Giustizia: può ripartire la stagione del garantismo? di Valerio Spigarelli (Presidente Unione Camere Penali) Gli Altri, 29 aprile 2014 Alcuni segnali fanno ben sperare in un clima mutato. Ma se non si parte dalla distinzione tra tutela della legalità e diritto, si rischia di non ottenere un vero cambiamento. "Io non commento le sentenze, mi aspetto che i magistrati non commentino il processo di formazione di leggi che li riguardano" dice Matteo Renzi in risposta ad una immediata alzata di scudi dell’Anni riguardo al tetto agli stipendi dei dipendenti pubblici. Questa affermazione travalica il contesto, di schietto stampo sindacale, nel quale è stata pronunciata. A ben guardare è infatti una rivendicazione di autonomia della politica nel processo di formazione delle leggi che interessano gli assetti del Terzo Potere, che costituisce un segno di profonda novità proprio perché viene da parte del presidente del Consiglio in carica espresso dallo schieramento di centro sinistra. Negli ultimi venti anni non era mai successo e non è il solo sintomo di cambiamento nel dibattito sulla giustizia che si coglie a sinistra. Giovanni Fiandaca, al momento della sua candidatura per il parlamento Europeo nelle file del Pd, ha sottolineato che "bisogna riaffermare i principi di fondo di una democrazia liberale degna di questo nome. In parole semplici, i politici facciano i politici, gli imprenditori sul serio gli imprenditori, e lo stesso valga per i magistrati, senza ambivalenze, precostituiti collegamenti e indebite interferenze". Concetti, in particolare quello sulle indebite interferenze, che messi in bocca ad un qualsiasi esponente politico del campo avverso avrebbero suscitato polemiche feroci ed accuse di mettere la mordacchia alla magistratura non più tardi di qualche mese fa. Del resto, a sinistra, non sono più solo Luciano Violante o Massimo D’Alema, già tempo identificati come avversari del partito delle Procure e del coté giornalistico che nello stesso si riconosce, a riflettere sulla necessità di un cambiamento degli orientamenti, prima di tutto culturali, in tema di giustizia, ma anche giuristi distanti dalla cronaca politica ed anzi considerati l’anima mundi del pensiero giuridico di sinistra. Sull’ultimo numero di Left Luigi Ferrajoli si interroga sulla "caduta della cultura garantista" della sinistra dagli anni di Tangentopoli ad oggi. Peraltro, ciò che è più significativo, è che il suo interrogativo cada non solo sulla rinuncia a sinistra alla tutela del "più debole nei confronti della repressione, del sopruso, dell’abuso del potere giudiziario ed anche di quello poliziesco" - riferimenti in fondo digeribili anche da parte di chi una vera cultura garantista non la possiede affatto - ma che abbia il coraggio di indicare "molti processi di mafia" tra quelli che hanno visto la caduta del garantismo e la perdita di capacità critica. Anche questa una affermazione ben più significativa dell’ambito in cui è stata pronunciata, poiché dimostra che alcuni tabù del politicall correct giudiziario degli ultimi venti anni potrebbero essere messi in discussione molto prima di quanto fosse lecito aspettarsi. Ora, il problema è comprendere, anche al fine di incidere sui tempi ed i contenuti della discussione, cosa sta alla base di questi segni, e se gli stessi siano solo la reazione ad una eccessiva esposizione di una parte della magistratura, ovvero alla tracimazione del populismo giudiziario direttamente nell’agone politico come nel caso dell’avventura di Ingroia, o se costituiscano invece l’inizio di una stagione nuova. Insomma, bisogna comprendere se nell’area culturale di sinistra si stia aprendo un dibattito vero o se, assai più semplicemente, come si urlava quaranta e passa anni fa, la "vera lotta è per il potere", e dunque i nuovi padroni del vapore vogliono solo scaricare compagni di viaggio ingombranti o azzerare pericolosi competitor sul terreno del populismo giudiziario, come il Movimento Cinque Stelle. Sotto questo punto di vista non è tanto importante ragionare attorno a quello che per molti anni è stato, in fondo, anche un alibi, cioè lo stracitato fattore Berlusconi, i suoi processi, le sue sparate ad alzo zero sulla magistratura mai seguite da modifiche legislative profonde, la cui scomparsa (guarda caso per via giudiziaria...) dalla scena politica permetterebbe finalmente di discutere a sinistra liberamente delle magnifiche e progressive sorti di una giustizia giusta, quanto piuttosto capire se il dibattito conduca ad una visione veramente liberale come vorrebbe il professor Fiandaca, dal punto di vista dei contenuti, non dei rapporti di forza e delle dinamiche di potere. Ed allora il problema sta tutto nel comprendere se a sinistra stia recuperando terreno una fondamentale distinzione: quella tra tutela della legalità e diritti. L’identificazione della legalità con la sostanza del diritto, e dunque l’immedesimazione con quella parte che assicura la tutela della legalità, cioè l’apparato repressivo e la magistratura requirente, è stato infatti l’equivoco che comportato la mutazione genetica di una larga parte della sinistra. Il diritto al giusto processo, per fare un esempio, cioè ad un accertamento giudiziario rispettoso di alcuni diritti fondamentali, come quello di interrogare o fare interrogare il testimone che accusa, impedendo meccanismi di circolazione delle prove all’esito dei quali una persona finisce per essere condannata senza mai aver avuto la possibilità di rivolgere domande al proprio accusatore, è stato negletto, a sinistra, per molto tempo, in nome della battaglia legalitaria contro la corruzione, la mafia, il terrorismo. Il che comportava (e comporta ancora in larghi strati dell’elettorato di sinistra) l’adesione ad una idea inquisitoria, dunque regressiva, del processo. Identicamente è avvenuto e avviene per la compressione di diritti fondamentali, come nel caso del regime penitenziario del 41 bis, ove, in nome e per conto di esigenze di tutela della legalità diffusa, viene legittimata una idea vendicativa ed incostituzionale della pena. Ed ancora gli esempi potrebbero continuare a proposito della distinzione tra funzione di giudizio e funzione di accusa, cioè con riguardo alla equidistanza valoriale tra accusa e difesa in rapporto alla terzietà di chi giudica, dunque ad una visione del processo non come strumento di lotta ma come luogo di composizione del conflitto tra pretesa punitiva dello Stato e diritto alla libertà del singolo. In altre parole interrogarsi sul perché la separazione delle carriere sia diventata una bestemmia per i "progressisti" anziché un obiettivo fondamentale da raggiungere. Se si deve ricominciare a dibattere di un modello di giustizia, a sinistra, senza pregiudizi, si de\e partire da queste cose, il resto, direbbe Totò, sono quisquilie. Giustizia: Manconi (Pd); l’appello per le carceri del Papa e di Napolitano? Renzi è contro di Federico Ferraù www.ilsussudiario.net, 29 aprile 2014 Perché sulle carceri Renzi non si muove? Luigi Manconi, giornalista e deputato del Pd, esperto di questione carceraria, una spiegazione ce l’ha. Tutto è nuovamente partito da Napolitano: il destro gli è stato offerto dalla telefonata di papa Francesco a Pannella, in sciopero della sete per protestare contro le condizioni dei detenuti nelle nostre carceri. "È ora - a distanza di oltre sei mesi dal messaggio da me rivolto al Parlamento a questo proposito - di fare il punto sulle misure adottate e da adottare, anche in ossequio alla nota sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo". La Corte di Strasburgo, nella sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, aveva stigmatizzato il malfunzionamento cronico del nostro sistema carcerario, dando tempo all’Italia fino al 28 maggio per prendere misure efficaci, pena il pagamento di sanzioni pesantissime. L’intervento di Napolitano risponde così anche alle istanze contenute nell’appello sottoscritto da tutti i soggetti sociali che operano nel mondo del carcere e che in questi giorni continua a raccogliere adesioni. Manconi è anche tra i promotori dell’appello. Onorevole Manconi, partiamo dal comunicato del presidente Napolitano… Il presidente mostra tutta la sua malinconica determinazione… Dico così così perché il comunicato di domenica è davvero il segno della sua volontà di sfidare l’indifferenza, per non dire l’ottusità, della classe politica. Quasi una sorta di spes contra spem. Rendiamoci conto: il Quirinale fa una nota per dire che il capo dello Stato ha ringraziato papa Francesco che ha telefonato a Marco Pannella. È la rappresentazione plastica di una speranza disperata, oserei dire… Contro che cosa? Contro le resistenze, le ipocrisie, i tabù che sembrano dominare il problema. Colpisce il fatto che il capo dello Stato, il capo della Chiesa cattolica e un leader politico 84enne, rappresentante a tutt’oggi del partito più vecchio che ci sia in Italia perché tutti gli altri hanno nel frattempo cambiato nome e natura, assumano la difesa di un diritto fondamentale come la dignità dell’uomo anche in condizione di privazione della libertà. Lei è un sostenitore dell’indulto. Perché? Serve una misura straordinaria, che operi nell’immediato per tamponare l’emergenza. Il sistema penitenziario è un "corpaccione" affetto da una febbre altissima, per curare il quale non funzionano le terapie ordinarie. Va abbassata drasticamente la temperatura con una misura straordinaria, come sono amnistia e indulto. Quando la febbre sarà calata drasticamente, a quel punto le terapie ordinarie di lungo periodo potranno funzionare. Come spiega che il ministro Orlando sia irremovibile e difenda una linea contraria all’amnistia e all’indulto? Guardi, io penso che Orlando sia vittima di una situazione. Arrivo a ipotizzare che la sua soggettiva volontà sia diversa, ma questa, ripeto, è solo un’ipotesi. Sta dicendo che il governo è spaccato? Non mi permetto di entrare nel merito di possibili contrasti all’interno dell’esecutivo; non vedo però in Orlando un atteggiamento ostile. È successo però che il capo del governo e la responsabile giustizia del Pd (Alessia Morani, ndr) abbiano escluso risolutamente il ricorso a questi provvedimenti, che vengono trattati alla stregua di ipotesi bizzarre e semilegali quando invece appartengono per intero alla nostra carta costituzionale e sarebbero sacrosanti. Forse sotto elezioni amnistia e indulto non sono molto popolari, non crede? Sono misure impopolari prima, durante e dopo le elezioni… in ciò riflettono un’opinione che corrisponde al senso comune, è vero. Io però ritengo che compito della classe politica sia quello di assumersi la responsabilità anche di provvedimenti impopolari. Quindi? Si dovrebbe aver la forza morale e politica di prendere decisioni che, se condivise dalla maggioranza del Parlamento, contribuirebbero anche ad abbattere anche i costi. Se invece ci si preoccupa del fatto che due partiti autoritari e antiliberali come Lega e M5S possano lucrare elettoralmente, beh, certo, a quel punto si agisce di conseguenza. Dia una ragione a Renzi e Berlusconi per fare qualcosa… Se un provvedimento di indulto fosse condiviso dall’intera maggioranza di governo più Forza Italia, anche i costi elettorali sarebbero divisi tra questi partiti. Secondo me il senso di responsabilità dovrebbe indurre a correre questo rischio. Cosa pensa dell’appello sottoscritto unitariamente da enti, singoli e associazioni che chiedono cambiamenti radicali nell’approccio e nella conduzione del sistema carcerario italiano? Avrei difficoltà a parlar male di un prodotto che ho contribuito a creare. Penso che sia importante lo sterminato elenco di associazioni che aderiscono e che non smettono di farlo, perché l’elenco si sta allungando. Ci sono tutti quelli che in Italia si adoperano per fare del carcere non solo un luogo di degradazione dell’umanità. Questa volta la politica è stretta tra papa Francesco e Napolitano da una parte, e la società civile dall’altra. Che sia la volta buona? Purtroppo credo che nemmeno questa morsa non basterà a superare la resistenza impermeabile opposta da un ceto politico decisamente pavido. Giovanni Tamburino, capo del Dap, ha dichiarato a Repubblica che molto è stato fatto: "abbiamo rimediato con grande fatica al problema dei 3 metri quadri"; e ancora, "sotto il profilo dello spazio ce l’abbiamo già fatta". È d’accordo? Quei termini usati da Tamburino mi paiono decisamente impropri. Se avesse detto che il problema era in via di risoluzione o: ancora alcuni mesi e lo risolveremo, sarebbe stato più aderente a una prospettiva, non dico alla realtà. Si vada a controllare a San Vittore, a Marassi e a Poggioreale. Tamburino dice anche che manca la riforma della custodia cautelare… Sia chiaro, Tamburino non dice cose profondamente sbagliate; dice cose parziali. I provvedimenti assunti negli ultimi due anni non sono errati, sono drammaticamente limitati. Aggiungo: vanno tutti nella stessa direzione, per questo sono poco incisivi. Quando Tamburino dice che "ci sono stati dati 3mila posti carcere, ma ne attendiamo almeno altrettanti", è quell’almeno che è folle… Dice che abbiamo 9mila detenuti di meno rispetto al 2010, ma ridurre a quei 9mila il sovraffollamento è dimenticare che i detenuti hanno occupato spazi sottratti ad altre funzioni essenziali, come la socialità. È questo che viene costantemente dimenticato. No, per rendere dignità ai detenuti ci vuole altro. Giustizia: guerra di cifre sui detenuti e sulla capienza delle carceri, inascoltato Napolitano di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 aprile 2014 "Trovo sconcertante che l’ennesimo appello di Napolitano sulla questione delle carceri, che fa seguito alla promessa di interessamento del Santo Padre, venga ridotto, come sta avvenendo in queste ore, ad una avvilente guerra di numeri sui detenuti presenti nelle carceri del Lazio". Parla da Garante dei detenuti della sua regione, Angiolo Marroni, ma il suo ragionamento si potrebbe estendere a tutto il Paese. Perché ancora una volta le cifre snocciolate ieri su Repubblica dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino (in attesa di sapere se a fine maggio lo spoil system renziano penalizzerà anche lui) sono state contestate non solo dalle associazioni di settore o dai Radicali, ma anche dagli stessi sindacati di polizia penitenziaria. "Nessun dimezzamento del sovraffollamento carcerario", smentisce il segretario del Sappe, Donato Capece, che accusa di "mille chiacchiere ed anche di alcune bugie" Tamburino, per il quale il "problema dei 3 metri quadri" minimi per ciascun detenuto è stato ormai superato, sebbene "con grande fatica". Ma il problema delle carceri, e più in generale del sistema penale italiano, non è solo la mancanza di spazio vitale. I detenuti nelle mani dello Stato continuano ad essere torturati in molti modi (non solo come sanzionato dalla Corte europea dei diritti umani con la sentenza pilota Torreggiani che andrà in applicazione il 28 maggio prossimo), uccisi o lasciati morire, come dimostra l’ultimo caso, nel carcere di Giarre, a Catania, dove un uomo di 32 anni a cui mancavano cinque giorni per il fine pena, cardiopatico e sottoposto a ossigenoterapia, è morto di infarto ma per cause su cui la magistratura sta indagando. Il paradosso è che su quell’istituto - a custodia attenuata perché ospita principalmente tossicodipendenti, come sugli altri 7mila reclusi nelle carceri siciliane, non c’è alcun Garante dei detenuti a vigilare perché la Sicilia al momento ne è sprovvista. La giunta regionale ha infatti deciso di "congelarne" l’ufficio in cui "giacciono inevase oltre mille lettere di carcerati - come ha raccontato l’ultimo Garante siciliano, Salvo Fleres - e tra queste non escludo che ci sia anche la richiesta d’aiuto del ragazzo morto a Giarre". In questo contesto sembra incredibile che ancora ieri né alla Camera né al Senato sia stato calendarizzato l’avvio della discussione sul messaggio che Giorgio Napolitano ha inviato al Parlamento l’8 ottobre scorso per chiedere un intervento urgente sulle carceri. A Montecitorio in realtà a inizio febbraio c’era stata una finta partenza, e Marco Pannella aveva allora interrotto la sua iniziativa non violenta che ancora in queste ore sta portando avanti per ottenere "l’amnistia per la Repubblica". Domenica scorsa il capo dello Stato ha ringraziato, in piazza San Pietro, Papa Francesco per "il generoso gesto" di telefonare al leader radicale. Ma ha poi ricordato ai partiti che "in effetti, è ora a distanza di oltre sei mesi dal messaggio da me rivolto al Parlamento a questo proposito di fare il punto sulle misure adottate e da adottare, anche in ossequio alla nota sentenza della Cedu". Forse fiato sprecato, se il capo dell’amministrazione penitenziaria giura che il problema che ha portato alla condanna di Strasburgo è stato risolto. Per fortuna questa volta non è solo Antigone a parlare di "manipolazione dei posti regolamentari in carcere", ma Capece. A dire che ce ne sono "6 mila in meno" rispetto alle stime ufficiali sono stavolta i "poliziotti". Ce qualcuno nel governo che vuole smentirli? Giustizia: nuovo appello di Napolitano per le carceri. Le Associazioni: ecco le urgenze di Viviana Daloiso Avvenire, 29 aprile 2014 Tornano al centro di un dibattito infuocato le condizioni disumane dei detenuti nelle carceri italiane all’indomani del rinnovato appello del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, affinché si agisca-e al più presto - per rimuovere l’emergenza, rispondendo anche a quanto ci chiede l’Europa. Un appello lanciato in occasione della cerimonia di canonizzazione dei due Papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, durante il breve colloquio di Napolitano con Papa Francesco. Rispetto a un anno fa la situazione è leggermente migliorata, ma il sovraffollamento resta la piaga delle nostre 205 carceri: rispetto ai posti disponibili ci sono quasi 12mila detenuti in più. Gli ultimi dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia sono aggiornati al 31 marzo scorso, E dicono che il numero dei reclusi supera la quota di 60mìla: 60.197 per l’esattezza, rispetto a una capienza regolamentare di 48.309 posti. Un anno fa sfioravano i 19mila. "Si è fatto molto in questi ultimi due anni, il sovraffollamento è stato dimezzato", ha commentato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, spiegando come lo sforzo non basti e come a fronte di 3mila posti carcere consegnati se ne attendano altrettanti, oltre che la riforma della custodia cautelare. Dichiarazioni contro cui si è scagliato il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (il Sappe), secondo cui i numeri sono drammaticamente diversi e il nuovo appello di Napolitano è fondamentale per capire cosa è stato fatto di concreto, a partire dalla certezza che "pensare di risolvere i problemi del sovraffollamento dando la possibilità a chi si è reso responsabile di un reato di non entrare in carcere è sbagliato e ingiusto". Fondamentale l’intervento di Napolitano anche per il Partito Democratico, secondo cui "la verifica richiesta su quanto è stato fatto e quanto resta da fare sulla questione delle carceri, alla vigilia dell’esame da parte della Corte europea dei diritti umani, deve essere atto di piena responsabilità per il Governo, il Parlamento e per tutte le forze politiche", ha sottolineato il responsabile nazionale Carceri del Pd, Sandro Favi. Mentre proprio affinché le forze politiche si assumano "la piena responsabilità della situazione" si è espressa l’Unione camere penali, che è tornata a insistere sulla necessità "di provvedimenti emergenziali, in particolare l’indulto". Intanto proprio a Napolitano, al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando (ma per conoscenza anche al presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e quello della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento Europeo Juan Fernando Uipez Aguilar) è stata indirizzata la lettera-appello di 60 associazioni e cooperative che operano nella realtà carceraria. Sette le richieste messe a fuoco: da quella di "diversificare il sistema sanzionatorio" (così da "procedere sulla doppia via della depenalizzazione e della residualizzazione della pena carceraria") all’accantonamento del vecchio trattamento dei detenuti, fondato sulla "soggezione, l’afflizione e l’umiliazione", per passare ad un modello più improntato alla socialità e alle attività all’interno del carcere, a cominciare dal lavoro. Si fa notare che la gran parte dei detenuti è a basso indice di pericolosità e si chiede di favorire l’invio in comunità di detenuti in affidamento, esperienze che "abbattono la recidiva e hanno un costo inferiore a quello dello Stato". Giustizia: Favi (Pd); sulle carceri Napolitano chiede piena assunzione di responsabilità Italpress, 29 aprile 2014 "La verifica richiesta dal Presidente Napolitano, su quanto è stato fatto e quanto resta da fare sulla questione delle carceri, alla vigilia dell’esame da parte della Corte europea dei diritti umani, deve essere atto di piena responsabilità per il Governo, il Parlamento e per tutte le forze politiche che, in questi anni, hanno portato avanti le proprie posizioni e le proprie convinzioni sul tema". Lo afferma in una nota Sandro Favi, responsabile nazionale carceri del Pd. "Diversi interventi e misure sono state adottate ma, come ha ammesso il Ministro della giustizia, non saranno risolutive, nell’immediato, del grave sovraffollamento che ci ha portato all’umiliante censura per trattamenti inumani e degradanti, sebbene si siano mosse, finalmente, su una linea di maggiore garanzia dei diritti di chi è recluso e di revisione strutturale del sistema dell’esecuzione delle pene - aggiunge. Su questa strada sono in dirittura di arrivo anche la revisione della disciplina della custodia cautelare di iniziativa parlamentare e gli ultimi interventi che il Ministro Orlando ha preannunciato, esponendo il proprio programma al Senato lo scorso 23 aprile. Fra questi, auspichiamo anche significativi investimenti sulle strutture esistenti, sulle tecnologie e sul personale dirigenziale delle professioni socio-educative e della Polizia penitenziaria. Ora è il momento che ognuno formuli proposte conclusive rispetto all’obiettivo di rimuovere le condizioni di inciviltà nelle nostre carceri e di adempiere agli obblighi che siamo tenuti ad assolvere, per il rispetto delle convenzioni internazionali, ma ancor prima della Costituzione italiana - conclude Favi. Non possono essere più ammesse le tattiche dilatorie o ostruzionistiche che abbiamo visto in questi mesi, ma occorre una condivisione di responsabilità che dobbiamo al comune richiamo allo stato di diritto e al principio di legalità". Fiandaca (Pd): standard Italia indegni Paese europeo "Condivido pienamente e da tempo le opportune sollecitazioni del presidente Napolitano ad affrontare seriamente, una buona volta, il nodo delle carceri. Da penalista provo un sentimento di particolare disagio per la drammaticità della situazione carceraria. Molti detenuti vivono in condizioni che contraddicono in maniera vistosa gli standard di civiltà adeguati a un Paese europeo". Lo dice Giovanni Fiandaca, docente universitario e candidato del Pd alle Europee nel collegio Sicilia-Sardegna. "I maggiori partiti politici - aggiunge - dovrebbero a loro volta avere il coraggio di liberarsi dalla preoccupazione di perdere consenso elettorale da parte del versante giustizialista dell’opinione pubblica: in non pochi casi, piuttosto che ricorrere a più carcere, sarebbe necessario potenziare la gamma delle misure alternative". "Apprezzo molto pertanto il coraggioso e costante impegno di Marco Pannella su questo tema", conclude. Giustizia: Russo (Cd); nostri penitenziari al collasso, decreti svuota-carceri sono inefficaci Adnkronos, 29 aprile 2014 "Le carceri italiane sono al collasso. Sarà passato sì e no due mesi dall’approvazione del decreto svuota-carceri eppure la questione ritorna, anche questa mattina, prepotentemente sulle pagine della stampa nazionale". Lo dichiara, in una nota, Rudi Russo, consigliere regionale toscano di Centro Democratico e candidato alle prossime elezioni europee nella lista Scelta Europea del Centro Italia. "Il problema è evidente e sotto gli occhi di tutti: 64mila detenuti a spartirsi circa 47mila posti nei nostri istituti penitenziari". "È la soluzione che si porta che è miope e ha spesso soltanto l’effetto di un mero tampone", incalza Russo. "Il problema, infatti, è tutto europeo. L’assenza di una politica estera e di un esercito comuni si ripercuoto in modo drammatico sulle condizioni anche delle carceri italiane. Con i suoi ventotto eserciti, che costano la bellezza di 120 miliardi di euro ogni anno, e con i suoi ventotto ministri degli esteri, infatti, l’Unione Europea non è altro che un carrozzone debole, disunito e disorganizzato. Così non va!". "Conosco bene la situazione delle nostre carceri", spiega Russo. "Nel corso del mio mandato da consigliere regionale, infatti, ho avuto modo di visitare quasi tutte le carceri toscane, ho aderito sempre con convinzione al Ferragosto in Carcere promosso dai Radicali, mi sono impegnato in prima persona per alleviare almeno le condizioni sociosanitarie dei detenuti, una competenza questa strettamente regionale". "E se guardiamo ai numeri, ci accorgiamo che dei circa 64mila detenuti presenti in Italia, un terzo, una cifra pari a oltre 20mila persone, sono extracomunitari, in particolare marocchini e tunisini", spiega Russo. "Alla luce di questi dati, immagino che cosa potrebbe davvero fare un’Unione Europea capace di parlare con una sola testa e con una sola voce. Sarebbe stato possibile sostenere la Primavera Araba e avviare un vero percorso di pacificazione e istituzione di governi democratici in tutto il Nord Africa. Sarebbe stato possibile, con questi governi, stipulare accordi sull’erogazione della pena in patria e regolare davvero, non con la mera repressione, i flussi migratori verso il nostro Paese e il nostro Continente". "Questo non è un sogno ad occhi aperti, ma un progetto che riguarda non soltanto l’emergenza carceri ma il futuro stesso dell’Unione Europea", conclude Russo. "Un progetto che si potrà realizzare soltanto riprendendo e portando a compimento la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa". Giustizia: Ucpi; dopo le parole di Napolitano politica vari indulto, tempo dilazioni è finito Ansa, 29 aprile 2014 "La speranza è che l’indicazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, come al solito chiara ed impietosa rispetto alla necessità di risolvere il problema delle disumane condizioni della detenzione in Italia, sia raccolta dalla classe politica". L’auspicio è dell’Unione delle Camere Penali, secondo cui è "giusto che Governo, Parlamento e forze politiche si assumano la piena responsabilità della situazione, ma sarebbe ancor più giusto che, smentendo il detto manzoniano, la politica riesca a darsi, prendendolo in prestito dal Capo dello Stato, quel coraggio che è necessario per adottare i provvedimenti emergenziali, in particolare l’indulto, che la situazione impone". Per l’Ucpi il tempo delle "dilazioni e delle tattiche elettorali è ormai esaurito, e la scadenza del termine imposto dalla sentenza Torreggiani non può essere ignorato. Se Napolitano parla oggi, il messaggio, chiarissimo, è che il carcere non può attendere fino a domani: figurarsi fino alle elezioni europee del 25 maggio". Giustizia: Ugl; preoccupazione per effettiva soluzione a sovraffollamento delle carceri Adnkronos, 29 aprile 2014 "La situazione descritta oggi dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è ben lontana dalla realtà e avvalora le nostre preoccupazioni sull’effettiva risoluzione dei problemi che hanno fatto scattare le condanne della Corte europea di Strasburgo per il sovraffollamento delle nostre carceri". Lo scrive in una nota il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, riferendosi alle affermazioni del capo del Dap, Giovanni Tamburino. "Lo stratagemma dell’apertura delle celle durante il giorno e lo stazionamento dei detenuti in completo ozio nelle sezioni non si può certo considerare una soluzione per l’insufficienza dei posti detentivi - sottolinea Moretti. Si tratta anzi di una gestione improponibile con l’attuale dotazione strumentale e organica. Inoltre, - continua il sindacalista - riteniamo sia colpevolmente sottaciuto dal Presidente Tamburino che di fatto le novità introdotte a seguito della ormai tristemente famosa sentenza Torreggiani stanno solo rischiando di creare il caos all’interno delle strutture, che comunque continuano ad essere sovraffollate e nelle quali si stanno moltiplicando le aggressioni". Giustizia: Sappe; svuota-carceri non hanno svuotato nulla, solo 5mila detenuti in meno Comunicato stampa, 29 aprile 2014 "Ci vuole davvero un bel coraggio ed una buona dose di faccia tosta per sostenere che il sovraffollamento penitenziario è stato dimezzato, come ha fatto oggi il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino in una intervista al quotidiano Repubblica. Non è manipolando i dati che si può dichiarare terminata l’emergenza delle carceri italiane". Lo sostiene Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "I numeri parlano più di mille chiacchiere ed anche di alcune bugie di Tamburino", prosegue. "I detenuti nelle carceri del Paese il 31 marzo scorso erano 60.197 (57.644 uomini e 2.553 donne). Lo stesso giorno un anno fa, ossia il 31 marzo 2013, erano complessivamente 65.831. Quindi, in un anno, c’è stato un calo oggettivo di 5.634 detenuti ma non si è dimezzato alcunché! E si tenga conto che nel frattempo sono state varate 4 leggi cosiddette svuota carceri che in realtà non hanno svuotato un bel niente, come bene sanno i poliziotti penitenziari che lavorano negli istituti di pena in prima linea tra gente che tenta il suicidio, che si lesiona gravemente il corpo, che si picchia con altri carcerati e che aggredisce Agenti". "L’Amministrazione Penitenziaria sembra vivere in una realtà virtuale e non si rende evidentemente conto della drammaticità del momento, che costringe le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria a condizioni di lavoro sempre più difficili", aggiunge Capece. "Anche la manipolazione dei posti regolamentari in carcere, che si continua a sostenere essere di 48mila posti quando invece sono almeno 6mila in meno, è sintomatica di una Amministrazione penitenziaria che naviga a vista, distante anni luce dalla realtà. Si contano tra i posti regolamentari anche quelli di sezioni e padiglioni detentivi chiusi per lavoro! Che serietà è quella di sottovalutare la realtà?". Capece plaude al nuovo appello del Capo dello Stato Napolitano e alla sua richiesta di sapere cosa è stato fatto di concreto in relazione al messaggio del Quirinale al Parlamento sulle criticità penitenziarie, anche in relazione alla scadenza fissata dall’Europa sulla sentenza Torreggiani. Ma aggiunge: "pensare di risolvere i problemi del sovraffollamento delle carceri con leggi che daranno la possibilità a chi si è reso responsabile di un reato di non entrare in carcere, è sbagliato, profondamente sbagliato ed ingiusto. Le soluzioni possono essere diverse: nuovi interventi strutturali sull’edilizia penitenziaria, l’aumento di Personale di Polizia e del Comparto ministeri e di risorse, espulsione dei detenuti stranieri, introduzione del lavoro obbligatorio durante la detenzione, anche modifiche normative sulle disposizioni penale, riservando il carcere ai casi che lo meritano davvero. Ma intaccare la certezza della pena per coprire le inefficienze e le inadempienze dello Stato è sbagliato. Certo, il dato oggettivo è che il carcere, così come è strutturato e concepito oggi, non funziona. Lo sanno bene i poliziotti che stanno nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno. Con buona pace delle bugie di Tamburino". Giustizia: Europee 2014; in Italia solo 1 detenuto su 10 tra gli aventi diritto riesce a votare www.improntalaquila.org, 29 aprile 2014 Elezioni europee 2014 alle porte, ma tra gli aventi diritto di voto c’è qualcuno che non riuscirà a raggiungere le urne. Sono i detenuti rinchiusi nei diversi penitenziari lungo lo stivale. Ad oggi sono circa 30 mila i detenuti che hanno diritto al voto, ma tra questi soltanto uno su dieci riuscirà a esprimere la propria preferenza. A snocciolare i numeri di una complessa questione ad un mese delle elezioni è l’associazione Antigone. Secondo i dati raccolti dalle ultime consultazioni elettorali del 24 e 25 febbraio 2013, i detenuti che votanti sono stati 3.426. Un dato che oscilla, visto che nel 2008, i votanti sono stati soltanto 1.368, ma nel 2006 erano ancora una volta il 10 per cento degli aventi diritto. Di nuovo uno su dieci. Tuttavia, dati ufficiali su quanti abbiano diritto ad esercitare il voto tra le mura carcerarie non ce ne sono "poiché il ministero della Giustizia si dichiara non depositario di tale dato". Certi, soltanto quelli di quanti hanno avuto la possibilità di votare. E dalle ultime elezioni emerge chela Puglia è stata la regione con il maggior numero di votanti, 552 su 4.127 presenti (il 13,3 per cento), seguita dalla Sicilia, 524 su 7.111 presenti (7,3 per cento), mentre in Lombardia hanno votato in 374 su 9.222 presenti (4 per cento), nel Lazio 484 su 7.183 presenti (6,7 per cento), in Umbria hanno votato solo 25 detenuti su 1.606 presenti (1,5 per cento), meno che in Basilicata, dove su 462 presenti hanno votato 38 detenuti (8,2 per cento). Giustizia: Psichiatria Democratica; bene Napolitano, ora intervenire sull’emergenza Opg Ansa, 29 aprile 2014 "Ancora una volta il Presidente Napolitano, nel suo messaggio di ringraziamento a Papa Francesco, ha dimostrato la sua sensibilità sul tema della condizione carceraria - afferma Psichiatria Democratica in una nota - perorando "la causa delle migliaia di detenuti ristretti in condizioni disumane in carceri sovraffollate e inidonee", ribadendo che "in effetti, è ora - a distanza di oltre sei mesi dal messaggio da me rivolto al Parlamento a questo proposito - di fare il punto sulle misure adottate e da adottare, anche in ossequio alla nota sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo". Psichiatria Democratica "non può che condividere la sollecitudine del Capo dello Stato, ricordando che esiste un’altra emergenza, altrettanto drammatica e urgente che attende soluzione: quella delle circa 1000 persone ancora internate negli Ospedali psichiatrici giudiziari. La recente conversione in legge del "Decreto 31 marzo 2014, numero 52, recante disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari" apre una nuova fase del processo di chiusura sulla cui attuazione occorre attentamente vigilare perché ne siano rispettati i tempi e quella prevista sia veramente l’ultima proroga". Psichiatria Democratica, prosegue la nota, si impegna, "in tutte le sedi istituzionali, affinché le Regioni presentino - entro la scadenza del 15 giugno - le necessarie revisioni dei progetti di realizzazione delle Rems, col loro drastico ridimensionamento alla luce dei nuovi indirizzi della Legge, e formulino, d’intesa con i Dipartimenti di salute mentale (Dsm) competenti, accurati progetti terapeutico riabilitativi individuali per ciascun internato". L’associazione chiede inoltre "e con forza, che i fondi che verranno risparmiati per la riduzione che si avrà del numero delle residenze e che tutto il personale previsto per la gestione delle stesse, venga subito destinato ai Dsm, in ragione delle gravi carenze economiche e di operatori che si registrano in tutto il Paese, rilanciando e sostanziando, nei fatti, le pratiche territoriali così come richiedono gli utenti, i loro familiari e tutte le figure professionali impegnate". Giustizia: reato di tortura, se è così… meglio nessuna legge di Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova) Il Manifesto, 29 aprile 2014 Il G8 di Genova del 2001 fu un abisso di illegalità: in quei giorni l’abuso di potere era la regola, non l’eccezione. In quei giorni entrammo in un tunnel dal quale, a ben vedere, non siamo ancora usciti. Perché non abbiamo fatto davvero i conti con quella tragica vicenda. Non abbiamo tratto gli insegnamenti dovuti da quella terribile lezione. Non ci sono stati cambiamenti veri, è mancato un ripudio da parte delle istituzioni di quei comportamenti, sono rimaste lettera morta le riforme necessarie per uscire a testa alta da quel tunnel di protervia e autoritarismo. E dire che sul piano giudiziario abbiamo ottenuto risultati senza precedenti, con un ampio riconoscimento delle verità raccontate da centinaia di cittadini e le condanne di decine di agenti, funzionari e altissimi dirigenti di polizia per le vicende Diaz, Bolzaneto e una lunga di serie di episodi avvenuti in piazza pestaggi, arresti arbitrari impropriamente definiti minori. Ci sono almeno tre riforme essenziali che scaturiscono dall’esperienza genovese e che in un paese "normale" sarebbero già realtà. La prima: una legge ad hoc sulla tortura. La seconda, una rivoluzione nei criteri di formazione degli agenti e nei rapporti fra le forze dell’ordine e la società civile. Terza, l’obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di avere codici identificativi sulle divise. Voglio soffermarmi sul primo punto. Ciò che intendiamo per tortura ha a che fare con il potere, ossia con l’abuso di potere. La tortura vìola i diritti fondamentali del cittadino nei suoi rapporti con le istituzioni. Si manifesta quando una persona è sottoposta a una limitazione della sua libertà personale ad opera del pubblico ufficiale. È una violenza, fisica o psicologica, che umilia chi la subisce ma anche chi la commette, perché lede gravemente la dignità e la credibilità dell’istituzione che rappresenta. È quindi una violazione della dignità di tutti i cittadini, e perciò ci indigna. Ora, la legge approvata al Senato, su questo punto fondamentale, essenziale, irrinunciabile, è del tutto inaccettabile. Qualifica la tortura come reato comune, che può essere commesso da chiunque nella sua dimensione privata, nei rapporti con altre persone, e si limita a stabilire un’aggravante se quell’atto è commesso da un pubblico ufficiale. La tortura non può essere un reato comune, se vogliamo che questa riforma sia uno strumento di ricostruzione di un’etica democratica all’interno delle forze dell’ordine. Sappiamo tutti che un testo di legge sulla tortura è appena stato approvato dal Senato e attende l’esame da parte dall’altra camera. C’è stata e c’è una pressione esterna per arrivare a una rapida approvazione della legge, in modo da rispettare l’impegno preso dall’Italia con le istituzioni internazionali oltre vent’anni fa. Questo testo di legge, che è frutto di una mediazione più esterna che interna alle aule parlamentari, poiché recepisce una precisa richiesta arrivata dai vertici delle forze dell’ordine, qualifica la tortura come reato comune e non come reato specifico del pubblico ufficiale. Si discosta cioè dagli standard internazionali e anche dal buon senso. Dev’essere chiaro che introdurre questa figura di reato nei codici serve principalmente a fini di prevenzione. Approvandola, il parlamento manda un chiaro messaggio alle forze dell’odine: dice che abusare dei detenuti, violare l’integrità di cittadini sottoposti a limitazioni legittime della libertà, è un’infamia insopportabile. Dev’essere un messaggio forte e chiaro, visto che l’Italia in materia di abusi sui detenuti ha un curriculum preoccupante, prima e dopo Genova G8. Bolzaneto è stato la punta di un iceberg. Non può essere inviato un messaggio ambiguo, depotenziato nella sua portata. Sappiamo bene che i vertici delle forze dell’ordine, con il sostegno - purtroppo - dei sindacati di polizia, sono i principali avversari dell’introduzione del reato di tortura. Hanno sempre interpretato questo progetto di riforma come un’onta, come un attacco all’affidabilità e alla credibilità delle forze dell’ordine. Finora sono riusciti a bloccare tutti i tentativi di approvare una legge. Ma l’inadempienza degli obblighi internazionali, dal punto di vista del parlamento, dev’essere superata, perciò durante ogni legislatura il tema è stato riproposto. In questa legislatura il senatore Manconi ha presentato un testo di legge che ricalcava la formula standard prevista dalle Nazioni Unite, ma il testo è stato cambiato e stravolto nella discussione parlamentare e si è attestato sul piano B maturato in seno alle forze dell’ordine: il piano B è appunto il no assoluto alla qualificazione della tortura come reato del pubblico ufficiale. Ho ben presente la discussione in corso, le posizioni assunte dal senatore Manconi e da altri soggetti che in questi anni si sono spesi su questo terreno: c’è una spinta affinché questa legge sia approvata comunque, in modo che la lacuna normativa sia colmata. Ho ben presente però anche un’altra riflessione, svolta in seno al nostro comitato, e attiene al senso del nostro lavoro nella società. Che funzione hanno comitati come il nostro, composti da poche persone, vittime di abusi o familiari di persone ferite, umiliate, spesso uccise in stragi, attentati eccetera? Ebbene, la risposta che ci siamo dati è che questi comitati sono impor tanti perché hanno la vocazione a dire la verità. Possono dirla più e meglio di altri perché sono liberi da condizionamenti di qualsiasi tipo, non hanno ruoli politici da svolgere, né progetti di qualsivoglia natura da portare avanti. Si occupano di questioni specifiche e su quelle concentrano tutta la loro attenzione. Allora la mia verità oggi è che questa legge sulla tortura è una legge sbagliata e non va approvata. Non sarebbe un passo avanti. L’Italia non è nelle condizioni di introdurre normative sulla tutela dei diritti fondamentali, specie con riguardo alla condotta e al funzionamento delle forze dell’ordine, che si pongano al di sotto degli standard internazionali. Le nostre forze dell’ordine non sono una casa di vetro, e dobbiamo aiutarle a diventarlo. Le nostre forze dell’ordine non hanno bisogno d’essere blandite e assecondate nei loro meccanismi di chiusura verso il resto della società; devono essere aiutate ad aprirsi. Il reato di tortura, in ogni Paese democratico, è uno strumento formativo, un punto di riferimento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. Solo una mentalità distorta, una cultura democratica debole e involuta, può interpretare l’introduzione del reato di tortura come un attacco alle forze dell’ordine e alla loro credibilità. Un motivo in più per avere una legge vera, all’altezza degli evidenti bisogni del nostro paese. Si dirà: ma una legge non perfetta è meglio di nessuna legge. Non credo che sia così. Stiamo parlando di un principio fondamentale che non può essere oggetto di trattative al ribasso. Il parlamento deve assumersi le sue responsabilità e applicare gli standard internazionali: la ricerca di una soluzione gradita ai vertici delle forze dell’ordine - attestati su posizioni retrograde e corporative, molto distanti dai valori democratici e costituzionali - non è su questo punto accettabile. Meglio nessuna legge che una legge così, perché una volta approvata una nuova normativa, il discorso sarebbe chiuso definitivamente. Sarebbe un errore politico irrimediabile. E poiché l’introduzione del reato di tortura serve a prevenire gli abusi, meglio tenere aperta la discussione, rendere evidente il cedimento in corso, e rinunciare a questa corsa ad approvare una legge purchessia, come se si trattasse di segnare un punto in termini di produttività legislativa. Non è di questo che ha bisogno un Paese paurosamente incamminato sulla strada dell’autoritarismo. Lazio: il Garante; sconcertante polemica su numero detenuti, trovare soluzione di sistema Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2014 "Trovo sconcertante che l’ennesimo appello di Napolitano sulla questione delle carceri, che fa seguito alla promessa di interessamento del Santo Padre, venga ridotto, come sta avvenendo in queste ore, ad una avvilente guerra di numeri sui detenuti presenti nelle carceri del Lazio". Lo dichiara in una nota il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. "Fin dall’approvazione delle prime norme denominate svuota carceri - ha aggiunto Marroni - abbiamo sempre obiettato, inascoltati che tali misure, se non seguite da una radicale rivisitazione dei codici e delle leggi nel senso di prevedere il carcere come extrema ratio, avrebbero avuto gli effetti di un palliativo. La questione, dunque, non è quanti detenuti sono usciti dal carcere e in quanto tempo, ma quanto si dovrà aspettare, senza riforme di sistema, prima di tornare al punto di partenza". "In tale ottica - ha concluso Marroni - la verifica richiesta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, su quanto è stato fatto e quanto resta da fare sulla questione sulle carceri mi sembra di una chiarezza sconvolgente. Come ha ricordato il neo Ministro della Giustizia Andrea Orlando, con una onesta intellettuale che gli fa onore, le misure fino ad ora adottate non sono risolutive nell’immediato ma servono a garantire maggiormente i diritti delle persone private della libertà personale. Napolitano ha ricordato al Governo e al Parlamento che spetta a loro, e senza ulteriori indugi, dare forza a questa nuova stagione di tutela dei diritti" Marche: il Garante dei detenuti contro chiusura del carcere-modello di Macerata Feltria Ansa, 29 aprile 2014 È destinato alla chiusura, causa spending review, il carcere mandamentale di Macerata Feltria (Pesaro Urbino), una struttura sperimentale modello in cui i detenuti a fine pena opera in culture florovivaistiche, nella produzione di miele, olio e zafferano. Contro questa decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), interviene il Garante regionale dei detenuti Italo Tanoni, con una lettera indirizzata al capo del Dap Giovanni Tamburino, al presidente dell’Assemblea Legislativa delle Marche Vittoriano Solazzi e al presidente della Giunta regionale Gian Mario Spacca. Il Garante aveva visitato la struttura nel marzo scorso: "con i responsabili del carcere mandamentale se ne è prospettato il pieno rilancio anche per l’unicità dell’esperienza di produzione agricola che viene condotta in quella sede", "un fiore all’occhiello", fortemente voluto dall’ex provveditore Raffele Jannace per il reinserimento dei detenuti "nel lavoro e nella società", tanto che "alcuni di loro "sono stati addirittura assunti da una ditta vitivinicola locale". "Sembra un paradosso - conclude il Garante dei detenuti delle Marche - che in un momento in cui anche il presidente Napolitano e papa Francesco si preoccupano per la situazione disumana dei nostri carcerati, su un altro versante esperienze più umanizzanti come quella di Macerata Feltria vengano in un attimo cancellate dal Dap a causa dei tagli lineari". Toscana: la Regione stanzia 330mila euro per dimissioni pazienti dall’Opg di Montelupo Ansa, 29 aprile 2014 Un plafond di 330 mila euro nel 2014 per una serie di percorsi terapeutici e riabilitativi rivolti ai pazienti reclusi nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo, per iniziare a dare attuazione al percorso di superamento dell’Opg. È quanto deciso oggi dalla Giunta regionale toscana. A illustrare l’atto è stato l’assessore al diritto alla salute Luigi Marroni che ha ricordato come "abbiamo già raggiunto un risultato notevolissimo riuscendo a mettere in dimissione 56 pazienti invece che tenerli all’interno della struttura. Questo è un passaggio per arrivare poi alla chiusura definitiva dell’ospedale". Le risorse saranno destinate alle Asl per la presa in carico terapeutico-riabilitativa da parte dei servizi socio-sanitari territoriali. La Regione, spiega una nota, nell’ambito del percorso più ampio che prevede il superamento dell’Opg entro il 31 marzo 2015, ha avviato la dimissione dei pazienti residenti in Toscana che abbiano maturato i requisiti sanitari e giuridici già nel 2012. Dopo i 25 nel 2012, nel 2013 ne sono stati dimessi altri 31. Compreso lo stanziamento previsto per il 2014, è stato finora messo a disposizione delle Asl oltre 1 milione e mezzo di euro per l’inserimento degli internati in progetti di terapia e riabilitazione individuali. Al 31 marzo 2014 nella struttura di Montelupo sono ancora ospitate 101 persone, 35 delle quali residenti in Toscana. Intanto, oggi, Donato Capece, segretario Generale del Sappe, rende noto che "sabato sera un assistente capo della Polizia penitenziaria in servizio nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino è stato aggredito da un internato". "L’internato - spiega Capece, nel mentre il collega era intento a chiudere una cella, gli ha sventato un pugno al volto. Poi ha proseguito con spintoni facendo sbattere l’assistente con la testa al vano delle scale del reparto". Campania: attività sportiva in Istituti penitenziari regionali, Secondigliano progetto pilota www.napolivillage.com, 29 aprile 2014 Si è tenuto ieri mattina, presso la sede del Coni Campania, a Napoli, un incontro sulle attività sportive svolte negli istituti penitenziari della Campania a cura del Coni. Sono intervenuti il presidente del Coni Campania, Cosimo Sibilia, con il vice presidente vicario Amedeo Salerno, il responsabile del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli, Claudio Flores, i delegati provinciali del Coni di Napoli e Salerno, i referenti delle strutture penitenziarie coinvolte nelle province di Napoli, Avellino e Salerno, con i tecnici che svolgono servizio nelle stesse strutture. La notizia principale è stata data dal dottor Flores, che ha comunicato l’indicazione, da parte del Ministero della Giustizia e del Coni, dell’istituto di Secondigliano come struttura pilota a livello nazionale per l’attività sportiva svolta negli istituti penitenziari. Ma, prima che il progetto nazionale nascesse, in Campania da anni questo tipo di attività viene svolta con numeri importanti. Sono già otto gli istituti coinvolti (quattro a Napoli, due ad Avellino e due a Salerno) e altre cinque strutture sono state individuate per avviare l’attività nei prossimi mesi (una ad Avellino, tre a Caserta e una a Salerno). In totale, sono oltre trecento i detenuti che stanno svolgendo attività sportiva nelle carceri, grazie all’impegno degli istruttori volontari che il Coni ha destinato a questo progetto, e il numero è destinato a salire. "Questo progetto ha riscosso un grande successo tra i detenuti delle carceri campane coinvolte - spiega il dottor Flores. Purtroppo i fondi che il Ministero ci mette a disposizione sono molto limitati ma facciamo tutto il possibile per portarlo avanti, grazie all’impegno del Coni, che ci affianca. Con maggiori fondi, che proveremo a reperire, potremmo migliorare le strutture destinate allo sport e coinvolgere un numero sempre maggiore di detenuti". L’importanza di quest’attività, anche per il reinserimento sociale dei detenuti, è stata sottolineata dal presidente del Coni Campania, Cosimo Sibilia: "La Campania è una regione pilota per questo progetto. Prima che a livello nazionale si iniziasse a programmare l’attività sportiva negli istituti penitenziari, infatti, in Campania diverse strutture già la svolgevano grazie all’impegno del Coni, che ha messo a disposizione i tecnici volontari, che svolgono attività gratuitamente, e diverse attrezzature. Il Coni nazionale ha appoggiato il nostro progetto, ampliandolo fuori regione. Il prossimo obiettivo è di poter portare alcuni di questi detenuti a svolgere attività anche fuori dagli istituti carcerari". Una strada affascinante, che in alcuni casi è stata già tentata. Nell’istituto di Lauro, infatti, si è svolta lo scorso anno, in esterna, una partita tra detenuti e rappresentanti delle forze dell’ordine, vinta dai primi. È stata discussa, nel corso dell’incontro, anche l’idea di svolgere dei corsi di formazione per istruttori di primo livello all’interno delle strutture, per dare ai detenuti un titolo per il loro reinserimento sociale dopo la scarcerazione. Un’ipotesi suggestiva la cui fattibilità sarà verificata nelle prossime settimane dal Coni e dalle altre istituzioni coinvolte. Abruzzo: 121 agenti penitenziari candidati a elezioni, nelle carceri c’è carenza di organico di Maria Trozzi www.quiquotidiano.it, 29 aprile 2014 Sono 121, in Abruzzo, gli agenti della Polizia Penitenziaria candidati per le elezioni del prossimo 25 maggio 2014. Nulla da eccepire se non fosse per il fatto che i 1.460 poliziotti impiegati nei penitenziari abruzzesi sono pochi, sotto organico, a loro si chiedono sacrifici in periodo di spending review, ma qualcuno ne approfitta se capita l’occasione. Perdere una chance come quella del 25 maggio è da pazzi, dunque tutti in lista per essere votati con tanto di retribuzione per un mese e senza lavorare nell’istituto di pena. Spesso poi i candidati in divisa non prendono che una manciata di voti. L’unica Casa di reclusione immune dalla febbre elettorale è quella di Avezzano. Ligi al dovere e responsabili nessuno dei poliziotti marsicani, impiegati nel carcere di San Nicola, si candida per questa tornata elettorale, rifiutando così i vantaggi obbligati dall’art. 81 della Legge 121/81, che concede a tutte le forze di polizia, in caso di candidatura, un mese di aspettativa retribuita per esigenze di campagna elettorale. Nessuno può rinunciare al beneficio, il problema è che, in periodi come questo, il vincolo dell’aspettativa retribuita per gli agenti candidati è visto da molti come un privilegio tanto da convincere un consigliere comunale di Sulmona, Salvatore Di Cesare, a chiedere un intervento legislativo per l’eliminazione del privilegio. L’iniziativa trova favorevole molte persone e a sostenere il politico Peligno è anche Mauro Nardella, segretario regionale Uil Penitenziari, già intervenuto sulla vicenda proprio per la stessa ragione. Perché l’iniziativa parte da Sulmona? Semplicemente perché è il carcere dove è più sentita la vocazione politica degli agenti visto che a candidarsi sono ben 42 unità impiegate nel penitenziario di massima sicurezza. Maglia nera per la valle Peligna se è vero, come dicono, che il numero di poliziotti della penitenziaria candidati cresce con l’intensificarsi dei problemi. Secondo in classifica il carcere Le Costarelle dove a candidarsi sono 24 agenti, ma i problemi di organico del penitenziario del Capoluogo di regione non sembrano tanto gravi come quello della città ovidiana. Seguono a ruota il complesso di Castrogno, a Teramo, che fino al 25 Maggio dovrà fare a meno di 18 poliziotti della Penitenziari e anche la carenza di organico si era fatta già sentire e poi Lanciano, meno 12 agenti per il carcere di villa Stanazzo che scoppia di detenuti e non di personale. Controllati e poco interessati all’arte del parlare e promettere gli agenti della casa di reclusione di Vasto, solo in 8 si candidano e 7 a San Donato, diciamo che il penitenziario di Pescara è nella norma. Viste le esigenze degli agenti di Polizia penitenziaria messe in evidenza in questi mesi a cui anche il segretario del Ministro della Giustizia, Michele Fina, sta cercando di porre rimedio con una serie di operazioni, interpelli regionale e nazionali, sembra sia arrivato il momento di cambiare le cose. Ne sono convinti anche i colleghi degli agenti candidati che subiscono una volta di troppo la politica e alla stessa preferiscono la diplomazia del lavoro. Giarre (Ct): muore detenuto di 32 anni, era cardiopatico con ventilatore polmonare Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2014 La Procura di Catania ha aperto un’inchiesta, senza indagati, sulla morte di un detenuto di 32 anni, Daniele Sparti, catanese, avvenuta il 25 aprile scorso nel carcere di Giarre. Secondo fonti investigative il decesso è legato un infarto. L’uomo, che era cardiopatico e sottoposto a ossigenoterapia, visto anche il peso non comune dell’uomo, stava scontando una condanna a 8 anni (doveva scontare ancora altri 5 anni) e tra due giorni era previsto il pronunciamento del Tribunale di Sorveglianza sulla concessione o meno dei domiciliari in quanto il carcere era un ambiente incompatibile con lo stato di salute del detenuto che, a più riprese era stato ricoverato in strutture ospedaliere. La salma del 32enne, al momento, si trova nell’obitorio dell’ospedale Garibaldi dove sarà eseguita l’autopsia. La notizia del decesso, che ha trovato conferme in fonti investigative e della Procura, è stata resa nota oggi dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Il Provveditore Veneziano: morte detenuto a Giarre non è caso di malasanità "Non è un caso di cattiva sanità all’interno delle carceri". Lo dice Maurizio Veneziano, capo dell’amministrazione penitenziaria in Sicilia, in merito alla morte del giovane detenuto avvenuta venerdì nella casa circondariale di Giarre, in provincia di Catania. "Il detenuto - spiega Veneziano - era alto 1 metro e 53 e pesava 140 kg. Aveva un ventilatore polmonare notturno, uno strumento meccanico. Era assistito ed è stato ricoverato più volte in strutture sanitarie, per le gravi condizioni in cui versava". "Per due volte - spiega ancora il provveditore - il personale sanitario aveva certificato l’incompatibilità con il regime penitenziario, e per dopodomani era stata fissata l’udienza per la detenzione domiciliare. Il Tribunale di Sorveglianza avrebbe valutato se concedere la misura alternativa alla detenzione per gravi motivi di salute vista l’incompatibilità certificata dai medici". "Previo nulla osta dell’autorità giudiziaria - conclude Veneziano - sarà comunque avviata un’inchiesta interna, e relazionerò al Dap". L’ex Garante Fleres: Giarre è Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti "La struttura di Giarre è un Istituto a custodia attenuata poiché ospita, prevalentemente, detenuti per motivi di tossicodipendenza". Lo ha detto all’Adnkronos Salvo Fleres, ex garante dei diritti per i detenuti siciliani, in merito alla morte nel carcere di Giarre, di un detenuto 32enne, sul cui decesso la Procura di Catania ha aperto una inchiesta senza indagati. Fleres ricorda che quella di Giarre, "è una struttura che ha una trentina d’anni, non è particolarmente vecchia come Piazza Lanza di Catania, l’Ucciardone di Palermo o Gazzi di Messina". "Il carcere giarrese - evidenzia Fleres - è dotato di strutture necessarie per il recupero, ha una serra, oltre a laboratori e campo sportivo. Se fosse opportunamente sostenuto potrebbe fornire una prospettiva molto interessante per il futuro ai detenuti che ospita". In Sicilia Ufficio Garante "congelato" da 8 mesi "Uno dei paradossi della Sicilia è che questa regione ha deciso bene di congelare l’ufficio del garante dei diritti del detenuto lasciando privi di assistenza tra i 6500 e i 7000 detenuti e senza lavoro 15 dipendenti. Mi risulta che nell’ufficio del Garante, sia in quello di Catania che in quello di Palermo, giacciono inevase oltre mille lettere di altrettanti detenuti e non escludo che fra queste non vi dia una richiesta di aiuto, un appello, da parte di questo ragazzo do Giarre". "La responsabilità morale di qualunque cosa accada di irregolare nelle carceri siciliane in questo momento - conclude - è di chi permette che questo ufficio non abbia avuto il proseguo di attività che svolgeva". Sappe: a Giarre un solo agente controlla stabilmente 80-90 detenuti "Il detenuto era presente nella sezione a custodia attenuata, dove un solo agente di Polizia Penitenziaria controlla stabilmente 80/90 detenuti", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Il detenuto, che era infermo, avrebbe dovuto discutere 5 giorni dopo, presso la Magistratura di Sorveglianza di Catania, la possibilità di poter uscire dal carcere per scontare la pena fuori, sul territorio. Purtroppo per lui non ce l’ha fatta, ma questa morte - ancorché dovuta a cause naturali - deve fare riflettere sulla drammaticità delle attuali condizioni penitenziarie. Persone disagiate, poveracci, che probabilmente mai godranno di interessamenti istituzionali autorevoli per le loro condizioni di vita in cella". "Quel che mi preme mettere in luce" aggiunge "è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come il sovraffollamento, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso - aggiunge ancora il leader dei poliziotti penitenziari. "Negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili". Pisa: al via telemedicina e telediagnostica per il Centro clinico del carcere Don Bosco Italpress, 29 aprile 2014 La telemedicina e la telediagnostica entrano nel carcere Don Bosco di Pisa, per consentire di curare al meglio i detenuti. Una delibera approvata stamani dalla giunta destina alla Asl 5 di Pisa la somma di 19.600 euro (il 70% del costo complessivo previsto per la completa realizzazione del progetto presentato dall’azienda sanitaria pisana, che è di 28.000 euro). Il carcere don Bosco di Pisa accoglie detenuti di media e alta sicurezza, per un totale di 64 posti letto, di cui 9 femminili, che provengono dall’intero territorio nazionale per ricoveri di tipo ospedaliero di bassa e media intensità, che necessitano di interventi anche di tipo chirurgico. Il Centro diagnostico-terapeutico -Centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa è considerato a livello nazionale tra i centri clinici necessari e insopprimibili, per i quali è richiesto l’impegno delle Regioni ad una loro implementazione. Il progetto presentato dalla Asl 5 di Pisa, diretto ad attivare telemedicina e telediagnostica dentro il carcere Don Bosco, si pone l’obiettivo di consentire la corretta gestione di alcune urgenze sanitarie, con modalità che possono garantire una migliore qualità dell’assistenza e ridurre il ricorso improprio a uscite esterne verso il pronto soccorso. Questo, grazie all’attivazione dei collegamenti telematici e all’acquisto di apparecchiature necessarie per la lettura, registrazione e refertazione dei parametri clinici dei pazienti detenuti ricoverati e affetti da pluripatologie. Cagliari: Sdr; caso Scardella. dopo 28 anni arriva solidarietà di Presidente Repubblica Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2014 "Partecipazione, vicinanza, solidarietà. Sono le tre parole che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto alla famiglia Scardella ricordando la tragica morte di Aldo, vittima di un’ingiusta detenzione 28 anni fa. La battaglia di suo fratello Cristiano per onorarne la memoria e venire a conoscenza delle ultime ore di vita di Aldo ha ottenuto un primo atto ufficiale dallo Stato, l’ammissione di un irreparabile errore giudiziario". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento alla missiva che il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica ha inviato a Cristiano Scardella in risposta alla sua accorata lettera. "L’autorevole missiva che riporta l’attualità su una vicenda ancora oggi particolarmente viva nell’ambiente giudiziario oltre che nel pensiero dei familiari, coincide - sottolinea Caligaris - con diversi aspetti problematici della realtà detentiva isolana e nazionale. Non a caso il Presidente Napolitano è tornato sulla questione dell’emergenza sovraffollamento sottolineando l’attenzione di Papa Francesco alle condizioni di salute di Marco Pannella, colto da malore durante lo sciopero della fame e della sete. Condizioni particolari che tengono profondamente unita l’Italia, da Buoncammino a Secondigliano a Rebibbia, nella vergogna dell’assenza dei diritti civili in ambito detentivo. La partecipazione del Presidente della Repubblica al dolore della famiglia Scardella avviene in un momento speciale per Cristiano. È stato infatti appena pubblicato "Fuori dalla Gabbia" che ricostruisce la vicenda di Aldo Scardella, proponendo documenti inediti. Edito da Bonfirraro, il lavoro, realizzato con la collaborazione di Tatjana Goex, sarà presentato a Cagliari nelle prossime settimane. Le vittime dell’ingiustizia - conclude la presidente di Sdr - sono sempre troppe e occorre ricordarle tutte, sempre". Livorno: l’ergastolano De Cristofaro non rientra da permesso premio, evase già nel 2007 Ansa, 29 aprile 2014 Filippo De Cristofaro, condannato all’ergastolo per l’omicidio della skipper pesarese Annarita Curina, avvenuto nel 1988, è evaso dal carcere di Livorno. L’uomo sconta l’ergastolo, ed era già evaso nel 2007 dal carcere di Opera. Aveva ucciso la skipper con la complicità dell’amante olandese Diana Beyer, 17 anni, per rubare il catamarano. Secondo quanto si è appreso ad Ancona, De Cristofaro sarebbe evaso durante un permesso premio, come del resto aveva fatto il 6 luglio 2007: un mese dopo venne rintracciato a Utrecht, la città della Beyer, il suo "grande amore", che nel frattempo si è ricostruita una vita di moglie e madre. Nell’estate del 1988, il "giallo del Catamarano", un delitto efferato seguito da una fuga senza speranze degli assassini, occupò le cronache per mesi. De Cristofaro e la Beyer avevano affittato il catamarano della Curina per le vacanze, ma il vero piano dei due amanti era di impadronirsi dell’imbarcazione per poi fuggire in Polinesia. Il 10 giugno Diana, che secondo i giudici agisce spinta dall’amante, pugnala la Curina ad un fianco, mentre De Cristofaro finisce la vittima a colpi di machete. Il cadavere della skipper verrà ripescato il 28 luglio 1988 al largo di Senigallia, mentre a bordo dell’imbarcazione è già salito un amico olandese della coppia, Pieter Gronendijk, in seguito condannato per il furto del natante. I due olandesi e l’italiano saranno poi rintracciati dalla polizia in Tunisia, mentre tentavano di fuggire a piedi dopo aver abbandonato la barca. Diana verrà condannata a sei anni e sei mesi di carcere per concorso in omicidio, ma in cella sconterà solo 15 mesi: otterrà la libertà condizionale e quindi l’assegnazione ad una comunità di fratellanza nei pressi di Grosseto. In primo grado a De Cristofaro viene inflitta una condanna a 38 anni, trasformata in ergastolo nel processo di appello. Evaso ricercato dal 21 aprile, lavora sull’isola di Pianosa Filippo De Cristofaro, il detenuto evaso dal carcere di Porto Azzurro, è ufficialmente ricercato dalle ore 22 del 21 aprile, giorno in cui ha fatto perdere le sue tracce. È stato dichiarato ufficialmente evaso 12 ore dopo l’orario in cui era atteso per il rientro, che doveva avvenire alle 10 del mattino del lunedì di Pasquetta. De Cristofaro per buona condotta aveva ottenuto un permesso premio di tre giorni, in occasione della Pasqua, da trascorrere a Portoferraio, il maggior centro dell’isola d’Elba, ospite di una comunità di accoglienza. Le indagini della polizia coordinate dalla Procura di Ancona cercano di accertare anche se il detenuto abbia potuto godere di complicità all’Elba per darsi alla fuga, utilizzando anche una barca per raggiungere la terraferma. Da qualche tempo, sulla base di un giudizio favorevole al suo comportamento, De Cristofaro svolgeva un lavoro esterno al carcere. Il detenuto era stato trasferito all’isola di Pianosa per far parte di una piccola comunità di carcerati che svolge attività di manutenzione della struttura che fino a metà degli anni 90 era sede del carcere massima sicurezza per i boss mafiosi. Dopo il permesso premio trascorso a Portoferrario, De Cristofaro non è rientrato il 21 aprile sull’isola di Pianosa, dove alloggiava in un edificio che è diramazione del carcere di Porto azzurro. Osapp: in calo psicologi penitenziari e parere agenti conta poco Il 17 dicembre scorso evade Bartolomeo Gagliano, pluriomicida, detenuto al Marassi di Genova: non rientrò dal permesso premio e fuggì in Francia. Tre giorni dopo tocca a Pietro Esposito, pentito di camorra: anche lui in permesso premio, non rientra nel carcere di Pescara. Il 3 febbraio un commando assalta il furgone che sta trasportando l’ergastolano Domenico Cutrì a un’udienza e lo libera. Il 12 febbraio evadono in due da Rebibbia, Giampiero Cattini e Sergio Di Palo, accusati di rapina e furto, calandosi da un muro di cinta con una fune di lenzuola. A questa lista si è aggiunto oggi Filippo De Cristofaro, colpevole di omicidio, portando a sei le evasioni che hanno fatto scalpore nel giro di quattro mesi. A parte lui, sono stati tutti catturati. Se poi si guarda al 2013 i dati del sindacato di polizia penitenziaria Sappe indicano 10 evasioni da parte di soggetti ammessi al lavoro all’esterno, 10 dagli istituti di pena, 47 da permessi premio e 21 dalla semilibertà. Tante o poche che siano, sono la spia di un problema. Alcune segnalano una falla nel sistema di sicurezza, come nel caso Cutrì; altre sono legate a un mancato rientro dal permesso e vedono un tasso di evasione in realtà molto basso, tra lo 0,2% e lo 0,5%. "Per Pasqua su circa 43mila detenuti con condanna definitiva, i soli a poterne beneficiare, solo l’1% è andato in permesso", spiega Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. "Per contro, circa il 99,5% di quanti vanno in permesso rientrano regolarmente, numeri inducono a non lanciare allarmi e non mettere in discussione l’istituto in sé e per sé", aggiunge Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari. Ma resta il fatto che l’evasione di ergastolani e condannati per omicidio desta allarme sociale. "Per le evasioni legate a problemi di sicurezza - afferma Sarno - non si può dimenticare che in poco più di 15 anni i detenuti sono aumentati del 50% mentre gli agenti penitenziari sono diminuiti del 18%: in queste condizioni il dato delle evasioni è destinato a lievitare". Per quanto riguarda i casi di chi non rientra dai permessi o dal lavoro esterno, la questione tocca però solo in parte la polizia penitenziaria. Qui, infatti, entra in gioco la valutazione del detenuto fatta da un’equipe composta dal direttore del carcere, il medico, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore. L’equipe stende una relazione e se dà il via libera al permesso, la decisione finale spetta al giudice di sorveglianza. "Il punto - osserva Beneduci - è che gli educatori sono pochi: uno ogni 100-150 detenuti. Per questo hanno pochi contatti con i detenuti. Il momento in cui se ne occupano è spesso proprio quello della richiesta dei permessi. Per contro, gli agenti, che sono invece a contatto stretto e quotidiano con i carcerati, hanno pochissima voce in capitolo e il loro parere non è tenuto nella dovuta considerazione quando si tratta di stilare una valutazione del detenuto". Sappe: nel 2013 sono state 47 evasioni da permessi premio "Il mancato rientro nel carcere di Livorno del detenuto Filippo De Cristofaro, colpevole di omicidio, rientra purtroppo tra gli eventi critici che possono accadere. Ora è assolutamente prioritario catturare l’evaso ma questo episodio, seppur grave, non può inficiare l’istituto della concessione di permessi ai detenuti, anche perché gli episodi di evasione sono minimi, ma è evidente che c’è sempre qualcuno che se ne approfitta". A dichiararlo è Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, che commenta la clamorosa evasione di De Cristofaro, il killer detenuto nel carcere livornese. "Nel 2013 sono state complessivamente 10 le evasioni commesse da soggetti ammessi al lavoro all’esterno, 10 quelle poste in essere da Istituti di pena, 47 dopo aver fruito di permessi premio e 21 dalla semilibertà", aggiunge, evidenziando che il Sappe chiede "di valutare l’opportunità che ai detenuti in permesso venga applicato il braccialetto elettronico di controllo, costato peraltro decine di milioni di euro pubblici e poco utilizzato. Ciò permetterebbe di tenerlo sotto il controllo di una Centrale Operativa interforze, pronta ad intervenire in caso di anomalie". E "ai ministri dell’Interno Alfano, già Guardasigilli, e della Giustizia Orlando" Capece propone "di riprendere dai cassetti delle scrivanie ministeriali in cui inspiegabilmente è stato riposto da sinistre mani maldestre quello schema di decreto interministeriale finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della polizia penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) nel contesto di un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione. Quello della Polizia penitenziaria proiettata nel controllo esterno dei detenuti è un provvedimento che alla luce della legge concepita dal Governo e ratificata dal Parlamento assume una prioritaria urgenza". "Il controllo sulle pene eseguite all’esterno", conclude, "oltre che qualificare il ruolo della polizia penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione, cui sarà opportuno ricorrere con maggiore frequenza. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene. Per questo motivo auspico che i ministri Orlando e Alfano riprendano in mano quello scheda di decreto interministeriale al più presto". Piacenza: visita carcere Sottosegretari Reggi e Ferri, per detenuti laboratori e formazione www.liberta.it, 29 aprile 2014 Laboratori artigianali di falegnameria, idraulica o muratura: è la prima bozza del progetto d’istruzione e formazione per il carcere delle Novate, che entro un mese dovrà arrivare sul tavolo dei sottosegretari Reggi e Ferri, oggi in visita alla realtà penitenziaria di Piacenza, dove si è tenuto un incontro con le autorità del territorio. L’ex sindaco Reggi e il sottosegretario di Stato alla Giustizia del governo Renzi hanno le idee chiare: "Il gravissimo problema di sovraffollamento è stato risolto con la costruzione del nuovo padiglione, un contributo di umanizzazione doveroso, come impegno per migliorare le condizioni di vita dei detenuti - ha spiegato Roberto Reggi; vorremmo evitare che le persone recluse, una volta uscite, ricominciassero a delinquere. L’obiettivo è garantire il diritto allo studio e un’occasione di formazione professionale, per acquisire capacità da poter spendere una volta usciti dal carcere". "Vogliamo date risposte concrete - ha aggiunto Cosimo Ferri, chiediamo che si attivino le imprese e le realtà professionali del territorio Piacentino, mentre al Comune di Piacenza spetta un ruolo di coordinamento, per individuare i progetti e gli Enti da coinvolgere". I laboratori artigianali sono una prima idea che potrebbe trovare attuazione all’interno delle Novate, permettendo ai detenuti di potersi occupare anche di piccoli lavori di manutenzione all’interno della struttura, occupando in maniera intelligente le ore "vuote". Per quanto riguarda l’istruzione un primo passo potrebbe essere aggiungere il terzo anno alla istituto agrario, già presente nella casa circondariale. L’assessore Stefano Cugini ha assicurato che in meno di 30 giorni saranno presentati i progetti che potranno godere dell’appoggio del Miur e del Ministero della giustizia. Piacenza: risolto il sovraffollamento, ora bisogna garantire ai detenuti il diritto allo studio di Valentina Cappellini Il Piacenza, 29 aprile 2014 Visita alle Novate dei sottosegretari di Stato alla Giustizia e all’Istruzione, Cosimo Maria Ferri e Roberto Reggi: "Abbiamo risolto il problema del sovraffollamento, ora bisogna puntare al recupero dei detenuti con corsi di formazione professionale e istruzione personale". Entro un mese il progetto dovrà arrivare al Ministero Visita dei sottosegretari di Stato alla Giustizia e all’Istruzione, Cosimo Maria Ferri e Roberto Reggi alla casa circondariale delle Novate. L’incontro conoscitivo della realtà piacentina, preceduto da un colloquio dei rappresentanti del Governo con la direttrice Caterina Zurlo, ha riguardato il tema della scuola e della formazione professionale all’interno del carcere, con riferimento anche al Protocollo d’intesa sottoscritto dai Ministeri della Giustizia e dell’Istruzione, sul "Programma speciale per l’istruzione e la formazione negli istituti penitenziari". Al tavolo di lavoro presenti il garante per i diritti delle persone private della libertà Alberto Gromi, il prefetto, Anna Palombi, il questore Calogero Germanà e le autorità piacentine. "Il protocollo d’intesa - ha esordito il sottosegretario Reggi - non ha ancora avuto un’attuazione definitiva, ma ora basta teoria: è importante garantire il diritto allo studio ai detenuti, ed è un’occasione di formazione professionale che sarà utile anche per evitare che, una volta rimessi in libertà, ritornino a delinquere"?. La presentazione dell’iniziativa parte dalla conclusione del progetto di umanizzazione della vita in cella, una volta archiviato, a quanto pare, il problema del sovraffollamento: la situazione è stata appianata grazie alla costruzione di un nuovo padiglione. "Prima c’erano tre detenuti per cella - spiega Cosimo Ferri - ma ora che questo problema è stato risolto, bisogna pensare a rieducare, perché quando un processo come questo funziona, diminuiscono i tassi di recidiva. Si garantisce sicurezza ai cittadini anche grazie a questo percorso perché l’istruzione è la base di tutto. L’obiettivo è quello di cercare una realtà imprenditoriale interessata a investire in questo progetto". All’interno del carcere è già presente un istituto agrario che può essere integrato con altri istituti scolastici. Continua Ferri: "Si possono formare i detenuti sull’agricoltura, sulla meccanica e sull’alimentazione in vista anche di expo 2015. C’è inoltre un progetto che coinvolgerà persone del mondo della letteratura o del cinema: il detenuto, affiancato da uno scrittore o da un tutor, potrà cimentarsi nella lettura e nella scrittura che permetterà loro di ottenere un senso di libertà. Non bisogna inoltre dimenticare le vittime o le persone offese a causa dei reati commessi da questi detenuti, e questo progetto può esprimersi anche in un confronto con la società per far capire loro i propri sbagli"?. Anche l’assessore al Nuovo Welfare Stefano Cugini ha espresso il massimo interesse per questa iniziativa: "È stato un incontro rivolto al massimo senso pratico, e in meno di un mese sarà presentato il progetto. È necessario quindi eliminare le iniziative estemporanee. Le celle - conclude - restano aperte per 8 ore al giorno, è dunque fondamentale riempire questi "spazi" attivando laboratori artigianali che diano abilità professionale". Questo progetto ambizioso è appoggiato dall’amministrazione comunale e dal sindaco Paolo Dosi : "Il comune parteciperà a questo processo di rieducazione e avrà un ruolo di intermediazione tra il carcere e le imprese". Verona: un ufficio del Patronato Acli a disposizione dei detenuti di Elisa Innocenti L’Arena, 29 aprile 2014 Per la prima volta il carcere di Montorio mette a disposizione dei suoi detenuti un ufficio dedicato al Patronato, assicurando quindi alle circa 750 persone rinchiuse nella casa circondariale un modo più semplice per vedere garantiti i propri diritti. Ieri è stata infatti presentata la convenzione firmata dalla direttrice dell’istituto, Maria Grazia Bregoli, e dalle Acli, associazioni cristiane dei lavoratori, rappresentate dalla presidente nazionale del Patronato Acli, Paola Vacchina, dal presidente del Patronato veronese e vicepresidente provinciale Fap Acli, Giuseppe Platino e da Antonio Russo, responsabile Area legalità delle Acli nazionali. Presente anche l’assessore comunale ai Servizi sociali, Anna Leso. Il Patronato offrirà un’ampia gamma di servizi e in realtà sarà rivolto anche ai 350 agenti di polizia penitenziaria e al personale amministrativo. Parliamo quindi di oltre un migliaio di persone, che avranno a disposizione una vera e propria piccola sede Acli. I servizi di cui i detenuti hanno maggiore necessità riguardano le richieste di disoccupazione, di pensione, di permesso di soggiorno, di invalidità e infortuni, mala gamma dei servizi offerti è molto ampia. "Il Patronato ha il ruolo di accompagnare il cittadino per tutta la vita, offrendo ascolto e consulenza su una materia molto vasta", precisa Vacchina, "e come segue i cittadini fuori dal carcere, così a maggior ragione non li abbandona in un momento di difficoltà". "Il merito va alla direttrice della struttura", ricorda Italo Sandrini, presidente provinciale Acli, "perché questa apertura non è da tutti. Ho sempre detto di volere delle Acli di frontiera e la convenzione ap-pena firmata va proprio in questo senso". Fino ad oggi quando i detenuti avevano bisogno di consulenza per veder riconosciuti i propri diritti in materia di lavoro e previdenza si potevano comunque rivolgere all’esterno, ma in modo meno organizzato. "Spesso ci facevamo noi carico delle loro istanze", ammette Margherita Forestan, Garante per i diritti dei detenuti, "per tutte le problematiche legate alla burocrazia, ma in modo disordinato e spesso anche con risultati più difficili da ottenere". La presenza di uno sportello dedicato in carcere invece consentirà alle procedure di viaggiare più spedite. "In realtà già facevamo assistenza ai detenuti", ricorda Marco Geminiani, direttore del Patronato Acli Verona, "in questi ultimi due anni, anche grazie alla collaborazione dell’Inps provinciale, abbiamo seguito 450 istanze, assorbendo al nostro interno anche un ex detenuto. Ma lo sportello, con le sette persone che vi si alterneranno, permetterà un funzionamento più organico. Sarà a due dimensioni, una più tecnica e una di ascolto. Non si tratta di fare beneficenza, ma di garantire diritti". In realtà i detenuti non potranno recarsi fisicamente al nuovo sportello, che pur all’in-terno della struttura è nella zona degli uffici amministrativi. "Con loro continueremo a parlare nell’area trattamentale, con carta e penna", ammette Geminiani, "ma nella stanza che la direttrice ci ha concesso potremo seguire le pratiche, anche on line". Vi avranno accesso invece gli agenti, per tutte le consulenze di cui possono aver bisogno, senza doversi recare all’esterno della struttura "E sarà un servizio molto importante anche per noi", assicura Paolo Presti, comandante della Polizia penitenziaria di Verona. "La Casa circondariale di Montorio è una delle strutture più all’avanguardia del Paese", conclude Angela Venezia, direttrice dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria del Triveneto, "perché organizza moltissime attività di inclusione e rieducazione. Invece se ne parla sempre e solo per fatti di cronaca nera mentre la città ne dovrebbe essere orgogliosa". Livorno: l’isola di Pianosa futuro paradiso del turismo, con strutture gestite dai detenuti Adnkronos, 29 aprile 2014 Da supercarcere di massima sicurezza a paradiso turistico: Pianosa è interessata in questi mesi da un progetto di riqualificazione e ristrutturazione con l’obiettivo di promuovere l’agricoltura e il turismo attraverso il recupero delle strutture edilizie ormai in rovina. E sull’isola è in attività la cooperativa San Giacomo, composta da detenuti, che gestisce l’albergo Milena e un ristorante. Filippo De Cristofaro, il detenuto evaso dal carcere di Porto Azzurro, svolgeva un lavoro esterno al carcere proprio sull’isola di Pianosa ed era impegnato in attività di manutenzione. Il carcere di massima sicurezza è stato chiuso nel 1998 e ora sull’isola ci sono solo alcuni edifici non detentivi. Nel dicembre scorso venne siglato un protocollo d’intesa nella sede della Regione Toscana. La sfida era appunto quella di riaprire l’isola proibita e promuovere il lavoro esterno dei detenuti per sviluppare iniziative di tipo turistico. Dopo il permesso premio trascorso a Portoferraio, il 21 aprile scorso De Cristofaro non è rientrato sull’isola di Pianosa, dove alloggiava in un edificio che è una diramazione del carcere di Porto azzurro. De Batte (Cooperativa San Giacomo): prospettive positive per la prossima estate Da alcuni anni altri detenuti, riuniti nella cooperativa San Giacomo, gestiscono sull’isola un hotel e un ristorante. "I detenuti impegnati nei lavori di ristrutturazione in corso sull’isola e quelli che gestiscono l’albergo fanno parte di due realtà distinte", dice Brunello De Batte, vice presidente della cooperativa San Giacomo. L’albergo e il ristorante "sono andati molto bene l’estate scorsa, meglio del previsto. E dalle prenotazioni ricevute, pensiamo che anche la prossima stagione estiva potrà essere positiva. Non pensiamo che quest’evasione possa comportare ripercussioni sulla nostra attività". Il protocollo firmato nei mesi scorsi e relativo alle attività sull’isola di Pianosa, valido tre anni, prevede di recuperare e reinserire nella società fino a 300 detenuti. Tra gli obiettivi dell’intesa, quelli di utilizzare in maniera diversa le case circondariali di Massa Marittima, Grosseto ed Empoli, di valorizzare anche ai fini agrituristici e ricettivi l’isola di Pianosa (che dal 1856 ha ospitato detenuti e dal 1968 fino al 1998 è stata sede di un carcere di massima sicurezza) attraverso il lavoro agricolo e di restauro immobili da parte di detenuti, di promuovere attività di formazione al lavoro, di realizzare un asilo nido in prossimità di un carcere che possa accogliere anche i figli di persone non detenute, di completare l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri situato a Firenze, di valutare la possibilità di realizzare una nuova casa circondariale a Grosseto idonea ad ospitare almeno 200 detenuti. Brescia: lo strano caso del carcere di Canton Mombello, senza agenti per motivi elettorali di Mario Garofalo Corriere della Sera, 29 aprile 2014 Nel piccolo paese di Longhena, finora noto soltanto per i casoncelli con cui riempie i piatti dei buongustai, si stanno chiedendo tutti perché sia stata presentata alle elezioni una lista composta da soli agenti della polizia penitenziaria. Non un medico, non un imprenditore, non un operaio. Tutti guardiani del vicino carcere di Canton Mombello, tutti residenti altrove, sette in corsa per il consiglio comunale e uno per la poltrona di sindaco. Che vogliano costruire altre celle? Che sia nato un partito nazionale delle case circondariali? Gli avversari - spesso strumentalizzano, si sa - spiegano lo strano fenomeno con una legge del 1981, la 121, che garantisce ai politici in divisa un’aspettativa speciale di un mese, con tanto di assegno. Non sarà una finta lista, depositata al solo scopo di fare un pò di vacanze a spese dello Stato? La ratio della legge era di evitare influenze sugli elettori da parte dei tutori dell’ordine pubblico e di favorire il loro impegno in politica. Ma i risultati sguarniscono il carcere di Canton Mombello, che dovrà rinunciare a 15 dei suoi 190 guardiani: uno ogni dodici. Agli otto di Longhena, infatti, vanno aggiunti sette che sono scesi in campo in altri Comuni della zona. I promotori della lista ovviamente annunciano querele contro gli avversari. "Questo mese, senza straordinari e notturni, perderemo 400 euro", spiegano. Poveretti. A riprova delle loro buone intenzioni producono anche il programma, che prevede, tra l’altro, una rete wi-fi gratuita in tutto il paese, una pista ciclabile, spazi per i ragazzi e, soprattutto, "l’eliminazione delle spese superflue". A proposito di spese superflue, però, non è un po’ eccessivo che la loro aspettativa debba essere pagata dai contribuenti? Si parla del problema almeno dal 2009, da quando un censimento fece scoprire che oltre mille agenti in tutta Italia si erano candidati. Quanto costa uno scherzo del genere alle casse dello Stato? In tempi di spending review bisognerebbe trovare finalmente il coraggio di modificare quella norma. Anche perché al danno rischia di aggiungersi la beffa. La lista di Longhena si chiama "Carpe diem", con un chiaro invito a godersi la vita. A spese altrui? Verona: Sappe; direttore ha chiesto soldi per 500 ore straordinario che deve ancora fare Comunicato stampa, 29 aprile 2014 Ancora polemiche sulla gestione del carcere di Verona, a pochi giorni dalla denuncia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe sulla richiesta del direttore della Casa circondariale di vedersi retribuite 500 ore per prestazioni di lavoro straordinario effettuate nel corso del 2013. "Abbiamo saputo che il direttore Mariagrazia Bregoli ha chiesto all’Amministrazione penitenziaria di Padova, il giorno dopo la precedente richiesta di soldi per monetizzare le 500 ore di straordinario da lei fatte nell’anno 2013, altri fondi per retribuirsi ulteriori 500 ore di lavoro straordinario dell’anno 2014. La cosa anomala è che avrebbe conteggiato anche le ore che dovrebbe ancora fare: ma non è vietato il programmare il lavoro straordinario?", si chiede il segretario generale del Sappe Donato Capece. "Se è vero che il direttore Bregoli ha imposto un taglio dello straordinario per i poliziotti penitenziari, che pure lavorano sotto organico in un carcere sovraffollato stabilmente da 850 detenuti nella prima linea dei padiglioni detentivi, come può conteggiarsi oggi un numero di 500 ore di lavoro straordinario per l’anno in corso visto che siamo a fine aprile? E non è un evidente controsenso la riduzione dello straordinario a coloro che, come i poliziotti penitenziari, lavorano con un numero di unità inferiore a quelle previste e un così consistente numero di ore di lavoro straordinario - per buona parte ancora da farsi! - per il direttore, che sta stabilmente nel suo ufficio?". Il Sappe torna a denunciare che "nel carcere di Verona l’organico di Polizia Penitenziaria previsto conta - sulla carta - 407 poliziotti penitenziari, ma in realtà ve ne sono in forza 336 e questo fa capire come il ricorso al lavoro straordinario per i Baschi Azzurri che lavorano nelle sezioni detentive, nei servizi di traduzione e piantonamento ed in tutti gli altri compiti operativi essenziali a garantire funzionalità e sicurezza non è una libera scelta ma l’inevitabile conseguenza di prestazioni di lavoro straordinario che i poliziotti sono obbligati ad assicurare. Ed è assurdo tagliare lo straordinario a chi sta in prima linea rischiando la vita ogni giorno". Capece torna a sollecitare una inchiesta sulla vicenda: "confidiamo che il Ministro della Giustizia Andrea Orlando disponga nei tempi più brevi una ispezione ministeriale affinché accerti come sia possibile che un direttore di carcere, un impiegato dello Stato che svolge compiti amministrative, chieda la retribuzione di 500 ore di straordinario ancora da fare e pensi addirittura di tagliare lo straordinario a chi lo assicura in prima linea e a contatto con i detenuti come i poliziotti penitenziari". Firenze: Sappe; agente aggredito da un internato nell’Opg di Montelupo Fiorentino Comunicato stampa, 29 aprile 2014 "Sabato sera un Assistente capo della Polizia penitenziaria in servizio nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino è stato aggredito da un internato". Ne da notizia Donato Capece, Segretario Generale del Sappe, Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria. "L’internato - spiega Capece, nel mentre il collega era intento a chiudere una cella, gli ha sventato un pugno al volto. Poi ha proseguito con spintoni facendo sbattere l’assistente con la testa al vano delle scale del reparto". Solo la prontezza di riflessi del collega, che riusciva a divincolarsi, evitava conseguenze più gravi. "Si tratta di un fatto gravissimo e chiediamo all’Amministrazione locale di assumere le iniziative disciplinari previste dall’ordinamento penitenziario. Non è tollerabile che il personale di polizia penitenziaria debba subire anche le aggressioni degli internati, i quali non rispettano le regole previste dall’ordinamento. La situazione degli Opg e del personale di Polizia Penitenziaria va assolutamente rivista. È slittata anche la proroga della chiusura del 1 aprile e gli Opg continuano ad essere dei contenitori di relitti umani, iperaffolati, con scarse risorse economiche e posti nell’impossibilità di svolgere quelle attività di cura e assistenza per cui sono demandati". E sul rinvio della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, il Sappe rileva "quanta grave superficialità contraddistingua questa grave specificità penitenziaria. È grave che, dopo tutto quello che è stato detto sulla precarietà delle strutture, non si è stati in grado di realizzare le alternative per il superamento degli Opg: questo segna il fallimento delle politiche della giustizia in questo Paese sulla detenzione degli internati. E conclude, Capece: "Lo avevamo previsto: troppo semplice dire chiudiamo gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. E poi? Quel che serve sono strutture di reclusione con una progettualità tale da garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari hanno risentito nel tempo dei molti tagli ai loro bilanci. Ma colpevole è anche una diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria, confermata dall’incapacità di superare davvero gli Opg. Se i politici, a tutti i livelli, invece delle solite passerelle a cui si accompagnavano puntualmente anatemi e demagogie quanto estemporanee soluzioni, si fossero fatti carico del loro ruolo istituzionale, avrebbero per tempo messo le strutture psichiatriche nelle condizioni di poter svolgere al meglio il loro lavoro, poiché le condizioni disumane in cui versano gli Opg sono il frutto di una voluta indifferenza della società civile, dei politici, ma soprattutto dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria". Reggio Emilia: Sappe; detenuto tunisino ricoverato all’Opg aggredisce tre agenti Ansa, 29 aprile 2014 Un tunisino di 34 anni, detenuto all’Opg, ha aggredito agenti della polizia penitenziaria ed altri operatori stamattina. Lo comunica il segretario provinciale del Sappe, Michele Malorni. L’uomo, che deve espiare una pena per rapina, è all’Opg per un periodo di osservazione. Questa mattina ha cercato di entrare in un altro reparto gestito dal personale medico e paramedico, probabilmente per raggiungere il personale sanitario femminile dato che poi si è esibito anche in atti osceni. Sul posto sono arrivati tre agenti della polizia penitenziaria che lo hanno immobilizzato mentre il detenuto li prendeva a pugni, calci e testate in seguito alle quali, poi, i poliziotti sono dovuti ricorrere alle cure dei sanitari con diverse prognosi (3 e 8 giorni). Il detenuto aggressore, dopo essere stato sedato farmacologicamente, è stato portato all’ospedale per le cure del caso e poi riportato all’Opg. Conclude Malorni: "Il Sappe coglie l’occasione per evidenziare le difficoltà in cui opera la Polizia Penitenziaria del reparto di Reggio Emilia. Alla carenza di personale nei diversi ruoli (30 agenti, 11 sovrintendenti, 11 ispettori e 3 commissari), si aggiungono carenze strutturali e tecnologiche che inficiano negativamente sulla sicurezza dell’intera struttura penitenziaria". Roma: teatro in carcere… quando i detenuti sono anche attori di Vanessa Cappella Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2014 Una partita a scacchi tra la vita e la morte. Una sfida tra il rimediabile e l’irrimediabile, tra l’azione e il respiro mozzato. Pedoni avanti, alfiere in posizione. La torre sorveglia il re, la regina è braccata, il cavallo è pronto al balzo. Una sola mossa sbagliata e tutto può compromettersi. Per sempre. È un noir esistenziale "La fine all’alba", spettacolo presentato in anteprima nazionale al Teatro Golden di Roma e al quale ho avuto il piacere di assistere lo scorso venerdì. Ideata da Antonio Turco e realizzata dalla Compagnia Stabile Assai, che, con i suoi trent’anni di attività, è la più antica compagnia teatrale penitenziaria d’Italia, la pièce porta in scena i detenuti del carcere di Rebibbia e il loro passato criminale, alla ricerca di un riscatto e di una redenzione attraverso la cultura e l’arte scenica. Ad affiancarli, gli attori Mario Zamma e Deborah Bertagna, insieme alle persone che nel carcere lavorano quotidianamente: dalla teatro-terapeuta Patrizia Spagnoli alla psicologa Sandra Vitolo, fino ad arrivare a un agente di polizia, che, come dichiara scherzando l’autore, "per la sua posizione riesce a essere antipatico sia ai detenuti che ai poliziotti". Sin dalla scenografia, si intuisce subito l’impronta cinematografica data dal regista Francesco Cinquemani, alla sua prima esperienza teatrale dopo anni di cinema. Il vissuto reale degli attori-detenuti, tra camorra e banda della Magliana, si infila tra una battuta e l’altra, permeando le parole di un travaglio interiore, divisi tra un passato da "cattivi" e un presente alla ricerca dell’espiazione del peccato. In carcere, certo. Ma anche lì, sul palco, aprendo cuore e dolore al pubblico, concedendosi anima e corpo al potere taumaturgico dell’arte. "Il carcere non dev’essere solo punizione, ma anche recupero della persona che ha sbagliato e che sta pagando per il proprio errore", ha spiegato, non senza emozione, Antonio Turco alla fine dello spettacolo, sostenuto nel suo discorso anche dall’intervento a sorpresa di Pippo Baudo. E mentre ancora in sala risuonano le note blues, intonate dall’incantevole voce di Barbara Santoni, la partita finisce con uno scacco matto. La cultura che rende liberi. Anche dietro le sbarre. Droghe: con la nuova legge niente carcere per il piccolo spaccio, oggi il voto di fiducia di Francesco Grignetti La Stampa, 29 aprile 2014 Cambia la legge sulla droga. Dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha cassato la Fini-Giovanardi, il governo è dovuto correre ai ripari. Non era sufficiente ripristinare la legge precedente, in quanto contraddittoria con tante altre norme approvate negli anni. Occorreva una manutenzione generale delle norme. Di qui un decreto Renzi-Lorenzin-Orlando. Ma con l’occasione si cambia filosofia: meno proibizionismo indiscriminato, più graduazione nelle sanzioni. Il cambio di verso, però, scatena le proteste veementi di chi, nel centrodestra, negli anni scorsi ha sostenuto una posizione di proibizionismo tout-court. Tanto che si è litigato fin quasi a far saltare tutto. Finché ieri pomeriggio il governo Renzi ha deciso che si sarebbe ricorsi al voto di fiducia. Voto in agenda oggi pomeriggio alla Camera. A creare un solco tra schieramenti torna la classica partizione tra droghe leggere (hashish e marijuana) e droghe pesanti (cocaina, eroina, ecstasy e altri prodotti di sintesi), poi annullata dalla Fini-Giovanardi. E torna la distinzione tra spaccio lieve e spaccio grave. Quando sono piccole dosi, la cessione sarà colpita con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e una multa da mille a 15mila euro. In pratica, la riduzione della pena evita la custodia cautelare in carcere e l’arresto, facoltativo, sarà possibile solo in caso di flagranza. Spetterà al giudice graduare l’entità della pena in base alla qualità e quantità della sostanza spacciata e alle altre circostanze. Il piccolo spacciatore, poi, potrà usufruire del nuovo istituto della messa alla prova. Restano infine le sanzioni amministrative per chi fa uso personale di droghe (sospensione della patente, del porto d’armi, del passaporto o del permesso di soggiorno), comminate dalle prefetture, ma senza automatismi. Le sanzioni amministrative avranno una durata variabile a seconda che si tratti di droghe pesanti (da 2 mesi a 1 anno) o leggere (da 1 a 3 mesi). Infine, la questione dell’uso personale: non c’è più da tempo la "modica quantità"; il giudice, oltre ad altre circostanze sospette, dovrà considerare l’eventuale superamento dei "livelli soglia" fissati dal ministero della Salute nonché le modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti, il peso lordo complessivo, l’eventuale confezionamento frazionato. Ed è polemica. Secondo l’ex sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, "di questo passo importare, comprare, detenere droga non costituirà più reato. Basterà dichiarare che è uso personale. Mi sembra una norma salva-Dama bianca. Nessuno può escludere che chi verrà sorpreso con chili di cocaina, come è accaduto a Fiumicino alla signora Gagliardi, potrà affermare che sia per proprio uso personale ed essere dichiarato non punibile: ha avuto un’occasione e sì è fatta la scorta". Polemico anche Fabio Rampelli, vicepresidente dei deputati di Fratelli d’Italia: "Il vecchio spinello è potenzialmente un’arma micidiale equivalente a eroina e cocaina, per la dipendenza che crea come per gli effetti che produce sulla salute". Gli fa eco Marco Rondini, Lega: "Facendo passare una pena da sei mesi ai quattro anni, riuscite a depenalizzare quel reato. Domani nessuno spacciatore riuscirà a varcare le soglie del carcere". Rispondono ì relatori, Donatella Ferranti, Pd, e Pierpaolo Vargiu, Scelta civica: "No, è un testo equilibrato, concreto e pienamente in linea con le esigenze emerse dalle audizioni con associazioni ed esperti che ogni giorno vivono ì veri problemi". Francia: processo per la morte di Daniele Franceschi in una cella del carcere di Grasse di Donatella Francesconi Il Tirreno, 29 aprile 2014 Daniele Franceschi, alle 11,30 del suo ultimo giorno di vita, si torceva dal dolore al petto, rinchiuso da sei mesi nella cella del carcere di Grasse, in Francia. L’operaio viareggino - 36 anni nel 2010 quando muore il 25 agosto - era stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta su una carta di credito clonata. A raccontare le ultime ore di Daniele sono, negli atti del pubblico ministero del Tribunale di Grasse, un detenuto compagno di cella di Franceschi ed una guardia carceraria. Alle 7,30 del 25 agosto il detenuto Abdel Benboukha constata che Daniele Franceschi non sta per niente bene. Da due giorni presenta difficoltà respiratorie e dolori al petto e alla spalla sinistra. Quando lo stesso Abdel fa rientro in cella, alle 11,30, dopo aver svolto le proprie mansioni in cucina, Daniele si contorce dal dolore. Tra le 7,30 e le 11,30 Franceschi era stato visitato dal dottor Jean Paul Estrade, dell’Unità consultazione e trattamento ambulatoriale del carcere. Il quale aveva eseguito elettrocardiogramma e prelievo del sangue che viene inviato, per le analisi, all’ospedale di Grasse dal quale il dottor Estrade e la sua Unità dipendono. Dopo aver visto le condizioni di Franceschi, Abdel Benboukha avvisa il sorvegliante del secondo turno del mattino, blocco "B", chiedendo l’intervento di un infermiere. Tra le 12 e le 13 lo stesso Abdel incontra le due infermiere oggi rinviate a giudizio per omicidio colposo e le informa - racconta al magistrato - dello stato di salute "inquietante" del suo compagno di cella. Alle 13, prima di riprendere il lavoro il detenuto Benboukha constata che Franceschi "è ancora in preda ai dolori, respira molto male, e non ce la fa nemmeno a parlare". Abdel avverte ancora il sorvegliante. Toufik El Karimi, guardia carceraria, allertato da Benboukha, a mezzogiorno trova Franceschi "molto pallido". E aggiunge che l’italiano "si teneva il torace e stava molto male". L’uomo avvisa le due infermiere che distribuiscono i farmaci dello stato di salute "preoccupante" del detenuto Franceschi e chiede loro di salire a vederlo. La risposta che ne riceve è agghiacciante: a Franceschi sono stati somministrati i soliti farmaci del mattino e quindi non ha niente di grave. Wilfried Leynier, primo sorvegliante aggiunto del blocco "B" dichiara che El Karimi, sorvegliante del mattino, gli aveva precisato che le due infermiere da lui sollecitate verso mezzogiorno "si erano rifiutate di muoversi". Francoise Boselli, oggi rinviata a giudizio insieme alla collega Stéphanie Colonna, conferma al magistrato di aver incontrato Abdel Benboukha intorno alle 12 e poi dichiara: "La collega mi ha detto che Franceschi aveva avuto le medicine al mattino". Boselli - si legge ancora negli atti - "partecipa alla rianimazione", quando ormai appare chiaro che l’operaio italiano non ce l’avrebbe fatta. Ed è lei che apre il sito dell’ospedale di Grasse per stampare i risultati dei prelievi eseguiti al mattino ed aggiungere il documento al dossier del detenuto. Sono le 18,59 del 25 agosto 2010: Daniele Franceschi è stato dichiarato morto appena un’ora prima, alle 17,50. E qui si apre un "balletto" di responsabilità che ha dell’incredibile. L’ospedale - viene testimoniato - telefona per prassi al carcere se gli esami richiesti rivelano qualcosa di patologico. Altrimenti il medico in servizio tra le sbarre li scarica dal sito dell’ospedale stesso. Sul quale, l’esito del prelievo a Franceschi, era disponibile dalle 13 del giorno in cui è morto. Solo che nessuno se ne è preoccupato. Se lo avessero fatto non sarebbe sfuggito il rialzo, pur moderato, degli enzimi cardiaci. Il dottor Jean Paul Estrade, nel corso del suo interrogatorio, ha ammesso "che la conoscenza di questi risultati prima della morte avrebbe portato ad una ulteriore consultazione e ad un nuovo elettrocardiogramma". Ma - hanno stabilito le indagini - non si tratta solo di responsabilità personali: "La mancanza di organizzazione dell’Unità Ucsa, oltre a negligenze personali e penalmente difettose degli altri tre imputati, è ugualmente la causa della morte di Franceschi. Il centro ospedaliero di Grasse sarà rinviato davanti al Tribunale penale per omicidio colposo". Ischemie nelle settimane pre-decesso "Chiedo di poter essere visitato nell’ospedale all’esterno del carcere, perché ho forte dolore al cuore e alla spalla sinistra. È urgente!". Poche righe, trovate nella cassetta delle comunicazioni dentro la cella, che suonano oggi come il grido di aiuto del giovane Daniele, morto tra le sbarre in Francia quattro anni fa. Franceschi era certo di aver bisogno di cure. Era dal maggio dello stesso che il detenuto lamentava problemi di salute segnalando nelle lettere ai familiari la mancanza di interesse del carcere per la sua salute. Il 18 agosto Franceschi aveva richiesto di poter vedere il medico del carcere. Che in effetti lo visita la mattina del giorno della morte, il 26 agosto. Il dottor Jean Paul Estrade nell’interrogatorio dichiarerà di aver visto due volte Franceschi nel corso della detenzione: il 22 febbraio 2010 ed il 20 maggio per una polmonite. Secondo Estrade, però, "il dolore del paziente era di origine reumatica e non coronarica". Di diverso avviso l’esito degli esami condotti sul cadavere: Daniele Franceschi è morto, a soli 36 anni, per "una insufficienza coronarica acuta associata a trombosi acuta della coronaria destra, derivante da miocardio ischemico". Che Daniele stava male da tempo - pur non avendo mai riscontrato problemi di natura cardiaca - l’hanno testimoniato per mesi le lettere inviate alla madre, Cira Antignano, da altri detenuti dello stesso carcere. Ritenuti inaffidabili in quanto carcerati, ma che in realtà raccontano lo stato di salute degli ultimi giorni di via di Franceschi con le stesse parole agli atti degli interrogatori delle testimonianze acquisite dagli inquirenti francesi. E l’autopsia ha dato un responso da brividi: sul cuore di Daniele c’erano tracce di ischemie risalenti a tempi diversi, presumibilmente tre settimane prima della morte, ma anche segni riferibili ai mesi addietro. Egitto: 700 Fratelli musulmani condannati a morte, una strana ricetta per la democrazia di Alessandro Accorsi Europa, 29 aprile 2014 Gli Stati Uniti rinnovano il loro sostegno al percorso verso la democrazia del governo egiziano. Ma le sentenze capitali contro gli islamisti e la messa al bando del Movimento liberale 6 aprile rischiano di favorire gli estremisti. L’Egitto aveva stabilito un record negativo già lo scorso mese, quando una corte di Minya, città a sud del Cairo, aveva condannato a morte 529 sostenitori dei Fratelli musulmani per l’uccisione di un ufficiale di polizia dopo un processo durato meno di cento minuti. Oggi, la corte di Minya ha confermato la pena capitale "solo" per 37 imputati, commutando in ergastolo la pena per gli altri 492. Ma in un altro processo di massa tenutosi subito dopo, lo stesso giudice ha condannato a morte in primo grado 683 imputati, tra cui la Guida Suprema della Fratellanza musulmana Mohamed Badie. Se la sentenza fosse confermata, Badie sarebbe il primo leader dei Fratelli musulmani condannato a morte dal 1966, quando il regime nasseriano impiccò Sayid Qutb, l’ideologo della linea radicale della Fratellanza. Allora, l’uccisione di Qutb spinse la maggioranza del movimento islamista ad abbracciare le sue teorie di lotta frontale e armata contro il governo che portò al dilagare del terrorismo jihadista negli anni Settanta e Ottanta. Allo stesso modo, la condanna a morte di 720 sostenitori della Fratellanza potrebbe convincere sempre più islamisti ad abbandonare la linea di lotta non-violenta predicata sinora dalla leadership del movimento. Spingendoli nelle braccia dei nuovi gruppi jihadisti. Proprio in nome della lotta al terrorismo, dopo la condanna dei 529 imputati il 24 marzo scorso, il ministro degli esteri egiziano Nabil Fahmy si era affrettato a chiedere alle cancellerie occidentali di non interrompere il proprio supporto al Cairo nella transizione alla democrazia e nell’eradicare della minaccia jihadista. Fahmy aveva difeso la regolarità del processo e l’indipendenza del sistema giudiziario. Il segretario di stato americano John Kerry aveva chiesto al governo egiziano di "rimediare alla situazione", specialmente "in vista dell’inizio di un altro processo di massa", quello conclusosi oggi con 683 condanne a morte. Questa volta Nabil Fahmy avrà l’opportunità di chiarirsi direttamente con Kerry nel loro faccia a faccia a Washington. I due si incontreranno per discutere del processo di pace israelo-palestinese, della transizione democratica in Egitto e della ripresa della cooperazione militare tra i due paesi. Nei giorni scorsi, infatti, l’amministrazione Obama aveva accantonato la sospensione degli aiuti militari americani in vigore dalla scorsa estate - e che aveva dato occasione al generale Abdel Fattah al Sisi di siglare un accordo con la Russia - annunciando l’invio di 10 elicotteri Apache al Cairo. L’amministrazione americana, così come le cancellerie europee, sono strette tra considerazioni strategiche che spingono ad offrire supporto al regime egiziano contro la minaccia jihadista in Sinai e nel resto del paese, e dubbi legittimi sul processo di transizione alla democrazia e sull’estensione della repressione del dissenso che potrebbero proprio alimentare la crescita del terrorismo. "Dobbiamo prendere una posizione", aveva esortato l’ex primo ministro britannico Tony Blair la scorsa settimana, rivolgendo un appello ai governi europei e agli Stati Uniti per ricucire le proprie differenze politiche con Russia e Cina e creare un fronte compatto contro l’islamismo radicale. "Dobbiamo impegnarci attivamente, essere coinvolti" nella politica mediorientale. In Egitto questo impegno, secondo Blair, si concretizza in una condanna severa della Fratellanza musulmana che "stava prendendo il controllo delle istituzioni del paese" e in un supporto vigoroso della comunità internazionale alla leadership e all’esercito egiziano "che sta riportando il paese sul cammino verso la democrazia". Supporto che per il leader laburista si traduce nel mostrare "sensibilità per l’uccisione violenta di oltre 400 poliziotti e centinaia di soldati", prima di commentare la condanna a morte di più di 500 persone. Una presa di posizione chiara e legittima, che lascia però dubbi sulle vere intenzioni democratiche del governo egiziano. Al di là dei più di duemila studenti e oppositori politici in attesa di un verdetto nelle carceri egiziane, al di là della continua uccisione di manifestanti nelle proteste di strada, al di là del processo contro i giornalisti di Al Jazeera accusati di terrorismo, a preoccupare è anche un’altra sentenza emessa oggi dalla "Corte per gli Affari Urgenti" del Cairo. Il tribunale ha messo al bando il Movimento 6 Aprile accusandolo di spionaggio e di danneggiare l’immagine del paese. L’organizzazione giovanile e liberale, nata durante i grandi scioperi del 2008, aveva giocato un ruolo fondamentale nella sollevazione contro Mubarak. Tanto che lo stesso generale Sisi, all’indomani della rivoluzione, aveva incontrato i leader del movimento, oggi in prigione, per discutere del futuro democratico del paese. Non sembrano essere solo gli islamisti, dunque, i nemici della transizione verso la democrazia secondo il governo egiziano. Brasile: rivolta in carcere, 5 morti, tumulti scoppiati dopo il ferimento di un recluso Ansa, 29 aprile 2014 Almeno 5 detenuti sono morti durante una rivolta scoppiata in un carcere dello Stato brasiliano di Bahia. Secondo la polizia, i cinque sono stati uccisi da altri reclusi durante la rivolta, sedata dall’intervento delle squadre speciali. I tumulti sarebbero scoppiati dopo che un agente penitenziario ha sparato alla gamba di un detenuto che voleva impedire agli agenti di ispezionare la sua cella. Slovenia: ex premier Janez Jansa condannato a due anni di carcere per l’affaire "Patria" Nova, 29 aprile 2014 L’Alta corte di Lubiana ha confermato la sentenza di primo grado contro l’ex premier Janez Jansa, condannando l’attuale leader del Partito democratico sloveno (Sds, principale formazione dell’opposizione) a due anni di carcere e 37 mila euro di multa oggi per il suo coinvolgimento nel caso Patria. Jansa era accusato di aver ricevuto tangenti dal gruppo della difesa finlandese Patria per la stipula di un contratto tra la società scandinava e il governo di Lubiana nel 2006. Oltre all’ex premier Jansa, il tribunale di Lubiana ha confermato la condanna anche per Ivan Crnkovic e il brigadiere Tone Krkovic, già condannati in primo grado. I due dovranno scontare 22 mesi di carcere. Il legale di Krkovic, Joze Hribernik, ha dichiarato all’agenzia "Sta" che intende presentate nuovamente ricorso. Nel corso del processo, Jansa ha negato tutte le tesi dell’accusa, definendo il processo "una costruzione politica". Secondo l’agenzia di stampa, i legali di Jansa hanno annunciato un ricorso alla Corte costituzionale e, se necessario, amche alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo. I media sloveni hanno ricordato nel pomeriggio che la sentenza odierna "non significa ancora l’incarcerazione di Jansa", il quale potrebbe godere del cosiddetto "regime detentivo del fine settimana", previsto per condanne inferiori a due anni. Intanto l’Sds ha pubblicato un comunicato in cui critica il processo "politicamente motivato" che ha "prodotto una sentenza politicamente motivata" contro il suo presidente, attraverso un sistema giudiziario che andrebbe riformato. "Dopo un processo di parte contro l’ex primo ministro sloveno e attuale leader dell’opposizione, Janez Jansa è stato condannato senza una sola prova a due anni di reclusione", riferisce la nota del partito, ricordando che lo scorso 30 gennaio i giudici finnici, nel processo parallelo avviato a Helsinki, hanno respinto le accuse nei confronti dei rappresentanti di Patria accusati di aver ricevuto tangenti da membri del governo sloveno. L’Sds contesta in particolare la mancanza di una data, di un luogo e di un mezzo di comunicazione attraverso il quale Jansa avrebbe compiuto i reati. "Durante il processo i procuratori hanno semplicemente ignorato due chiare sentenze della Corte suprema della Slovenia, in cui viene esplicitamente scritto che, nel sistema giudiziario sloveno, non è possibile eseguire condanne senza chiarire tempistiche e modalità di un presunto atto criminale". Iran: ex presidente Khatami chiede rilascio di alcuni detenuti politici in carcere dal 2011 Tm News, 29 aprile 2014 L’ex presidente iraniano Mohammad Khatami ha chiesto il rilascio degli oppositori politici detenuti dal 2011, in particolare degli ex candidati riformisti alle presidenziali Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karoubi: lo ha reso noto l’agenzia di stampa iraniana Isna. Khatami ha sottolineato come uno degli obbiettivi dell’elezione del moderato Hassan Rohani fosse quello di un "cambio di clima politico" in Iran: tuttavia la decisione finale riguardo al rilascio dei detenuti non è di competenza della Presidenza della Repubblica ma del Consiglio Supremo per la Sicurezza nazionale e della magistratura. Israele: tangenti, Procura chiede pena fra 5 e 7 anni di carcere per l’ex premier Olmert Adnkronos, 29 aprile 2014 La procura israeliana ha chiesto una condanna fra cinque e sette anni di carcere per Ehud Olmert. L’ex primo ministro israeliano è stato riconosciuto colpevole in marzo di aver accettato tangenti per favorire un progetto edilizio nei periodi in cui era sindaco di Gerusalemme e poi ministro dell’Industria, fra il 1993 e il 2006. Il massimo della pena per funzionari pubblici corrotti è di dieci anni di carcere. La procura, riferiscono i media israeliani, ha chiesto fra i cinque e i sette anni per il capo d’accusa principale, fra i due e i quattro anni per quello minore e il pagamento di una multa di 1,2 milioni di shekel (350mila dollari). La sentenza totale, è stato precisato, non dovrebbe essere inferiore a cinque anni. Olmert è il primo capo di governo israeliano riconosciuto colpevole in tribunale. Primo ministro dal maggio 2006 al gennaio 2009, Olmert è stato anche il leader del partito centrista Kadima dopo l’ictus che ha colpito il suo fondatore, Ariel Sharon. Fu costretto a dimettersi a causa delle accuse nei suoi confronti. Giordania: via libera a scambio tra detenuto libico e ambasciatore rapito a Tripoli Nova, 29 aprile 2014 Il governo giordano ha dato il via libera allo scambio fra il detenuto libico, Mohammed al Darsi e l’ambasciatore giordano a Tripoli rapito da una milizia islamica vicina ad al Darsi due settimane fa. Il detenuto libico si trova da nove anni in carcere ad Amman per aver progettato un attentato terroristico contro l’aeroporto della capitale giordana nel 2007. Secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa libica "Lana", il viceministro per i Diritti umani di Tripoli, Sahr Banun, ha annunciato che "la Libia e la Giordania si sono accordate per uno scambio che prevede la liberazione da parte dei miliziani dell’ambasciatore giordano in cambio di una riduzione di pena per al Darsi, che potrà essere estradato e finire di scontare i suoi anni di carcere in Libia".