Giustizia: ecco le dieci riforme che cambieranno le condizioni di carceri e tribunali di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2014 Diversi i provvedimenti varati dal governo , e altri sono in arrivo, con l’obiettivo di abbattere i tempi della giustizia non solo a vantaggio dei cittadini e dell’economia. Che le imprese restino invischiate nelle aule di tribunale rappresenta un danno economico per il Paese, quantificabile in percentuale del Pil. Ecco quali misure potrebbero semplificare la vita dei cittadini. Skype in carcere Partiamo dagli ultimi, nel senso di detenuti. Anche qui l’Italia è appunto sempre agli ultimi posti per situazione delle carceri, sotto il profilo del sovraffollamento e per le frequenti situazioni di disumanità. Ebbene il ministro a Strasburgo - alla Consiglio d’Europa - ha detto che intende introdurre l’uso delle carte telefoniche in tutte le carceri - è già possibile in 60 delle 206 strutture - e consentire l’uso di Skype, attualmente usato a Trieste e nel carcere femminile della Giudecca a Venezia. In arrivo anche a Ivrea e Alessandria. Mai più in carcere in attesa di giudizio I detenuti in attesa di primo giudizio sono scesi da 21mila di fine 2009 a 10mila mentre quelli ammessi a misure alternative sono passati da 12.455 del dicembre 2009 al 29.223 di fine 2013. Per risolvere il problema del sovraffollamento, i detenuti stranieri sconteranno la pena nel proprio Paese d’origine (da poco è stata redatta la convenzione con il Marocco). Il 18,6% degli stranieri in carcere in Italia proviene dal Marocco, il 16,1% dalla Romania, il 12,2% dalla Tunisia e un altro 12,2% dall’Albania. I processi dureranno meno Cinque milioni di processi civili di 1° grado arretrate, 400mila cause in appello. La soluzione per smaltirle? Secondo il ministro il processo telematico. Leggete qui due esempi virtuosi che di fatto precorrono la strada intrapresa dal ministro A Cremona i processi durano il 50% in meno Da dieci anni il giudice Pierpaolo Beluzzi è in prima fila per rendere più snella la giustizia presso il tribunale di Cremona. È appena balzato agli onori della cronaca per avere svolto il primo processo via Skype. Dal loro articolo, di cui riportiamo in corsivo alcuno stralci, abbiamo preso lo spunto per farci spiegare dal magistrato come si è arrivati a questa soluzione innovativa. Va premesso che al tribunale di Cremona già utilizzavano piattaforme analoghe per sentire a distanza in particolare i testimoni, come Adobe connect e Fuzebox, con l’impiego di linea ad alta velocità in fibra ottica. "Questo per evitare dispendiose trasferte delle quali lo Stato rimborsa solo il biglietto ferroviario" spiega il magistrato. Un testimone di Gela in particolare non aveva proprio i mezzi (100 euro) per affrontare la trasferta. In altri casi può essere spiacevole presentarsi in aula e comunque è un risparmio di tempo sia per i testimoni sia per la durata del processo. In un’occasione anche un avvocato ha approfittato delle tecnologia per collegarsi a distanza e "il ricorso costante alle telepresenza può avere ricadute positive sulla produttività dei difensori" riflette Beluzzi. Ogni volta che un detenuto del tribunale di Cremona viene sentito a distanza, invece di essere portato in tribunale con l’accompagnamento coattivo, si risparmiano 250 euro. In tutto dal 2007 si sono svolte 250 udienze con l’adozione di soluzioni tecnologiche per intervenire a distanza. "I tempi dei processi si abbattono del 50%" ha calcolato il giudice. L’idea è destinata a un uso diffuso in particolare tra le sedi di Crema e di Cremona. Nell’occasione del primo processo via Skype è stata usata questa piattaforma perché sono stati gli imputati stessi a chiederlo. Il tribunale si è attrezzato e quasi tutto è filato liscio. Sui quattro testimoni infatti solo uno ha avuto problemi di collegamento perché aveva un Ipad con connessioni wi-fi. Trovato un pc il problema si è risolto. Il collegamento con ogni testimone è durato in media 15 minuti. I collegamenti sono stati attivati con testimoni presenti a Cervia, Castelvetro di Modena, Barzanò (Lecco) e Arona, si legge su Cremonaoggi.it che ha dato la notizia. Gli avvocati difensori sono rimasti soddisfatti dell’iniziativa. L’udienza è stata poi aggiornata al prossimo 17 giugno per sentire via web altri testimoni Di processi in videoconferenza in tv se ne sono visti ma in questo caso si tratta di una ventina di postazioni fisse con telecamere allestite in diversi strutture come le carceri e non di connessioni via internet. Da Perugia storia di dematerilizzazione della giustizia". Dal 30 giugno il deposito telematico degli atti del processo, compresi quelli introduttivi, sarà obbligatorio. A Perugia storia di dematerializzazione della giustizia La procura di Perugia negli ultimi anni è stata un laboratorio di sperimentazioni in materia di dematerializzazione nella giustizia. A partire dal lavoro eseguito circa 10 anni fa nel corso del procedimento su falsi invalidi condotto dalla procura con circa 300 faldoni resi in formato digitale. Operazione poi seguita - sempre con un’operazione di digitalizzazione - da un procedimento fallimentare nel 2008 ( procura di Ascoli Piceno ) e da ultimo dall’inchiesta Delta-Titano, condotta dalla procura di Forlì riguardante reati di bancarotta fallimentare e processi a carico di istituti di credito forlivesi collegati con banche di San Marino. Nella città romagnola è tutt’ora in corso un ambizioso progetto di informatizzazione e dematerializzazione voluto dal magistrato Sergio Sottani, proveniente proprio da Perugia (con l’aiuto delle società Mi2 di Perugia - consulente Andrea Tomassini - e l’Abd di Arezzo, consulente Luca Magini). Ma sicuramente il procedimento mediaticamente più noto, oggetto di digitalizzazione, è stato quello legato ai fatti del G8 e della Maddalena seguito dalla Procura di Perugia con "migliaia e migliaia di atti giudiziari consultati dai magistrati sul proprio personal computer con un semplice click del mouse" spiega Tomassini. Digitalizzare e dematerializzare offre vantaggi sia in termini economici sia di tempistica. Ogni struttura, senza particolari software, potrebbe attuare tale procedura, semplicemente dando delle direttive interne sull’uso e la condivisione di file digitali tra gli uffici e usando le mail della Pec (posta elettronica certificata). "Basta poter usare uno scanner in ufficio per avviare un processo di digitalizzazione - dice Tomassini -. Purtroppo ancora esistono problemi con la firma digitale, nel caso della firma autografa, soprattutto negli uffici giudiziari. Una volta risolto il problema si potrebbe abbandonare completamente il cartaceo e passare alla fase successiva, cioè la conservazione sostitutiva dei documenti. La digitalizzazione non si limita ad archiviare informaticamente gli atti, ma è già proiettata nel futuro per poter consentire, ai magistrati e agli stessi avvocati, di consultare gli atti del procedimenti, nei propri tablet, smartphone o pc tramite un app dedicata". "Per quanto riguarda il risparmio di tempi processuali - spiega Tomassini - se si considera che un operatore addetto alla sola fotocopiatura svolge un’attività lavorativa pari a 6 ore al giorno, per una durata settimanale di sei giorni, e che in tale arco temporale riesce, in media, a fotocopiare 2mila pagine al giorno, nell’ipotesi di un fascicolo di 120mila pagine, tale attività avrebbe richiesto non meno di 3 mesi per la realizzazione di una sola copia del procedimento in oggetto". Inoltre, una fotocopiatrice professionale ha una durata media di circa 200mila pagine ed in questo lasso di tempo il toner necessario alle fotocopie dura, in media, circa 3-5mila pagine mentre il rullo immagine dura circa 20mila pagine. Da questi dati si evince che nel caso del procedimento interessato dall’attività di digitalizzazione, sarebbero servite, quanto meno, 24 cartucce toner e 6 rulli immagine, oltre il costo delle stesse fotocopiatrici. Separazione e divorzi "consensuali" saranno più veloci Le nuove regole scatteranno solo per famiglie senza minori. Si adotterà la formula della negoziazione assistita con un avvocato. Il tutto, quindi, in assenza della decisione di un giudice. I processi in corso si potranno spostare in sede "arbitrale" Al momento non è dato sapere per quale tipologia di materia il ministero intende adottare questa misura di abbattimento dei carichi pendenti nei tribunali. Notai in campo C’è in campo un ipotesi di affidare ai notai le autorizzazioni a compiere gli atti da ricevere nelle forme dell’atto pubblico e che riguardano minori e incapaci. Il giudice interverrebbe solo in mancanza delle condizioni prescritte dalla legge. Inoltre, ai notai verranno affidati gli adempimenti attualmente svolti dal cancelliere in materia di successioni. Un team per il giudice In arrivo la nascita di un ufficio del processo con l’utilizzo anche di tirocinanti abilitanti all’accesso alle professioni legali. Arriveranno anche dipendenti di altri ministeri, a partire da quello della Difesa. Contingentamento del numero degli avvocati In Italia ci sono 350 avvocati ogni 100mila abitanti, in Francia 80: troppi. Quindi è in arrivo il contingentamento delle abilitazioni - con il permesso di Bruxelles - o la previsione di un tirocinio presso un ufficio giudiziario. Più materie al giudice di pace In particolare verrà aumentato il valore delle controversie in materia di condominio, comunione dei beni ed esecuzioni mobiliari. Ma soprattutto verrà rafforzata la squadra dei giudicanti di pace (con i giudici onorari di tribunale e i vice procuratori onorari). Atti scritti dagli avvocati Grande novità: al giudice farebbe sempre capo la titolarità della stesura del primo, con le indicazioni dei punti di diritto e di fatto, che conducono alla decisione; ma la messa a punto delle motivazioni verrebbe affidata a un soggetto esterno, a un avvocato indicato dal Consiglio dell’ordine. Giustizia: il Papa chiama al telefono Pannella "l’aiuterò nella battaglia per le carceri" di Marco Dell’Omo Ansa, 26 aprile 2014 Papa Francesco e Marco Pannella, fianco a fianco in difesa dei carcerati. È bastata una telefonata per far nascere una nuova, inedita alleanza: quella tra l’anziano leader Radicale, campione di mille battaglie laiche, e il papa che sta rivoluzionando la Chiesa di Roma. Nel giorno di San Marco, Papa Francesco ha chiamato Pannella, reduce da un delicato intervento per un aneurisma all’aorta addominale, per informarsi delle sue condizioni di salute e per capire fino a che punto voglia portare avanti i suoi digiuni per i diritti dei detenuti. Dopo i saluti, Papa Bergoglio ha chiesto a Pannella se corrispondeva al vero quanto letto sui giornali circa la sua decisione di riprendere subito lo sciopero della fame e della sete in favore dei carcerati. "È così", ha confermato il leader Radicale, spiegando che solo in questo modo riesce a tenere alta l’attenzione dei media sulla sua denuncia contro le condizioni disumane dei detenuti. Anche a costo di mettere a repentaglio la sua salute, già debilitata a causa dell’intervento. Poi la telefonata è entrata nel vivo. Pannella ha ricordato l’impegno di papa Woytila per le condizioni dei carcerati. E papa Bergoglio, il papa che l’anno scorso celebrò la messa di giovedì santo lavando i piedi di 12 giovani detenuti nel carcere minorile di Casal del Marmo, ha dato tutto il suo appoggio alla battaglia del vecchio leone radicale, promettendo un suo intervento diretto. "Sia coraggioso, eh, anche io l’aiuterò, contro questa ingiustizia... ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati", è stato l’impegno che si è assunto il papa durante il colloquio con il leader radicale. E Pannella ha risposto ricordando che c’è "una parola chiave" per sbloccare l’emergenza carceri: l’amnistia. Alla fine della telefonata, durata una ventina di minuti, Pannella ha deciso di dar retta al Papa, e ha interrotto per un momento lo sciopero della sete: ha bevuto un caffè e ha accettato di sottoporsi a due trasfusioni di sangue che erano state richieste dai medici del Gemelli. Poi ha comunicato che da quel momento sarebbe tornato a non bere più nulla. L’annuncio di volere proseguire la sua protesta era stata comunicata da Pannella nella conferenza stampa di giovedì al Gemelli, l’ospedale dove è stato operato e dove è ancora ricoverato. Pannella si era presentato con un sigaro in bocca, ("l’unico lusso che mi permetto") e aveva rilanciato la battaglia per giustizia più giusta e per l’amnistia che "alleggerirebbe la disumana situazione carceraria". Pannella ha ricordato che l’Unione Europea ha condannato lo Stato italiano innumerevoli volte imponendo anche il risarcimento dei danni ai detenuti. "Questa situazione è inaccettabile - ha detto Pannella - dovrebbe essere giudicata dal Tribunale di Norimberga". Giustizia: il Papa chiama Pannella, l’inedita alleanza per carceri e amnistia di Carlo Tecce Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2014 Non è un uomo che s’arrende, neanche a se stesso, a un’operazione clinica, a una debolezza cronica. Ma ha bevuto un caffè per interrompere lo sciopero (non beve acqua) contro le carceri che tengono prigioniere la pietà, sovraffollate e spesso ignorate. Un attimo di pausa per riconoscenza a un gesto di attenzione e comprensione di Papa Francesco: il pontefice argentino che telefona al radicale Marco Pannella, venti minuti di colloquio, battute, affetto, incoraggiamenti. E poi il paziente Marco, ancora ricoverato al Policlinico Gemelli, si concede ai medici per una trasfusione. Questi venti minuti racchiudono mezzo secolo di battaglie, manifestazioni e anche provocazioni dei radicali per smontare i dogmi di uno stato "canaglia" che influenzano i palazzi di Roma. Questi venti minuti spingono lontano i libri di Ernesto Rossi, il democratico ribelle, che infiammava istinti anticlericali. Venti minuti, un evento. Il contatto fra Pannella e Bergoglio fa stringere un’alleanza fra i radicali, primo motore immobile per aborto, divorzio, fine vita, diritti civili, e il vicario di Cristo, che ha promesso un intervento per incitare i politici italiani a un atto di clemenza. L’ex cardinale di Buenos Aires, che predicava fra i cartoneros, che indossa una croce di ferro, che lavò i piedi ai ragazzi di un istituto penitenziario, lo promette a Pannella: "Anche io l’aiuterò contro questa ingiustizia. Ma sia coraggioso! Parlerò di questo problema". E il radicale vuole che sia pronunciata "la parola chiave": amnistia. Automatico, quasi facile pronosticare l’argomento trattato oltre il resoconto diffuso da Radio Radicale. Ma Pannella aspetta e riprende la protesta non violenta. Il 25 aprile di Liberazione ha ospitato due (non uno) contatti fra i radicali e il pontefice. Ancora prima di comporre il numero di telefonino di Panitaliani nella, Jorge Bergoglio ha sentito Emma Bonino, che saluta sempre in dialetto piemontese, "cerea". L’ex ministro per gli Esteri ha cercato Francesco perché domani, giorno di una doppia canonizzazione, Giovanni Paolo II e Giovanni XXXIII, al cospetto di autorità italiane e stranieri, adunata di porpore e giovani preti, potrebbe essere l’occasione perfetta per un messaggio per i detenuti: "Ho fatto un’associazione di idee - spiega la Bonino - Roncalli e Wojtyla sono sempre stati sensibili al tema. Nessuno di noi ha dimenticato il discorso di Giovanni Paolo II e Jorge Bergoglio, un pontefice che s’impegna davvero per gli ultimi, potrebbe fare davvero tanto. Ma io non c’entro nulla con la chiamata a Marco, non mi sarei mai permessa di suggerirla: il Papa s’è mosso in autonomia, voleva maggiori informazioni". Il percorso di avvicinamento di Pannella a Bergoglio è cominciato presto, già con le prime omelie di un papa "venuto dalla fine del mondo". E il Vaticano, attraverso il portavoce padre Federico Lombardi, non nega la stima reciproca. Il radicale fu folgorato da Francesco in visita a Lampedusa, un viaggio d’esordio al capolinea così agognato dagli immigrati, e propose di donare a Bergoglio la tessera d’onore del partito. Il 7 luglio 2014, Pannella incluse simbolicamente Francesco fra i sostenitori radicali: "Da alcuni anni trovo una egemonia culturale, che riguarda milioni e milioni di Panitaliani, che si riconoscono nelle nostre posizioni. A partire dal Papa". Ancora convalescente, appena due giorni fa, Pannella s’appellò proprio a Bergoglio: "Santità, ora o mai più". Il Pannella in epoca di Bergoglio è la copia sorridente e speranzosa di Pannella durante il pontificato di Benedetto XVI che accusò il Vaticano di promuovere "le peggiori dimostrazioni anti-umaniste e anti-cristiane che sono state non di rado proprie dei periodi più chiaramente simoniaci e anche blasfemi". Quel periodo è finito. E Panella e Bonino attendono che Bergoglio scandisca: am-ni-stia. Giustizia: il Papa a Pannella "ti aiuterò sui carcerati"… ma non sull’antiproibizionismo di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 aprile 2014 Jorge Maria Bergoglio non è certo un antiproibizionista. Quasi un anno fa, ai giovani giunti da tutto il mondo per ascoltarlo lo disse chiaramente: "Il narco traffico non si combatte con la droga libera". E sulla giustizia (degli uomini) non ha nemmeno la visione di Barack Obama, malgrado nel 2000 in Argentina chiese un’amnistia ampia per gli immigrati clandestini che sovraffollavano le celle, e anche da pontefice abbia mostrato particolare attenzione alle "condizioni inumane di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano". Eppure Papa Francesco, dimostrando ancora una volta l’indifferenza ai "principi non negoziabili" tanto cari al suo predecessore Joseph Ratzinger, ieri ha telefonato niente meno che a quel vecchio diavolo di Marco Pannella, impegnato da convalescente al Policlinico Gemelli nella sua lotta nonviolenta in favore dell’amnistia e dell’indulto. Venti minuti di conversazione telefonica che qualche parlamentare avrà dovuto digerire snocciolando l’intero rosario tra un segno della croce e l’altro. E alla fine, il leader Radicale ha deciso di interrompere con un caffè lo sciopero della sete che aveva ripreso subito dopo l’intervento chirurgico d’urgenza all’aorta addominale a cui è stato sottoposto lunedì notte. Ma "continuerò lo sciopero della sete e il Satyagraha - ha poi detto Pannella - accettando però di sottopormi a due trasfusioni di sangue nei prossimi giorni, secondo la prescrizione dei medici". Cosa si siano detti per venti minuti i due anziani leader dalle opposte visioni del mondo non è dato saperlo, ma il tratto di conversazione diffusa da Radio Radicale sottolinea l’esortazione del Papa: "Ma sia coraggioso, Eh!!! Anche io l’aiuterò, contro questa ingiustizia…". Risponde Marco Pannella: "A favore della giustizia, Santità". Bergoglio promette un coinvolgimento diretto: "Io ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati…". E Pannella, dopo aver ricordato l’impegno di Papa Wojtyla in favore dei reclusi, insiste: "Sì Santità! C’è una parola chiave…". Amnistia, vorrebbe dire, ma forse nemmeno la pronuncia. A chi gli chiede se di questo hanno parlato durante la telefonata giunta proprio nel giorno in cui i cattolici festeggiano San Marco, il vecchio abruzzese (84 anni tra pochi giorni, il 2 maggio) risponde: "Non posso dire di sì ma neanche di no". E così ora è noto urbi et orbi che la situazione delle carceri italiane è "inaccettabile", tanto che "dovrebbe essere giudicata dal Tribunale di Norimberga", come aveva detto Pannella, sigaro in bocca, durante la conferenza stampa tenuta giovedì al Gemelli, appena 48 ore dopo l’intervento con cui i medici gli hanno asportato un aneurisma all’aorta. Solo che la soluzione è tutta politica. E, amnistia a parte, passa anche - soprattutto - nell’Aula di Montecitorio, dove lunedì forse il governo potrebbe decidere di porre la fiducia sul decreto Lorenzin sulle droghe, quello che, per usare le parole del deputato di Sel, Daniele Farina, se poteva essere una "tragedia per fortuna evitata", è sicuramente però "un’occasione mancata". L’occasione di seguire le orme di Obama e mettere fine alla war on drugs che ha riempito le carceri, in Italia come negli States. Giustizia: dialogo tra un Papa e un vecchio radicale di Marco Politi Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2014 Chiamare Pannella è stato un altro colpo magistrale di comunicazione. E un messaggio chiaro alla Curia. "Pronto, sono Francesco...". Ci eravamo abituati alle telefonate del papa argentino. Non le contavamo nemmeno più le sue improvvisazioni telefoniche a uomini, donne, ragazzi, studenti, vedove, vittime di varie sventure. Anche l’opinione pubblica ci aveva fatto un po’ il callo così come non si meravigliava più che il pontefice si servisse di una semplice auto di media cilindrata invece di una pomposa berlina targata "SCV 1". Ma la telefonata inaspettata di Bergoglio a Marco Pannella costituisce un altro colpo magistrale di comunicazione del papa "venuto dalla fine del mondo", perché proprio nel momento in cui domenica la Chiesa cattolica con la celebrazione dei quattro papi (due santi e due viventi) si concede l’esaltazione massima del proprio potere di influenza sull’immaginario dei contemporanei, il capo del cattolicesimo ricorda con il suo gesto che la Chiesa non può illudersi che basti chiudersi in se stessa, ma deve saper comunicare con quanti la pensano diversamente. Compresi coloro che per una vita intera hanno combattuto il clericalismo delle gerarchie ecclesiastiche. In Curia sono già partite le critiche sotterranee alla sua telefonata. Chi non gli perdonava di avere concesso un’intervista a Scalfari, oggi è ancora più contrariato dal suo dialogo con Pannella-Diavolo, che ha condotto e vinte le battaglie epocali per le leggi sul divorzio e sull’aborto. La telefonata dimostra, però, che Bergoglio non giunge affatto dalla "fine del mondo" e comunque ha consiglieri i quali lo informano bene sul "Chi è?" in Italia. Il colloquio con il leader radicale nasce anche da un dato personale del papa: Bergoglio è curioso, legge i giornali e non le rassegne stampa, vuole sapere cosa succede in una società multiculturale in cui la Chiesa non ha monopoli garantiti dall’alto. Questo essere immerso nella realtà del pluralismo - senza la minima nostalgia per egemonie passate - è d’altro canto ciò che differenzia radicalmente Jorge Mario Bergoglio dai pontefici precedenti, nati tutti nella riserva protetta di un cattolicesimo dominante: si tratto di un paesino italiano o di un villaggio bavarese o polacco. Francesco ha chiamato Pannella perché - come ha detto recentemente il cardinale Ravasi in una intervista ad Antonio Gnoli - il papa argentino "ha spostato con ogni evidenza la comunicazione dal piano teorico a quello esistenziale". È questo ciò che interessa a Francesco. Parlare dell’uomo e della donne concreti nel mondo di oggi. Pannella ha fatto tante battaglie - non c’è nemmeno da essere d’accordo su tutte o su ogni soluzione proposta - ma c’è un filo rosso che le unisce. Il divorzio, l’aborto, la lotta alla fame, la pace, la condizione carceraria: in ognuna di queste imprese, condotte con passione e con un uso sanguigno e spesso violento delle parole, il leader radicale ha avuto come centro della sua attenzione l’essere umano in carne e ossa. Divorziare non è bello, ma languire nell’oppressione di un legame imposto a vita è disumano. Abortire è un dramma, ma trasformare con la forza o il terrore psicologico la donna in un contenitore per portare a termine una gravidanza non voluta è inumano. Battersi per la pace, per contrastare lo scandalo della fame nel mondo, per la dignità dei carcerati non è un ideale astratto, ma un venire incontro a volti concreti di donne e uomini sparsi sul pianeta. "Io l’aiuterò", ha detto Francesco al vecchio leone radicale. Mandando il messaggio di una Chiesa che dialoga sui problemi vitali dell’uomo, sapendo che l’Altro - la persona con cui si dialoga - è diverso sé, può avanzare altre proposte, però va riconosciuto nella dignità di interlocutore. No, non piacerà a molti della vecchia guardia curiale la telefonata del papa argentino. Perché un supremo pontefice - secondo costoro - non dovrebbe rivolgere la parola a chi ha riservato parole di fuoco a preti e cardinali che in Italia hanno fatto barriera contro molte leggi liberatorie. Ma se invece la Chiesa deve essere ospedale da campo nella crisi esistenziale e sociale contemporanea, come ritiene papa Francesco, non si fanno esami del sangue preventivi a chi ci sta di fronte. Una vecchia foto ritrae Marco Pannella ed Emma Bonino dinanzi a papa Wojtyla nel 1986. Si trattava di un’occasione ufficiale: l’incontro di Giovanni Paolo II con il Consiglio dell’associazione Food and Disarmament International, di cui entrambi facevano parte. La differenza sta qui. Papa Francesco non ha bisogno di paraventi ufficiali per parlare da uomo a uomo. Giustizia: manicomi giudiziari, l’orrore continua di Federico Colosimo Giornale d’Italia, 26 aprile 2014 Vogliono darcela a bere: non cesseranno di esistere nemmeno nel 2015 e i diritti umani degli internati continueranno ad essere calpestati. Sarebbero dovuti scomparire per sempre già 3 anni fa. E invece gli ospedali psichiatrici giudiziari resteranno aperti ancora per un anno. Almeno. Fino al 31 marzo 2015, forse, in attesa che le regioni completino la "realizzazione e riconversione di strutture destinate all’accoglienza degli internati". Un decreto del governo ha allungato l’agonia per circa 1.000 reclusi. Per l’Europa - che presto tornerà a bacchettarci - sono luoghi "inumani e degradanti". Ma in Italia tra una proroga e l’altra restano. Come la vergogna per il nostro paese. Le Regioni non hanno predisposto i Dipartimenti di Salute Mentale, a quanto sembra l’unica vera struttura alternativa, e così 803 uomini e 91 donne affette da disturbi mentali (che hanno commesso un reato ma sono state prosciolte perché malate di mente) restano prigioniere in quelli che al tempo venivano chiamati manicomi criminali. Che assomigliano a dei lager. Le condizioni sono degradanti, vergognose. Imbarazzanti. E tutti lo hanno potuto vedere. Le immagini documentarie fatte girare quattro anni fa dalla Commissione Sanità del Senato rappresentano una ferita difficilmente rimarginabile. Ma evidentemente l’indignazione ha riguardato poche persone ed è durata solo per pochi attimi. Dal presidente Giorgio Napolitano a tutti gli altri politici. Nessuno escluso ha definito queste strutture un "orrore", indegne per un paese civile. Ma gli Opg sono ancora in vita. Proprio perché l’Italia, in quanto a giustizia, è un paese incivile. C’è una legge che risale al 15 maggio 2012. Che oltre a prevedere la chiusura dei sei centri nel Paese - Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Napoli, Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova) - ha stanziato 180 milioni per la costruzione delle nuove strutture. Altri 38 milioni sono arrivati poi nel 2012. E ancora: gli ultimi 55 nel 2013. Ma in questi anni cosa è stato fatto? Dove sono finiti i soldi? Perché i nuovi "organismi" ancora non sono pronti? Qualcuno vuol darcela a bere. Perché ci sono Regioni che non hanno ancora consegnato progetti esecutivi e altre che devono ancora istituire gare d’appalto per la gestione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), i dipartimenti che dovrebbero sostituire gli Opg. Per tutti questi motivi i cosiddetti manicomi criminali non chiuderanno probabilmente prima del 2017. E la dignità delle persone "ristrette" seguiterà ad essere calpestata ancora per molti anni. Così come i loro diritti umani. Gli internati continueranno ad avere degradanti bagni alla turca sotto i letti, condizioni sanitarie macabre e strutture fatiscenti. Questa vergogna, senza fine, continua. Giustizia: se la vera follia è il ritardo nella chiusura degli Opg di Antonio Mattone Il Mattino, 26 aprile 2014 Con la conversione del decreto-legge del 31 marzo 2014, approvata due giorni fa dal Senato, finalmente si è aperto uno spiraglio concreto per la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo le sostanziali modifiche apportate dalle commissioni Giustizia e Sanità, si sono infatti creati i presupposti per mettere la parola fine agli Opg. Le novità più rilevanti del nuovo testo sono due. La prima è l’abrogazione dell’articolo del codice penale che prevede la misura di sicurezza provvisoria per chi ha commesso un reato ed ha bisogno di cure psichiatriche. Con la nuova norma il giudice dispone il ricovero in misura alternativa non detentiva per gli infermi e seminfermi di mente, e solo in casi estremi può fare ricorso alla custodia in Opg. Resta in vigore nel nostro ordinamento la misura di sicurezza definitiva che riguarda solo una piccola parte degli internati che comunque sono quasi sempre transitati attraverso l’articolo 206. Inoltre, vengono stabiliti dei limiti per l’applicazione della misura di sicurezza che in ogni caso non potrà superare la durata della pena detentiva prevista per il reato commesso, bloccando così quel meccanismo perverso che, di proroga in proroga, permetteva che un essere umano fosse rinchiuso per decenni anche solo per aver oltraggiato un vigile urbano. In questo modo viene di fatto arrestato il flusso degli ingressi negli ospedali psichiatrici giudiziari che, nonostante l’abolizione prevista dal Dpcm dell’aprile 2008, non chiudevano mai. Il grande limite di questa pur importantissima legge era che si sopprimevano gli Opg senza eliminare le cause che alimentavano le entrate, per l’appunto le misure di sicurezza previste dal codice Rocco. È come dire di voler svuotare una vasca senza chiudere il rubinetto. Anche il carcere ha incrementato in modo sostanzioso il numero degli ingressi, basti pensare che il 45% delle persone presenti nei 2 Opg campani proviene dai penitenziari. Una parte di questi attraverso un provvedimento del magistrato che emette una misura di sicurezza provvisoria, un’altra inviata dagli operatori penitenziari quando viene riscontrato un disagio mentale durante la permanenza in galera. I detenuti vengono così mandati in osservazione psichiatrica per un periodo, al termine del quale o si ritorna in carcere o si passa definitivamente in Opg. Sembra evidente il grande limite del carcere che invece di rieducare produce malattia mentale. I reparti di osservazione psichiatrica previsti all’interno degli istituti e un nuovo senso di responsabilità imposto da queste novità legislative, dovrebbero sensibilizzare il sistema sanitario nazionale a prendere in carico con più incisività le persone che manifestano disturbi psichiatrici. I nuovi provvedimenti ridimensionano anche le cosiddette Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, dei mini-Opg dai costi elevati e dai numeri sovrastimati, destinati ad ospitare in detenzione gli internati. Le risorse previste per queste strutture, almeno in parte, potranno essere impiegate per potenziare i dipartimenti di salute mentale e finanziare i percorsi di cura e riabilitazione alternativi. In Campania, ad esempio ne sono contemplate 8 per 160 posti, mentre attualmente gli internati di questa regione sono 121 e questo numero tenderà a scendere considerevolmente per gli effetti della nuova legge. L’approvazione di questa norma sposta il baricentro degli interventi per superare gli Opg sulle misure alternative e sui progetti di cura e riabilitazione e rappresenta un segnale di vicinanza della politica ai problemi concreti del nostro Paese. Ora si tratta di guadagnare il tempo perduto e di far funzionare al meglio i dipartimenti di salute mentale. Non è più pensabile che poche centinaia di persone con fragilità mentale mettano in crisi il sistema Italia e che nello stesso tempo siano considerati uno scarto umano. Nell’Opg di Aversa qualche anno fa erano presenti 310 persone, oggi 143. Se fosse stata abrogata la misura di sicurezza provvisoria oggi ce ne sarebbero una ventina. Se ci pensiamo, una vera follia. Giustizia: quella di Magherini è una morte "sospetta", denunce a carabinieri e 118 di Ilaria Bonuccelli Il Tirreno, 26 aprile 2014 La famiglia chiamerà in causa tutte le persone intervenute durante l’arresto. Critiche al pm: "Fu lui a parlare per primo di botte, poi ha cambiato rotta". Una denuncia contro carabinieri e sanitari. Contro tutti quelli che la notte fra il 2 e il 3 marzo erano presenti a Firenze in Borgo San Frediano "e potrebbero risultare responsabili della morte di Riccardo". Va all’attacco la famiglia di Magherini. La Procura anticipa che l’ex calciatore del Prato, cresciuto nel vivaio della Fiorentina, non sarebbe morto per le botte riportate durante l’arresto; il legale dei genitori e del fratello rilanciano: "Noi non ci crediamo. Ma se la pensa così, il pm archivi. In fretta, però. Così impugniamo e andiamo davanti al gip". L’avvocato Fabio Anselmo non vuole che la vicenda si trascini per le lunghe. Non vuole per Riccardo Magherini, figlio di Guido, ex calciatore di Milan, Lazio, Palermo, accada quello che è successo per gli altri "morti di Stato" di cui si è occupato: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva. Lo ribadisce con il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti Umani che trasforma una vicenda di provincia in un giallo nazionale. Nella morte di Riccardo, infatti, di chiarito non c’è molto. Neppure ora che sono spuntati due video che riprendono il quarantenne che grida durante l’arresto: "Aiuto, aiutami, chiamate un’ambulanza". La procura insiste che le immagini "in possesso di questo ufficio" si riferiscono solo agli "accadimenti successivi all’immobilizzazione del giovane", appena uscito da una pizzeria, in evidente stato confusionale, probabilmente sotto l’effetto degli stupefacenti, con un cellulare in mano (non suo) per chiamare le forze dell’ordine, convinto di essere inseguito da qualcuno che lo voleva uccidere. Nelle immagini - insiste la procura - "non si evidenziano violenze di alcun genere". L’avvocato Anselmo giunge a conclusioni diverse. Non fosse altro perché in un filmato si sente una frase spezzata: "Vuoi ancora dei cal...." (dei calci?). Al di là delle ipotesi, il legale dei Magherini ritiene "francamente tempestiva" la ricostruzione del pm. Troppo frettolosa. "Comunque se crede che la causa esclusiva della morte di Riccardo sia stata la cocaina, archivi. Noi non ci crediamo. Abbiamo, semmai, forti dubbi sulla tempestività dell’intervento medico e una profonda perplessità sull’operato dei carabinieri". Da qui la denuncia che sarà depositata contro chi era presente in San Frediano la notte della morte di Riccardo: "Non abbiamo individuato un numero preciso di persone: la denuncia sarà ampia". E secondo l’avvocato foriera di sorprese. Magari negli esami istologici e tossicologici che completano l’autopsia. "È grave - commenta Andrea Magherini, il fratello - che a quasi due mesi dalla morte di Riccardo questi test ancora non siano disponibili. Non mi meraviglio, però. È una strategia precisa quella di dilatare i tempi". I Magherini, però, non si arrendono. Andrea ieri a Firenze ha partecipato al corteo per la Liberazione che ha sostato in Borgo San Frediano. Dopo il suo intervento, i partecipanti hanno ricordato Riccardo con un applauso mentre è comparsa la scritta "Verità e giustizia per Magherini". Quello che la famiglia cerca. Anche ora che il pm titolare dell’inchiesta Luigi Bocciolini "cambia rotta. All’inizio delle indagini- racconta Andrea - ci aveva assicurato che ci sarebbe stato almeno un indagato. Fu lui il primo a parlare di percosse. Poi, dopo la conferenza di Manconi a Roma si è allineato con la procura". Di istinto Andrea gli scrive una mail. "Ma non mi ha risposto". Difficile, invece, sarà ignorare la richiesta di Manconi al ministro della Giustizia, al procuratore generale presso la Cassazione e al Csm di "esercitare il controllo di legalità nei confronti degli atti compiuti dal pm". L’anticipo dei risultati informali dell’autopsia: "non sono state riscontrate lesioni riconducibili a percosse". Dopo che in una mail, ricordata dallo stesso Manconi, la procura affermava giorni fa l’esistenza di "un fondato motivo di ritenere che almeno uno dei militari abbia colpito il ragazzo con calci al fianco mentre era a terra ammanettato". Dove sta la verità? Per capirlo Andrea Magherini lancia un appello ai residenti di Borgo San Frediano: fornire video, foto e testimonianze sulle ultime ore di vita di Riccardo. Un terzo video sembra essere stato filmato. La speranza è che questo materiale venga fornito. L’ aiuto che non è stato dato a Riccardo. Le porte e le finestre che non si sono aperte: "Non ci si deve meravigliare. La gente ha visto arrivare i carabinieri. E ha pensato che mio fratello fosse salvo". Lettere: voglio chiedere scusa di cuore a tutte le persone a cui ho rubato Messaggero Veneto, 26 aprile 2014 "Salve, sono un sinto, cioè uno zingaro, e dopo avere frequentato le scuole fino alla quarta elementare, sono stato costretto ad andare a rubare. Per questo, ho trascorso più della metà della mia vita in carcere. Finché, il 15 febbraio del 2011, ho incontrato la mia compagna, che è la mia unica ragione di vita. Ora voglio chiedere scusa di cuore a tutte le persone a cui ho rubato". Firmato, Michele Hudorovic. Comincia e finisce così la lettera che, qualche giorno fa, è stata recapitata alla redazione del Messaggero Veneto. Hudorovic, che ha 29 anni ed è originario di San Daniele, l’ha spedita dalla casa circondariale di via Spalato, dove si trova rinchiuso dal 18 dicembre scorso. E da dove era entrato e poi uscito diverse altre volte, in passato. L’uomo ammette di avere sbagliato e chiede di essere perdonato. Ma, nel ripercorrere gli ultimi anni del proprio travagliato percorso giudiziario, non esita a confrontare il trattamento che i vari magistrati hanno di volta in volta riservato a lui, con la ben più ampia indulgenza dimostrata - a suo dire - verso persone macchiatesi di reati assai più gravi. "Io non tollero chi fa reati brutti come gli omicidi e le violenze a donne e bambini - ha scritto di proprio pugno Michele Hudorovic. Ritengo queste persone veri e propri mostri". L’ultimo episodio in ordine di tempo - quello che, in dicembre, aveva convinto il gip del tribunale di Udine, Paolo Alessio Vernì, ad applicare nei suoi confronti la misura cautelare in carcere, si riferisce al ritrovamento di una pistola nell’abitazione in cui vive con la compagna. Da qui, le ipotesi di reato di detenzione illegale di armi (un revolver e 24 munizioni) e di ricettazione, oltre a quella di contravvenzione dell’obbligo di sorveglianza speciale, al quale era stato sottoposto dal giudice di Udine per una durata di tre anni. "Mi sono pentito di quel che ho fatto - continua Michele nella sua la lettera - e, dopo l’interrogatorio che avevo chiesto al pubblico ministero, speravo mi dessero i domiciliari. Ma mi sono stati negati". È la premessa allo sfogo. "Mentre io rimango qui dentro - osserva Michele Hudorovic, vedo entrare e uscire in meno di 24 ore i rumeni che rubavano e profanavano le tombe dei defunti. Questo non è giusto". Dei fatti di cronaca che ogni giorno riempiono le pagine dei giornali, le celle di via Spalato sono il primo e più importante punto d’osservazione. I detenuti si scrutano, riconoscono e confrontano. Ben sapendo che la sorte non è affatto uguale per tutti. "Poi sono successe altre cose - ricorda Hudorovic - e pure questi sono usciti. Qualche giorno fa, uno straniero ha violentato la moglie del cugino e il giudice di Udine lo ha rimesso in libertà. Non è giusto. Io ho sbagliato - non tarda a ribadire il giovane zingaro -, ma sono stato costretto e sono cresciuto con il principio che rubare era la cosa giusta". Eppure, anche per lui a un certo punto è arrivato il tempo di svoltare. A redimerlo - racconta - è stato l’amore. Era il febbraio del 2011 e, sostenuto dalla fiducia che la convivente aveva riposto in lui, contava di ricominciare daccapo, tenendosi al largo dalla malavita e imboccando la strada dell’onestà. Il suo casellario giudiziario, però, non lo ha aiutato. E, di lì a poco, è finito di nuovo al fresco, questa volta per scontare un cumulo pene di poco più di un anno. Così fino all’estate del 2013. Giusto il tempo di tornare ad assaporare il piacere della libertà e della vita familiare, e per Michele Hudorovic sono ricominciati i guai. Da mesi nel mirino dei carabinieri, sotto Natale se li è ritrovati a casa. È l’avvocato Cesare Tapparo, subentrato nella difesa a partire dal maggio 2013, a ricordare le ultime mosse giudiziarie. Era stato lo stesso Michele, dal carcere, a chiedere al pubblico ministero Letizia Puppa di essere interrogato. Concesso quasi un mese dopo, il faccia a faccia con il magistrato non era tuttavia bastato a sortire il risultato sperato della scarcerazione. Anche la successiva istanza di revoca o attenuazione della misura cautelare al gip era stata respinta, con preventivo parere negativo del pm, per incompletezza dei riscontri relativi alle dichiarazioni rese nell’interrogatorio. Stessa musica dal tribunale della libertà di Trieste, che aveva rigettato l’appello per un problema tecnico legato a un episodio di evasione nel quinquennio precedente. La battaglia legale, tuttavia, non è finita: a breve, il difensore presenterà una nuova istanza. Calendario alla mano, ad ogni buon conto, a metà maggio decorreranno i termini della misura cautelare. Lombardia: il Garante regionale; tutti i detenuti hanno a disposizione tre metri quadri di Bruna Bianchi Il Giorno, 26 aprile 2014 Quattro detenuti di Busto Arsizio e tre di Piacenza hanno ottenuto, l’8 gennaio 2013, il risarcimento chiesto alla Corte europea dei diritti umani per essere stati costretti a trascorrere la detenzione in celle concepite per una persona e invece condivise in tre, cioè con uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati ciascuno. Tra un mese, il 28 maggio, l’Italia dovrà essere in regola o prenderà una multa faraonica per aver violato le norme che regolano il trattamento dei detenuti (15.000 in più rispetto alla capienza). Se Strasburgo darà seguito immediato ai 4.000 ricorsi pendenti, lo Stato dovrà sborsare 28 milioni di euro di multe e se non concede proroghe all’umanizzazione delle carceri più vergognose d’Europa, pagherà salatamente. Il ministro Andrea Orlando i giorni scorsi avrebbe ipotizzato una soluzione (dare soldi ai detenuti che vivono in condizioni inumane) che fa gridare allo scandalo le organizzazioni sindacali delle guardie penitenziarie: "Si continua a depauperare l’organico con il taglio del turn over, non vorremmo pensare che si trovino i soldi per indennizzare i detenuti e non si trovino le risorse per stabilizzare un sistema che da decenni ormai è a rischio implosione". La Lombardia la questione delle multe e dei ricorsi per violazione dell’articolo 3 della convenzione europea l’ha presa subito molto seriamente. Invece di aspettare un misterioso piano contro il sovraffollamento o leggi di indulto e amnistia che faticano a tagliare il traguardo in Parlamento, ha adottato misure straordinarie in modo certosino nei 18 Istituti di pena (tra case circondariali e di reclusione) della regione. La rivoluzione è avvenuta spostando per prima cosa i detenuti in celle troppo piccole nei vari istituti di pena. I trasferimenti sono riusciti a non provocare la rabbia dei detenuti (più lontani dalle famiglie) che hanno ottenuto in cambio condizioni decisamente più umane. San Vittore, che ospitava 1.500 detenuti è già scesa a 1.150. Sempre in sovrannumero rispetto alla capienza ammessa dalla vecchia struttura, ma con il rispetto dei metri quadrati delle celle. Pavia, Cremona e Voghera hanno aperto nuovi penitenziari riuscendo a offrire 700 posti in più. Il Garante regionale dei diritti dei detenuti, l’avvocato Donato Giordano, l’ha ammesso: "Ci voleva la minaccia di dover pagare all’Europa una multa da centinaia di milioni perchè qualcosa si muovesse". Padova: detenuto suicida con cavo elettrico, avrebbe dovuto scontare condanna fino 2039 Ansa, 26 aprile 2014 Un detenuto, Alessandro Braidic, 32 anni, si è impiccato oggi all’interno della sua cella, nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. L’uomo avrebbe usato per il suicidio il cavo elettrico della televisione. Secondo una prima ricostruzione sembra che l’uomo sia rimasto da solo per pochi istanti, sufficienti però a concretizzare le sue intenzioni. L’uomo avrebbe dovuto scontare una condanna fino al 2039. Sulla vicenda sta indagando la polizia. Detenuto s’impicca con il cavo della tv (Il Mattino di Padova) Si è attorcigliato il cavo elettrico della televisione intorno al collo e l’ha fatta finita impiccandosi. Alessandro Braidic, 32 anni, detenuto della Casa di reclusione condannato ad una pena che lo obbligava a rimanere in carcere fino al 2039, si è tolto la vita ieri pomeriggio all’interno della sua cella. A nulla sono valsi i tentativi di rianimarlo. È successo nel pomeriggio. Braidic, alle spalle una serie di reati come rapina e omicidio colposo, si è ucciso nella cella singola che aveva richiesto fin dal suo arrivo a Padova. Un tipo chiuso, schivo. Non voleva avere a che fare con gli altri detenuti, forse per una serie di problemi avuto in passato durante i primi anni di detenzione. La direzione della Casa di reclusione aveva deciso di accontentarlo e ieri, nella sua solitudine, forse colto dallo sconforto per una "fine pena" lontanissima, Braidic si è ucciso. L’hanno soccorso per primi gli agenti della polizia penitenziaria. Hanno richiesto l’intervento dell’ambulanza ma a medici e infermieri del 118 non è rimasto che constatare il decesso del trentanovenne. Sul posto è stato richiesto anche l’intervento degli investigatori della Squadra mobile di Padova. A loro spetta il compito di chiarire i contorni della vicenda e di verificare che, effettivamente, non ci sia stato il coinvolgimento di terze persone. Poco dopo la tragedia sono stati informati anche i parenti di Alessandro Braidic che si sono messi subito in auto alla volta di Padova. In questo caso sembra che la tragedia sia maturata a causa di uno stato di depressione personale del detenuto. Con l’avvicinarsi dell’estate, però, si pone il problema della vivibilità all’interno delle celle del carcere Due Palazzi, calde, sovraffollate e spesso invivibili. In questo contesto ci sono altri casi di detenuti che hanno tentato il suicidio. Giostraio suicida in cella, sarebbe uscito nel 2039 (Il Gazzettino) Tragedia, ieri pomeriggio, alla Casa di reclusione Due Palazzi. Un detenuto si è impiccato in cella usando il cavo della televisione. Così ha perso la vita Alessandro Braidic di 32 anni, giostraio e originario di Milano. Sarebbe dovuto uscire dal carcere nel 2039. Braidic, in precedenza detenuto a Udine, dopo avere litigato con un detenuto è stato trasferito a Padova, ma ha chiesto e ottenuto una cella da solo. Un carattere molto introverso, tanto da non riuscire quasi mai ad avere un rapporto con gli altri carcerati. Ieri pomeriggio, preso dallo sconforto, ha staccato il cavo della televisione e si è impiccato. Appena i poliziotti penitenziari se ne sono accorti sono intervenuti con la massima tempestività. Braidic è stato rianimato per diversi minuti, ma alla fine non c’è stato nulla da fare. Il trentaduenne è morto impiccato. In via Due Palazzi sono intervenuti anche gli uomini della Squadra mobile e i poliziotti della Scientifica. Ma è certo che si tratta di un suicidio. Braidic ha commesso diversi reati a Milano. Un omicidio colposo: ha investito una persona uccidendola in auto ed è scappato. Poi si è reso colpevole di alcuni reati contro il patrimonio come furti e rapine. Ha commesso reati anche in Friuli a Udine e a Pordenone, dove è stato pizzicato in due occasioni nel 1997 e nel 2003 per un furto d’auto e per assegni falsi. In quest’ultimo caso nel 2011 ha potuto usufruire del condono. Ma negli anni i reati si sono accumulati e alla fine ha rimediato un fine pena al 2039. Una mazzata e per questo motivo è caduto in depressione, tanto da organizzare il suo suicidio in cella con il cavo della televisione. In due anni due morti per suicidio dietro le sbarre Dal primo gennaio al 22 aprile scorso, sono già 43 i detenuti sono deceduti in carcere, 11 tra loro quelli che si sono tolti la vita. Lo scorso anno sono stati invece 153 i decessi di questi ben 49 si sono suicidati. Tra loro anche un detenuto della Casa Circondariale di via Due Palazzi, un ragazzo di 21 anni di nazionalità marocchina, in Italia da 6 anni. Nel 2012 nello stesso carcere padovano era stato un quarantanovenne, sempre straniero, a decidere di farla finita anch'esso detenuto nella Casa Circondariale. Era uno dei 60 detenuti che hanno scelto il suicidio tra i 154 decessi registrati in quell'anno in tutta la nazione. Morti che riportano alla ribalta la situazione di sovraffollamento delle carceri e le conseguenti difficoltà di vita, non solo dei detenuti stipati anche in 6 dentro celle studiare per due persone, ma anche delle guardie carcerarie costrette spesso ad operare in condizioni critiche. Periodiche le proteste che arrivano sai dai sindacati degli operatori carcerari che dalle associazioni che si occupano del problema e della vita in carcere come la padovana "Ristretti Orizzonti". Frequenti anche le visite dei parlamentari di diversi schieramenti che cercano di constatare di persona le condizioni di vita dietro le sbarre. Giarre (Ct): muore detenuto 32enne, avrebbe terminato la pena tra soli 5 giorni Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2014 La Procura di Catania ha aperto un’inchiesta, senza indagati, sulla morte di un detenuto di 32 anni, Daniele Sparti, catanese, avvenuta il 25 aprile scorso nel carcere di Giarre. Secondo fonti investigative il decesso è legato un infarto. L’uomo, che era cardiopatico e sottoposto a ossigenoterapia, visto anche il peso non comune dell’uomo, stava scontando una condanna a 8 anni (doveva scontare ancora altri 5 anni) e tra due giorni era previsto il pronunciamento del Tribunale di Sorveglianza sulla concessione o meno dei domiciliari in quanto il carcere era un ambiente incompatibile con lo stato di salute del detenuto che, a più riprese era stato ricoverato in strutture ospedaliere. La salma del 32enne, al momento, si trova nell’obitorio dell’ospedale Garibaldi dove sarà eseguita l’autopsia. La notizia del decesso, che ha trovato conferme in fonti investigative e della Procura, è stata resa nota oggi dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Caserta: oggi fino alle 13 sit-in dei Radicali al carcere di Santa Maria Capua Vetere www.radicali.it, 26 aprile 2014 Oggi 26 aprile dalle 8.00 alle 13.00 presso la nuova Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, l’Associazione "Legalità & Trasparenza" - Radicali Caserta, terrà un sit-in non violento a sostegno dell’Amnistia e della riforma della giustizia. All’iniziativa hanno dato la loro adesione il Senatore Vincenzo D’Anna, Claudio Lunghini (Presidente dell’Associazione "Gli amici di Eleonora" ) e il Partito Socialista di Caserta. "Nelle prossime settimane noi dell’Associazione Radicale di Caserta, organizzeremo diversi eventi a sostegno dell’Amnistia e della riforma della giustizia e cercheremo di coinvolgere esponenti politici e associazioni attivi sul territorio della provincia di Caserta". È la dichiarazione di Luca Bove, Segretario di "Legalità & Trasparenza" Radicali Caserta. Udine: così la cooperativa "Arte e Libro" porta il lavoro in prigione di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 26 aprile 2014 Solidarietà e lavoro. Creare opportunità di occupazione per chi difficilmente ne avrà mai una, insegnare un mestiere e formare al mondo del lavoro persone in difficoltà, compreso chi è "dentro", in carcere. La cooperativa Arte e Libro è nata nel 1984, quest’anno compie 30 anni e ha tantissime storie di solidarietà e lavoro da raccontare: la cooperativa, infatti, ha come obiettivo l’inserimento lavorativo di persone in situazione di disagio e disabilità: disabili fisici e psichici, persone in recupero dalle dipendenze, detenuti ed ex detenuti. "È nata come legatoria (ancora oggi rilega le raccolte mensili di Messaggero Veneto, Piccolo e Gazzettino) - spiega Paolo Grosso, presidente di Arte e Libro - poi, nel tempo, ci siamo trasformati. Non solo portafoto decorati e bomboniere solidali: Arte e Libro si occupa di assemblaggio industriale e di cartotecnica avanzata e conta circa 20 soci di cui la metà lavoratori, a cui si aggiungono gli inserimenti attraverso borse lavoro o work experience, detenuti o ex detenuti, volontari per un totale di oltre trenta addetti. L’anno scorso la cooperativa ha ricevuto i complimenti della Fincantieri per l’assemblaggio dei componenti dei quasi 3.000 telefoni di bordo dell’ultima nave da crociera uscita dal cantiere. La Regione ha affidato ad Arte e Libro la realizzazione dei tomi tavolari: 400 volumi da 7 chili l’uno necessari al catasto di Trieste, un lavoro minuzioso che richiede grande tecnica e abilità per rilegare, cucire e impreziosire di bordi ottonati. In questi giorni ciò che si vede sui banconi del laboratorio, fra mani operose e occhi attenti, sono i kit per il montaggio dei mobili Ikea: viti, brugole e rotelle sparse diventano sacchetti e scatole pronti da essere inseriti nelle confezioni non prima di essere stati pesati e controllati uno a uno. "Ci vogliono esperienza e sensibilità nel gestire un laboratorio così complesso - spiega Bruna Gover, responsabile della produzione e della formazione - non solo nel formare un nuovo arrivato, ma soprattutto nell’inserirlo nel gruppo cercando di mantenere l’equilibrio della squadra e delle singole persone, spesso problematiche". Nel tempo Arte e Libro è diventata punto di riferimento per i servizi sociali della città e del territorio: "Collaboriamo con Sert, Sil e Uepe (Uffici locali per l’esecuzione penale esterna) - spiega Grosso - l’esperienza ci ha insegnato a gestire anche i casi più complicati e soprattutto tutta la burocrazia che pesa su chi lavora nel sociale". Dal 2010 Arte e Libro si è trasformata in cooperativa plurima e oggi porta lavoro e solidarietà anche fuori dalla propria sede (a Udine all’interno della Comunità Piergiorgio) nelle case circondariali di Udine e Tolmezzo dove organizza corsi di legatoria per i detenuti. Circa dieci persone alla volta selezionate in base a capacità manuali e, ovviamente, alla condotta: le domande di partecipazione sono moltissime perché il corso piace, interessa, insegna una tecnica e, possibilmente, un mestiere. Sono una decina le persone formate all’interno del carcere che, appena liberi o semi-liberi, hanno potuto grazie ai fondi della legge Smuraglia, venire accolti per un ulteriore periodo di lavoro all’interno dei laboratori di Arte e Libro. Un’esperienza altamente educativa, oltre che un aiuto verso un reinserimento nel mondodel lavoro. "Le lezioni in carcere sono un’esperienza professionale e personale unica - racconta Gover - in un mondo completamente chiuso e sigillato ogni stimolo che arriva dall’esterno è atteso, è una ventata d’aria fresca, è vissuto come un dono. Non ho mai avuto paura, c’è il massimo rispetto per i docenti; quello che si legge negli sguardi e nelle parole, poche, è una grande fame di umanità in un ambiente di invisibili in cui anche il più piccolo gesto per noi normale, come un sorriso o l’offrire una caramella, è ricordato per sempre". Da pochi mesi infine ha aperto in via Grazzano Quartier Solidale, il negozio che, per ora, vende i prodotti artigianali di Arte e Libro, cooperativa Margherita e cooperativa Nascente. Mail progetto di Quartier Solidale è ben più visionario ed ambizioso: un "info-point solidale" per chi ha bisogno e una "bacheca" in cui cercare od offrire il proprio tempo al mondo del volontariato. Sassari: processo per la morte in carcere di Marco Erittu, in aula le lacrime dell’imputato di Nadia Cossu L’Unione Sarda, 26 aprile 2014 L’udienza era stata fissata per discutere la perizia di Armando Badiani sulla striscia di coperta che Marco Erittu, il detenuto trovato morto nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007, avrebbe usato per uccidersi. Ma alla fine prevale sempre il lato umano dei processi, e in questo caso le lacrime - soffocate a stento - di Mario Sanna, l’agente di polizia penitenziaria ai domiciliari perché accusato dal reo confesso Bigella di aver aperto ai presunti assassini la cella di Erittu. Ieri ha reso dichiarazioni spontanee: "Sono esterrefatto da questa vicenda, ho alle spalle 25 anni di onorato servizio, io e la mia famiglia stiamo soffrendo come cani". Le borse sotto gli occhi parlano da sole. Sanna, persona pacata sempre presente alle udienze, è difeso dagli avvocati Agostinangelo Marras e Mattia Doneddu: "Ho dedicato tutta la mia vita all’onestà, al lavoro e allo studio. Sto subendo un’incredibile e cattiva ingiustizia, ho solo fatto del bene nella mia vita, ne ho salvato tanti di detenuti che volevano suicidarsi. E ora le calunnie di un delinquente mi stanno distruggendo. Rivoglio la mia divisa, il mio lavoro, la dignità che mi è stata portata via". Anche Nicolino Pinna, accusato sempre da Bigella di aver fatto parte del presunto commando omicida e assistito dall’avvocato Luca Sciaccaluga, ha reso dichiarazioni spontanee: "Non sono uno stinco di santo, certo, ma mai avrei fatto quello di cui mi si accusa. Non ho mai assunto droghe, preferivo una birra casomai. Ho conosciuto sia Erittu che Bigella in carcere, da quest’ultimo mi avevano messo in guardia, era geloso perché in carcere avevo iniziato a lavorare. Io ero di passaggio lì dentro e lo consideravo meno di zero per il reato che aveva commesso, uccidere una donna così (Fernanda Zirulia ndc). Spero capiate che elemento è quell’uomo. Questa storia mi ha distrutto, ho paura dei giudizi della gente per mia figlia, non voglio sia additata. Voglio solo che tutto questo finisca e che possa tornare a essere un buon padre". La perizia. "Sì, posso sostenere che c’è corrispondenza tra la striscia di tessuto e la coperta sequestrata nella cella della vittima, ma le prove di trazione mi dicono l’opposto. Non posso quindi affermare con certezza, né però escluderlo totalmente, che la striscia provenga da quella coperta". Armando Badiani è il perito nominato dalla corte d’assise per stabilire se il pezzo di tessuto che Erittu avrebbe utilizzato per uccidersi provenga o meno dalla coperta sequestrata nella sua cella. I dettagli tecnici illustrati durante il processo che si sta celebrando in corte d’assise per il presunto omicidio di Erittu (Pino Vandi è accusato dal supertestimone Giuseppe Bigella di essere il mandante del delitto) non hanno fatto grande chiarezza sulla dinamica omicidiaria o suicidaria sulla quale da mesi si stanno dando battaglia in aula accusa e difesa. Anche il consulente del pm Bonfiglioli che ha partecipato alla perizia di Badiani ha testimoniato ieri: "Penso che quella striscia possa provenire da una coperta dello stesso lotto ma non appartiene alla coperta sequestrata nella cella della vittima. Lo dimostra quella deformazione residua permanente". E aggiunge, su precisa richiesta: "Comunque un lato della coperta di reato è stato strappato, questo sì". La sintesi è la seguente: la striscia non proviene dalla coperta di Erittu e quindi questo basta alla difesa di Vandi (gli avvocati Patrizio Rovelli e Pasqualino Federici) per minare la credibilità di Bigella, il quale aveva sostenuto di aver ammazzato Erittu con un sacchetto di plastica e che la coperta fosse stata tagliata con una lametta per simulare il suicidio. Bigella secondo la difesa ha sempre mentito. Ma basta anche al pm Giovanni Porcheddu secondo il quale tutto questo avvalorerebbe la tesi dell’omicidio. Chi, da fuori, portò quella striscia di coperta in cella? Lodi: la protesta nel carcere arriva alla Camera. I sindacati: "Vogliamo risposte rapide" di Tiziano Troianello Il Giorno, 26 aprile 2014 Fioccano i commenti dopo che, giovedì pomeriggio, lo stato di agitazione in atto da parte degli agenti di polizia penitenziaria al carcere di Lodi, per il comportamento della direttrice Stefania Mussio, è approdato in Parlamento. La questione è stata sottoposta all’aula della Camera dei Deputati da Daniele Farina, deputato di Sel, il quale alla fine, ha chiesto al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, quali misure urgenti intenda adottare affinchè il personale di polizia penitenziaria sospenda l’agitazione e quale sia l’esito dell’ispezione disposta dal provveditore regionale (Aldo Fabozzi, ndr) a febbraio. Nella sua interrogazione l’esponente di Sel, ricorda che gli agenti hanno comunicato l’avvio di una vertenza sindacale il 22 gennaio 2014 per mancato rispetto delle prerogative sindacali e che nonostante lo stato di agitazione sono stati emanati ulteriori ordini di servizio "che hanno aggravato le già critiche condizioni lavorative del personale, cui peraltro non sarebbe stato pagato nemmeno il lavoro straordinario effettuato in occasione dell’evasione avvenuta nel luglio del 2012". "Ci conforta - commenta Dario Lemmo, vicesegretario provinciale del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria) - che il caso sia finito in Parlamento perché abbiamo bisogno di risposte chiare e veloci che allo stato attuale ancora non pervengono nonostante la gravità delle segnalazioni effettuate. Negli ultimi mesi il personale di polizia penitenziaria di Lodi è riuscito a fronteggiare diversi eventi critici e situazioni particolari contrastando anche l’introduzione di sostanze stupefacenti, ma non si esclude che quando manca la serenità possa essere perso il controllo della situazione facendo degenerare il tutto in maniera irreparabile". "Il lavoro della Polizia penitenziaria - aggiunge - nell’ultimo anno è cambiato su alcuni aspetti, basandosi sul nuovo sistema di controllo chiamato "vigilanza dinamica" e questo necessita di un urgente confronto ragionevole e ampio per organizzare tutto il lavoro degli agenti a Lodi. Purtroppo i modi relazionali e unilaterali della direttrice Stefania Mussio non hanno mai permesso una contrattazione fruttuosa ad hoc". "È per questo - conclude - che continuiamo con le azioni di protesta al costo di far porre l’attenzione anche al capo dello Stato". Soddisfazione per l’intervento politico "per un caso ormai infinito" viene espressa anche da Enzo Tinnirello, del sindacato Ugl. "Attendiamo gli sviluppi" aggiungi. "Auspico - commenta invece Roberta Morosini, esponente di spicco di Sel nel Lodigiano nonché componente della commissione di garanzia nazionale del partito - che il ministro risponda e si faccia carico di questa situazione. Vogliamo sapere gli esiti dell’ispezione e capire da dove si può partire per sistemare le cose. Non è più possibile andare avanti così per il benessere degli agenti e dei carcerati stessi". Milano: nel carcere di Opera, lo sport per i detenuti… nel nome di Candido Cannavò di Gian Luca Pasini Corriere della Sera, 26 aprile 2014 "Il carcere, oggi, è ancora troppo tenuto lontano, dimenticato, ripudiato dalla società civile. E anche quando un nostro fratello esce, lo consideriamo un ex detenuto, chiudendogli le porte del riscatto". Così monsignor Bregantini venerdì invitava alla riflessione nella VII Stazione della Via Crucis, davanti a Papa Francesco. Edison e la Fondazione Cannavò sembrano quasi rispondere organizzando una serie di corsi nel carcere di Opera. Un grande successo, molto apprezzato dai reclusi, reso possibile anche grazie all’impegno di quanti lavorano all’interno del penitenziario. Siamo entrati dentro gli alti muri grigi di Opera per raccontarvelo. Accanto a noi familiari in fila, molti dei quali bambini, attendono di transitare nel tunnel oltre il quale ci sono vite da recuperare, anche grazie allo sport. I dirigenti. "Siamo abituati a risolvere quotidianamente le difficoltà di un carcere come questo e i risultati si vedono, anche attraverso la partecipazione alle attività sportive. L’avvicendarsi in palestra aiuta a fare gruppo, nel senso più positivo della parola. Allenta le tensioni" ci spiega l’ispettore capo Maria Visentini mentre ci accompagna al Secondo Reparto: una palestra ben attrezzata. Qui si suda, si scherza e ci si diverte. "Noi siamo come ambasciatori - racconta Paolo Pizzuto, ufficialmente funzionario giuridico pedagogico - perché presentiamo un mondo fatto di risorse del quale i detenuti non hanno mai avuto visione". "La palestra - aggiunge il direttore Giacinto Siciliano - a regime funzionerà dalle 8.30 alle 19, così da essere usufruibile per il maggior numero di detenuti. Il nuovo padiglione, ora in costruzione, avrà 3 impianti polivalenti". Gli allenatori Alex Perelli viene qui a insegnare fit-boxe: "Ma alcuni ragazzi hanno un passato pugilistico, così per loro faccio un allenamento più simile alla boxe vera. Il sogno è portare l’agonismo all’interno del carcere, allestire qualche incontro… (davvero, perché non farlo?, ndr). Comunque venire a Opera è un’esperienza unica". Davide Spoldi, invece, insegna pallavolo: "Entrare qui mi dà l’opportunità di capire quali siano le cose autentiche della vita, quelle davvero importanti che spesso fuori dimentichiamo". "Far conoscere il proprio corpo a gente che è ristretta in poco spazio, è importante e utile" spiega invece Elena Boscone anima del corso di stretching. "Proponiamo il crossfit - ci illustra Max Pirola - perché necessita di attrezzi di scarsa manutenzione. E poi è abbastanza facile per loro arrivare, dopo i corsi, a prendere una licenza per insegnarlo quando usciranno. Una possibilità di lavoro in più". I reclusi Antonio è coperto di tatuaggi, ha 33 anni. "Venire in palestra - racconta - significa staccare. In questi momenti tocchi la libertà, con la testa". "Preferisco la kickboxe perché così uso anche le gambe". "I trainer sono bravissimi, mi han fatto scoprire muscoli che non sapevo neanche d’avere" dice un allievo dello stretching. "Grazie al gruppo ho conosciuto gente sensibile che mi ha aiutato a capire cosa fare quando uscirò fra pochi mesi: non vedere più il vecchio giro, studiare, fare scelte di vita corrette". "È tutto lo sport ad aiutarci - conclude Davide, che qui fa pallavolo - ci insegna la disciplina, ci impedisce di restare sdraiati per anni su una branda. Ci mantiene vivi". Riattraversiamo il grande cortile, ci sono alberi e fiori, in fondo anche giochi per bimbi, dall’altra parte il muro per i 41bis: un carcere nel carcere. Angoscia. Quando si chiude la porta alle nostra spalle e l’altra si apre subito dopo davanti a noi verso l’uscita, ripensiamo a quei fine pena 2024, 2028 che abbiamo sentito recitare in palestra e alla battuta del pallavolista un po’ filosofo: "Grazie, tornate a trovarci, possibilmente… liberi. Ma se non fosse così, qui avete già un po’ di amici". Abbiamo riso tutti. Dentro. Venezia: dieci giorni senza sosta… da "Scarpe Rotte" a "Carceri (dis)umane" di Isotta Esposito www.urbanpost.it, 26 aprile 2014 Il Festival Scarpe Rotte il 25 aprile ospita Amanti di Camilla e Talco, termina l’1 maggio con Ska-J al Forte Marghera-Venezia. Un giorno di sosta e arriva Carceri (Dis)umane, dell’Osservatorio Diritti Umani Onlus. Mestre-Venezia, ospita puntualmente il Festival Scarpe Rotte tra i suoi Forti, Forte Marghera, Forte Carpenedo e Forte Mezzacapo. Il programma di questa edizione si apre con Mozoltov, Modena City Ramblers, segue con il 25 aprile (anniversario della liberazione d’Italia) con i Talco, fino al primo maggio. Concerti, documentari e presentazioni di libri si susseguono fino alla fine, con Rio Terà, Space Mosquito, Ska-J e Riff Raff (Ken Loach 1991). Il tutto unito a buona cucina e a mercatini. Per chi è fan di Scarpe Rotte e non abita vicino a Venezia, può pernottare nelle zone convenzionate illustrate nel sito ufficiale (come il campeggio) www.scarperotte.it Dopo un giorno di respiro, il Forte Marghera viene travolto da un’altra ondata, Carceri (dis)umane: azioni teatrali di informazione non convenzionale, presentato dall’Osservatorio Diritti Umani Onlus. "Un’esperienza sensoriale e partecipativa con l’obiettivo di informare ed emozionare sulla problematica del sovraffollamento nelle carceri italiane, a pochi giorni dalla scadenza imposta all’Italia dalla Corte Europea dei Diritti Umani per risolvere in radice il problema (28 maggio 2014)". Alcuni attori veneziani volontari hanno aderito partecipando attivamente alla creazione di Carceri (Dis)umane, con la coordinazione di Debora Slanzi, attrice, docente universitaria e membro della Onlus. Televisione: da giugno su Mya la serie "Orange Is The New Black" ambientata in carcere di Nicoletta Tamberlich Ansa, 26 aprile 2014 Si tratta di uno dei titoli seriali di cui la stampa americana si è occupata maggiormente nell’ultima stagione, sia per i temi affrontati (è ambientata in un carcere femminile di massima sicurezza e le immagini spesso non lasciano spazio all’immaginazione), sia per l’alta qualità di messa in scena. L’ultima copertina del prestigioso "Entertainment Weekly" lo definisce "il più strano, eccentrico, sorprendente successo televisivo". La serie-fenomeno "Orange Is The New Black" di Netflix, ambientata all’interno di un carcere femminile, andrà in onda in anteprima su Mya dal 12 giugno, ogni giovedì in prima serata. La serie racconta le vicende di Piper Chapman, una donna del Connecticut che viene condannata a scontare 15 mesi nel carcere federale di Litchfield per aver trasportato una valigia piena di soldi per conto di una trafficante di droga internazionale un tempo sua amante. Guarda caso quest’ultima finisce nello stesso carcere di Piper. Girata col taglio dramedy (a metà strada tra la black comedy e il drama), tratta dal libro di memorie omonimo di Piper Kerman, "Oitnb" è stata ideata da Jenji Kohan, già ideatrice della serie cult - assai chiacchierata anch’essa - "Weeds", su una vedova che alla morte del marito si mette a spacciare cannabis per mantenere i due figli. "La serie indaga sull’auto-distruzione e sulla brutalità che si annida anche nell’animo femminile - ha dichiarato l’ideatrice Kohan - la prigione è solo un megafono di questo aspetto". In America, il debutto del serial è stato più visto di un altro titolo Netflix come "House of Cards". Tra i riconoscimenti si contano un Peoplès Choice Award e un Peabody Award. Jodie Foster dirige il terzo episodio della serie che è già stata rinnovata per la seconda stagione. Le due interpreti principali, la bionda Taylor Schilling e la bruna Laura Prepon, sono diventate in patria icone di stile e idoli della comunità lesbo. La serie vanta anche per la prima volta un transgender tra gli interpreti principali. Il tema musicale, "You’ve got Time", è eseguito da Regina Spektor. In "Orange Is The New Black" si parla di carcere, razzismo, sesso, omofobia, violenza e speranza. Con un cast quasi tutto femminile. La prima serie in cui una trans, Laverne Cox, non recita il ruolo di una prostituta, ma semplicemente quello di una trans. Piper Chapman, interpretata da Taylor Schilling, è una Waspy (bianca, bionda, classe alto-borghese) di 34 anni, vive a New York, ha una sua ditta di saponi artigianali ed è fidanzata con il dolcissimo e inconcludente Larry (Jason Biggs, Jim di American Pie). Una vita quasi perfetta. Quasi. Piper dovrà scontare 15 mesi di carcere in una prigione federale femminile. È accusata di aver trasportato una valigia carica di soldi sporchi, aiutando la sua ex fidanzata Alex Vause (Laura Prepon), una trafficante internazionale di droga. Una vecchia storia, tornata a galla improvvisamente. Una storia vera. Il libro è uscito nel 2010 e quando Jenji Kohan l’ha letto non ha avuto dubbi: "Se vai da un grosso network e dici "vorrei raccontare la vita delle donne afroamericane, sudamericane e anziane in prigione" sicuramente non otterrai nulla. Ma con questa ragazza bionda dietro le sbarre potrai raccontare la sua storia e quelle di tutte le altre detenute". Libri: "So contare i giorni. Prove di vita fuori e dentro il carcere", di Giuseppe D’Addiego www.barilive.it, 26 aprile 2014 "So contare i giorni. Prove di vita fuori e dentro il carcere", di Giuseppe D’Addiego (Stilo Editrice) è il titolo del libro che sarà presentato lunedì 28 aprile alla Libreria Roma. Appuntamento a Bari in Piazza Aldo Moro 13, alle 18.30. Dopo aver trascorso anni entrando e uscendo dalle carceri d’Italia, Giuseppe Daddiego affida a questa raccolta di schegge autobiografiche il compito di ricomporre il quadro di una vita segnata da rapine, estorsioni, furti, disperazione, droga. Decide di ricorrere alla scrittura per mettere ordine e soprattutto cercare di dare senso a un’esistenza troppo a lungo soffocata dalle maglie di un ambiente che non permette via di fuga, che non lascia filtrare possibilità di riscatto, che non prospetta esempi di vita alternativi. Parte dall’infanzia con le prime esperienze delinquenziali e i primi forti legami di amicizia e passa in rassegna gli avvenimenti principali del suo percorso di uomo e di detenuto: la morte della sorella e della madre, il difficile legame col padre, la vita nelle carceri in cui viene rinchiuso, i rapporti con gli altri detenuti, la ricerca spirituale, l’incontro con la sua futura compagna, i tentativi di cambiare vita, la morte degli amici; fino ad approdare alla pena definitiva, alla ricerca di un lavoro onesto e all’incontro con la scrittura. In questo racconto autobiografico l’autore vuole lanciare un messaggio di speranza a chi si è trovato o si trova a vivere le sue stesse passate esperienze: cambiare è possibile. ?L’autore è nato a Bari nel quartiere San Paolo, dove tuttora risiede. Ha conseguito il diploma di scuola media inferiore in carcere. Saldati i conti con la legge ha lavorato come carpentiere, imbianchino, addetto alle pulizie. Attualmente è in cerca di un impiego. Determinato a iniziare una nuova vita, incontra casualmente la poesia e scopre un mondo sconosciuto, quello della lettura, che lo spinge a intraprendere un percorso di studio e scoperta intellettuale, fino a maturare i primi esperimenti di scrittura che approdano alla pubblicazione di due raccolte poetiche: Un forte vento (La Vallisa, 2007) e L’alba di una nuova vita (La Vallisa, 2009). Francia: processo per morte Daniele Franceschi, fra testimoni anche guardia carceraria Ansa, 26 aprile 2014 Al processo che prenderà il via il 17 e 18 settembre prossimi a Grasse, in Francia, per la morte del giovane viareggino, Daniele Franceschi, che era detenuto nel carcere francese, fra i testimoni ci sarà anche una guardia carceraria. "Per la prima volta si è appreso di questa novità - spiega l’avvocato Aldo Lasagna, uno dei legali della famiglia del giovane -, leggendo gli atti, viene evidenziato questo fatto e riteniamo sia importante. Risulta che la guardia fu redarguita dopo che non aveva segnalato le condizioni di salute di Daniele, quando accusò il malessere all’interno del carcere che poi con le complicazioni che sono emerse in seguito, purtroppo l’hanno portato al decesso. Questa testimonianza, insieme alle altre, che sono state inserite nel dibattimento presso il tribunale francese di Grasse, sono sicuramente importanti". Per la morte di Franceschi sono accusati di omicidio colposo il medico del carcere e due infermiere, mentre l’ospedale civile di Grasse dovrà rispondere civilmente e dal punto di vista risarcitorio. Francia: drammatici casi di violenza nelle carceri minorili, ma anche i genitori tacciono di Ivano Abbadessa www.west-info.eu, 26 aprile 2014 Sono drammatici i casi di violenza all’interno dei penitenziari minorili francesi. Dove le aggressioni fra giovanissimi detenuti vengono tollerati con una certa rassegnazione dal personale carcerario. Con il silenzio delle vittime e dei loro genitori. Come se si trattasse di qualcosa contro cui poco o niente si può fare. Il j’accuse arriva dal rapporto del Controllore Generale degli istituti di detenzione d’Oltralpe. Che, in particolare, ha portato alla luce l’emblematico caso della prigione di Villeneuve-lès-Maguelone. All’interno della quale solo l’anno scorso si sono registrati 24 casi di aggressioni gravi. Che per lo più sono avvenute mentre i ragazzi si trovavano insieme nei cortili. Tuttavia, secondo il documento, gli episodi di violenza tra minori sono molto più numerosi di quelli effettivamente identificati. Per questo si raccomandano azioni più incisive che, oltre a una maggiore cooperazione fra famiglie e amministrazione penitenziaria, prevedano: 1) interventi di contrasto più rapidi; 2) corsi di "educazione al rispetto reciproco"; 3) supporti adeguati per le vittime; 4) la messa di fronte alle loro responsabilità degli autori degli attacchi. Gran Bretagna: report ricerca; perché alcuni ex detenuti sono più fortunati di altri? di Annalisa Lista www.west-info.eu, 26 aprile 2014 In Inghilterra, circa i due terzi degli ex detenuti trovano un impiego dopo aver lasciato il carcere. Ma quali sono i fattori che influenzano la riuscita del reinserimento lavorativo? Il Ministero della Giustizia inglese ha cercato di fornire qualche risposta nel suo ultimo report. Innanzitutto, il fatto di avere avuto un impiego prima dell’arresto. Secondariamente, l’impegno dimostrato in carcere nei lavori quotidiani e nei corsi di formazione. Così come l’attiva partecipazione ai programmi di disintossicazione da droghe e alcol. Senza dimenticare il livello d’istruzione. Cosa, invece, può determinare il fallimento professionale una volta riacquisita la libertà? In primo luogo, il fatto di non avere la garanzia di un tetto sulla testa. Poi, una forma di disabilità. La difficoltà nel liberarsi delle dipendenze da droga e alcol. Ancora, competenze professionali frammentarie. Ciò a dimostrare l’importanza di puntare l’attenzione su programmi di riabilitazione sociale specifici e mirati. Stati Uniti: e ora "peace on drugs"… arriva l’amnistia di Obama di Luca Celada Il Manifesto, 26 aprile 2014 Il presidente Usa grazia otto carcerati e annuncia la clemenza generalizzata per liberare le celle piene di neri, ispanici e tossicodipendenti. È il tramonto dell’era reaganiana segnata dalla crociata proibizionista e dalla carcerazione di massa. Qualche mese fa Barack Obama ha concesso la grazia ad otto detenuti federali. Nel darne l’annuncio a dicembre aveva detto: "Commutare le sentenze di questi otto Americani è un passo importante per ribadire ideali fondamentali di giustizia ed equità, ma non deve essere l’ultimo". L’affermazione è storica perché denuncia implicitamente la generale ingiustizia che l’ha preceduta e annuncia un inversione ideologica di portata potenzialmente più radicale di quella della riforma sanitaria che tanto ha assorbito la sua amministrazione. Questa settimana Obama ha tenuto fede a quella dichiarazione annunciando l’allargamento delle "clemenze esecutive" che potrebbe equivalere ad una sostanziale amnistia per migliaia di detenuti federali. Uno degli otto "graziati", Clarence Aaron di 43 anni era stato arrestato poco più che ventenne. Studente modello e giocatore di football aveva avuto un ruolo secondario in una "transazione di droga": aveva presentato un suo ex compagno di liceo, ora spacciatore, ad un compagno di università il cui fratello trafficava anch’egli in droga. I due spacciatori in seguito si erano messi d’accordo per la compravendita di 9kg di cocaina e quando la polizia li aveva arrestati avevano implicato il giovane Aaron in cambio di un alleggerimento delle pene. Il ragazzo che invece si era rifiutato di collaborare con gli inquirenti e denunciare i suoi amici, era stato condannato a tre ergastoli. Per incredibile che possa sembrare la pena "esemplare" non fu fuori dal comune, specie per l’epoca, negli anni 90 all’apice della war on drugs, l’escalation del proibizionismo "armato" che in 40 anni ha fatto scempio nelle comunità emarginate programmatica mente rappresentate in questo caso dal giovane afroamericano Aaron. Dopo essere stata dichiarata da Richard Nixon, come parte della famigerata "tolleranza zero contro la criminalità", la war on drugs è assurta a fondamentale componente della demagogia politica, codificata negli statuti giudiziari in misura sempre più imprescindibile dal "mandatory sentencing" maxi pene obbligatorie che i giudici erano (sono) tenuti ad imporre. In molti Stati sono state varate leggi come la famosa 3 strikes californiana che impone l’ergastolo obbligatorio alla terza infrazione, qualunque essa sia. Così per oltre 30 anni il flusso di prigionieri di lungo corso per crimini nonviolenti legati agli stupefacenti si è ingrossato senza sosta. Risultato: un ipertrofico complesso penale-industriale articolato in migliaia di penitenziari e prigioni, un gulag nazionale in cui sono incarcerati un incredibile 2,3 milioni di persone, una popolazione che dal 1985 è quintuplicata. Oggi gli Usa che rappresentano circa il 5% della popolazione mondiale detengono notoriamente dietro le sbarre il 25% dei prigionieri del mondo, la gran maggioranza dei quali condannati per reati "di droga" spesso irrisori. Intanto la "droga" come fenomeno non accenna minimamente ad essere sconfitta. La crociata giustizialista ha trovato nuovo impulso negli anni del reaganismo ed è stata particolarmente virulenta nell’era neoconservatrice, diventando sempre più strumento di controllo sociale. A fronte della privatizzazione di educazione e sanità e dei tagli della spesa pubblica, nel momento in cui i lupi di Wall Street e rampolli middle class creavano un mercato di massa per la coca "ricreativa" la war on drugs ha rappresentato praticamente una spedizione punitiva contro poveri e minoranze come da anni palesano le vergognose discrepanze delle pene previste per la detenzione/spaccio di cocaina rispetto a quelle comminate a chi usa il crack. La forma cristallizzata di cocaina così chiamata da uno sballo molto più concentrato e soprattutto viene commercializzata in formato monodose a prezzi assai più modesti diffondendosi così a macchia d’olio nei ghetti e fra le popolazioni urbane più marginali (con, all’inizio degli anni 80, la documentata connivenza della Cia che all’epoca col traffico di crack sovvenzionava i Contras nicaraguensi). Da allora le storie di neri e ispanici dei ghetti condannati a 20 anni per detenzione di un cristallo di coca mentre nei quartieri middle-class avvocati o agenti di borsa se la cavano con una condizionale per dieci grammi di polvere hanno delineato la tangibile demarcazione della discriminazione giudiziaria. Oggi i neri d’America sono incarcerati con un tasso sei volte superiore a quello dei bianchi; i prigionieri afroamericani sono 1 milione, ben oltre il 40% del totale malgrado costituiscano a malapena il 10% della popolazione generale. La probabilità che oggi ha un giovane nero come Clarence Aaron di finire in galera prima dei 40 anni è di sei volte superiore a quella di un bianco. Sono i numeri dell’abominio morale al cuore della "più grande democrazia occidentale" l’immagazzinamento di generazioni di sepolti vivi come politica sociale. Una politica oltretutto dagli enormi costi finanziari per cui uno stato come la California (250.000 detenuti) spende più di $100.000 all’anno per un detenuto minorenne e meno di $10.000 nello stesso periodo per uno studente nella scuola pubblica. L’industria penale è promossa da forti lobby (vedi i potentissimi sindacati delle guardie carcerarie che spingono per pene sempre più severe) e rappresenta ormai un giro di affari da $80 miliardi, avendo prodotto anche il fenomeno "ibrido" della carcerazione commerciale delle prigioni private che si aggiudicano lauti subappalti per custodire detenuti. Ma non bastano: l’anno scorso il governo federale ha intimato alla California di scarcerare un numero di detenuti (decine di migliaia) sufficiente ad alleviare le croniche ed incostituzionali condizioni di sovraffollamento degli istituti penali. In questa perversa economia, gli stati in crisi di bilancio hanno difficoltà oggettive a mantenere il passo della carcerazione rampante. Anche l’amnistia di Obama ufficialmente è motivata dal ridimensionamento dei costi della carcerazione, ma nel contesto storico si tratta in realtà di una radicale inversione di rotta rispetto al giustizialismo rampante che per trent’anni ha riempito le galere americane e contro il quale il suo l’attorney general, il ministro della giustizia Eric Holder nel secondo mandato si è espresso sempre più esplicitamente. Holder ha apertamente denunciato "un utilizzo eccessivo della carcerazione" come rimedio sociale economicamente insostenibile oltreché eccessivamente costoso in termini "umani e morali". Il discorso che Holder ha fatto a questo riguardo lo scorso agosto alla conferenza degli avvocati americani era stato in alcuni suoi passaggi, nientemeno che epocale: "Ora che la cosiddetta war on drugs sta per entrare nel suo quinto decennio - ha detto il ministro - dobbiamo chiederci se sia davvero stata efficace. Con la nostra enorme popolazione di detenuti dobbiamo chiederci se la carcerazione sia davvero usata per punire, dissuadere e riabilitare o se si tratti in realtà di un semplice strumento per immagazzinare e dimenticare La pura verità è che sia a livello federale che statale che locale è ormai divenuta inefficace e insostenibile. (Inoltre) dobbiamo riconoscere che una volta nel sistema, le persone di colore subiscono punizioni molto più severe delle loro controparti. Le sentenze "obbligatorie" hanno avuto con la loro inflessibilità un effetto destabilizzante sulle popolazioni povere e di colore. Negli ultimi anni - ha concluso Holder - i detenuti neri hanno ricevuto condanne più lunghe del 20% rispetto a quelli bianchi per delitti simili. Questo non solo è inaccettabile, non è degno della giustizia in questo Paese ed è vergognoso". Una vergogna cui occorrerebbe porre rimedio con una integrale riforma delle leggi e sanzioni troppo per il presidente che in questo anno elettorale difficilmente avrebbe potuto superare l’ostruzionismo repubblicano su un tema "caldo" come l’ordine pubblico. Obama ha invece agito per decreto, usando la facoltà presidenziale della grazia ed estendendola potenzialmente migliaia di detenuti. Anche se l’amnistia dovrà essere concessa di volta in volta ai singoli detenuti c’è chi, come Jerry Cox, presidente dell’associazione degli avvocati ha parlato di "inizio della fine dell’era della carcerazione di massa". Il ministero di giustizia intanto sembra intenzionato a fare sul serio. Per cominciare è stato rimosso Ronald Rodgers, il procuratore preposto a valutare le domande di clemenza, un noto falco che si adoperava di fatto per insabbiare le pratiche - compresa quella di Clarence Aaron che per molti anni ha cestinato - prima che giungessero al presidente. E in secondo luogo mettendo a diposizione difensori d’ufficio a chiunque voglia inoltrare una pratica. Se riuscirà in seguito ad ampliare le riforme, l’intervento sulle carceri potrebbe essere il retaggio più tangibile del primo presidente afroamericano. Israele: prigionieri palestinese in sciopero della fame contro la detenzione amministrativa di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 aprile 2014 Mentre i vertici dell’Olp e dell’Autorità Nazionale si riuniscono per fare il punto dopo l’accordo Hamas-Fatah e le reazioni contrarie di Israele e Stati Uniti, i prigionieri politici palestinesi riprendono la lotta contro la "detenzione amministrativa". Si tratta di una misura, definita da Israele "cautelare", che prevede il carcere per mesi, in qualche caso fino a cinque anni, senza processo e solo sulla base di indizi e considerazioni di sicurezza. Dal 1967 oggi ha colpito migliaia di palestinesi in aperta violazione del diritto internazionale. Circa duecento prigionieri politici da giovedì attuano lo sciopero della fame contro questo tipo di detenzione: ottanta a Ofer, sessantacinque a Megiddo e cinquantacinque nel Neghev. L’anno scorso la detenzione amministrativa era stata portata all’attenzione del mondo dal caso detenuto palestinese Samer Issawi: protagonista di un lungo sciopero della fame durato 277 giorni. Prima di Issawi, il rifiuto del cibo aveva coinvolto per mesi circa duemila detenuti palestinesi ed era terminato nel maggio 2012 dopo un accordo raggiunto con le autorità israeliane che si erano impegnate a non rinnovare la detenzione amministrativa. L’accordo è stato applicato solo in parte. Sono circa 5 mila i prigionieri palestinesi sparpagliati in 22 tra carceri e altri luoghi di detenzione israeliani. Tra loro ci sono 200 minori e 19 donne. Arabia Saudita: donna sfida divieto guida, condannata a 150 frustate e 8 mesi di carcere Aki, 26 aprile 2014 Una donna saudita è stata condannata a 150 frustate e otto mesi di carcere per aver osato sfidare il vecchio e controverso divieto di guidare. La donna, riferisce l’agenzia di stampa Dpa che cita i media locali, è anche accusata di resistenza a pubblico ufficiale. Il divieto per le donne di guidare non è contenuto in alcuna legge saudita, ma nel 1990 un decreto ministeriale ha formalizzato quella che era una consuetudine. Secondo diverse fonti la sentenza nei confronti della donna è particolarmente dura per l’aggravante della resistenza a pubblico ufficiale. Giordania: terrorista libico in viaggio verso Tripoli per scambio con ambasciatore rapito Nova, 26 aprile 2014 Il terrorista islamico libico, Mohammed al Darsi, è stato rilasciato dalle autorità di Amman ed è in queste ore in viaggio verso Tripoli. Secondo quanto ha annunciato l’emittente televisiva "al Jazeera", il terrorista libico, che si trovava in carcere in Giordania per aver fatto parte del gruppo di al Qaeda in Iraq e sul cui capo pendeva una condanna a morte, dovrebbe essere scambiato con l’ambasciatore giordano in Libia, Fawaz Eytan, rapito il 15 aprile scorso da un commando armato a Tripoli. Lo scambio sarebbe possibile grazie ad una mediazione francese.