorità israeliane hanno rilanciato un appalto - già offerto nei mesi scorsi - per la costruzione di 708 alloggi nel rione ebraico di Ghilo, a Gerusalemme est. "Questa - ha detto all’Ansa Mustafa Barghouti dell’Olp - è una chiara risposta alla mancata liberazione dei detenuti da parte di Israele". L’esponente palestinese, che ha condannato l’annuncio dell’appalto a Ghilo, ha però aggiunto che "gli Usa devono continuare a guidare il processo di pace e a fare pressioni su Israele per il raggiungimento di un giusto accordo. La leadership palestinese, ha concluso, "è pronta a tornare al tavolo dei negoziati" nel momento in cui vengano rispettate due richieste: "Il blocco completo degli insediamenti, anche quelli annunciati durante i mesi di trattative - e quando i termini di un accordo futuro siano chiari e condivisi da entrambe le parti". Grecia: Msf; "un inferno" le condizioni dei migranti detenuti, sono circa 6.000 nel Paese Tm News, 2 aprile 2014 "Un inferno": così Medici senza frontiere (Msf) ha descritto le condizioni in cui sono costretti a vivere i migranti e i richiedenti asilo in Grecia. "Non credevo che tali condizioni fossero possibili in Europa - ha denunciato al Guardian Marietta Provopoulou, attiva per oltre 10 anni in Africa prima di tornare ad Atene come direttore di Msf - la denuncia ricorrente dei migranti è che non sono trattati come esseri mani, che sono costretti a vivere un inferno. E hanno ragione". I medici che hanno visitato i centri di detenzione, le stazioni di polizia e le strutture della guardia costiera hanno riferito di migliaia di migrati privati di aria fresca, di luce naturale e di servizi sanitari di base. Epidemie di scabbia nei campi affollati sono ormai diventate comuni, così come infezioni alle vie respiratorie, disturbi gastrointestinali e tubercolosi. "Le condizioni sono scioccanti - ha detto un medico di Msf, Panagiotis Tziavas - non solo ci sono persone stipate in spazi molto limitati. Un altro grande problema sono le condizioni igieniche... la maggior parte delle latrine sono in condizioni disgustose". Sono circa 6.000 i migranti e i richiedenti asilo attualmente detenuti in Grecia; diversi di loro hanno anche tentato il suicidio. Msf ha raccontato la storia di un 16enne afgano che di recente si è gettato dal tetto del centro di detenzione di Komotini, vicino al confine con la Turchia, per protestare contro le condizioni in cui era costretto a vivere. "Ci rinchiudono per 18 mesi. Perché? Sono venuto qui in cerca di pace, non sono un criminale - ha protestato il ragazzino, che si è fratturato entrambe le gambe - l’acqua delle docce è sempre fredda e i gabinetti non funzionano mai. Il cibo è cattivo, non è sano. Ho chiesto tante volte di essere rilasciato perché sono minorenne, ma hanno sempre rifiutato". Cile: 300 detenute evadono dal carcere di Iquique a seguito terremoto nel nord del Paese Adnkronos, 2 aprile 2014 Circa 300 detenute sono evase dal carcere femminile di Iquique nella confusione della forte scossa di magnitudo 8.2 che ha colpito il Cile settentrionale. Lo ha reso noto il ministero degli Interni, annunciando l’invio nella zona di un centinaio di uomini delle forze speciali. Inoltre è stato deciso il dispiegamento in città di un altro centinaio di uomini della polizia e dell’esercito. Nelle ore successive al sisma sono state catturate 26 fuggitive. Nel resto del Paese, centinaia di detenuti sono stati evacuati dalle prigioni di San Antonio, Lebu, Coronel e Arauco, vicine alla costa. Durante il grave terremoto del 2010 in Cile, che liberò 15 volte più energia e provocò 500 morti, evasero un centinaio di detenuti. Russia: le Pussy Riot al Parlamento europeo "le condizioni carceri russe sono disumane" Ansa, 2 aprile 2014 Le condizioni delle carceri in Russia sono disumane e assomigliano sempre di più a quelle che si trovavano nei gulag durante il periodo sovietico. È la denuncia che arriva oggi da Bruxelles, dove due rappresentanti delle Pussy Riot, Nadezhda Tolokonnikova e Maria Alyokhina, e il vincitore del premio Sakharov per la libertà di pensiero, Oleg Orlov, hanno partecipato a un’audizione alla commissione Diritti umani del Parlamento Ue. "Il sistema carcerario russo continua a essere come durante i tempi sovietici e le persone possono finire in prigione soltanto perché hanno partecipato a una manifestazione pacifica", ha affermato Tolokonnikova, sottolineando che in molti casi i dissidenti politici sono condannati a trattamenti psichiatrici. "Le prigioni russe assomigliano ai gulag sovietici: i carcerati sono costretti a lavorare per 14-16 ore e vivono in condizioni pessime", ha detto Alyokhina, che insieme a Tolokonnikova ha creato un’organizzazione per chiede di riformare il sistema carcerario. Le due Pussy Riot sono state imprigionate per quasi due anni tra il 2012 e il 2013 per una preghiera blasfema anti-Putin nella Cattedrale di Mosca. Vietnam: ex soldato detenuto per 39 anni, in prigione si fa battezzare "non odio nessuno" www.ilsussidiario.net, 2 aprile 2014 Il sito Asia News riporta la bella ma sconvolgente allo stesso tempo storia di un ex soldato del Vietnam del sud che ha trascorso 39 anni in un carcere, catturato mentre stava finendo la guerra che aveva contrapposto il nord comunista con il sud alleato degli americani. L’uomo, oggi 68 anni, J.B Nguyen Huu Cau, un capitano dell’esercito del Vietnam del sud, per passione anche poeta e musicista, è in assoluto una delle persone più a lungo detenute per motivi politici. Dopo sei anni di campo di rieducazione venne di nuovo arrestato per la sua attività di poeta e critico, seppur in modo blando, del regime comunista. Nel 1983 era stato addirittura condannato a morte, poi la pena era stata cambiata in carcere a vita. Adesso è stato finalmente scarcerato per gravi motivi di salute: oggi è quasi sordo e quasi cieco per aver trascorso molti anni in isolamento in una foresta in condizioni terribili. Ma in carcere ha incontrato la fede cristiana: con la catena che lo teneva imprigionato aveva fatto un rosario che, racconta, recitava cinque volte al giorno. La sua testimonianza è stata raccolta dal giornale Catholic News, in cui ha detto come sia stato battezzato durante la pasqua del 1986 da un gesuita che si trovava in carcere con lui. Oggi, ha detto, grazie alla fede non odia nessuno, neanche chi lo ha mandato in prigione: "l’amore di Dio e della Madonna mi hanno cambiato. Non provo più rancore per i miei "fratelli e sorelle" (del regime). Abbiamo tutti le medesime radici. Discendiamo tutti da re Hùng Vuong. Per questo dobbiamo amarci l’un l’altro. E una volta di più credo nella Trinità e nella Vergine Maria. Che mi ha aiutato a superare le insidie del destino e mi ha impedito di farla finita uccidendomi durante gli anni in carcere".