Un appello a Napolitano, a Renzi e al ministro Orlando Ristretti Orizzonti, 25 aprile 2014 "Partendo dalla nostra oramai trentennale e variegata attività di impegno e di lavoro nel sistema penitenziario italiano, rivolgiamo alcune richieste e offriamo tutta la nostra disponibilità a sostenere un percorso di cambiamento", scrivono una cinquantina di associazioni. Molte realtà - sotto l’elenco - hanno deciso di scrivere un documento per contribuire al cambiamento della situazione carceraria del nostro Paese, più volte segnalata anche dalle istituzioni europee. Le associazioni tengono precisare che: "Lo sguardo europeo sulle condizioni di detenzione in Italia ha indotto un processo di piccole riforme legislative che hanno certamente prodotto una riduzione". Molta strada è ancora da percorrere. "Sono comunque circa 4 mila i ricorsi di detenuti pendenti presso la Corte Europea per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani e le libertà fondamentali che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano e degradante. Ricorsi che comunque attendono una soluzione di carattere compensativo per coloro che tali condizioni hanno subito; ricorsi che ci si augura non si riproporranno poiché le misure adottate avranno modificato radicalmente quella realtà che nel passato ha portato a una condanna così umiliante per la nostra democrazia e la nostra civiltà umana e giuridica". L’appello arriva prima dell’inizio del semestre di guida italiana delle istituzioni europee. Certamente "un’occasione di un ulteriore e decisivo stimolo affinché siano migliorate sostanzialmente e durevolmente le condizioni di vita nelle carceri italiane e ci si avvii lungo il percorso dell’adozione di un diverso modello di giustizia e di detenzione, meno passivizzante e più responsabilizzante, meno chiuso in se stesso e più aperto al ritorno nella società", scrivono. E continuano: "È inaccettabile per un Paese a democrazia avanzata come il nostro che sopravvivano pratiche penitenziarie lesive della dignità umana nonché luoghi, come ad esempio Poggioreale a Napoli definiti medievali dal Presidente della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento Europeo a seguito di una visita ispettiva effettuata da una delegazione della Commissione da lui presieduta". Ecco le richieste: 1) È assolutamente necessario fare ulteriori e più coraggiosi passi in avanti sul terreno delle riforme legislative dirette a diversificare il sistema sanzionatorio e a procedere sulla doppia via della depenalizzazione e della residualizzazione della pena carceraria. 2) La qualità della vita nelle carceri dipende anche da pratiche operative e da modelli di gestione. Nel nostro sistema penitenziario, per prassi consolidata, si è finiti per ritenere che la pena dovesse consistere nella chiusura in cella con pochissimo tempo (a volte solo due ore giornaliere) a disposizione per la vita sociale. È questo il momento di produrre il massimo sforzo per cambiare un modello di gestione, fondato sulla soggezione, l’afflizione e l’umiliazione. Ci vuole un gruppo di regia forte, con anche doti di tipo manageriale e spirito innovativo, che renda prassi operativa in tutto il territorio nazionale ciò che proficuamente, il mondo ricco del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione sociale ha prodotto in questi anni con enorme sacrificio. Il Ministero della Giustizia non deve tardare ad aprirsi in maniera determinata a questo pezzo importante della società civile non avendo paura delle forti resistenze che provengono dall’interno. 3) Nelle carceri italiane la gran parte dei detenuti è a basso indice di pericolosità e occorre evitare il rischio che l’attenzione legittima che si riversa alle poche migliaia di detenuti pericolosi finisca per condizionare il trattamento di tutti gli altri. Per evitare tale rischio la gestione dei detenuti non deve essere necessariamente affidata unicamente a chi ha nella sua biografia una storia, seppur meritoria, di investigazione giudiziaria, privilegiando anche l’apporto che può giungere da chi ha dimostrato un’attenzione continua ai modelli più avanzati di composizione dell’esigenza di sicurezza sociale con il necessario (obbligatorio per lo Stato) ritorno alla società della persona che ha sbagliato, attraverso un percorso rieducativo. Parallelamente la gestione del personale penitenziario (oltre 50 mila persone, alcune delle quali di grande valore professionale) richiede un’attenzione particolare. Una gestione del personale dove al centro ritorni lo scopo per cui queste persone sono assunte, perché è proprio dal riacquistare il senso del proprio lavoro che cresce una serenità del personale da cui dipende molto di quello che, di bello o di brutto, accade negli istituti penitenziari. 4) Un tema centrale per il miglioramento della qualità della vita interna è quello del lavoro dentro e fuori dal carcere ovvero per chi è in esecuzione penale esterna. Il tasso di disoccupazione nelle carceri Italiane è del 96%. Esiste una legge del 2000 (che va ricontestualizzata al momento presente), conosciuta come legge Smuraglia (il finanziamento straordinario del CdM del 13/02/2013 non ha ancora trovato regolare attuazione attraverso lo schema di decreto interministeriale), che pur costituendo una base normativa importante, ancor oggi fa fatica a funzionare a causa della ridotta copertura di spesa. Il lavoro qualificato è essenziale quale fattore di riduzione, pressoché totale, della recidiva e va concretamente incentivato, riducendo quegli intoppi burocratici che spesso non consentono il pieno funzionamento di pur positive leggi esistenti. Anche in questo ambito ci vuole una regia pubblico-privato forte, autorevole e di impronta manageriale. 5) Un problema a cui serve dare immediata risposta riguarda i pochi bambini (40/50) ancora rinchiusi in carcere. Le centinaia e centinaia di case famiglia di varie associazioni presenti sul territorio nazionale sono da anni (con un costo di gran lunga inferiore a quello del carcere o dell’Icam) disponibili ad accogliere queste mamme con i loro bambini in ambienti sicuramente, oltreché più economici, più adeguati. 6) Va decisamente e definitivamente favorito l’invio in Comunità di detenuti (ad esempio tossicodipendenti o malati mentali, ma non solo) in affidamento, sia provenienti dalla detenzione che dalla libertà. È necessario un riconoscimento istituzionale ed amministrativo attraverso una retta giornaliera. Le esperienze in atto, oltre ad abbattere in maniera drastica la recidiva (cosa che lo stato italiano oggi non è in grado di assicurare), hanno un costo decisamente inferiore a quello dello stato. Similmente vanno sostenuti i progetti di housing sociale. 7) Infine, molte nostre organizzazioni sin dal 1997 hanno chiesto l’introduzione nel nostro Ordinamento giuridico del Garante nazionale delle persone private o limitate nella libertà. Nonostante ci fosse un obbligo derivante dalla ratifica da parte del nostro Paese di un Protocollo Onu (comunemente riportato con l’acronimo Opcat) in tal senso e nonostante molti Paesi europei abbiano già istituito figure analoghe, quantunque in vario modo denominate, solo da poco questa figura è stata inserita con legge nel nostro Ordinamento. La nomina dei tre componenti dell’autorità di garanzia - Presidente e due membri - spetta al Capo dello Stato previa delibera del Consiglio dei Ministri. Ci auguriamo che siano scelte persone di comprovata esperienza, non solo nazionale, sul tema dei diritti delle persone private della libertà e del monitoraggio delle condizioni di detenzione. È un incarico molto delicato che richiede indipendenza (ricavabile dalla propria storia professionale e di terzietà), autorevolezza morale, grande conoscenza, nonché lunga esperienza sul campo. Sottoscrivono l'appello: Agci Solidarietà - Italia, Antigone - Italia, Arci - Italia, A Roma, Insieme - Leda Colombini - Roma, Associazione A Buon Diritto - Italia, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII -Servizio Carcere - Italia, Associazione Itaca - Italia, Associazione nazionale Giuristi democratici - Italia, Balducchi Virgilio - Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, Ciotti Luigi - Presidente associazione Libera - Italia, Cittadinanzattiva - Italia, Conferenza nazionale volontariato giustizia - Italia, Consiglio italiano per i rifugiati - Italia, Consorzio La città Solidale - Ragusa, Consorzio sociale Giotto - Veneto, Consorzio sociale Kairos - Torino, Consorzio sociale Prisma - Vicenza, Cooperativa 153 - Perugia, Cooperativa Abc La Sapienza in tavola - Milano, Cooperativa Alternativa - Treviso, Cooperativa Alternativa Ambiente - Treviso, Cooperativa Campo dei Miracoli - Gravina in Puglia (BA), Cooperativa Cieli e Terra Nuova - Rimini, Cooperativa Comunità Papa Giovanni XXIII - Rimini, Cooperativa Ecosol - Torino, Cooperativa Il Calabrone - San Pietro di Legnago (VR), Cooperativa Il Cerchio - Venezia, Cooperativa Il Pungiglione - Mulazzo (MS), Cooperativa Il Ramo - Bernezzo (CN), Cooperativa I tesori della terra - Cuneo, Cooperativa La Casa di Alberto - Catania, Cooperativa La Formichina - Santa Venerina (CT), Cooperativa La Fraternità - Rimini, Cooperativa L’Arcolaio Siracusa, Cooperativa L’Eco Papa Giovanni XXIII - Dueville (VI), Cooperativa Men At Work - Siracusa, Cooperativa L’Eco Papa Giovanni XXIII - Dueville (VI), Cooperativa Men At Work - Roma, Cooperativa Rinascere - Dueville (VI), Cooperativa Rio Terà dei Pensieri - Venezia, Cooperativa Rose Blu - Villa San Giovanni (RC), Cooperativa San Damiano - Sorso (SS), Cooperativa Syntax Error - Roma, Cooperativa Verlata - Vicenza, Cooperativa Work Crossing - Padova, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza - Italia, Dalla Chiesa Nando Presidente onorario associazione Libera - Italia, Federsolidarietà Confcooperative - Italia, Fondazione Michelucci - Firenze, Forum droghe - Italia, Fp Cgil - Italia, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana - Toscana, Gruppo Abele - Italia, Legacoopsociali - Italia, Medici contro la tortura - Italia, Progetto diritti - Italia, Rete della Conoscenza - Italia, Ristretti Orizzonti - Padova, Società italiana psicologia penitenziaria - Italia, Società della Ragione - Italia, Unione delle Camere penali italiane - Italia, Vic volontari in carcere - Roma. Una rete per cambiare il carcere di Vito Salinaro Avvenire, 25 aprile 2014 Sono decine tra associazioni, cooperative, organismi di volontariato, sigle sindacali. Rappresentano il mondo dei soggetti sociali che operano nel mondo carcerario. E, guardando al semestre europeo a guida italiana, rivolgono, per la prima volta a una sola voce, un appello alle istituzioni italiane ed europee per chiedere un miglioramento permanente delle condizioni di vita nelle carceri italiane, "un diverso modello di giustizia e di detenzione più responsabilizzante, meno chiuso in se stesso e più aperto al ritorno nella società", partendo da un coinvolgimento reale della società civile che opera da anni nel settore. Tutto questa nella scia di un pur riconosciuto "passo riformatore" che si è dato l’Italia approvando riforme legislative che hanno prodotto una riduzione del sovraffollamento carcerario. Riforme, però, ancora "limitate e non ancora determinanti". Soprattutto tenendo conto di una doppia spada di Damocle che minaccia l’Italia: le pesanti sanzioni che la Corte europea dei Diritti dell’uomo si appresta a infliggerci, a partire dal 28 maggio, a causa delle condizioni di vita nei nostri penitenziari; e i 4mila ricorsi di detenuti pendenti presso la stessa Corte, per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano e degradante. E così, all’indirizzo email appellocarceri2014@gmail.com, tuttora attivo, sono arrivate le adesioni di tantissimi soggetti: da Agci Solidarietà all’Unione delle Camere penali italiane, dall’Arci al Gruppo Abele, dall’Associazione e dalla Cooperativa Comunità Papa Giovanni XXIII al presidente di Libera, don Luigi Ciotti, a Federsolidarietà Confcooperative; e poi Fp Cgil, Cittadinanzattiva, Consiglio italiano per i rifugiati, Consorzio sociale Giotto, e via di seguito. Si rivolgono al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, al premier Matteo Renzi, al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ma anche al presidente del Consiglio europeo, Herman Achille Van Rompuy e al presidente della commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo, Juan Fernando Lòpez Aguilar. I sette punti: proseguire con nuove riforme legislative e procedere "sulla doppia via delle depenalizzazione e della residualizzazione della pena carceraria"; cambiare pratiche operative e modelli di gestione fondati sulla "soggezione, l’afflizione, l’umiliazione", aprendosi invece ai modelli che il mondo del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione sociale ha prodotto in questi anni in termine di progettualità: il ministero della Giustizia, è scritto nell’appello, "non deve tardare ad aprirsi a questo pezzo importante della società civile non avendo paura delle forti resistenze che provengono dall’esterno". Ancora, i firmatari chiedono nuovi percorsi rieducativi per i detenuti a basso indice di pericolosità, una diversa gestione del personale penitenziario, un rinnovato impegno per offrire opportunità di lavoro dentro e fuori dal carcere, perché "il lavoro qualificato è essenziale quale fattore di riduzione, pressoché totale, della recidiva". Ma vanno date risposte immediate anche a quelle decine di bambini ancora rinchiusi in carcere e che potrebbero essere accolti in case famiglia. La lettera alle istituzioni, inoltre, chiede l’invio in comunità di detenuti in affidamento (tossicodipendenti o malati mentali) e il conseguente riconoscimento di una retta giornaliera. Infine, nell’appello i firmatari si augurano che i tre componenti dell’autorità di garanzia del neocostituito ufficio del Garante delle persone private o limitate nella libertà siano scelti in base a indipendenza, autorevolezza morale, conoscenza ed esperienza sul campo. Carceri strapiene, 60 associazioni lanciano l’allarme Il Giornale, 25 aprile 2014 Un appello per cambiare le condizioni dei carcerati in Italia. Sono 60 le associazioni che si sono unite per indirizzare un messaggio alle autorità italiane ed europee e far presente il problema del sovraffollamento carcerario, che rischia di costare una multa salatissima all’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo. I firmatari chiedono "un diverso modello di giustizia e detenzione, più responsabilizzante, meno chiuso in se stesso e più aperto al ritorno nella società". L’appello si compone di sette punti. Tra i punti più in vista, la richiesta di "diversificare il sistema sanzionatorio", così da "procedere sulla doppia via della depenalizzazione e della residualizzazione della pena carceraria". Ma, in particolare, va cambiato, scrivono i firmatari, il modello di gestione delle case circondariali. Si invoca l’accantonamento del vecchio trattamento dei detenuti, fondato sulla "soggezione, l’afflizione e l’umiliazione", per passare ad un modello più improntato alla socialità e alle attività all’interno del carcere, prendendo spunto da realtà che in Italia sono già esistenti e dimostrano di funzionare a dovere. Per quanto riguarda le attività all’interno delle strutture, l’Italia è ancora indietro: il tasso di disoccupazione nelle carceri nostrane è del 96% e, nonostante l’esistenza di una legge che lo disciplina (la legge Smuraglia), il lavoro è ancora argomento che non fa presa, a causa delle ridotte coperture. Nell’appello, si sottolinea che "il lavoro qualificato è essenziale quale fattore di riduzione della recidiva e va concretamente incentivato". Si fa notare che la gran parte dei detenuti è a basso indice di pericolosità: per questo, è sbagliato che l’attenzione legittima che si riversa alla minoranza pericolosa si estenda a tutti gli altri detenuti. Infine, si chiede di favorire l’invio in comunità di detenuti in affidamento, sia provenienti dalla detenzione che dalla libertà. Tali esperienze "abbattono la recidiva e hanno un costo inferiore a quello dello Stato". Giustizia: Orlando ha depositato a Strasburgo il piano per sconfiggere il sovraffollamento Ansa, 25 aprile 2014 In vista della scadenza il prossimo 27 maggio della sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri, il ministero della Giustizia ha depositato a Strasburgo il suo piano d’azione. Il programma, contenuto in 11 pagine, espone tutte le misure prese, e in via di attuazione, per assicurare che ogni detenuto abbia almeno tre metri quadrati a disposizione in cella, e che quindi l’Italia non sia più condannata per aver sottoposto i carcerati a trattamento inumano e degradante. Nel documento sono presentate le leggi introdotte e in via di approvazione, i dati sulla popolazione carceraria, sulla capienza delle carceri, e sul sovraffollamento, il piano di costruzione e di ristrutturazione degli istituti di pena, oltre che le iniziative prese per migliorare la qualità di vita dei detenuti. Nel documento il governo si impegna inoltre a introdurre un sistema per compensare chi ha sofferto a causa del sovraffollamento. Entro maggio nessun detenuto sotto 3 metri Entro la fine di maggio i detenuti italiani avranno almeno 3 metri quadrati a disposizione nella cella che occupano. Questo è quanto viene asserito nel documento che contiene il piano d’azione anti sovraffollamento che il ministero della giustizia ha depositato al Consiglio d’Europa in vista della scadenza, il 27 maggio prossimo, della sentenza Torreggiani. Nel piano d’azione il ministero afferma che entro quella scadenza "non ci sarà alcun istituto di detenzione che presenti situazioni tali da portare a un’automatica violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani a causa dell’indisponibilità di almeno 3 metri quadrati di spazio vitale per detenuto". E ove questo non dovesse essere vero, si tratterebbe di "situazioni non permanenti, e piuttosto eccezionali comparate alla totale popolazione carceraria di 60mila detenuti" e contro cui il detenuto potrebbe far intervenire il giudice di sorveglianza. Il ministero fornisce infine una serie di dati sul sovraffollamento nelle carceri: il 21 marzo scorso c’erano 1.972 detenuti che avevano meno di 3 metri quadri, mentre erano "sicuramente più di 10mila quando l’Italia è stata condannata con la Torreggiani". Lavorare su sviluppo pene alternative "Non è un problema di risorse. Il sistema è tornato sotto controllo grazie a una serie di interventi del Parlamento, attualmente si è stabilizzato poco sopra i 60mila detenuti, a fronte di una disponibilità che però resta ancora inadeguata". È quanto ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando sul sovraffollamento delle carceri a margine delle celebrazioni del 25 aprile. "Bisogna lavorare sullo sviluppo delle pene alternative: nel resto d’Europa il carcere non è l’unica soluzione, ce ne sono altre più efficaci e più convenienti per la comunità", ha osservato. Secondo Orlando si possono si possono percorrere anche altre strade come "gli accordi con le Regioni per trasferire i detenuti tossicodipendenti in comunità, o attuare gli accordi con gli altri Paesi perché i detenuti finiscano di scontare la pena nei loro paesi d’origine". "I detenuti di origine comunitaria nelle carceri italiane sono 4500", ha sottolineato il titolare della Giustizia. Indennizzo vittime sovraffollamento L’Italia potrebbe avere presto un sistema per indennizzare i detenuti vittime del sovraffollamento. Nel documento presentato a Strasburgo dal ministero della giustizia si legge che "il governo s’impegna a intervenire per definire" tale sistema: le misure saranno "soprattutto compensatorie, proporzionate al periodo che il carcerato ha trascorso" in condizioni che violano l’art.3 della Convenzione europea dei diritti umani. "La procedura", si legge nel testo depositato "sarà contenuta in un provvedimento che è in fase di adozione". Le misure riguardano la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani: in altre parole sono destinate a chi abbiano trascorso un certo tempo in una cella con meno di 3 metri quadrati a disposizione. L’Italia, si legge nel piano, ha invece già introdotto, come richiesto dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Torreggiani, l’altro rimedio contro il sovraffollamento, quello preventivo, con la legge 10/2014 e il nuovo articolo 35 bis del codice penitenziario. La legge permette ai detenuti di ricorrere al giudice di sorveglianza per denunciare le condizioni di detenzione, mentre il nuovo articolo del codice penitenziario conferisce al giudice il potere di ordinare alle strutture carcerarie di attuare tutte le misure per mettere fine alla violazione dei diritti del detenuto. "I primi ricorsi sono stati già presentati e il Governo sta monitorando la loro efficacia" si legge nel documento in cui viene sottolineato "che il numero di tali ricorsi è destinato sicuramente ad aumentare in futuro, anche grazie alle campagne d’informazione che l’amministrazione desidera incoraggiare". Giustizia: i proclami di Renzi e le riforme necessarie… non basta l’ottimo Fiandaca di Roberto Granese Agenzia Radicale, 25 aprile 2014 Già in tempi non sospetti il direttore di questa testata individuava nella "questione giustizia" il vero limite contro il quale sarebbe impattato, alla prova dei fatti, l’allora neo-segretario del Pd. È già storia, pur con una serie di punti tuttora oscuri, come si sono rotte le uova ed è stata fatta la frittata: il Premier che corre come un treno su binari tra retorica e buona volontà è giunto alla questione della giustizia ed il dissesto della stessa ha spinto una gran parte del giornalismo di regime, compreso quello più amorevole nei confronti dell’ex sindaco fiorentino, a trattare il problema della riforma che non c’è, della giustizia che latita, della magistratura in parte malata, delle carceri che scoppiano, pur con modi e risultati diversi. Il sindaco con Twitter risolve con un proclama alla Renzi (oramai è entrato nell’immaginario collettivo, dallo "staisereno", passando per "fatevelodiredaunsindaco" per arrivare alle slide) del tipo "entro giugno facciamo tutto" e, ad ulteriore dimostrazione della sua tentazione, che alla fine diventa meramente strumentale al problema, candida alle Europee, nelle liste del Pd, l’ottimo professor Giovanni Fiandaca. Intanto la fine di maggio si avvicina e con essa il tempo a disposizione per lo stato italiano per riportare la legalità nelle istituzioni carcerarie tecnicamente definite torturatrici dall’Unione Europea. I vari armamentari informativi del nostro stato premoderno si mettono in moto con i modi che li contraddistinguono e vediamo, per esempio, "Report" fare un lungo servizio di denuncia dello spreco di acqua e soldi dello stato nelle carceri, cercando i colpevoli (fin qui niente di nuovo) e diffondendo ancora il rinsecchito stereotipo (degno della sinistra universalista e solidale italiana) del rischio amnistia che mette i criminali in strada senza citare neanche di sfuggita l’ignorato appello della prima carica dello stato a occuparsi dell’emergenza umanitaria in cui si trovano le nostre carceri (anche qui, purtroppo, niente di nuovo). Se l’organo di stampa per eccellenza del giustizialismo forcaiolo all’italiana, il Fatto Quotidiano, dopo l’esplosione del caso Bruti (Robledo si trova a denunciare i dettagli del sistema delle correnti che soffoca e corporativizza la magistratura), la Repubblica e il Foglio, che non hanno mai negato una certa simpatia per il premier, mettono sul piatto, incalzando il ministro della giustizia, la difficoltà insita nel tentare una riforma della giustizia che si configura sempre più come una "lotta di potere tra poteri". Libero Quotidiano, ovviamente in chiave anti governativa, trova tutti i vulnus di una riforma della giustizia che, in prospettiva, si configura come poco più che una "aggiustatina" che non può affrontare i problemi reali perché ne è vittima connivente e Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, individua, anche lui, la banale quanto grave questione che una riforma del sistema giudiziario è propedeutica per riportare una condizione di parità tra i poteri dello stato, oggi sbilanciata paurosamente verso la magistratura, che rimane fondamentale per garantire che una democrazia funzioni. Questo ci riporta a fare delle considerazioni rispetto al fatto che, conoscendo l’utilizzo delle euristiche mentali da parte degli italiani palesemente sbilanciato verso l’errore cognitivo, si potrebbe demonizzare la magistratura, come si è fatto con il potere politico, e magari pensare di "risolvere" tutto nell’abolirla o riconvertirla nel circolo degli scacchi. Se è vero come è vero che i pilastri di una democrazia sono basati sull’equilibrio e l’indipendenza reciproca dei poteri si capisce che sentire le parole del professor Giuseppe Di Federico al Comitato Nazionale di Radicali Italiani - "il processo legislativo, dal momento della sua immaginazione, al momento della verifica di costituzionalità è sotto il pieno controllo della magistratura" - ci evidenziano il problema come una scritta al neon. La magistratura è uno strumento di garanzia della libertà del cittadino per difendersi dagli abusi del potere in tutte le sue forme come il Parlamento lo è rispetto alla partecipazione alla cosa pubblica. Una riforma fatta da un’istituzione corporativizzata per decorporativizzare un’altra istituzione corporativizzata che ha varie forme di controllo sulla prima sembra un assurdo matematico, ma questo è quello che si dovrebbe profilare all’orizzonte perché qualcosa possa funzionare in questo senso. Resta il problema che, se quelli che si scontrano, come ci è sembrato, sono due blocchi corporativi e conservatori, non ci sono molte possibilità di venirne fuori senza reiterare il sistema: i nodi si riallacciano, cambia qualche faccia e , fino al commissariamento internazionale, il carrozzone riparte con la sua logica stantia che, dovrebbe oramai apparire chiaro, non possiamo proprio più permetterci. Giustizia: Pannella (Radicali): le carceri sono troppo disumane, un’amnistia è necessaria Ansa, 25 aprile 2014 Nella sua prima conferenza stampa in collegamento televisivo dopo l’operazione all’aorta, Marco Pannella ha rilanciato la battaglia dei Radicali per una giustizia più giusta e per l’amnistia che "alleggerirebbe la disumana situazione carceraria". Insieme a Rita Bernardini, segretario del movimento, ha ricordato come l’Unione Europea abbia condannato lo Stato italiano innumerevoli volte imponendo anche il risarcimento dei danni ai detenuti. "Questa situazione è inaccettabile - ha detto Pannella - dovrebbe essere giudicata dal Tribunale di Norimberga". Ma poi si è subito corretto: "Quella era la giustizia dei vincitori contro i vinti. Noi non abbandoneremo mai i principi dello Stato di diritto". Nella sua diretta tv di circa un’ora Pannella ha ringraziato nuovamente Giorgio Napolitano per il suo messaggio alle Camere su giustizia e carceri. E si è rivolto anche a Papa Francesco: "Santità, o subito o mai più", ha detto riferendosi ancora all’amnistia e ricordando che al Quirinale c’è un presidente molto attento a questi problemi". In un passaggio della conferenza ha parlato anche del "velocissimo Matteo Renzi", accusandolo di non voler "dare spazio alla questione del finanziamento pubblico, come aveva promesso, dopo che i Radicali nel 1992 hanno vinto un referendum per l’abrogazione totale". Pannella in ospedale fa lo sciopero della sete "È venuto a trovarmi Marino e mi ha fregato, ha visto le labbra e ha capito. Poi ci siamo sentiti con Napolitano, lo ringrazio". Il leader storico del radicali italiani, Marco Pannella, ricoverato al Policlinico Gemelli per un intervento all’aorta, è in sciopero della sete per protestare contro la condizione delle carceri italiane. Lo ha rivelato lo stesso Pannella ieri sera in un collegamento telefonico con Radio radicale. "È venuto a trovarmi il sindaco di Roma Marino - ha raccontato - e appena mi ha visto, siccome è medico, mi ha fregato. Mi ha chiesto se stessi facendo lo sciopero della sete, ha visto le mie labbra, la mia bocca e ha tratto la conclusione". Pannella ha anche rivelato che il primo cittadino della Capitale ha quindi informato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, della decisione di Pannella. "Ci siamo sentiti - ha detto Pannella - ho ringraziato il Presidente, gli ho detto quello che penso, che non bisogna rassegnarsi a vedere cadere sul nostro stato un’infamia come quella tedesca degli anni 30 e 40" a causa della condizione delle carceri. "Ho ringraziato Napolitano". Perduca (Radicali): se parlamentari vogliono onorare Pannella adottino amnistia "Se proprio in #opencamera e #opensenato c’è qualcuno che vuole onorare @MarcoPannella adotti #amnistia, non promuova seggi a vita". Lo scrive su Twitter Marco Perduca, ex senatore radicale (eletto nelle fila del Pd) e co-vicepresidente del senato del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito. Giustizia: Osapp; la situazione nelle carceri resta critica, 15mila detenuti oltre la capienza Ansa, 25 aprile 2014 "Senza misure realmente strutturali da parte del Parlamento, al di là dei temporanei miglioramenti la situazione delle carceri resta critica con almeno 15mila detenuti in più dei posti disponibili: solo 3 regioni su 20 (Basilicata, Sardegna e Valle D’Aosta) hanno presenze detentive inferiori alla capienza regolamentare, almeno il 50% delle carceri è in grave degrado strutturale, e la cosiddetta Area Penale Esterna da molti disinformati indicata quale soluzione al problema, è in completa rovina e influente solo ai fini della statistica penitenziaria". Lo afferma Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp, Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, che teme considerandola "una vera e propria iattura per la polizia penitenziaria", che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo il prossimo 28 maggio scelga di "differire di altri sei mesi la decisione sulle migliaia di ricorsi pendenti contro il sovraffollamento". "Mentre sedicenti esperti, politici interessati e alti vertici amministrativi in questi ultimi mesi hanno cercato di confezionare un prodotto appetibile per la Corte di Strasburgo - sostiene Beneduci - la Polizia Penitenziaria ha perso 2.000 unità non rimpiazzabili con nuove assunzioni, portando l’attuale carenza di organico ad oltre il 25% (9.000 unità); nel frattempo le aggressioni, le risse ed i reati interni aumentano, i suicidi non decrescono e sono diventate pressoché inesistenti le attività per il reinserimento sociale dei detenuti. Meglio l’assoluzione o anche la condanna del nostro Paese il 28 maggio - conclude Beneduci - che ulteriori mesi di purgatorio, come lascerebbero immaginare le proposte di rimedi compensativi o risarcimenti da 13mila euro a detenuto, a carico degli italiani, formulate dal Guardasigilli Orlando ieri in Commissione Giustizia al Senato". Giustizia: Ginetti (Pd); Lega usa immigrati e detenuti per diffondere paure ingiustificate 9Colonne, 25 aprile 2014 "Ancora una volta la Lega rilascia dichiarazioni farneticanti che travisano del tutto il contenuto della relazione del Ministro Orlando in audizione ieri presso la Commissione Giustizia del Senato sulle linee programmatiche del proprio dicastero". È quanto afferma la senatrice del Partito Democratico Nadia Ginetti, componente della Commissione Giustizia a Palazzo Madama. "Pura e populistica propaganda di tipo terroristico da parte della Lega - sottolinea l’esponente Pd - che usa gli immigrati e i detenuti per diffondere paure sociali ingiustificate. La proposta del ministro sul problema del sovraffollamento delle carceri è quella di realizzare interventi strutturali per evitare il fenomeno delle "porte girevoli", provvedimenti che favoriscono le misure alternative, il lavoro socialmente utile e il trattamento rieducativo. Il completamento del Piano carceri per l’ampliamento e l’adeguamento degli istituti di pena va nella stessa direzione, quella di creare condizioni più umane per i condannati". Giustizia: Senato approva Dl sul superamento degli Opg, circa 1.000 i detenuti-pazienti Ansa, 25 aprile 2014 Ancora un anno di attesa per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg): l’Aula del Senato ha infatti approvato oggi il dl sul superamento degli Opg, che proroga all’aprile 2015 il termine per la loro sostituzione con le nuove strutture sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le cosiddette Rems. Una proroga - il testo passa ora alla Camera - considerata da alcune forze politiche come una "sfida", mentre per altre si tratta della conferma del "fallimento" dello Stato. Sotto i riflettori da tempo, gli Opg vennero definiti dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel 2012, un "autentico orrore indegno di un paese appena civile". E sempre Napolitano ha espresso "rammarico", solo poche settimane fa, per aver dovuto firmare il decreto di proroga per la loro chiusura. Il provvedimento prevede comunque delle novità, in vista dello stop definitivo nel 2015: innanzitutto, la permanenza negli Opg dovrà avere una durata massima non superabile e pari al massimo della pena prevista per il reato che è stato commesso. Precedentemente era prevista solo una durata minima e, di fatto, la mancanza di un tetto massimo ha spesso comportato il trattenimento per periodi illimitati delle persone nelle strutture. Per reati molto gravi, in particolare delitti per i quali la legge prevede l’ergastolo, è invece prevista la permanenza negli Opg fino a quando i soggetti continueranno ad essere socialmente pericolosi. Il testo prevede inoltre lo stop a nuovi ricoveri, programmi individualizzati di dimissione e formazione degli operatori. Divisi i giudizi: oggi, afferma il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, "il Senato ha approvato una norma equilibrata che introduce un basilare principio di civiltà giuridica" poiché "la norma stabilisce che la restrizione all’interno degli Opg non possa essere senza limiti di tempo". E se per la senatrice Nerina Dirindin (Pd) la chiusura degli Opg è una "sfida da affrontare", per la presidente della commissione Sanità Grazie De Biasi "il voto di oggi al Senato lascia amarezza ma è indispensabile perché Regioni e Ministero attuino un vero e proprio programma di superamento degli Opg, che ci consenta di dire che questa è l’ultima proroga che abbiamo votato". I senatori del Pd Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice sottolineano inoltre come le nuove norme aboliscano di fatto gli "ergastoli bianchi". Parla invece di "ennesimo rinvio" e "spot elettorale" Elisabetta Alberti Casellati (Fi), e Luigi d’Ambrosio Lettieri, capogruppo FI-Pdl in Commissione Sanità, spiega il motivo dell’astensione dei senatori di Fi dal voto sul Dl: "nasce da un forte disagio per un ulteriore rinvio della chiusura di strutture che rappresentano una vergogna nazionale. Le istituzioni non possono dichiarare fallimento", afferma. Attualmente, secondo gli ultimi dati forniti dalla Società italiana di psichiatria, i detenuti-pazienti nei sei Opg attivi in Italia sono circa mille. Le strutture in chiusura sono gli Opg di Castiglione delle Stiviere (Lombardia), quello di Reggio Emilia (Emilia Romagna), l’Opg di Montelupo Fiorentino (Toscana), quello di Secondigliano e quello di Aversa (Campania), l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia). Mattesini (Pd): una nuova proroga, ma che sarà l’ultima "Una nuova proroga ma che sarà l’ultima perché abbiamo inserito nel Decreto vincoli ben precisi che impongono tempi certi alle Regioni per definire i progetti di chiusura": così la senatrice del Pd Donella Mattesini, commentando l’ok del Senato alla proroga al 2015 della sostituzione degli Ospedali psichiatrici giudiziari con altre strutture. Sono circa un migliaio i detenuti oggi rinchiusi negli Opg: la senatrice Mattesini spiega che "nel provvedimento è indicato che non ci siano nuovi ingressi negli Opg e nel contempo si dà tempo fino al 20 giugno alle Regioni e alle Asl di fare quei progetti socio-terapeutici individualizzati che permettano la fuoriuscita nel territorio o la messa in carico ai Dsm dei detenuti". "Importante - sottolinea Mattesini - l’impegno assunto dal governo di finanziare con 55 milioni di euro l’anno l’assunzione di personale. I Dsm hanno infatti bisogno di essere sostenuti affinché il provvedimento sia attuato". "Nessuna persona - conclude la senatrice - deve essere non curata avendone diritto così come nessun operatore deve essere costretto a lavorare in situazioni estremamente disagiate". Laniece (GpA): ok a decreto legge, ma rammarico per nuova proroga "Il Gruppo per le Autonomie condivide questo provvedimento in quanto ha il merito di rivedere e migliorare le condizioni dei detenuti difficili, cioè delle persone che hanno compiuto delitti ma che sono state riconosciute inferme di mente e che quindi sono state destinate a strutture particolari, agli ospedali psichiatrici giudiziari. Peccato, invece, l’aver avallato l’ennesima proroga di un anno della chiusura definitiva degli Opg da parte delle Regioni posticipando così la creazione di strutture idonee alternative nell’ambito dell’organizzazione del servizio sanitario nazionale". Lo afferma il senatore valdostano Albert Lanièce intervenuto in dichiarazione di voto sul decreto sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari annunciando il voto favorevole dei membri del gruppo. Lusenti (Assessore Emila Romagna): pronti per chiusura Opg nei tempi previsti "L’Emilia-Romagna sarà pronta a chiudere l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia nei tempi previsti e adottare i piani di assistenza individuali per i residenti". Queste le parole dell’assessore alla salute della Regione Emilia-Romagna Carlo Lusenti in merito al decreto per il superamento degli Opg, che ne proroga la chiusura al 2015. Dei 180 ospiti presenti all’Opg di Reggio Emilia (dato al 31 dicembre 2013), di cui 40 detenuti e 140 internati sulla base della legge 9 del 2012, solo 25 sono residenti in Emilia-Romagna. Il tasso di presenze in relazione alla residenza è tra i più bassi d’Italia: sul totale dunque è una parte minoritaria quella che, per competenze territoriali, "rimarrebbe in regione all’indomani della chiusura della struttura: si pone quindi il problema della destinazione degli altri detenuti". Nel 2008 i residenti emiliano-romagnoli presenti nell’Opg di Reggio erano 46. "Questo calo nelle presenze di residenti dal 2008 a oggi e l’incremento delle dimissioni - conclude Lusenti - sono legati a un intenso lavoro svolto con le Aziende sanitarie regionali per individuare i programmi alternativi per le persone internate. Abbiamo istituito un tavolo di studio con la magistratura sull’esecuzione delle misure di sicurezza applicate alla persone prosciolte, stanziato finanziamenti dedicati al supporto di progetti per internati in licenza finale, fatto corsi di formazione ad hoc per operatori: è stato un cammino impegnativo, in cui abbiamo creduto e crediamo fortemente perché in gioco ci sono i diritti fondamentali delle persone". Giustizia: viaggio in Opg tra gli ultimi "detenuti-malati", condannati all’ergastolo bianco di Oriana Liso La Repubblica, 25 aprile 2014 Li chiamano ergastoli bianchi, anche quando non durano una vita. A Castiglione c’è un ospite - che è sempre il modo più pietoso di chiamare i reclusi - rinchiuso da un quarto di secolo. C’è Christian, che non dovrebbe stare qui: ha una disabilità mentale, ma i servizi sociali del suo comune non se ne vogliono fare carico. C’è Moses, giovane ghanese arrivato a Lampedusa sui barconi, per due anni in campo profughi a Torino e adesso qui, perché un ordinamento storto e barocco non sa dove mandarlo. Castiglione delle Stiviere è un ospedale psichiatrico giudiziario unico nel suo genere, in Italia. Qui non ci sono agenti di polizia penitenziaria, alte mura, fortini di vedetta, ma medici, infermieri, assistenti sociali e cancelli, alti e solidi, che permettono di vedere il mondo fuori, quella campagna mantovana punteggiata di piccole aziende, di vita vera. L’ultima rilevazione sulle presenze racconta di 291 ospiti per una capienza ufficiale di 190 posti: 199 uomini, per la maggior parte lombardi, 92 donne che arrivano da tutta Italia, perché tra le particolarità di Castiglione c’è anche quella di essere l’unica struttura con un reparto femminile. È impietosa l’analisi di chi ci lavora: "In una società in crisi, quando le risorse per il welfare sono sempre meno, luoghi come l’Opg o il carcere finiscono per essere l’ultima spiaggia. Molte persone sono qui perché il territorio ha fallito o perché sul territorio non si è investito", dice Gianfranco Rivellini, responsabile della sezione femminile. E Cesare Maria Cornaggia, psichiatra che qui segue molti casi: "Gli Opg verranno superati soltanto quando ci sarà la riforma del codice penale e del concetto di pericolosità sociale". Lo dicono, i medici di Castiglione, con la forza dei numeri: 220 delle persone attualmente ospitate non hanno avuto dal giudice la proroga della misura di sicurezza, la durata media della permanenza è scesa dai 4,9 anni del 2001 ai 2,8 di oggi e, soprattutto, la reiterazione del reato, per chi esce, è bassissima. Merito del modello Castiglione, oltre che di una nuova e timida disponibilità da parte di alcune regioni e alcuni comuni di farsi carico delle situazioni in uscita. Qui non si fa la valutazione clinica del malato-detenuto limitata al momento in cui ha commesso il reato, quello in cui era secondo la legge incapace di intendere e volere. Si ricostruisce il suo percorso, si cerca di capire quando e se è pronto a tornare nel mondo, prima in una comunità e poi - nei casi migliori - con una casa e un lavoro in autonomia. Sempre che il mondo sia pronto, e qui si torna allo sforzo culturale. "Chi è fuori si chiede: se quella persona ha ucciso una volta, non potrebbe rifarlo? Perché devo rischiare io di avere a che fare con lui? Su questo bisogna lavorare": Andrea Pinotti dirige da poche settimane Castiglione, ma era già qui anni fa, quando passavano ospiti come Pietro Carretta, l’infermiera killer Sonya Caleffi, le tante mamme che ammazzavano (e continuano ad ammazzare) i loro bambini. Quasi mai i neonati, dicono le statistiche: ma i bimbi appena più grandi, nel momento in cui iniziano ad avere una loro autonomia. È allora che, nella testa di quelle mamme, qualcosa - ma qualcosa che c’era già - si rompe. Per ognuna e ognuno di loro c’è un percorso di cura personalizzato, con qualche passaggio comune: trattamento farmacologico, misure contenitive nelle fasi di violenza, controllo costante quando c’è il rischio suicidio, "quando il malato prende coscienza di quello che ha fatto", conferma Pinotti. Nei casi migliori c’è anche un altro passaggio chiave: la richiesta di andare a vedere la tomba della persona uccisa, o il luogo in cui è avvenuto l’omicidio. Lo fanno soprattutto le mamme, con i loro bimbi. A camminare per i viali della struttura - tra edifici puliti, campetto da calcio, piscina, laboratori, palestra, bar, biblioteca - c’è da pensare che tra stare qui e stare in carcere la scelta verrebbe ovvia a chiunque. E invece Omar, arrestato per furto e portato qui perché ha dato in escandescenza, non ha dubbi: "Io voglio andare in carcere, non stare qui con i matti". Nessuno qui dentro - ed è forse una premessa scontata - si considera matto. C’è chi parla di errore, chi di un momento di crisi, chi dà la colpa alla droga e chi a una delusione, per il reato commesso, che si parli di omicidio (uno su quattro è qui perché l’ha commesso o l’ha tentato) o di stalking. Anna - a Castiglione da sei mesi proprio per quest’ultimo motivo, ma candidata a tornare presto nel mondo - lo chiama "un momento di debolezza, che ha reso la vita difficile a me stessa, non solo agli altri". Un buco nero che l’ha portata a una convivenza forzata e non sempre piacevole, in cui anche le relazioni fisiche e affettive sono amplificate e dove ogni momento può scoppiare una lite. Per una sigaretta, per un caffè, o per chi spera e sogna di uscire prima. Giustizia: il "lupo" e gli altri pazzi dell’ergastolo bianco, viaggio nell’Opg di Aversa di Maria Pirro Il Mattino, 25 aprile 2014 Uno ha ucciso, un altro è stato sorpreso a rubare una scarpa ("una sola, una pazzia" ripete al suo psichiatra), un senegalese che credeva di essere Gesù è stato giudicato non più pericoloso ed è rimasto dentro perché senza fissa dimora. Il più anziano è stato internato all’età di 73 anni solo qualche settimana fa: una lite, degenerata, con un vicino di casa. Ma la storia che, chiuso dietro di sé il cancelletto della libertà, nessuno qui ignora e tutti temono è quella del lupo dell’Irpinia. Il veterano dei "fine pena mai". Condannato al cosiddetto ergastolo bianco, che è stato abolito nel disegno di legge appena approvato al Senato. Da 27 anni recluso nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Nel 1986 lo hanno arrestato per un reato che, se fosse stato detenuto in carcere, sarebbe già stato scontato. "E invece, ho perso i denti e pure le forze. Sono invecchiato. Mi so-no ammalato senza uscire mai". Era giovane, ben piantato, con gli occhi chiari e i capelli fulvi. Quando l’ho incontrato, ha sorriso una volta sola nel ricordare il suo paese sulla collina: "C’è ancora casa mia laggiù...". Il lupo oggi è un uomo d’età indefinibile, con i capelli ancora fulvi ma bianchi e gli occhi profondi come insuperabili abissi. Il suo corpo è sempre avvolto in un giubbotto, però può uscire solo nel cortile. "Da 27 anni devo restare qui, se solo potessi me ne sarei già andato... Ma a casa mia, non in una comunità" precisa mentre uno spiraglio di libertà si apre. "La norma introduce una innovazione molto importante: le misure di sicurezza nei confronti dell’autore di un reato bisognoso di cure psichiatriche non possono avere durata superiore a quella della pena a cui potrebbe essere condannato se fosse ritenuto imputabile". Significa dire basta all’internamento "prorogato per un numero indefinito di volte enorme fino a tradursi in una sorta di pena perpetua" annunciano tramite una notai senatori del Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani, e Sergio Lo Giudice, componente della commissione Giustizia. Potrebbe uscire anche il siciliano con un curriculum criminale di livello che minaccia di fare lo sciopero della fame e della sete. "Ho già subito alcune proroghe della misura di sicurezza, oltre i termini della pena. Sono al limite della sopportazione". Indossa una maglietta dell’Italia e scuote la testa: "Queste strutture sono degne di un Paese civile?" Maglia arancione, altro accento, il romano piange e urla: "Mia madre ha l’Alzheimer". E un altro: "Che ho fatto io per stare qui, mi fate uscire?" chiede al medico come un disco rotto. "Sconforto, sfiducia. Ho tentato più volte il suicidio: il dolore più acuto è non sapere se potrò mai ri-vedere l’unica figlia rimasta" dice un 37enne, scarpe senza lacci. Gli trema una gamba, è sinceramente commosso. Giudicato colpevole di un fatto atroce. Con le terapie oggi ha raggiunto un buon equilibrio. Ma può entrare nel futuro? Il comandante facente funzioni della polizia penitenziaria di Aversa, Antonio Villano, spalanca le porte del teatro, anche chiesa per gli internati. Ma, secondo la norma originaria, gli Opg avrebbero già dovuto chiudere. E invece, 76 campani nel 2013 sono usciti, ma 107 sono entrati. Il Mattino ha consultato gli esperti che gestiscono il database regionale, chiamato Smop, unico in Italia, a distanza di un anno dall’annunciata chiusura delle sei strutture che nella penisola oggi contengono un migliaio di uomini e donne e avrebbero dovuto cessare le attività già il 31 marzo 2013. La data slittata ancora di 12 mesi. "C’è stato invece un incremento degli ingressi soprattutto attraverso i trasferimenti dal carcere e su disposizione del gip, con una nuova tipologia di internati: più giovani, anche non socialmente pericolosi. Quanto sta accadendo può essere collegabile alle problematiche derivanti dal sovraffollamento negli istituti penitenziari. Ma cambierà tutto con i correttivi inseriti nel disegno di legge approvato al Senato" afferma Giuseppe Nese, psichiatria, coordinatore del gruppo regionale per il superamento degli Opg in Campania e componente del comitato in sede di conferenza unificata Stato-Regioni. In tutt’Italia il numero di internati con misure di sicurezza provvisorie è aumentato: da 897 casi, nel 2012, a 933, nel 2013. "Per questo, è decisiva la modifica del codice penale: il ricorso all’Opg limitato come extrema ratio e l’internamento al massimo per 36 mesi, a differenza di quanto avviene ancora oggi" dice direttore della struttura di Aversa, Elisabetta Palmieri: "Senza disporre a monte percorsi di cura alternativi chiudere queste strutture sarebbe impossibile". Difatti, l’ultimo ad Aversa è stato trasferito il 13 aprile scorso. È un ragazzo di 30 anni che siede nel silenzio dell’infermeria. Testa quasi rasata, tuta grigia e l’occhio sanguinante. Racconta la sua esperienza di vita: "Ho studiato chimica all’università fino al terzo anno, poi ho fatto il barista, il muratore, il volontario della Protezione civile. Ho scritto anche a Grillo, già prima che fondasse il Movimento 5 stelle, per attuare il mio progetto. Lavorare tutti a cottimo, per dare a tutti più occasioni di emergere. L’alternativa, andare in Svezia: ho già chiesto i soldi a mia mamma". Un 53enne in tuta e ciabatte è rientrato dopo un periodo trascorso in comunità. Per un alterco. E il secondo l’altolà alla libertà disposto nel 2008. Conta i giorni: "Sono 24 anni e 7 mesi in Opg. Senza aver ammazzato nessuno". Il suo mondo è rinchiuso in fondo a un corridoio bianco e giallo, reparto numero 8 dell’Opg di Aversa. Un biliardi-no e un lungo tavolo di arredo nel soggiorno, la cella con altri 3 uomini, il bagno è a vista per motivi di sicurezza e la parete senza specchi. Sul suo letto c’è una immagine di papa Francesco. Saldato alla parete nella stanza, un televisione si spegne la sera al comando della polizia penitenziaria ed è l’unico modo per vedere cosa si muove fuori di qui. "Con le nuove norme, anche chi proviene da una famiglia disagiata e non ha una dimora dovrà essere preso in carico dai servizi sanitari territoriali" dice Nese. Ne è un esempio il giovane immigrato che, intanto, nella struttura si dà da fare come lavorante. "A Torino c’è una ragazza che mi fa stringere il cuore" dice in francese portando una mano sul petto. Diversi sono dentro, invece, per stalking. "A volte non sì rendono nemmeno conto di avere una patologia" riferisce un medico. Ad Aversa il percorso di superamento dell’Opg è guidato dallo psichiatra Raffaello Iardo. Un internato ha i capelli a caschetto, due maglioni di lana nonostante il sole. E un matrimonio tormentato alle spalle: ignora i provvedimenti in dirittura di arrivo in Parlamento. Chiede di lanciare un appello al ministro: "Ma lo sa come stanno le cose?" L’alternativa al carcere, dopo gli Opg in Campania avrebbero dovuto essere 160 posti in 8 Rems, le strutture pubbliche previste dalla Regione. Un piano già definito da "sovradimensionato, dispendioso e non strutturato sui reali bisogni degli internati. Per ciascuno andrebbe formulato un progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato, da parte dei dipartimenti di salute mentale di competenza territoriale, agganciando uno specifico finanziamento". Quanto ai posti ne basterebbero il 10% di quelli previsti: il monito lanciato da Emilio Lupo, segretario di Psichiatria Democratica, è confermato dall’elaborazione dello Smop secondo il disegno di legge approvato al Senato: "Su 121 solo 17 campani, teoricamente, dovrebbero ancora restare in Opg". Perché si può anche rubare una bottiglia di vino e guadagnare 100mila euro l’anno. E farlo 40 volte solo per il "gusto" di essere scoperti e quindi ritrovarsi nel castigo di Aversa. "Mia moglie e mia figlia devono fare 5 ore di viaggio per incontrarmi, E un problema di umanità e pietà" dice un professionista dall’accento romano, pure internato per reati inconsistenti. "La prima regola che ho imparato in Opg è che quando prendi un cazzotto, devi stare zitto" confida il ragazzo dì 30 anni prima che la cancelletto si richiuda, dando una spiegazione a quell’occhio afflitto. "Il disegno di legge fissa una scadenza: il 15 giugno per elaborare i progetti personalizzati per tutti gli internati" riepiloga Nese mentre quegli sguardi già salutati, d’improvviso, tornano a non essere più muti. Vivere in ritardo sui propri giorni può significare anche sentirsi "fuori tempo per uscire". Fa paura anche agli altri e a se stesso questa storia del lupo dell’Irpinia. "Si, sono solitario per natura e vorrei tanto andare a casa mia. Ma, fuori di qui dopo 27 anni, chi si prenderà cura di me?". Giustizia: Catalano (Ugl-Intesa Fp); unificare ruoli tecnici e civili e Polizia penitenziaria 9Colonne, 25 aprile 2014 La Ugl-Intesa Fp ha scritto al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando sollecitando una riforma globale dell’Amministrazione Penitenziaria. Una riforma - spiega il coordinatore nazionale di settore, Quirino Catalano - che prevedrebbe l’ampliamento dei ruoli tecnici del corpo di Polizia Penitenziaria nel quale confluirebbero tutti e 6.000 civili tra informatici, educatori, contabili, tecnici e amministrativi. Allo stato attuale queste professionalità hanno una carenza organica di circa 3000 unità a cui si fa fronte con la collaborazione della Polizia penitenziaria che, però, viene distolta dai propri compiti istituzionali. Con una riforma organica - conclude Catalano - si ricondurrebbe tutto ad un unica contrattazione con una più efficace riorganizzazione delle carceri. Giustizia: caso Magherini, in un video le grida di aiuto al momento dell’arresto di Carlo Lania Il Manifesto, 25 aprile 2014 C’è un nuovo video sul fermo di Riccardo Magherini, il quarantenne morto dopo essere stato arrestato dai carabinieri la sera del 2 marzo a Firenze. Nelle immagini si vede l’ex calciatore della Fiorentina steso a terra che invoca più volte aiuto mentre è circondato dai militari che lo hanno ammanettato. "Quattro persone che indugiano con tutto il loro peso sul corpo di un’altra in stato confusionale per lunghissimi minuti" spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani, che ieri ha presentato il video insieme al fratello e al padre di Magherini e all’avvocato Fabio Anselmo, che assiste la famiglia. Una morte che ricalca drammaticamente casi analoghi come quelli di Federico Aldrovandi e Michele Ferrulli. "Abusi di stato" li definisce Manconi, che insieme ad altri parlamentari presenterà sul caso un’interrogazione al ministro della Giustizia. Magherini aveva trascorso la sua ultima sera in una albergo di Firenze in compagnia di amici. Al momento di rientrare a casa era in un evidente stato di confusione dovuto "probabilmente all’assunzione di stupefacenti", prosegue Manconi. Chiede aiuto, si rivolge anche a un pizzaiolo al quale prende il cellulare con cui cerca di chiamare lui stesso le forze dell’ordine. Quando arriva la prima pattuglia la situazione degenera. Magherini viene fermato, steso a terra e ammanettato. Lui che ha bisogno di assistenza, si trasforma chissà perché in un pericolo. "Molti testimoni dicono che Riccardo è stato preso a calci e riferiscono circostanze particolarmente inquietanti", spiega il legale. Nelle immagini si sente chiaramente l’ex calciatore chiedere aiuto con insistenza. Non sembra la voce di un uomo in preda alla rabbia e violento, piuttosto quella di una persona disperata. Ma si sentono anche altre voci, che pronunciano frasi come "lo prendi a calci". "Con un’operazione semplice abbiamo schiarito le immagini a disposizione e cercato di riconoscere da suoni non distinguibili a un primo impatto frasi e parole" prosegue Manconi, che ora affida alla magistratura il compito di verificare l’esattezza delle interpretazioni. Ma anche la correttezza dell’intervento dei carabinieri. "C’è un protocollo che le forze di polizia sono tenute a rispettare nelle operazioni di ordine pubblico". Anche perché le indagini sono state svolte dai carabinieri e non, come sarebbe stato più logico, dalla polizia. Le prime testimonianze sono state raccolte addirittura dagli stessi militari coinvolti nell’arresto. Adesso, come prima cosa, bisognerà stabilire con certezza le cause della morte. Cosa che l’autopsia non è stata in grado di fare. "È stata condotta con tanta approssimazione e superficialità da rendere necessari nuovi accertamenti", prosegue Manconi. Le immagini del cadavere mostrano il corpo tumefatto dell’ex calciatore e per questo l’avvocato Anselmo ha chiesto che il cervello e il cuore vengano messi sotto formalina. Per la morte di Magherini finora non ci sono indagati e il magistrato è in attesa di conoscere gli esiti degli esami tossicologici e istologici. Paradossalmente l’unico nome sul registro indagati, per il furto del cellulare, è proprio i suo, quello della vittima. Intanto cominciano a circolare voci che attribuiscono la causa della morte all’uso di cocaina. "Ma abbiamo buoni motivi per sostenere che non si possa parlare di morte da cocaina, come qualcuno ha ipotizzato, perché la morte è avvenuta in un contesto violento", ha detto l’avvocato. "Se il suo arresto fosse stato operato con le stesse modalità da cittadini comuni anziché da forze dell’ordine, questi sarebbero già indagati per omicidio preterintenzionale e la vittima non sarebbe stata denunciata". "Durante l’arresto mio fratello è stato picchiato e ha preso calci. Ci chiediamo il perché e perché venga infangato il suo onore" si chiede invece Andrea Magherini, che rivolge un appello a Matteo Renzi: "È il nostro sindaco e tutto è successo a Firenze: vorrei sapere cosa ne pensa e se sia giusto morire così". Lettere: a proposito della Sentenza Corte Edu 22 aprile 2014 "G.C. contro l’Italia" Comunicato Dap, 25 aprile 2014 "Con riferimento alla recente sentenza con la quale la Corte Europea per i Diritti dell’uomo ha accolto il ricorso presentato da un detenuto ristretto nel 2009 presso il carcere di Bellizzi Irpino, va precisato che la Corte ha ritenuto che nel caso in esame non vi è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione sotto il profilo del sovraffollamento, mentre ha sanzionato l’Italia sotto il profilo del ritardo con cui furono assicurate le cure mediche ed in particolare fisiatriche al detenuto. Il ricorso riflette una situazione risalente a cinque anni fa e rispetto ad allora l’Amministrazione penitenziaria, oltre a stimolare l’attività del Tavolo di consultazione permanente in materia di tutela della salute dei detenuti (che dal 2008 non rientra più tra le competenze del Dap), istituito dalla Conferenza Unificata delle Regioni e delle Province autonome, ha messo in atto misure generali, come la dotazione di attrezzatura per la fisioterapia nei Centri Clinici esistenti e l’incremento della offerta assistenziale specialistica in tutti gli istituti ed in particolare in quelli dotati di centri clinici. Con circolare del 2012 è stato altresì disposto che i Direttori degli istituti penitenziari e i medici delle Aziende Sanitarie Locali sottopongano all’attenzione delle Autorità Giudiziarie, per l’eventuale rinvio della esecuzione della pena detentiva, tutte le situazioni in cui il protrarsi dello stato di detenzione possa determinare una situazione contraria al senso di umanità". Lettere: io ho scontato tutta la pena e oggi non posso fare neanche lo spazzino di Beatrice Borromeo Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2014 Storia di Maurizio G., arrestato nel 2009 per spaccio di droga: "l’ex premier va in tv, si dedica alla politica, a me tutto è precluso… l’unica possibilità è andare a rubare". Le circostanze sono simili, ma tra la pena che sconterà Silvio Berlusconi e quella del signor Maurizio G., 43enne di Vicenza, non potrebbe esserci più distanza. Si sa che il Cavaliere, condannato a 4 anni per frode fiscale, assisterà dal prossimo lunedì, per quattro ore a settimana, gli anziani di Cesano Boscone ("Sono indignato, ma non mi scompongo", ha commentato ieri l’ex premier). "La mia invece è un’odissea", racconta Maurizio, arrestato nel 2009 per spaccio di droga. Solo che lui, anche se condannato a una pena inferiore rispetto a quella di B. ("tre anni e quattro mesi in appello, non avevo i soldi per fare ricorso in Cassazione"), ha sperimentato ogni tipo di misura cautelare. A partire dalla prigione: "Dato che gli stupefacenti li ho venduti ma non assunti, ho fatto un anno di carcere preventivo. Se fossi stato più furbo mi sarei anche drogato, così - spiega - la galera non l’avrei proprio vista. Poi mi hanno trasferito agli arresti domiciliari e dopo due mesi ho chiesto un permesso per lavorare". Passa un po’ di tempo e Maurizio viene accontentato: di notte resta a casa ai domiciliari e durante il giorno raccoglie i rifiuti. "Non è stato per niente facile, però, trovare un impiego con la fedina penale sporca": Maurizio vince un bando per lavorare come operatore ecologico, ma la ditta (pubblica) lo scarta appena si accorge della sua pendenza penale. Ho detto al capo: "Che c’è, hai paura che ti rubi l’immondizia?". Ero disperato, senza un euro. Poi un’altra società cui la ditta subappaltava lavori ha chiuso un occhio e mi ha assunto. Ho ringraziato Dio di aver trovato persone così buone e sono andato avanti fino a oggi con contratti a tempo determinato". Per trasportare i rifiuti bisogna uscire dal proprio Comune, così il giudice decide: in attesa della sentenza di appello, Maurizio è libero. "Avevo anche il passaporto, sarei potuto scappare, ma penso che scontare la pena, quando si sbaglia, sia più che giusto. Solo che non sapevo cosa sarebbe successo dopo". Passa un anno e, nel 2012, la Corte d’appello conferma la condanna: Maurizio, che beneficia degli sconti di pena per la liberazione anticipata, viene affidato in prova ai servizi sociali: "Proprio come Berlusconi, quattro ore a settimana. Pulivo uffici e mi occupavo di piccoli lavori di manutenzione. Nel frattempo ho continuato a fare l’operatore ecologico e, poche settimane fa, ho finalmente finito di scontare la mia pena". Ma i veri problemi, per lui, cominciano proprio quando l’iter giudiziario sembra concluso: la ditta per cui lavora, piegata dalla recessione, viene assorbita dalla società pubblica che l’aveva scartato tre anni prima. E, ancora una volta, le porte si chiudono: "Ho pagato il mio debito con la giustizia, e secondo il tribunale sono idoneo a rientrare nella società. Allora perché un articolo del codice di procedura penale me lo impedisce? Perché la legge stabilisce che passeranno anni prima che la mia fedina penale torni pulita? Qui in zona l’unica compagnia ad assumere spazzini è pubblica. So di aver sbagliato, ma che senso ha continuare a punirmi?". La morale, per Maurizio, è solo una: "In Italia, se sei ricco e potente come Berlusconi, non ti succederà mai niente. Lui ha preso quattro anni e sconterà una sola settimana in tutto. Io sono stato arrestato nel 2009 e tornerò davvero libero, di vivere e di lavorare, nel 2017". Maurizio, che ha chiesto di restare anonimo per paura di future ritorsioni, pare consapevole della gravità del reato che ha commesso: "Quel che mi interessa denunciare è che noi che non abbiamo soldi siamo tutti nella stessa situazione. Anche se vieni condannato per una rissa o per aver costruito una casa abusiva devi comunque attendere anni, scontata la pena, prima che il reato sparisca dal casellario giudiziario. Anni in cui le aziende pubbliche non ti assumono. Anni in cui la tentazione di chiamare i delinquenti conosciuti in carcere, per andare a rubare, sembra l’unica via d’uscita". Roma: a Rebibbia poliziotta aggredita in carcere, la denuncia del Sappe Comunicato stampa, 25 aprile 2014 Giornata di violenza ieri a Roma, nel carcere femminile di Rebibbia, dove una detenuta ha aggredito una Sovrintendente di Polizia Penitenziaria. "La situazione resta allarmante nelle nostre carceri. Nella tarda mattinata di ieri, una Sovrintendente di Polizia Penitenziaria, in servizio quale preposto presso il Reparto cellulare, è stata improvvisamente aggredita da una detenuta. La Sovrintendente, trasportata al pronto soccorso, è stata refertata dai sanitari con prognosi di 10 giorni per ferite al collo e al viso Il Sappe esprime solidarietà alla poliziotta e augura una veloce ripresa e ritorno in servizio. Queste aggressioni sono intollerabili. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite...". La notizia arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, per voce del segretario generale Donato Capece. "La situazione, a Roma Rebibbia e nelle carceri italiane, resta grave: ma va detto che il Parlamento ignora colpevolmente il messaggio del Capo dello Stato dell’8 ottobre scorso, che chiedeva alle Camera riforme strutturali per il sistema penitenziario a fronte dell’endemica emergenza che tra l’altro determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli Agenti di Polizia Penitenziaria", prosegue il sindacalista dei Baschi Azzurri. "Addirittura il Capo del Dap Tamburino, che nostro malgrado è anche Capo della Polizia Penitenziaria, ha avuto l’ardire di sostenere che l’Italia non sarà in grado di adottare entro il prossimo 27 maggio 2014 gli interventi chiesti dall’Unione Europea per rendere più umane le condizioni detentive in Italia. E le aggressioni ai poliziotti sono all’ordine del giorno. Per questo abbiamo chiesto al Ministro della Giustizia Orlando di avvicendare il Capo del Dap Tamburino ed il vice Pagano dalla dirigenza dell’Amministrazione penitenziaria". "Altro che vigilanza dinamica e autogestione delle carceri, che sembra essere l’unica risposta sterile dei vertici del Dap all’emergenza penitenziaria" aggiunge Capece. "Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza". Capece torna a sottolineare le criticità dei poliziotti che lavorano nelle carceri italiane: "Il nostro organico è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno cancellato le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo". Napoli: Sappe; all’Ipm di Nisida ritrovato un telefono cellulare… schermare i penitenziari Ansa, 25 aprile 2014 Un telefono cellulare è stato trovato nel carcere minorile di Nisida a Napoli. A darne notizia è Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "Ancora una volta, nel carcere minorile di Nisida è stato trovato dal personale di Polizia penitenziaria un telefono cellulare perfettamente funzionante con sim card. Al Dipartimento della Giustizia Minorile, oggi senza un vertice di riferimento essendo Caterina Chinnici - già Capo Dipartimento - candidata alle elezioni europee, chiediamo interventi concreti come, ad esempio, la dotazione ai Reparti di Polizia Penitenziaria di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l’indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani. Ma anche sollecitiamo l’assegnazione di Funzionari di Polizia Penitenziaria alla guida dei Reparti negli Istituti per minori", aggiunge. "Il rinvenimento è avvenuto - spiega Capece - grazie all’ attenzione, allo scrupolo ed alla professionalità di Personale di Polizia Penitenziaria in servizio". Il Sappe ricorda che "sulla questione relativa all’utilizzo abusivo di telefoni cellulari e di altra strumentazione tecnologica che può permettere comunicazioni non consentite è ormai indifferibile adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi, che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo". "A nostro avviso - conclude il leader dei Baschi Azzurri - appaiono pertanto indispensabili, nei penitenziari per adulti e per minori, interventi immediati compresa la possibilità di schermare gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e quella di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Pescara: il 6 maggio Convegno "Carcere e territorio, modello di rete e rete dei modelli" Ristretti Orizzonti, 25 aprile 2014 Convegno "Carcere e territorio, modello di rete e rete dei modelli". Il 6 maggio 2014, dalle ore 08.45 - Sala Convegni Fondazione Pescarabruzzo. Corso Umberto I, Pescara. I cambiamenti in atto nel mondo penitenziario, la consapevolezza dei diritti delle persone detenute, la necessità di non fornire ulteriori motivi di disagio alla società civile particolarmente colpita da una crisi che sembra non voler concludersi e perciò maggiormente sensibile, nonché l’ulteriore crescita dell’integrazione Europea porta ad affrontare nuove sfide, che richiedono, tra l’altro la partecipazione e la condivisione dei diversi soggetti pubblici e privati responsabili. Queste sfide possono essere viste anche come opportunità per imparare gli uni dagli altri e diventare un canale per promuovere soluzioni intelligenti e originali. Il Convegno, organizzato il prossimo 6 maggio a Pescara dalla Dott.ssa Bruna Brunetti, Provveditore per l’Abruzzo e il Molise dell’Amministrazione Penitenziaria, sembra in effetti ispirato ad approfondire non solo la missione e la visione del Ministero della Giustizia, ma a ripensare, in chiave regionale, i principi di base e le azioni specifiche del carcere. Qual è il senso profondo del lavoro degli operatori penitenziari, ma anche della Magistratura, della Chiesa, del mondo del volontariato, delle forze politiche? Cosa può fare la comunità abruzzese per una realtà profondamente radicata nel territorio regionale come quella degli Istituti penitenziari? Che ne è stato del senso del diritto, dell’umanità, dello spirito innovativo che ha servito molto bene e per molti anni la comunità abruzzese portandola alla ribalta nazionale? I relatori invitati a confrontarsi al convegno, singolarmente e ognuno nel proprio settore, hanno saputo promuovere principi etici e li hanno saputi trasfondere in buone e efficaci pratiche a vantaggio non solo dell’uomo detenuto. Alla luce di questo, vi è la convinzione che lo spirito di questo primo consenso abruzzese manterrà il suo significato nel corso dei mesi e degli anni a venire e contribuirà a realizzare quel nuovo modello di misure sanzionatorie a misura d’uomo in cui la comunità abruzzese crede e verso il quale saprà rivolgere il proprio agire. Per informazioni si prega di contattare la Segreteria organizzativa del convegno al seguente indirizzo e-mail: convegno.prap.abruzzo@hotmail.com. Roma: quando i carcerati diventano attori, la Compagnia Stabile Assai di Rebibbia di Giovanni Masini Il Giornale, 25 aprile 2014 I detenuti di Rebibbia portano in scena dal 25 al 28 aprile l’anteprima nazionale del loro spettacolo "La fine dell’alba" al teatro Golden di Roma. Detenuti che diventano attori e calcano le assi del palcoscenico. Succede al teatro Golden di Roma, dove la Compagnia Stabile Assai dei Carcerati di Rebibbia va in scena in anteprima nazionale, dal 25 al 28 aprile, con lo spettacolo "La fine dell’alba", per la regia di Francesco Cinquemani. La storia, scritta da Angelo Turco, è quella di cinque sessantenni rimasti disoccupati, che non riuscendo a reinserirsi nel mondo del lavoro decidono di compiere una rapina. Lo spettacolo è ambientato infatti all’interno di una banca, dove i cinque rapinatori si sono asserragliati con tre ostaggi. Nelle lunghe ore della notte trascorsa sotto assedio, tra i di loro si sviluppa un’affascinante discussione intorno ai temi della Vita e della Morte: i cinque sono infatti posti di fronte all’alternativa tra l’ergastolo, e quindi la prospettiva di una vita in carcere, e la morte. Gli attori sono naturalmente carcerati, che per la prima volta non recitano semplici monologhi ma si cimentano in un vero e proprio spettacolo di drammaturgia penitenziaria. La compagnia Stabile Assai, d’altronde, è il più antico gruppo penitenziario italiano, in attività dal 1982 e premiato dal Presidente della Repubblica nel 2013 con la medaglia d’oro per la valenza artistica della sua opera sociale. Sulla sua attività è stato di recente il film documentario Offstage. Dello spettacolo in scena domani sera dice l’autore Angelo Turco: "La Compagnia Stabile Assai porta in scena tutti testi inediti, nel filone di quella che si può definire la drammaturgia penitenziaria. Con questo spettacolo vogliamo denunciare la scarsa sensibilità sociale delle istituzioni verso il problema del reinserimento dei detenuti nella società dopo che hanno finito di scontare la pena". Brindisi: i detenuti sul palco del Teatro Verdi con lo spettacolo "Briganti" www.quotidianodipuglia.it, 25 aprile 2014 Chiusi in cella ma ancora capaci di volare con la fantasia. I detenuti della casa circondariale di Brindisi calcano per la prima volta il palco del Nuovo Teatro Verdi per portare in scena i "Briganti" di Raffaele Nigro. Una scelta particolarmente significativa per un progetto, dal titolo "Dentro/Fuori", che già da due anni il Teatro delle Pietre di Marcantonio Gallo e Fabrizio Cito sta conducendo nella casa circondariale di via Appia. In una notte d’attesa, prima di essere fucilato, un brigante si racconta. Davanti a sé capitani uccisi, soldati massacrati e compagni caduti che, come fantasmi sullo sfondo di un’Italia in costruzione, danno vita ad una narrazione sulla guerra fratricida che si consumò nelle campagne del Meridione. Tra storia e leggenda, una favola nera che racconta il sud e le sue ferite. Ma chi erano veramente i briganti? A raccontarlo saranno il Teatro delle Pietre ed i detenuti-attori che in questi mesi hanno lavorato a stretto contatto con Gallo e Cito nel laboratorio teatrale e di scrittura creativa legato al tema della legalità e dell’opportunità di recupero. Lo spettacolo "Briganti", liberamente tratto da un racconto di Raffaele Nigro, andrà in scena il prossimo 3 maggio al Nuovo Teatro Verdi alle 20.30. Il costo del biglietto, pari a 10 euro, sarà destinato al sostegno del progetto e al proseguimento dell’attività culturale. Il Teatro delle Pietre, infatti, svolge il proprio lavoro in carcere a titolo gratuito. Libri: "Nel ventre della bestia", l’inferno delle prigioni americane nelle lettere di Abbott di Emanuele Midolo www.agoravox.it, 25 aprile 2014 DeriveApprodi ha ripubblicato "Nel ventre della bestia di Jack Henry Abbott, uno dei libri più importanti che siano mai stati scritti sulla condizione carceraria. Nel 1979, mentre scriveva quello che è considerato da molti il suo capolavoro, Il canto del boia, lo scrittore americano Norman Mailer ricevette la lettera di un detenuto, Jack H. Abbott. "Uno scrittore riceve diverse centinaia di lettere all’anno da sconosciuti. In genere vogliono qualcosa: vorresti leggere il loro lavoro, o ascoltare la storia della loro vita e scriverla? Questa lettera, al contrario, offriva indicazioni". Abbott aveva letto su una rivista che Mailer stava lavorando alla biografia di Gary Gilmore, il primo detenuto condannato alla pena capitale dopo la reintroduzione della pena di morte negli Usa, nel 1977; il caso di Gilmore, pluriomicida e rapinatore di banche che aveva chiesto espressamente di essere giustiziato, aveva incendiato l’opinione pubblica americana. Abbott scrisse a Mailer che pochissima gente era a conoscenza delle condizioni in cui vivevano i prigionieri nelle carceri statunitensi. Addirittura Abbott, riporta Mailer, "era convinto che (anche) chi fosse stato in prigione per non più di cinque anni non ne sapesse quasi nulla". Jack Henry Abbott, invece, aveva passato la maggior parte della sua vita dietro le sbarre. Finito in galera per la prima volta a dodici anni, vi aveva trascorso tutta l’adolescenza, ad eccezione di un periodo di cinque mesi di libertà. Poi, ormai maggiorenne, era tornato dentro per aver emesso assegni scoperti. Altri cinque anni. In prigione aveva accoltellato a morte un detenuto ed era stato condannato con una "sentenza indeterminata" da un minimo di tre a un massimo di ventitré anni. "Da quando ho dodici anni sono stato libero nove mesi e mezzo in tutto. Ho scontato lunghi periodi di isolamento - solo per tre periodi un cumulo di più di dieci anni. Ho calcolato che in tutto ho passato in isolamento quattordici o quindici anni. Il reato più grave che ho commesso nel mondo libero è stato una rapina in banca quando ero evaso". Rapina che gli vale un’altra condanna a diciannove anni, dopo esser evaso dalla Massima Sicurezza della Prigione di Stato dello Utah, nel 1971. Aveva ventisei anni. Ma chi è davvero questo galeotto che legge Hegel e Kierkegaard, studia Marx e Lenin, critica la descrizione del carcere fatta da John Cheever e intrattiene un’appassionata corrispondenza con uno dei più grandi romanzieri contemporanei? Innanzitutto, uno scrittore. Uno scrittore assoluto. Mailer se ne era accorto immediatamente: "Sentivo tutta la soggezione che si prova davanti a un fenomeno. Abbott aveva una sua propria voce. Non ne avevo mai sentite così. Scriveva come un diavolo". Quello che viene fuori dalle lettere, pubblicate per la prima volta nel 1981, è uno spaccato crudo e crudele del sistema giudiziario americano. Una storia di violenza. Una violenza "nuda", come la chiama Abbott, quella subita ogni giorno da migliaia (milioni?) di prigionieri. Le prigioni degli anni ‘70 erano qualcosa di molto simile all’inferno sulla terra: "Leggere le lettere di Abbott non aiutava a fare sogni tranquilli. Adesso l’inferno si poteva guardare chiaramente. Era la Massima Sicurezza in un grande penitenziario". Privazione sensoriale, torture, fame, sete, abuso di psicofarmaci. Abbott attraversa tutti i gironi di questa macchina infernale di distruzione: "So come continuare a vivere passando in mezzo a tutto quello che apparecchiano per me. Mi hanno sottoposto alle celle spoglie, alle celle oscurate, sono stato incatenato al pavimento e ai muri; ho vissuto in mezzo ai pestaggi; qualsiasi droga la scienza abbia inventato per ‘modificarè il mio comportamento, l’hanno provata su di me. La fame mi era diventata una condizione familiare; non ho ribrezzo a mangiare insetti nella mia cella o a vivere tra i miei escrementi, se questo significa sopravvivenza". La prigione di San Quentin all’epoca possedeva il migliore ospedale di medicina traumatica di tutti gli Stati Uniti. I giovani medici si "facevano le ossa" lavorando sulle ossa spezzate dei detenuti. E ce n’erano tanti, ogni giorno. Abbott descrive il sadismo dei secondini, il regime di perenne ingiustizia che vige in prigione: "L’esperienza mi insegna che l’ingiustizia è forse la sola (se non probabilmente la più importante) causa di pazzia dietro le sbarre" Il suo giudizio sulle prigioni si allarga, e diventa una critica a tutta la società Usa: "Nessuno si aspetta da me che diventi un uomo migliore in carcere. E allora perché non dirlo: lo scopo è farmi a pezzi, distruggermi completamente. Lo scopo è marchiarmi a vita, con il marchio di quella bestia che loro chiamano prigione (...) A un uomo, quando viene messo in prigione, è portata via la sua esperienza di società, è portata via l’esperienza di un pianeta vivo di cose viventi". Leggendo Nel ventre della bestia si ha l’istinto di sottolineare molto. Probabilmente a causa della struttura della narrazione nelle lettere, fatta di un’alternarsi di frasi brevi. Abbott ha divorato molti libri di filosofia, durante la detenzione, e il suo stile di scrittura ne risente. Non sono infrequenti le massime, sentences fulminanti che ricordano Nietzsche (tra l’altro citato ampiamente dall’autore): I libri sono pericolosi dove c’è ingiustizia "Il tempo scende sulla tua cella come il coperchio di una bara in cui sei disteso e che guardi chiudersi lentamente su di te". "Odio questa faccia da sottoproletariato criminale: il prodotto di una guerra di nervi che nessuno ha dichiarato ma che incombe su di noi! Dopo dieci o quindici anni di prigione, il sole non tramonta e non s’alza mai. Non ci sono stagioni". "Ho bisogno della bellezza come ho bisogno di respirare". In prigione Abbott legge, studia, scrive e si politicizza. Acquisisce quella che, marxianamente, definisce "coscienza di classe". È un prigioniero nero a spiegargli il concetto per la prima volta: "Il marxismo è la mia consolazione", scrive a Mailer. "Non ci riesco proprio, a essere felice con i meschini desideri che la società borghese ha marcato nella mia carne, nella mia carnalità". Tra le sue pagine si può trovare una minuziosa analisi del razzismo "scientifico", sostenuto clandestinamente nell’America degli anni ‘60, all’epoca scossa dai primi moti di liberazione dei neri, che sarebbero sfociati nel movimento delle Black Panthers: "Io ho passato una vita in prigione con indiani d’America, messicani, chicanos e neri americani. Senza dubbio ogni prigioniero non-bianco che ho conosciuto si aggrappa a una coscienza rivoluzionaria del mondo - ma i più solidi, i più ostinati, sono i prigionieri neri (...) L’espressione ‘discriminazione razzialè sembra anni-luce distante dall’orrore profondo nato e pasciuto dalla società bianca: il negro". Alcune delle lettere di Abbott vennero pubblicate dalla prestigiosa New York Review of Books nel giugno 1980, quindi riunite in volume con il titolo definitivo, Nel ventre della bestia, l’anno seguente. Il libro divenne un best seller internazionale e provocò dibattiti accesi. Mailer testimoniò in favore di Abbott, che venne rilasciato in libertà condizionale nel giugno del 1981. Il 19 luglio, il New York Times pubblicò una recensione entusiasta che salutava la nascita di un grande scrittore. Proprio mentre le rotative mandavano in stampa quell’articolo, Jack Henry Abbott accoltellava a morte un giovane cameriere di 22 anni, Richard Adan fuori da un bar di Manhattan: Abbott aveva chiesto dove fosse il bagno e Adan gli aveva risposto che non poteva farglielo usare. Datosi alla fuga, Abbott venne catturato in Louisiana poche settimane dopo; processato, fu condannato a scontare altri 15 anni di prigione. Nel ventre della bestia è una storia d’ingiustizia, che potrebbe (anzi, dovrebbe) essere letta come un manuale. Il tragico esito della storia personale di Abbott non attenua l’incredibile forza della sua esperienza. Che è un’esperienza sociale e collettiva, non individuale. "Mi è costituzionalmente impossibile esistere in prigione". Dopo cinquant’anni passati dietro le sbarre, Jack Abbott ha deciso che quella non-esistenza era durata abbastanza. Ha posto fine alla sua vita di prigioniero impiccandosi con i lacci delle sue scarpe, la mattina del 10 febbraio 2002. Ha scritto un biglietto di addio, che le autorità non hanno mai reso pubblico. Norman Mailer è morto cinque anni dopo, il 10 novembre 2007. Droghe: Vargiu (Commissione Affari Sociali Camera); passi in avanti senza ideologie Italpress, 25 aprile 2014 "Senza ideologie e battaglie di religione su temi sensibili la politica può davvero dare risposte concrete. Il testo del decreto su droga e off label, da oggi in Aula, lo dimostra. Evitare il carcere per chi spaccia piccole dose di stupefacenti è un grande passo in avanti in un Paese in cui più di un detenuto su 3 è recluso per spaccio di droga. L’approccio repressivo ha fallito così come un certo modo pasticcione ed estemporaneo di legiferare che la Corte Costituzionale ha bocciato. Un duplice fallimento che questo Parlamento deve tenere a mente". Lo ha detto Pierpaolo Vargiu, presidente della Commissione Affari Sociali di Montecitorio e relatore del ddl di conversione del decreto droghe e off label, presentando il provvedimento in discussione generale. "Con un lavoro pragmatico delle Commissioni Affari Sociali e Giustizia la Camera ha di gran lunga migliorato il provvedimento arrivato del governo e ha trasformato un atto tampone in un’occasione per prevenire il sovraffollamento delle carceri e garantire il recupero sociale di chi consuma droghe e delinque. A chi agita baluardi ideologici su tabelle e liberalizzazioni opponiamo la forza riformatrice del confronto sui fatti e la forte esigenza di un messaggio chiaro sui valori e un atteggiamento serio nell’attività di prevenzione", ha affermato il deputato di Scelta Civica. Quanto all’uso "off label" dei farmaci, diffuso soprattutto in pediatria e in oncologia, "le Commissioni hanno semplificato le norme arrivate dal governo: ora niente più obblighi di sperimentazione in capo ad Aifa e soprattutto ampia possibilità di accedere a farmaci più economici rispetto a quelli utilizzati per le stesse cure secondo le indicazioni terapeutiche. Il tutto a chiaro vantaggio del paziente e del Servizio Sanitario Nazionale". India: ministro Mogherini; su caso dei marò si apre procedura di arbitrato internazionale Il Velino, 25 aprile 2014 Per la soluzione del caso dei due marò detenuti in India "si apre la procedura internazionale". E per seguire la nuova fase è stato deciso di far rientrare a New Delhi l’ambasciatore italiano. Ad annunciarlo sono state i ministri degli Esteri e della Difesa, Federica Mogherini e Roberta Pinotti, nel corso di un’audizione davanti alle commissioni Difesa ed Esteri congiunte di Camera e Senato a Palazzo Madama. "Siamo usciti dalla fase negoziale e siamo passati in una in cui si avvia uno scambio di punti di vista" tra le autorità italiane e indiane, attraverso l’istituzione di una commissione di esperti con carattere giuridico, ha spiegato la titolare della Farnesina. "Nel caso non si arrivi a una soluzione concordata - ha precisato -, si procederà al vaglio degli strumenti preposti alla risoluzione delle controversie internazionali". Intanto, ha riferito Mogherini, "abbiamo deciso di far rientrare a New Delhi l’ambasciatore italiano", Daniele Mancini, che era stato richiamato due mesi fa per protesta contro i rinvii delle autorità indiane sul caso marò. Con l’avvio della procedura internazionale poi "si esaurisce la fase in cui ha operato Staffan De Mistura - ha ricordato il ministro -,e voglio ringraziarlo a nome del governo per la dedizione". "Non c’è rimasta altra via che l’arbitrato internazionale - ha sottolineato Pinotti -. Si tratta di una precisa strategia condivisa con il Parlamento che poggia sull’internazionalizzazione della vicenda. Trattenere due militari per oltre due anni è inaccettabile per noi, così come per i nostri partner internazionali e abbiamo ottenuto il loro sostegno". Gasparri: anche se tardivamente bene arbitrato internazionale "Finalmente, anche se tardivamente, si è deciso di risolvere la vicenda dei nostri due Marò detenuti in India attraverso l’arbitrato internazionale. Sosterremo con determinazione questa decisione, certamente frutto dello stimolo giunto dalla missione parlamentare che qualche mese fa si è recata a New Delhi. Il tempo perso non si può recuperare. Ora spetta al governo insistere su questa strada e riportare Latorre e Girone a casa". Lo dichiara Maurizio Gasparri (FI), vice presidente del Senato. Medio Oriente: 200 detenuti palestinesi in carceri Israele hanno iniziato sciopero fame Aki, 25 aprile 2014 Duecento palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno iniziato oggi uno sciopero della fame fino a data da definirsi per protestare contro la politica detentiva di Israele. Lo ha annunciato l’avvocato per i diritti umani Jawab Boules da Ramallah all’agenzia di stampa Anadolu. "I detenuti hanno rifiutato il cibo oggi e annunciato l’inizio di uno sciopero della fame", ha spiegato il legale palestinese. "Alcuni detenuti amministrativi sono in carcere da anni senza processo - ha aggiunto Boules. Le carceri sono diventate come case per loro". La detenzione amministrativa viene applicata da Israele ai palestinesi per motivi di sicurezza e senza processo. Può variare da uno ai sei mesi, ma può anche essere estesa a cinque anni da un Tribunale militare israeliano. Boules ha però accusato le autorità israeliane di aver violato i termini di un accordo firmato con la mediazione egiziana per mettere fine a uno sciopero della fame collettivo dei detenuti palestinesi nel 2012 durante il quale Israele si impegnava a non rinnovare la detenzione amministrativa senza giustificazioni legali. Secondo i dati diffusi dalla ong palestinese Centro di studi e ricerche sui detenuti, sono circa cinquemila i palestinesi in 22 tra carceri e centri di detenzione in Israele. Tra questi si contano 200 minori e 19 donne. Tunisia: ascoltati i detenuti libici richiesti per scambio con diplomatici rapiti a Tripoli Nova, 25 aprile 2014 La magistratura tunisina ha deciso di ascoltare i due detenuti libici arrestati nel 2011 e per i quali è stata chiesta la scarcerazione in cambio dei due diplomatici tunisini rapiti a Tripoli. Secondo quanto riportano i media di Tunisi, la magistratura ha deciso di ascoltarli come testimoni nell’ambito delle indagini sul sequestro di persona di due diplomatici tunisini avvenuto in Libia da parte di gruppi islamici a loro legati. Secondo quanto ha spiegato Sufiyan al Saliti, portavoce della procura di Tunisi, "il giudice inquirente ha ascoltato già uno dei due detenuti come testimone nell’ambito delle indagini e presto ascolterà anche il secondo". Perù: 115 mila euro l’anno, l’ex dittatore Fujimori è il detenuto più caro del Paese di Filippo Fiorini www.pangeanews.net, 25 aprile 2014 115 mila euro l’anno per l’uomo che inventò l’autogolpe, scatenò una guerra al terrorismo che travolse centinaia di innocenti e oggi si lamenta denunciando che le sue condizioni di reclusione sono da tortura. "Non ho mai visto un carcerato ricevere tante cure e tante visite come lui", dice il capo del servizio penitenziario. Il peso di Alberto Fujimori continua a gravare sul Perù anche dopo il suo fortunato allontamento dal potere. Passato alla storia per aver inventato l’auto-golpe nel 1992, così come fu definita la virata autoritaria che impresse al governo costituzionale che presiedeva (per far fronte alla minaccia terrorista di Sendero Luminoso), Fujimori fu arrestato in Cile nel 2005, mentre si preparava a una nuova candidatura a presidente dopo un lungo esilio in Giappone. Estradato in patria nel 2007, fu condannato a 25 anni di carcere per le gravi violazioni dei diritti umani commesse sotto il suo comando e, oggi, è il detenuto più costoso di tutta la nazione. Secondo quanto ha raccontato alla stampa di Lima il direttore del sistema penitenziario nazionale (Inpe), José Luis Perez Guadalupe, Fujimori viene controllato e servito da 17 funzionari al giorno, tra i quali si contano guardie carcerarie e infermieri. Perez Guadalupe ha detto di non sapere se si possa parlare di condizioni privilegiate per l’ex dittatore, recluso all’interno del carcere di massima sicurezza che sorge all’interno della base navale di Barbadillo, dove sono prigionieri anche il suo ex consigliere presidenziale, Vladimiro Montesino, e il suo storico nemico ed ex leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzman. "Quello di cui sono sicuro - ha detto il funzionario - è che sia il detenuto più caro di tutto il sistema", dato che costa ogni anno 440 mila soles peruviani, cioè circa 115 mila euro. "La cosa paradossale - ha poi aggiunto Perez Guadalupe - è che addirittura Fujimori si lamenta, affermando che le sue condizioni carcerarie equivalgono alla tortura". Se da un lato è vero che gli alti costi di mantenimento di questo prigioniero di lusso non garantiscano che il suo sia un soggiorno privilegiato, bisogna anche tener conto del fatto che l’ex presidente afferma di essere tenuto "in stato d’isolamento", quando il capo del servizio penitenziario dice di "non aver mai visto un carcerato ricevere tante visite come lui". Fujimori, che con la scusa di combattere il terrorismo scatenò una guerra sporca che insanguinò il Perù negli anni Novanta e portò all’uccisione sommaria di centinaia d’innocenti, mantiene una presenza politica nel Paese attraverso sua figlia primogenita, Keiko. Ex parlamentare e attuale leader del partito di destra Fuerza Popular, Keiko è stata candidato alle presidenziali del 2011, perdendo contro l’attuale capo dello Stato, Ollanta Humala, ma affermandosi anche come la prima donna a disputare un ballottaggio nella storia della sua nazione.