Così l'amministrazione penitenziaria tenta di umanizzare i trasferimenti Il Mattino di Padova, 28 aprile 2014 In carcere sono tanti a domandarsi perché c’è voluta l’Europa, con le sue sentenze e la paura di risarcimenti colossali per le condizioni delle nostre galere, per costringere il nostro Paese a prendere misure per "umanizzare" la detenzione. Adesso però diventa fondamentale anche controllare che quelle misure vengano davvero applicate ovunque. In particolare quelle sui trasferimenti, che per i detenuti sono da sempre un incubo: ora una recente circolare dell’Amministrazione penitenziaria dice che "deve essere assicurato, nella misura più ampia possibile, l’accoglimento delle istanze di trasferimento dei detenuti" e "pare congruo fissare un termine di sessanta giorni entro cui fornire una risposta al detenuto, che decorreranno dall’acquisizione da parte dell’Ufficio competente di tutti gli elementi necessari alla decisione". Finalmente chi chiede di essere trasferito vicino alla famiglia potrà avere risposte rapide, e chi veniva trasferito invece contro la sua volontà potrà sperare di non dover più subire quegli odiati trasferimenti, di cui parlano le testimonianze di due detenuti che riportiamo. Un inferno nuovo Ritrovarsi rinchiuso in un furgone blindato alle 3-4 di mattina è una emozione che consiglierei a tutti coloro che decidono i trasferimenti di noi detenuti. Ovviamente c’è una provocazione dietro alle mie parole. In tutti i miei anni di detenzione ho girato molte carceri e vedere spuntare, da quel piccolo spioncino arrugginito del cancello della tua cella, un agente penitenziario, con una piccola torcia per fare luce, puntartela sugli occhi e chiamare il tuo cognome con la classica formula: "Sciacca, Sciacca sveglia sei partente" e con le solite risposte: "ma come, dove mi portate?" oppure: "ma oggi faccio il colloquio, arrivano i miei famigliari", è un ricordo che ancora mi terrorizza. Non esiste nessun modo in cui tu possa evitare un trasferimento, ti viene buttato lì, piomba sulla tua vita e su quella dei tuoi cari in maniera prepotente. Anche se io oggi ho intrapreso un percorso rieducativo nella redazione di Ristretti Orizzonti, questo non mi rende immune da un eventuale trasferimento, anche in questo istante che mi trovo di fronte al computer a scrivere questo articolo potrei essere chiamato "partente". Ora io potrei descrivere le condizioni pietose con cui vengono effettuati questi spostamenti, ma il mio scritto potrebbe risultare una lamentela, dunque voglio parlare solo dello sconforto che regna dentro a un detenuto al momento della partenza. Una volta che ti hanno svegliato inizi ad andare alla ricerca dei classici sacchi neri grandi, quelli della spazzatura, e inizi a buttarci dentro tutte le tue cose personali, comprese le foto della tua famiglia. Nel frattempo il tuo cervello continuerà a chiedersi dove andrai. Inizierai a pregare che sia un posto a portata di mano per continuare a fare i colloqui con tuo figlio o con i tuoi genitori, ma in cuor tuo, vedendo fuori dalla finestra che il giorno è ancora molto distante, capisci che sarà un viaggio lungo. Sicuramente ti allontanerai dalla regione in cui ti trovi, ed è proprio in quel momento che ti fermi un secondo e inizi a pensare a come farai ad avvisare i tuoi cari. Oppure c’è lo scenario più brutto. Magari vieni trasferito proprio il giorno del colloquio. Questo vuol dire che tua moglie si presenterà con in braccio tuo figlio di fronte al grosso portone metallico del carcere, per farti il colloquio, ma riceverà un rifiuto da parte di un agente penitenziario con, anche qui, la classica formula: "Suo marito è stato trasferito". "Ma dove?". Ovviamente non le verrà detta la destinazione "per motivi di sicurezza". I finali di questi scenari sono gli stessi. Ti ritroverai giù nel magazzino a riempire due borse, tipo militare, con un limite sul peso di 8 chili. Ovviamente la priorità ce l’hanno tutti quegli oggetti personali, foto, lettere e piccoli regali che a volte hai il bisogno di guardare per ricordarti che sei un essere umano. Poi vengono tutti i documenti processuali e poi il resto. Sì ma il resto non ci sta. Dunque fai una selezione veloce, anzi molto veloce perché quella presenza oscura dell’agente penitenziario, che continua a incitarti a muoverti, rimbomba nel tuo cervello. Ok, ci siamo. Il resto dei tuoi vestiti arriverà a destinazione da solo, forse è per questo che lo riceverai dopo 4-5 mesi. Comunque eccolo lì il famoso furgone blindato. Lo vedi già con le porte posteriori aperte, come se fosse un invito ad entrare nell’anticamera dell’inferno, ovviamente ammanettato. La sicurezza non è mai troppa. Sarà inutile sprecare fiato per chiedere la destinazione, non ti verrà mai detta. Io cercavo sempre di vedere attraverso dei quadratini di vetro blindato con un diametro di 20 centimetri, la segnaletica stradale, ma alla fine dopo vari tentativi rinunciavo e aspettavo che le porte dell’anticamera dell’inferno si aprissero per entrare nel mio nuovo inferno. Lorenzo Sciacca Pacchi umani Forse, non tutti sanno che un detenuto è spesso trattato come un pacco postale, io personalmente dal 2008 ad oggi ho fatto una ventina di trasferimenti, per processi in giro per l’Italia o trasferimenti cosiddetti "ministeriali". Tranne per i primi tempi di carcerazione quando ho fatto transiti anche nelle carceri giù in Sicilia, mia terra d’origine, dove ho potuto fare qualche colloquio con i miei familiari e in particolar modo i miei due figli piccoli, poi mi hanno sballottato a destra e a sinistra per le carceri del Nord Italia. Mi ricordo che quando ero libero, e vedevo quelle povere bestie che venivano trasportate in quei camion con le sponde alte, e le vedevo affacciare da quelle feritoie, dicevo tra me e me "ma guarda che trattamento disumano hanno quelle bestie!", ma poi entrando in carcere mi sono ricreduto. Le bestie vengono trasportate meglio di noi. Intanto vorrei descrivere come sono fatti questi trasferimenti: vieni portato in angusti furgoni blindati dove all’interno ci sono delle piccole gabbie con dei seggiolini in plastica dura e queste gabbie sono rivestite da pannelli di ferro bucherellato e smaltato, a malapena riesci a starci dentro e non hai nemmeno dei finestrini da dove vedere le strade, e l’aria la respiri tramite una ventola posta sul tetto del furgone. Nel trasferimento oltre allo stress ti aggiungono altre disumanizzazioni, che chiamano "sicurezza", cioè essere ammanettato, come se uno potesse scappare da quella gabbia angusta, e con tutte quelle guardie armate. Oggi posso dire che invidio tanto quelle bestie che vedevo per le strade trasportate in quei camion, almeno loro possono vedere, respirare aria naturale, non sono legate e possono fare i propri bisogni quando vogliono. Io credo che ci possano essere dei modi per umanizzare questi trasferimenti, ma il primo è quello di farne meno possibile. Ognuno di noi detenuti dovrebbe stare nel carcere più vicino ai propri cari per poter fare i colloqui e poter crescere i propri figli, e per quel poco che ti permettono le nostre attuali leggi cercare di non rinunciare al ruolo di padre. Ma questo troppo spesso non succede. Non voglio essere compatito e non voglio fare la vittima della situazione, ma credo che la società dovrebbe sapere cosa succede nelle nostre galere, il modo in cui veniamo trattati e spesso umiliati da questo sistema, e non credere tanto a quello che dicono i mass media. Vorrei che la società entrasse dentro per constatare che non siamo delle bestie feroci, e che vorremmo solo pagare per i nostri errori, ma avere quello di cui ha più bisogno un essere umano, cioè la dignità di uomini, e non di pacchi umani. Luca Raimondo Riflessioni a margine del video "Come si ordina un omicidio", comparso su Repubblica.it di Francesca de Carolis Ristretti Orizzonti, 28 aprile 2014 Alcune riflessioni, dopo aver visto il video che per alcuni giorni è comparso sulla pagina di Repubblica on line. Titolo: come si ordina un omicidio. Nelle immagini Giovanni Di Giacomo, che darebbe l’ordine al fratello di uccidere alcuni esponenti mafiosi. Giuseppe Di Giacomo, il fratello, verrà poi ucciso prima di portare a termine il mandato… Un racconto che fa orrore, per la crudeltà e la ferocia. Giusto inorridirsi e sapere. Eppure, mi sono chiesta, è giusto che l’informazione su quanto avviene in carcere, a proposito di boss e appartenenti o ex appartenenti a vario titolo a organizzazioni criminali sia solo questa? Dare in pasto solo brandelli d’informazione, quella che fa più effetto, quella che fa più orrore? Io penso che non basti e che non sia neanche giusto. Non basta ad aiutarci a capire situazioni complesse come quelle del mondo della criminalità e delle mafie. Mentre rimane un racconto che, piuttosto che aiutarci a capire e ragionare su strade possibili, si limita ad assecondare l’attesa di un’opinione pubblica già così incline a pensare che sempre e solo di mostri si tratti, mostri irredimibili, che la pena degli altri, sempre e comunque coincida con la nostra sicurezza, e che si getti pure la solita chiave… Una riflessione, che non vuole insegnare naturalmente niente a nessuno. Solo invitare a interrogarsi. Sono stata anch’io per qualche tempo cronista. Pur occupandomi prevalentemente di "bianca", come si diceva, è capitato anche a me di fare "un minutino" per i tg su operazioni di polizia, e quant’altro. Tot arrestati, tot condanne, plauso… e tutto finiva lì. Da qualche anno, da quando ho iniziato a entrare in alcune carceri, a guardare in faccia persone che dal mondo della criminalità vengono e interloquire con loro, ho capito che la realtà delle persone che pensiamo "le peggiori" può essere anche altra. Non cercare di indagare anche queste realtà, non affiancarne il racconto a ciò che ci piace tanto mettere in prima pagina per l’effetto che fa, ho capito sia cosa non giusta, anche e soprattutto se dichiariamo che è una società migliore, "libera dalle mafie", quella che vogliamo… Frequentando e confrontandomi con alcuni ergastolani appartenuti ad organizzazioni criminali, ho capito che le storie proprio quando alle loro spalle si chiudono i cancelli di un carcere cominciano. E possono prendere tante direzioni. Possiamo incontrare i Di Giacomo, certo, ma ho conosciuto anche persone, venute dallo stesso ambiente, in regime di alta sicurezza, e che pure durante decenni di carcere un percorso positivo davvero l’hanno fatto. E non è questo ciò che poi la Costituzione richiederebbe come fine della pena? Il fine rieducativo enunciato dall’art.27. Uno dei più violati della Costituzione. Ma qualche volta accade… Con alcuni continuo a scambiare parole, racconti. Conosco storie sorprendenti. Ma chi parlerà mai, se non come dato "folkloristico", di Carmelo Musumeci che in carcere si è laureato in giurisprudenza e ora scrive i ricorsi per chi non ha avvocato. O di Alfredo Sole che mi scrive lettere zeppe di filosofia, o Giovanni Lentini, che studia religioni ortodosse, o di Claudio Conte che argomenta di leggi e di romanzi, o di Pasquale De Feo che si è dato a studi storici sul meridione per trovare anche il senso della "sua" personale storia? E perché non dare lo stesso risalto del video che abbiamo visto alla storia di Marcello Dell’Anna, che non solo si è laureato in giurisprudenza ma, udite udite, ha poi continuato gli studi e nei mesi scorsi la scuola forense di Nuoro gli ha affidato il ruolo di relatore nel corso di formazione giuridica per avvocati che si è tenuto fra gennaio e febbraio. Dagli atti ne verrà un libro che sarà presentato, nel carcere di Badu ‘e Carros, il 13 giugno… Ebbene, Dell’Anna è stato boss della corona unita, in carcere da quando aveva 23 anni, ora ne ha 46. Vorrei farvi leggere cosa scrive e come lo scrive… Ancora un nome: Mario Trudu. Ho appena finito di seguirne l’autobiografia. Uscirà in agosto, con Strade Bianche… Un libro crudo, che non risparmia nulla né a sé né agli altri. Un giorno gli ho chiesto se non ritenesse di "smussare " alcuni racconti. Lui mi ha risposto che no, che se ha scritto questo libro è perché vuole che le persone sappiano esattamente chi è stato, per capire la differenza con quello che è adesso. E un po’ del mio stupido consiglio mi sono vergognata… Ecco, perché non dare adeguato risalto anche a queste storie? Davvero non ci importa più di loro se hanno seguito il percorso a cui tutti, in carcere, dovrebbero tendere? Ma non è ciò per cui ( anche ) sono stati messi in galera? Eppure, e lo testimonia chi questi percorsi ha seguito, c’è chi è ormai giunto ad un livello di maturità tale da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore delle vittime… Dare adeguato spazio a questo significherebbe anche rendere merito e aiutare chi nell’amministrazione penitenziaria agisce in questa direzione pur nelle condizioni difficili, quando non impossibili, che conosciamo. In un momento in cui si richiede l’impegno di tutti nella lotta contro le mafie, perché allora non far sapere che una strada è possibile, che c’è chi, dopo aver sofferto e aver raggiunto un profondo intimo cambiamento,( e provate un secondo a immedesimarvi: entrare in carcere a 25 anni ed essere ancora lì a 50, 60…) potrebbe offrire alla società la testimonianza del suo percorso? E invece no, vincono gli orrori… cosa che poi, anche se non vogliamo, diventa ben funzionale alla necessità di dare in pasto alla gente, all’elettorato, direi in questo momento, norme sempre più restrittive, spesso feroci, che come nella pesca con reti a strascico rastrellano le periferie, e non intendo solo in senso fisico, delle nostre città… Mi piacerebbe che fossero i giovani cronisti a ragionare su questo. A chiedersi se la cronaca "nera" debba finire precisamente dove inizia "la bianca" o la "società", come si dice adesso, e non saperne nulla l’una dell’altra. Con tutte le differenze del caso, queste catalogazioni mi fanno lo stesso triste effetto di quando mi sono occupata per Radio Uno di una rubrica sulla disabilità. Storie di persone, ma anche questioni politiche e di economia e lotte "di classe", libri, cultura… Non ho mai veramente capito quando e perché la storia di una persona con disabilità possa uscire dal recinto di una rubrica ed essere "degna" di diventare cronaca, quando bianca e quando nera… In generale, non ho mai capito, e mi rifiuto di capirlo, dove finisca la cronaca e dove inizi la cultura… Tornando alla criminalità, mi sono chiesta e continuo a chiedermi: ma il carcere "duro" non è stato studiato, oltre che per punire, per educare anche i criminali? E perché allora quando succede, che le condizioni portino a una profonda riflessione sulla vita che è stata, non ne vogliamo sapere, come si trattasse di errori di scrittura…. Credo che continuando a dividere il mondo in bianco e nero, e stabilendo da subito chi è bianco e chi è nero, e occupandoci solo di chi appare subito evidente "nerissimo", e così vogliamo che rimanga, non facciamo che assecondare le derive peggiori del nostro fragile, impaurito, pensiero. Giustizia: Napolitano; sulle carceri è tempo di intervenire, rispettare diritti dei detenuti di Aldo Puthod Ansa, 28 aprile 2014 "In effetti, è ora - a distanza di oltre sei mesi dal messaggio da me rivolto al Parlamento a questo proposito - di fare il punto sulle misure adottate e da adottare, anche in ossequio alla nota sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo". Giorgio Napolitano ringrazia il Santo Padre per la telefonata a Marco Pannella e coglie l’occasione per rilanciare un tema a lui carissimo: quello della condizione dei carcerati. Poche righe destinate a riaprire un dibattito sempre sotto traccia anche su amnistia e indulto, cuore della protesta del leader Radicale. "Nel salutare il Pontefice - a conclusione della storica cerimonia di questa mattina in San Pietro - ho voluto ringraziarlo - afferma Napolitano - per il generoso gesto della sua telefonata di qualche giorno fa a Marco Pannella, che si espone anche ad un grave rischio per la sua salute per perorare la causa delle migliaia di detenuti ristretti in condizioni disumane in carceri sovraffollate e inidonee". Resta quindi invariata, per il Capo dello Stato, la sostanza ed il senso del messaggio da lui rivolto alle Camere l’8 ottobre scorso. E soprattutto rimane ferma la necessità di rispondere in maniera adeguata alla "sentenza pilota" della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che l’8 gennaio 2013. Una sentenza pesantissima che parla di un "problema sistemico" non limitato a casi isolati e di una "violazione dell’art. 3 della Convenzione europea che, sotto la rubrica "proibizione della tortura", pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti a causa della situazione di sovraffollamento carcerario in cui i ricorrenti si sono trovati". Napolitano, in quell’occasione, sottolineava l’esigenza posta da quella sentenza di trovare soluzioni entro un anno dalla sua decorrenza, il 28 maggio 2013. Manca cioè meno di un mese a quella scadenza, pare ricordare Napolitano quando dice che "è ora" di fare il punto. Se non si darà risposta, peraltro, ripartiranno le miglia di ricorsi sospesi in questi 12 mesi. "Ricorsi - sottolineava Napolitano nel suo messaggio - che, in assenza di effettiva, sostanziale modifica della situazione carceraria, appaiono destinati a sicuro accoglimento stante la natura di sentenza pilota". Ora il presidente della Repubblica torna a lanciare il suo monito e a chiedere l’impegno delle istituzioni: il Parlamento, e anche il governo, ora dovranno rispondere. Come scriveva Napolitano alla fine del suo messaggio: "Onorevoli parlamentari, confido che vorrete intendere le ragioni per cui mi sono rivolto a voi attraverso un formale messaggio al Parlamento e la natura delle questioni che l’Italia ha l’obbligo di affrontare per imperativi pronunciamenti europei. Si tratta di questioni e ragioni che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria e della politica per la giustizia". 12 mila detenuti in più rispetto ai posti Rispetto a un anno fa la situazione è migliorata, ma il sovraffollamento resta la piaga delle nostre 205 carceri: rispetto ai posti disponibili ci sono quasi 12 mila detenuti in più. Gli ultimi dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia sono aggiornati al 31 marzo scorso. E dicono che il numero dei reclusi supera la quota di 60 mila: 60.197 per l’esattezza, rispetto a una capienza regolamentare di 48.309 posti. Un anno fa alla stessa data i detenuti erano 65.831 e quelli in sovrannumero sfioravano i 19 mila. Tra le regioni, le situazioni peggiori si registrano in Lazio e Lombardia: nella prima la popolazione carceraria è a quota 6.777 mentre i posti si fermano a 4888; nella seconda il numero dei reclusi raggiunge le 8.678 unità a fronte di una capienza di 5.920. E sono solo due le regioni in cui il saldo è positivo : la Sardegna (dove i detenuti sono 1.895 e i posti 2.532) e la Valle D’Aosta (166 a fronte di 181). Nei nostri penitenziari è più che consistente la presenza di stranieri: sono 20.729, cioè un terzo dell’intera popolazione carceraria. Oltre 20 mila detenuti sono presunti innocenti: 10.570 sono in attesa di giudizio, cioè non sono stati ancora sottoposti a processo; 11.089 non hanno ancora una condanna definitiva. Ad affollare le carceri sono soprattutto gli uomini: le donne sono 2.533, cioè poco più del 4% dell’intera popolazione carceraria Giustizia: il Colle e l’emergenza carceri, Napolitano chiede misure urgenti per i detenuti di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 28 aprile 2014 Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non ha usato mezze parole: "A distanza di oltre sei mesi dal messaggio da me rivolto al Parlamento sull’emergenza carceri è ora di fare il punto sulle misure adottate e da adottare, anche in ossequio alla nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo". Persino in piazza San Pietro, dopo la santificazione dei due Papi, il capo dello Stato ieri mattina ha voluto approfittare della vicinanza con papa Francesco per tornare sul dramma delle carceri del nostro Paese. Lo ha fatto rivolgendosi al Papa direttamente in piazza San Pietro e prendendo spunto dalla vicenda del malore al leader radicale Marco Pannella. Ha spiegato infatti in una nota il presidente Napolitano: "Nel salutare il Pontefice a conclusione della storica cerimonia in piazza San Pietro ho voluto ringraziarlo per il generoso gesto della sua telefonata di qualche giorno fa a Marco Pannella che si espone a un grave rischio per la sua salute per perorare la causa delle migliaia di detenuti ristretti in condizioni disumane in carceri sovraffollate e inidonee". Il punto adesso per l’Italia è l’imminenza della sentenza della Corte europea. Scadrà infatti fra un mese esatto (il 28 maggio prossimo) l’ultimatum lanciato all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Siamo già stati sanzionati dalla Corte, l’8 gennaio del 2013, per via delle nostre carceri troppo affollate e disumane: la famosa sentenza Torreggiani, con la quale Strasburgo ha accolto il ricorso di sette detenuti giudicando le loro condizioni una violazione degli standard minimi di vivibilità. Abbiamo pagato 100 mila euro per ognuno di quei detenuti. Ma non solo: la Corte è entrata nel merito e ha denunciato che il sovraffollamento delle prigioni del nostro Paese ha carattere strutturale e sistemico. Non hanno avuto dubbi a Strasburgo: "Il sovraffollamento deriva da un malfunzionamento cronico del nostro sistema penitenziario". La Corte europea aveva verificato che nelle nostre prigioni i detenuti non avevano nemmeno tre metri quadrati di spazio a disposizione per ciascuno. Nove mesi dopo questa sentenza, l’8 ottobre 2013, era stato proprio il presidente Napolitano a sollecitare le Camere affinché prendessero i provvedimenti idonei a sanare la drammatica ferita delle nostre carceri, rispondendo così alla Corte europea. Ieri il nuovo monito del capo dello Stato: "È ora di fare il punto". Il presidente Giorgio Napolitano è decisamente preoccupato. L’Italia - oltretutto - rischia multe salatissime (si dice potrebbero arrivare anche a 300 milioni di euro), nonché il rischio di far ripartire centinaia di ricorsi rimasti fermi in questi dodici mesi. Una preoccupazione che il ministro della Giustizia Andrea Orlando tiene ben presente perlomeno ad ascoltare la sua risposta all’interrogazione che ha fatto la settimana scorsa in Senato. Il Guardasigilli ha sottolineato come fra le (quattro) emergenze rilevate all’interno del suo dicastero quello dei penitenziari è certamente al primo posto e ha garantito che sta prendendo ogni tipo di provvedimento non soltanto per far rispettare la condizione minima dello spazio vitale (i tre metri quadrati) che la Corte europea ritiene una condizione necessaria ma non sufficiente. Giustizia: nuovo richiamo di Napolitano al Parlamento… subito misure per i carcerati di Amedeo Lamattina La Stampa, 28 aprile 2014 Le condizioni disumane delle carceri italiane hanno sempre bisogno di essere riportate all’attenzione della politica e del Parlamento. In questi giorni ancora una volta ci ha pensato Marco Pannella con lo sciopero della sete che il leader Radicale ha parzialmente interrotto dopo una telefonata di Papa Francesco. Il Pontefice gli ha promesso che l’avrebbe aiutato "contro questa ingiustizia". "Parlerò di questo problema...", è stato l’impegno del Santo Padre. Ma ieri è tornato a occuparsi del problema il capo dello Stato che sei mesi fa aveva inviato alle Camere un messaggio su questa emergenza. "È ora di fare il punto sulle misure adottate e da adottare sulle carceri, anche in ossequio alla nota sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo". Salutando il Pontefice a conclusione della cerimonia di canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ieri il presidente della Repubblica lo ha ringraziato per "il generoso gesto" fatto con la telefonata a Pannella, che "si espone a un grave rischio per la sua salute". Un rischio che già altre volte il capo storico dei Radicali ha corso. E, questa volta, nonostante l’intervento all’aorta addominale. Ma Giorgio Napolitano ha fatto presente che l’azione di Pannella serve a perorare "la causa delle migliaia di detenuti ristretti in condizioni disumane in carceri sovraffollate e inidonee". Ecco, per il capo dello Stato è arrivato il momento di fare il punto della situazione con il governo e il Parlamento sulle misure necessarie da adottare, anche perchè ce lo chiede l’Europa. Non è un caso se Napolitano ricorda che sull’Italia grava una sentenza di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In sostanza non è più possibile rinviare, ma è giunto il momento di dare seguito all’esortazione del Quirinale e di rispondere all’Europa. In quella sentenza, infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stata durissima con il nostro Paese. Il dispositivo parla di un "problema sistemico" non limitato a casi isolati e di una "violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea che, sotto la rubrica "proibizione della tortura", pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti a causa della situazione di sovraffollamento carcerario in cui i ricorrenti si sono trovati". Viene tra l’altro chiesto di trovare una soluzione entro un anno dalla decorrenza della sentenza, cioè il 28 maggio 2013.Quindi l’Italia ha ancora un mese per mettersi in regola e uscire da una condizione che non è degna di un Paese civile e occidentale. Napolitano torna a ricordarlo, ma non sembra che la politica e il Parlamento abbiano i riflessi pronti. Giustizia: emergenza carceri, Napolitano torna a strigliare le Camere di Umberto Rosso La Repubblica, 28 aprile 2014 "Dopo sei mesi, fare il punto sulle misure". Grazie al Papa per la telefonata a Pannella. Napolitano ne ha parlato anche con Papa Francesco, incontrandolo nel giorno delle canonizzazioni a San Pietro, "ringraziandolo" per aver convinto Pannella a sospendere lo sciopero della fame sul dramma-carceri. "Santità, Marco mette a rischio la sua salute in nome di migliaia di detenuti". Papa Bergoglio gli ha anticipato che lui stesso si prepara a intervenire, ad accendere anche il faro della Chiesa sulle sofferenze all’interno delle celle del nostro paese. E il capo dello Stato ha deciso così che era arrivato il momento di lanciare una nuova sveglia al Parlamento: a distanza di sei mesi dal suo messaggio alle Camere sulla insostenibile condizione carceraria, non è stato ancora sciolto il nodo dell’amnistia e dell’indulto. "È ora di fare il punto - sollecita dunque il presidente della Repubblica - sulle misure adottate e da adottare". Anche "in ossequio", aggiunge, alla condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo, quella che ha punito il nostro paese per le "torture" che - causa sovraffollamento e disumano degrado - i detenuti subiscono in carcere. Sentenza "umiliante" per l’Italia, l’ha definita Napolitano, ma ormai ad un passo dalla "applicazione": resta tempo fino al 28 maggio per mettersi in regola e "svuotare" i penitenziari che scoppiano, oppure scatteranno le pesantissime sanzioni Ue che accoglierà i ricorsi di centinaia di carcerati per violazione dei diritti umani. Una corsa contro il tempo che però sembra segnata dall’immobilismo. Ecco allora la nuova frustata di Napolitano, deluso che quel suo accorato grido d’allarme lanciato nell’ottobre scorso in forma solenne sia caduto in gran parte nel vuoto. Qualche misura tampone, ma la situazione resta al collasso. Il capo dello Stato nel suo appello indicava un pacchetto complessivo di interventi ma sollecitando "la soluzione straordinaria" di fronte ad un’emergenza senza fine. Strada non facile da percorrere, con la maggioranza necessaria dei due terzi in Parlamento, e subito ostacolata dalle polemiche su un presunto "favore" a Berlusconi adombrato dai grillini. Lo stesso Matteo Renzi (ancora semplice aspirante segretario pd) aveva polemizzato con il capo dello Stato. Nel frattempo però, con la condanna e la decadenza dell’ex Cavaliere, il fattore Berlusconi non condiziona più. È cambiato anche il governo, da Letta a Renzi. Lo svuota-carceri continua a non arrivare. Per il Parlamento ecco dunque l’ultima chiamata. Napolitano lo aveva già messo in mora un paio di mesi fa, "si prenda la responsabilità di approvare un provvedimento di indulto, oppure abbia il coraggio di dichiarare apertamente di non considerarlo necessario". Giustizia: Tamburino (Dap); abbiamo dimezzato sovraffollamento, ma servono altri spazi di Liana Milella La Repubblica, 28 aprile 2014 Il carcere? "Non si è mai fatto abbastanza". Il Parlamento? "I suoi tempi, a volte, non sono quelli della nostra drammatica emergenza". Napolitano? "È il presidente che ho visto commuoversi a San Vittore e a Poggioreale". Pannella? "È una vedetta che non ci permette mai distrazioni". Così risponde a Repubblica il direttore delle carceri Giovanni Tamburino. "Carceri sovraffollate e inidonee". Napolitano parla di nuovo dei penitenziari. Allarme giustificato? "Lo è senza dubbio. Si è fatto molto in questi ultimi due anni, ma non tutto. Il sovraffollamento è in sostanza dimezzato, ma abbiamo circa 120 detenuti ogni 100 posti. È vero che abbiamo rimediato con grande fatica al problema dei 3 metri quadri, ma le difficoltà del carcere non sono legate solo alla superficie". Strasburgo vi ha dato un anno. Ce la farete per il 28 maggio o l’Italia rischia migliaia di condanne? "Sotto il profilo dello spazio ce l’abbiamo già fatta, ma bisognerà compensare chi lamenta di aver subito un trattamento disumano. Come ha detto il Guardasigilli Orlando al Senato, bisognerà pensare a un rimedio compensativo come ci richiede la stessa Corte di Strasburgo". Il capo dello Stato ha sollecitato misure di clemenza. Il Parlamento declina l’invito. Lei, da tecnico, che ne pensa, amnistia e indulto sono necessari? "La scelta è politica. Ma ho sempre detto che io, personalmente, condivido in tutte le sue parti il messaggio del Presidente. Come amministrazione penitenziaria ritengo, in tutta coscienza, di aver fatto tutto ciò che era umanamente possibile per risolvere i problemi più gravi del carcere. Eppure, con altrettanta franchezza, devo riconoscere che non si è ancora realizzato tutto". Che cosa manca ancora? "Ci sono stati consegnati 3mila posti carcere, ma ne attendiamo almeno altrettanti. Aprire un carcere è complicato perché richiede personale che soprattutto al Nord è carente. Per molte migliaia di detenuti abbiamo aperto le porte delle celle, ma ancora non siano riusciti a dare a tutti un lavoro". Napolitano richiama il Parlamento che forse se la sta prendendo un po’ troppo comoda con le leggi sul carcere. Cosa l’ha aiutata nella sua gestione? "Molto positiva è stata la legge sulla detenzione domiciliare che ha avuto circa 14mila applicazioni dal 2010 con una bassissima percentuale di insuccessi. Lo stop alle "porte girevoli" ha prodotto un calo degli ingressi di circa la metà. Aver "liberato" la legge Gozzini dalle preclusioni della ex Cirielli ha comportato un sensibile aumento delle misure alternative al carcere". Questo è successo prima del messaggio. E dopo? "A dicembre l’ex governo Letta ha varato il decreto per aumentare l’affidamento in prova ai servizi sociali fino a 4 anni e ha ampliato la liberazione anticipata portando lo sconto di pena da 45 fino a 75 giorni. L’effetto complessivo è di assoluta evidenza: nel 2010 avevamo quasi 69mila detenuti, oggi sono 9mila di meno. Su questa linea il ministro Orlando si sta muovendo con decisione, con misure come il rimpatrio dei detenuti stranieri discusse con i procuratori di tutta Italia". Il Parlamento è in ritardo su altre leggi utili? "È appena passata quella sulla messa alla prova, ma manca la riforma della custodia cautelare, e purtroppo si è dovuta prorogare di un anno la chiusura definitiva degli Opg". Giustizia: caso Magherini; almeno uno dei Carabinieri lo prese a calci mentre era a terra di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 28 aprile 2014 Firenze, il messaggio del titolare dell’indagine al legale dei familiari riapre la polemica sulla morte del giovane. "Almeno uno dei militari lo prese a calci mentre era immobilizzato a terra". Ma poi la Procura negò le violenze. Era il 17 marzo quando il pm titolare del fascicolo sulla morte di Riccardo Magherini scriveva all’avvocato della famiglia che c’era motivo di ritenere che uno dei militari intervenuti quella notte lo avesse picchiato. Il magistrato, Luigi Bocciolini, sembrava non avere dubbi, tanto da scriverlo in una mail, pur chiarendo che non vi era prova che quella fosse stata la causa della morte. Comunque, spiegava, c’erano gli estremi per contestare a quel militare le percosse. Non una cosa da poco. Per di più comunicata in forma scritta all’avvocato della parte offesa. Erano passate due settimane esatte dalla notte in cui Magherini, ex calciatore nelle giovanili della Fiorentina ormai quarantenne e padre di un bimbo di 2 anni, era morto durante un arresto. Ma il magistrato, nonostante ancora mancassero i risultati di parecchi accertamenti, sembrava certo: "Sotto il profilo del segreto investigativo, Le rappresento la situazione: vi è in fondato (qui un errore di battitura, tutto fa pensare che il pm volesse dire "il" o "un") motivo di ritenere che almeno uno dei militari intervenuti abbia colpito il ragazzo con dei calci al fianco mentre era a terra ammanettato". Il pm aveva già visionato il video girato da una finestra che affaccia su Borgo San Frediano mostrato durante una conferenza stampa indetta dal presidente della Commissione diritti umani Luigi Manconi giovedì in Senato e sembrava avere le idee piuttosto chiare. Tanto che, continua: "Non appare essere, allo stato, una condotta influente sotto il profilo eziologico con l’evento "morte", ma le indagini proseguono per individuare il militare (quanto meno sussiste l’art. 581 c.p., percosse)". Insomma, in barba al citato "segreto investigativo", il magistrato non lascia dubbi su quale sia il suo orientamento sulla vicenda. Che le percosse ci siano state pare essere indubbio, tanto da ipotizzare il reato, anche se non è detto che abbiano causato la morte. Eppure, due giorni fa, la procura di Firenze, in risposta alla conferenza stampa del senatore Manconi, ha diffuso un comunicato di tutt’altra natura in cui precisa che "non si evidenziano violenze di alcun genere contro Magherini. Si odono distintamente invocazioni di aiuto da parte dello stesso, di contenuto analogo a quello che, secondo le univoche dichiarazioni dei testimoni, faceva anche prima dell’intervento dei carabinieri e che denunciavano una condizione di agitazione psico-motoria e uno stato di allucinazione che avevano indotto i militari a richiedere l’intervento del 118". La Procura anticipa anche i risultati dell’autopsia effettuata sul corpo del 40enne (risultati che, peraltro, ancora non sono ufficialmente arrivati agli inquirenti) e precisa che: "Non sono state riscontrate lesioni riconducibili a percosse". Una nota che ha messo in allarme i familiari della vittima che su Repubblica hanno chiesto per quale motivo la procura, nel giro di un mese e senza alcun esito ufficiale, abbia cambiato idea. E che, in ogni caso, non spiegano le tante ecchimosi sul corpo dell’ex calciatore e molte delle dichiarazioni di alcuni dei testimoni che, dalla finestra, hanno assistito all’arresto. Intervista a Luigi Manconi: "si indaghi su quel corpo ferito", di Maria Elena Vincenzi "Chiunque può vedere su Internet le immagini di quel fermo. Mi sono limitato a schiarire il video e a cercare di cogliere le frasi che al primo ascolto erano indecifrabili". Ora quelle parole si capiscono e il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione per i Diritti Umani, le ha fatte sentire durante una conferenza stampa sulla morte di Riccardo Magherini. "La Procura con i suoi mezzi sofisticati può fare molto di più per ricostruire la dinamica. Si parla di altri video, com’è probabile, considerato il numero di persone lì presenti. Ciò che è incontrovertibile è che un uomo palesemente inoffensivo e disarmato, altrettanto palesemente in stato confusionale, cerca soccorso e grida ripetutamente "aiuto". Eppure, senatore, non sembra lo abbiano aiutato. "Dovrebbero esserci mille modi per contenere qualcuno, se necessario, e impedirgli di fare del male a se stesso e ad altri. Tanto più se a intervenire sono militari. Certamente, in questa circostanza, è stato adottato il metodo peggiore, quello che, pressoché fatalmente, avrebbe potuto portare alla morte del fermato: quattro uomini robusti, che gravano con tutto il loro peso su un corpo steso per terra con i polsi ammanettati, il volto sull’asfalto e in evidente stato di sofferenza. E, prima di questa immobilizzazione violenta, ci sono le immagini che sembrano mostrare percosse e calci. Poi c’è il tempo incredibilmente lungo in cui quel corpo rimane per terra privo di alcun soccorso". La Procura, nei giorni scorsi, ha annunciato che nel video non ci sono le prove della violenza. "Quel comunicato, non firmato, impersonale e attribuito alla Procura, mi lascia esterrefatto. Ho convocato una conferenza stampa come parlamentare, ho mostrato un video e ho chiesto verità e giustizia. Mi si risponde con una nota anonima, come se io adesso mi rivolgessi a lei impersonalmente come Senato. Il testo è strabiliante: si dice che il video non documenterebbe violenze, ma sembra che ci si riferisca prudentemente solo alla seconda parte. Poi si anticipano presunti risultati dell’autopsia che non sono stati ancora ufficializzati e tantomeno trasmessi ai primi interessati, i familiari". Il fratello di Riccardo, Andrea, ha parlato di una email in cui il pm fa riferimento alle percosse. "Qui la bizzarria di quella nota attinge il grottesco. Il pm prima avrebbe comunicato l’intenzione di indagare "almeno uno dei militari" che avrebbe colpito l’uomo: e ciò, evidentemente, proprio sulla base del video che documenta le percosse. Dopo qualche giorno, si nega tutto con un comunicato anonimo". Per di più ci sono le foto, piuttosto eloquenti, del corpo del ragazzo. "Questo rende indispensabili ulteriori accertamenti e nuovi campionamenti sul corpo di Magherini". Immagini che fanno riaffiorare i ricordi di altri casi simili. "Va detto che le modalità di questi fermi, così irrazionali e brutali, richiamano non solo la morte di Michele Ferrulli, Riccardo Rasman e Federico Aldrovandi, ma anche quella di altri rimasti sconosciuti o caduti nell’oblio". Lodi: Farina (Sel); braccio di ferro nel carcere, occorre subito una risposta dal ministero di Tommaso Papa Il Giorno, 28 aprile 2014 Sono passati oltre due mesi dall’ispezione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel carcere di Lodi, ora è il momento di avere risposte sullo scontro in atto tra la direzione e il personale di via Cagnola. Lo sostiene il capogruppo di Sel in Commissione Giustizia della Camera, il deputato milanese Daniele Farina, autore di una recente interrogazione sull’argomento. Sono passati oltre due mesi dall’ispezione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel carcere di Lodi, ora è il momento di avere risposte sullo scontro in atto tra la direzione e il personale di via Cagnola. Lo sostiene il capogruppo di Sel in Commissione Giustizia della Camera, il deputato milanese Daniele Farina, autore di una recente interrogazione sull’argomento. "Premetto che Sinistra e Libertà sin dall’indomani delle elezioni si è concentrata sul tema delle carcere - spiega il parlamentare - Io stesso personalmente ho visitato quello di Lodi circa un anno fa per constatarne direttamente i problemi". E ce n’erano? "Il contenzioso del quale si parla l’ho appreso dalla stampa più tardi, negli ultimi mesi - risponde Farina - quando sono venuto a dire la verità non me ne sono accorto". E tuttavia, nel suo ruolo chiave in commissione Giustizia, non ha voluto trascurare la presa si posizione delle guardie carcerarie e la proclamazione dello stato d’agitazione. "Le emergenze che affiorano dai detenuti e da quel mondo sono tutte rilevanti - spiega il deputato - ma fanno ancora più impressione se provengono da una realtà come quella lodigiana che non è, almeno apparentemente tra le più drammatiche. Penso a San Vittore o ad altre prigioni dive le condizioni generali sono davvero peggiori". Che idea si è fatto della vertenza in corso? "Non mi sento particolarmente vicino ad alcune delle sigle sindacali che protestano, ma questo non vuol dire che io non debba intervenire per il mio ruolo: non dò ragione a nessuno, né alla direttrice né a chi la contesta, ma chiedo con fermezze che la situazione venga chiarita da un organo terzo come possono essere gli ispettori del guardasigilli Orlando: la loro venuta risale ormai a oltre due mesi fa, possibile che non se ne sappia ancora nulla?" Come deputato coinvolto direttamente nei temi della giustizia e della carceri pensa di tornare presto in via Cagnola per una nuova ispezione? "Non credo immediatamente, vorrei seguire la strada istituzionale e attendere conclusioni del ministero di via Arenula". E se nessuno si farà vivo? "Penso che verremo a Lodi per ascoltare le parti della vertenza e dire la nostra. Il punto di base per Sel è di non lasciare solo il mondo del carcere con i suoi problemi", Che a Lodi, secondo i sindacati delle guardie, si riassumono in critiche condizioni per il personale e pessime relazioni con la direttrice Stefania Mussio. Napoli: vent’anni nell’ospedale psichiatrico giudiziario solo per aver rubato un portafogli di Sarah Meraviglia Roma, 28 aprile 2014 Viaggio nella struttura di Secondigliano dove ci sono 95 internati. Chi esce, poi rientra: fuori nessuna speranza. Vergogna "manicomi" giudiziari; c’è una legge per chiuderli, ma si va avanti di proroga in proroga. "Sei un detenuto come tutti gli altri! Ti ho detto di metterti in fila!". Queste le parole di un agente penitenziario dell’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) di Secondigliano. Ma se la struttura nella quale risiedono viene chiamata "ospedale", perché gli internati non vengono chiamati pazienti? Perché non sono affidati, come dovrebbero, al ministero della Salute, bensì al ministero della Giustizia. Perché evidentemente nel contesto sociale in cui sono costretti a vivere la loro colpevolezza assume un peso maggiore rispetto al loro stato di esseri umani. Ma di quali colpe parliamo poi in realtà? C’è chi è rimasto dentro per 20 anni per aver rubato un portafogli o per essersi travestito da donna, con smalto e maglione lungo, colpevole di aver scandalizzato la morale borghese. Le sentenze dei giudici non sono tanto aspre, ma molte famiglie rifiutano di assumersi la responsabilità di badare ad una persona che avrebbe bisogno di essere seguita e supportata in ogni aspetto della propria vita quotidiana.. Nell’Opg di Secondigliano si trovano al momento 95 uomini, racconta fra Sereno, cappellano della struttura. "Quando ho iniziato a conoscere questa realtà qualche anno fa, gli internati erano 140 quando invece la capienza massima tollerata era di 120; negli ultimi anni per fortuna il numero si è ridotto ma molti purtroppo ritornano". Ritornano perché il mondo esterno non li accetta. Ricevendo raramente supporto dai nuclei familiari e avendo prospettive lavorative pari a zero (la fedina penale sporca unita ad instabilità mentale non garantisce di certo un curriculum esemplare), molti ripetono reati commessi in precedenza spinti proprio dal desiderio di rientrare in Opg, non perché sia un resort a 5 stelle ma perché è l’unica realtà in cui si ritrovano. In Italia gli Opg nascono negli anni 70, con la chiusura dei manicomi criminali. Oggi ne esistono in tutto 6 (due dei quali in Campania). L’idea iniziale era quella di abolire le ignominie dei manicomi che usavano camicie di forza, cinghie e metodi violenti per tenere a bada gli internati, costruendo strutture alternative che si occupassero soprattutto del recupero della persona. La realtà però è ben diversa, servizi igienici carenti, assistenza sanitaria (medici e psicologi) insufficienti, sovraffollamento, vitto e alloggio precari. L’ha attestato un’inchiesta parlamentare condotta nel 2011 dall’attuale sindaco di Roma Ignazio Marino, in seguito alla quale nel 2012 è stata approvata dal Senato una legge che sanciva la chiusura degli Opg italiani entro marzo 2013. A seguito di due proroghe (una recentissima, che risale all’1 aprile di quest’anno) la nuova data prevista per la chiusura delle strutture è il 30 aprile 2015. Chi lavora all’interno di questa realtà si mostra però parecchio titubante: mancano fondi e soluzioni alternative, non basta costruire altre strutture apponendovi una nuova sigla che non sarà più Opg ma Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria). Ci sarebbe bisogno di personale specializzato, di supporto per gli internati e per gli agenti carcerari ma soprattutto di attività ricreative come botanica o pittura, che a Secondigliano per esempio, hanno avuto un impatto molto positivo. Intanto si continuano a somministrare più volte al giorno pesanti psicofarmaci a tutti i detenuti-pazienti e continuano le proteste contro questo sistema malato, emblematico il caso di Marco Pannella che nonostante un intervento all’aorta ha voluto continuare il suo sciopero della fame e della sete, interrotto solo dopo una telefonata al Papa. Belluno: "non scordiamo Mirco…", un presidio a quattro anni dalla morte di Sacchet di Gigi Sosso Corriere delle Alpi, 28 aprile 2014 Assemblea sotto il carcere di Baldenich a quattro anni dalla morte di Sacchet. Musica e canti fuori, gavette e coperchi sulle sbarre e fazzoletti bianchi dentro Gli amici di Mirco. Quelli del presidio fuori dal carcere di Baldenich con le voci e la musica diffusa dal sound system e gli altri dietro le sbarre con le gavette e i fazzoletti bianchi. L’hanno ricordato tutti con grande emozione, dalle tre del pomeriggio di un sabato in tinta con il dolore per il suicidio di un ragazzo, che il 13 aprile avrebbe compiuto 31 anni. Ne aveva 27, quando si è tolto la vita, mentre stava scontando una pena di due anni e 20 giorni patteggiati nel gennaio 2009. Piove un’acqua quasi autunnale, sotto un cielo di piombo, ma i ragazzi si sono organizzati con un tendone sopra i banchi, dove qualcuno ha appoggiato una torta al cioccolato. Il permesso è per cinque ore di assemblea, in compagnia di tre carabinieri e altrettanti poliziotti: "Liberi tutti, libere tutte". Sono gli agenti di custodia, con i loro baschi azzurri i bersagli della contestazione della mobilitazione nazionale organizzata dal coordinamento dei detenuti "per un’amnistia generalizzata, il miglioramento delle condizioni di vita dei reclusi e la scarcerazione dei malati cronici: contro l’ergastolo, i regimi speciali e punitivi, i reati ostativi e il sovraffollamento" Questo il contenuto di un volantino distribuito, con il volto di Mirco Sacchet e la foto dello striscione dell’anno scorso con la scritta "Non scordiamo Mirco. Solidarietà con i detenuti". Ieri il lenzuolone bianco è stato confezionato al momento, utilizzando una bomboletta di vernice spray di colore marrone: "Non scordiamo Mirco". Può bastare. Un trentunesimo compleanno celebrato simbolicamente, prima di un messaggio: "L’ha ammazzato questo carcere, non si è ucciso", grida un manifestante, "le guardie e la direzione". Oltre il campo da tennis in cemento, si alzano le mura della casa circondariale e i detenuti dell’ala che guarda l’istituto Agosti ringraziano per la musica e condividono la proteste. Qualcuno sbatte anche il coperchio di una pentola sull’inferriata, qualcun altro saluta con la mano. Uno di loro si chiama Mario e risponde alle domande dei manifestanti. Come state? "Male". In quanti siete in cella? "Cinque". Vaga la risposta sui metri quadrati: "Pochi". Scatta un coro spontaneo "Mirco, Mirco", che cambia improvvisamente e in peggio, quando lungo il muro di cinta compaiono tre agenti, che cominciano il loro giro. Potrebbero anche fare delle richieste musicali i detenuti, ma quello che conta è avere una colonna sonora diversa dal solito per qualche ora. Tutto può durare al massimo fino alle 20, sempre nel ricordo di Mirco Sacchet, un ragazzo che aveva scelto di essere in isolamento per il furto di un’auto. Agrigento: ex detenuto riammesso in graduatoria dei precari "ritardo istanza è scusabile" www.agrigentoweb.it, 28 aprile 2014 Lo stato di detenzione legittima il ritardo nella presentazione di istanze alla pubblica amministrazione. È quanto ha stabilito il giudice del lavoro di Agrigento reinserendo in graduatoria un lavoratore. D.P., 59 anni, di Siculiana, fin dal 1984 lavorava alle dipendenze dell’Azienda regionale delle foreste demaniali con la qualifica di bracciante agricolo giornaliero nei lavori di rimboschimento della provincia. Nel 2009 il siculianese non veniva confermato nella graduatoria perché non aveva presentato l’istanza di riconferma essendo detenuto. La moglie del bracciante, con una nota, chiedeva successivamente il reinserimento del coniuge in graduatoria facendo presente la situazione di forza maggiore intervenuta ed allegando una dichiarazione del coniuge autenticata dal coordinatore di reparto della casa circondariale "Pagliarelli" di Palermo dove l’uomo era ristretto. In un primo momento il dipartimento Lavoro lo reinseriva nella graduatoria. In seguito, invece, essendo intervenuto un parere dell’Ufficio legislativo e legale della Regione Siciliana secondo cui è da considerarsi perentorio il termine di presentazione dell’istanza, il bracciante siculianese veniva escluso. Veniva, quindi, proposto un ricorso giurisdizionale contro l’Ufficio provinciale del lavoro di Agrigento davanti al giudice del lavoro, con il patrocinio degli avvocati Girolamo Rubino e Mario la Loggia, contro il provvedimento di esclusione dalla graduatoria, invocando il beneficio "dell’errore scusabile". In particolare gli avvocati Rubino e La Loggia hanno censurato il provvedimento di esclusione della graduatoria sotto il profilo dell’eccesso di potere, per non avere l’amministrazione tenuto conto dell’ipotesi di forza maggiore che aveva impedito al ricorrente di potere presentare la richiesta di riconferma entro il termine prescritto dalla normativa. Si è costituito in giudizio l’ufficio Provinciale del Lavoro di Agrigento con il patrocinio dell’avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, per chiedere il rigetto del ricorso. Il giudice del lavoro di Agrigento, Chiara Gagliano, condividendo le tesi difensive degli avvocati Rubino e La loggia secondo cui ricorrevano i presupposti per accogliere la domanda di "rimessione in termini per errore scusabile" ha accolto il ricorso, dichiarando il diritto del ricorrente all’inserimento in graduatoria ed ordinando all’amministrazione resistente di reinserirlo nella lista. Immigrazione: "Io, toscano rinchiuso nel Cie… l’Albania? Per me è un Paese straniero" di Jacopo Storni Corriere della Sera, 28 aprile 2014 Interrogazione in Parlamento sul caso Ronny: arrivato a Lucca quando aveva 3 anni ora rischia il "rimpatrio". Interrogazione in Parlamento sul caso. C’è un toscano rinchiuso nel Cie. Trascorre le giornate insieme agli immigrati in attesa dell’espulsione. Anche lui dovrà lasciare l’Italia per tornare in Albania. È la sua terra natale. Una terra sconosciuta però, perché lui vive a Lucca da quando ha 3 anni. Ronny oggi ha 21 anni. Parla toscano e in Albania non ha né amici né parenti. Tanto meno una casa. I suoi genitori vivono a Lucca, i suoi nonni vivono a Lucca, tutti regolari. I suoi amici sono toscani, suo fratello è nato in Italia così come la sua fidanzata. Da quasi un mese è detenuto nel Cie di Bari. Prega e soffre. Incredulo e disperato. Non vuole andare in Albania. Non vuole lasciare la Toscana. Gli avvocati e i familiari combattono insieme a lui, ma per la legge italiana Ronny è un clandestino da espellere. Uguale a tutti i suoi compagni di cella. La storia di Romino Vellku, chiamato Ronny dagli amici, è stata raccontata da "Redattore Sociale". Una storia non isolata, dove la rigidità della legislazione si scontra con la realtà dei fatti. Tutto ha inizio lo scorso marzo, quando il giovane si reca dai carabinieri per rinnovare il permesso di soggiorno. Le cose non vanno come crede. E invece del rinnovo del permesso, gli viene conferito un decreto di espulsione. Colpa dei reati che ha compiuto da adolescente, prima un furto e poi una rapina, motivo per cui il suo permesso di soggiorno non può essere rinnovato. Ritenuto dai carabinieri di Lucca socialmente pericoloso, Ronny è stato immediatamente trasferito al Cie di Bari a bordo di un aereo. "È vero che sono stato un delinquente - racconta Ronny nella videointervista rilasciata dentro il Cie a Redattore Sociale - ma ho scontato i miei reati con due anni di carcere e adesso sono pulito. Se mi mandano in Albania, mi mandano in un Paese straniero. Io sono italiano". L’avvocato di Ronny, Tiziana Sangiovanni, presenterà ricorso al Tar, appellandosi all’articolo 5 del decreto legislativo 286/98: "Il decreto dice che l’espulsione deve tenere conto anche dei legami familiari e territoriali dell’immigrato. Il caso di Ronny è chiarissimo: sulla carta è irregolare, ma il suo Paese è sempre stato l’Italia da quando ha 3 anni. Casi simili si sono risolti quasi sempre con la permanenza dell’immigrato in Italia e auspichiamo che sia così anche in questa circostanza". La decisione del giudice potrebbe tenere conto anche della difficile adolescenza di Ronny. Figlio di genitori separati, il giovane ha vissuto per molto tempo lontano sia dalla madre, trasferitasi in Svezia col compagno, sia dal padre, spesso in Germania. Ronny avrebbe potuto ottenere la cittadinanza italiana, che si concede a chi risiede in Italia da almeno dieci anni, ma i suoi trascorsi penali e il distacco dai genitori hanno creato non poche complicazioni. Il caso di Ronny arriverà anche in Parlamento la prossima settimana, quando il deputato Pd e presidente del Cesvot Federico Gelli presenterà un’interrogazione parlamentare. "L’espulsione del ragazzo in Albania sarebbe un fatto assurdo - ha detto Gelli - perché lui vive in Toscana da quando ha 3 anni e neppure conosce il suo Paese natale. Capisco che c’è una legge che regola i flussi migratori, ma aldilà dell’interpretazione normativa bisogna tener conto dell’aspetto umano e della vita della persona che si nasconde dietro questa incredibile vicenda. Ronny è di fatto italiano. Presenterò un’interrogazione ai ministeri competenti e se ce ne sarà bisogno informerò direttamente il presidente del Consiglio Matteo Renzi". Una storia che ha scosso anche il Centro Nazionale Volontariato di Lucca, la città dove il giovane Ronny ha sempre vissuto. "È doppiamente paradossale - dice il presidente del Cnv e deputato Pd Edoardo Patriarca - Primo perché è ingiusto che una persona sostanzialmente toscana sia costretta a subire un’espulsione verso un Paese sconosciuto. Secondo perché evidenzia tutta la follia del sistema dei Cie, luoghi simili a lager, sicuramente peggiori delle carceri, che contribuiscono a mettere in dubbio la civiltà del nostro Paese". Usa: detenuto accusato omicidio vuole togliere tatuaggio "murder", ma sceriffo si oppone www.periodicodaily.com, 28 aprile 2014 Vi ricordate la porta di Shining con la scritta rosso sangue: "Redrum" cioè "Murder" all’incontrario? Jeffrey Chapman è un detenuto accusato di omicidio di primo grado per l’assassinio di Damon Galliart nel 2011. Il processo comincia il prossimo 28 aprile e Chapman ha un cospicuo tatuaggio con la scritta "Murder" sul collo visibile per il verso giusto solo allo specchio, vorrebbe cancellarlo o coprirlo per non fare una brutta impressione alla giuria ma l’operazione può essere fatta solo in un centro specializzato fuori dal carcere e lo sceriffo si oppone. Ucraina: Osservatori Osce; siamo ospiti… non prigionieri di guerra Adnkronos, 28 aprile 2014 I separatisti filorussi dell’Ucraina orientale hanno mostrato oggi ai giornalisti a Sloviansk alcuni esponenti del gruppo di 13 osservatori dell’Osce trattenuti da venerdì scorso. "Siamo ospiti di Ponomariov, non prigionieri di guerra", ha dichiarato uno dei quattro osservatori tedeschi riferendosi all’autoproclamato sindaco di Sloviansk, Viacheslav Ponomariov. L’osservatore tedesco ha affermato che tutti i membri del suo gruppo stanno bene, ma ha aggiunto di non conoscere le condizioni per la loro messa in libertà. "Dipendiamo dai nostri diplomatici, che devono negoziare con il sindaco", ha detto. I separatisti si sono detti disponibili a discutere con rappresentanti dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, aggiungendo di essere pronti a scambiare gli osservatori prigionieri con attivisti filorussi detenuti a Kiev. Mosca chiede rilascio "governatore" filorusso Il ministero degli Esteri di Mosca chiede che le autorità ucraine rilascino "al più presto possibile" l’autoproclamato "governatore" filorusso della regione di Donetsk, Pavel Gubarev. Due giorni fa, l’avvocato di Gubarev, Oleksandr Groshinski, ha detto alla tv Lifenews che il suo assistito ha iniziato uno sciopero della fame "a oltranza" nel carcere di Kiev in cui si trova. Gubarev ha guidato l’occupazione del palazzo della Regione di Donetsk l’1 marzo ed è stato arrestato cinque giorni dopo. Presi prigionieri 3 agenti forze speciali Catturati a Gorlivka, sono adesso detenuti a Sloviansk. I filorussi hanno catturato tre agenti delle forze speciali ucraine "Alpha" nella città di Gorlivka. Lo ha fatto sapere il comandante dei gruppi armati dei separatisti filorussi dell’Ucraina orientale, Igor Strelkov (che il governo di Kiev accusa di essere un colonnello dei servizi segreti militari russi), citato dalla tv filo-Cremlino Russia Today. I tre prigionieri sarebbero poi stati portati a Sloviansk, caposaldo dei filorussi.