Giustizia: i diritti dell’uomo e le sanzioni da "record" comminate all’Italia di Domenico Letizia L’Opinione, 23 aprile 2014 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha pubblicato il Rapporto annuale del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che riassume l’andamento dell’esecuzione delle sentenze della Corte Europea (anno 2013). Le statistiche confermano un andamento positivo rispetto al 2011 e al 2012, ma per quanto riguarda il "caso Italia" vengono riconfermati i suoi primati negativi. Un primato di violazione, quello dell’Italia, che si riconferma al primo posto tra tutti i 45 Stati Membri del Consiglio d’Europa come Paese che ha dovuto pagare la cifra più intensa di indennizzi per rimediare alle violazioni dei diritti umani accertate dalla Corte nel corso dell’anno 2013. Nonostante la diminuzione delle multe e sanzioni pagate rispetto al 2012, l’Italia risulta ugualmente la nazione con il maggior ammontare di indennizzi rispetto agli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa. L’Italia resta al primo posto anche per il numero di casi pendenti presso la Corte, distanziando la Turchia e la Russia. Tra le violazioni alla dignità e ai diritti dell’uomo maggiormente riscontrate nel nostro Paese vi sono le condizioni derivanti dal sovraffollamento degli istituti penitenziari, questione per cui lo Stato italiano è sottoposto a speciale osservazione e monitoraggio da parte del Comitato dei Ministri e per cui il Governo dovrà proporre delle valide soluzioni entro il 28 maggio prossimo. Una violazione ripresa del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con un messaggio alle Camere dell’8 ottobre del 2013. Il capo dello Stato dichiarò: "Non c’è da perdere nemmeno un giorno". E, invece, sono stati persi mesi, anni, vite umane straziate a migliaia, come denuncia il Partito Radicale. Una sofferenza inflitta per mano dello Stato che fa strame di leggi il cui rispetto è obbligato, leggi riguardanti i Diritti Umani fondamentali e le libertà individuali, scritte nella Costituzione italiana, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Giustizia: detenuto attende cure per 30 mesi, la Corte dei Diritti Umani condanna l’Italia di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2014 Ennesima condanna per l’Italia a causa delle condizioni carcerarie dei detenuti. L’ultima sentenza in ordine di tempo è di ieri - la numero 73869/10 - per la violazione dell’articolo 3 del la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), a causa del ritardo nella prestazione di cure adeguate alla stato di salute di un carcerato. Al quale, entro tre mesi, quando la sentenza sarà definitiva se lo Stato italiano non farà ricorso, l’Italia dovrà versare 25mila euro (richiesti 10mila in più). Non è invece stato violato l’articolo 3 nella parte in cui parla di sovraffollamento. Ecco i fatti. Il ricorrente, nato nel 1972, è attualmente detenuto nel penitenziario di Bellizzi Irpino (Avellino). Quando era recluso nel 2007 nel carcere di Larino, in Molise, aveva subito un intervento chirurgico per emorroidi e, a seguito dell’operazione e della patologia, avrebbe dovuto avere una cella singola dotata dì servizi igienici e possibilità di lavaggio quotidiano. Era invece finito in una cella con altri sei detenuti (il governo parla di quattro) perché una volta in carcere il medico lo aveva considerato sano. Poi, nel novembre 2009 era stato trasferito "per motivi medici" in una cella condivisa con un altro detenuto, dotata solo di servizi igienici. Nello stesso mese aveva tentato il suicidio, motivato anche da una situazione di imbarazzo per le sue condizioni di salute. Poi nel luglio 2010 dopo un trasferimento nel carcere di Spoleto si era registrato un altro tentativo di suicidio. Per, tornare, infine, a Bellizzi Irpino. Il detenuto anni fa aveva anche chiesto, invano, la detenzione domiciliare per le sue condizioni di salute. La Corte Edu non ha tenuto conto delle motivazioni dell’Italia e ha ritenuto che le condizioni umane di detenzione del carcerato, quando malato, non siano state garantite, condannando lo Stato italiano. In particolare perché ha impiegato più di due anni e nove mesi tra il primo tentativo di suicidio e l’inizio del ciclo di riabilitazione che poteva finalmente risolvere i problemi ricorrenti d’incontinenza (23 agosto 2012). La situazione generale Entro il 28 maggio l’Italia si dovrà mettere in regola con la condizione carceraria per evitare il rischio di un vero e proprio salasso, ovvero risarcimenti tra i 50 e i 100 milioni di euro l’anno ai detenuti potenzialmente vittime di una detenzione inumana e degradante. La fama negativa dell’Italia sul fronte delle patrie galere è tale che l’Inghilterra ha bloccato l’estradizione dì un condannato, mettendoci nella lista degli "Stati canaglia" per la condizione delle carceri. A Strasburgo, sede della Corte Edu - dove il ministro della giustizia Andrea Orlando dovrebbe tornare nei prossimi giorni, sono giacenti circa 3mila ricorsi. A novembre 2013 in Italia i detenuti erano 64.564 (69mila nel 2010, prima condanna dell’Italia) mentre a fine marzo sono scesi a 60.800. Giustizia: "l’inciviltà del carcere"… intervista con il magistrato Silvia Cecchi di Paolo Ercolani Il Manifesto, 23 aprile 2014 "Ancora oggi, la sanzione per il reato è soprattutto corporale. Va superato un diritto così tanto imputato-centrico". Un’intervista con il magistrato Silvia Cecchi, che ha collaborato con un saggio al volume "Sulla pena. Al di là del carcere". La crisi profonda e inesorabile della misura detentiva, rispetto alla quale si richiede un superamento netto e inequivocabile, tanto nei presupposti teorici quanto nelle modalità di esecuzione. È quanto certificano con radicale convinzione due magistrati (Silvia Cecchi e Giovanna Di Rosa), un professore di filosofia morale e bioetica (Paolo Bonetti) e uno psicologo e psicoterapeuta sistemico-familiare (Mario Della Dora), nel denso e articolato volumetto dedicato all’argomento: Sulla pena. Al di là del carcere (Liberilibri, pp. 187, euro 16, introduzione di Giovanni Fiandaca). Ne parliamo con Silvia Cecchi, magistrato e sostituto procuratore presso la Procura di Pesaro, autrice del saggio più ampio. La pena carceraria si afferma come sanzione regina nel XIX secolo. Su quali presupposti e fondamenti? Pur essendo sempre esistito il carcere come forma custodiale-cautelare (si pensi alla cella in cui Socrate conversa dopo la condanna a morte già proclamata, nel Fedone di Platone), in attesa e per il tempo del processo il carcere come sanzione penale principale si afferma con il significato di una risposta sanzionatoria meno drastica della pena capitale. Già nel Settecento il carcere da luogo di ricovero indifferenziato, promiscuo, accolita di tutti i reietti sociali (folli, vagabondi, mendicanti, prostitute, donne violentate o ragazze-madri, streghe, poveri, debitori, criminali) si delinea come realtà fisica e ideale nel senso moderno del termine, e cioè come struttura di pena, anche architettonicamente specializzata. Vi è però un tratto di continuità tra pena di morte (accompagnata o non da tortura) e carcere: la comune afflittività che resta componente essenziale della pena carceraria fino ad oggi. A ben vedere anche la pena carceraria resta oggi fondamentalmente una pena corporale. Il carcere è il momento culminante di un percorso che origina nella storia individuale e sociale. Qual è il peso delle disuguaglianze sociali, per esempio, nel meccanismo che conduce alla pena detentiva? Oggi la sanzione carceraria costituisce l’esito di un processo presieduto in ogni sua fase dal principio di eguaglianza, che si traduce in una serie di istituti garantistici di sicura efficacia ed effettività: si tratta, come tutti sappiamo, di una lunga conquista di civiltà giuridica, irreversibile. Ciò non toglie che il peso delle profonde diseguaglianze sociali continui a ispirare, nella realtà extraprocessuale, politiche di repressione criminale, e che possa influenzare anche la realtà della pena come istituzione sociale, più che come istituzione giuridica. Sono però convinta che la sede giudiziaria rappresenti oggi uno dei presidi maggiori e uno dei rimedi più efficaci alle diseguaglianze sociali. Altra cosa sono gli effetti indotti dalle diverse opportunità di difesa tecnica, dalla propensione individuale alla commissione di reati determinati da indigenza, diseguaglianza o da marginalità sociale. Non si tratta di giustizia discriminatoria, ma di riflessi di una realtà sociale diseguale ed essa stessa discriminatoria. Anche per la magistratura rompere certe zolle dure è impresa molto ardua, e sempre sospetta di connotazione ideologica. Se poi vi sono componenti dell’apparato giudiziario influenzabili a logiche illecite esterne, si tratta di fenomeni (direi minoritari) di patologia giudiziaria, e li ascriverei al meccanismo processuale come tale. Lei parla di un declino ormai segnato e inesorabile della sanzione carceraria? Eppure le carceri scoppiano. Cosa intende dire? Direi che vi è una divaricazione profonda tra un sentire sociale ancora convintamente legato all’idea che la pena del carcere sia necessaria e vada anzi resa più severa e più effettiva, e un orientamento, più diffuso tra giuristi e cittadini sensibili al tema etico-giuridico della sanzione, che tende a delegittimare la pena carceraria così come oggi prevista per legge (pena unica per tutti i reati e coinvolgente la totalità della persona del reo). Tengo però a evidenziare che l’orientamento critico sulla pena carceraria sta facendo breccia sul piano legislativo e che c’è aria di riforma sul tema, con un certo allineamento anche ad altre legislazioni europee ed extra-europee, senza alcun rischio per la sicurezza sociale e senza alcun aumento di criminalità, che è quanto il cittadino comune teme di più. Lei sostiene che il diritto penale si concentra soltanto sul reo, mentre la responsabilità penale presuppone una relazione stretta con la vittima. In che senso? Un diritto penale-processuale "imputato-centrico" ha senso naturalmente di fronte a una pena afflittiva ed estrema e non potrebbe essere altrimenti. Una "rotazione" del sistema sanzionatorio verso aspetti più riparatori, impegnativi, responsabilizzanti e rieducativi lascerebbe riemergere invece la componente oggi meno visibile della responsabilità penale, quella che io chiamo la responsabilità "da relazione", e con essa la persona della vittima, la sua realtà concreta. In questa prospettiva, oltre a un maggior ruolo processuale, le esigenze della vittima dovranno essere prese seriamente in carico dallo Stato. Ciò non significa "automaticamente" che la risposta sanzionatoria riservata al reo e le esigenze delle vittime debbano avere necessariamente aspetti in comune o punti di incontro. Se la sanzione carceraria è inutile e persino dannosa, quali altri sistemi di punizione delle infrazioni penali possono effettivamente favorire la "soddisfazione" della vittima e il recupero del colpevole alla vita sociale? La sanzione carceraria è normalmente tanto afflittiva quanto vuota. Inoltre nel nostro sistema è anche spesso ineffettiva. Non mi riferisco naturalmente ai reati implicanti seria pericolosità sociale, ma alla stragrande maggioranza dei reati in cui non possiamo operare alcuna equivalenza tra persona del reo ed atto compiuto. La responsabilità per l’atto illecito compiuto non autorizza e non legittima alcuna repressione totalizzante e plenaria sull’intera persona del reo, non giustifica alcuno scambio "metonimico" tra atto e persona. Oggi la pena carceraria è prevista anche per reati colposi e cioè, per definizione, commessi contro l’intenzione. La pena carceraria (che diviene pena afflittiva anche per parenti, coniugi o figli o genitori che siano) disvela così un’arcaica radice religiosa e moralistica incompatibile con la civiltà giuridica attuale. Necessarie saranno allora sanzioni penali che io ritengo assai più efficaci e deterrenti, e soprattutto effettive e inderogabili: sanzioni a natura patrimoniale, interdittive, impegnative e cioè a contenuto prioritariamente relazionale, in omologia e in armonia con una costruzione della responsabilità penale in senso relazionale. L’essenziale è che la sanzione penale "trascenda" il crimine commesso (nel senso in cui De Martino parla di trascendimento e ritualizzazione come modalità di superamento del "lutto" , e ciò vale anche per il crimine), che si ponga cioè su un piano qualitativamente, eticamente e finalisticamente diverso, e che non attinga alle stesse pulsioni cui attinge il delitto, come ha acutamente affermato il giurista Franco Cordero. Giustizia: dal fascismo al "moderno" autoritarismo… come i media preparano un regime di Guido Viale Il Manifesto, 23 aprile 2014 Ci si chiedeva spesso, decenni fa, nelle scuole e sui media, come fosse stato possibile che nel 1931, su oltre milleduecento docenti universitari, solo una quindicina avesse rifiutato di giurare fedeltà al fascismo; e come fosse stato possibile che con loro si fossero allineati migliaia di giornalisti, di scrittori, di intellettuali - la totalità di quelli rimasti in funzione - contribuendo tutti insieme a costruire una solida base di consenso alla dittatura di Mussolini. Il contesto è sicuramente cambiato, ma forse il servilismo è rimasto invariato. Oggi, senza nemmeno l’alibi di un’imposizione da parte di un potere autoritario e incontrollato, a cui peraltro anche allora molti erano già ben predisposti, la corsa ad allinearsi con il potente di turno, magnificandone qualità e operato, ha assunto da due decenni a questa parte un andamento a valanga; per poi accorgersi, una volta usciti temporaneamente o definitivamente di scena i destinatari di tanta ammirazione, che i risultati del loro operare - del loro "fare" in campo economico, sociale, istituzionale e, soprattutto, culturale - erano inconsistenti, negativi, o addirittura drammatici. Ma rimaneva tuttavia, in alcuni angoli riservati del giornalismo cartaceo e televisivo, lo sforzo di un vaglio critico delle misure assunte dai governi che lasciava uno spiraglio alla legittimazione di un’opposizione. Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi - "dà con una mano per prendere con l’altra" (e molto di più) è la sintesi del suo operato - il coro delle ovazioni si è fatto assordante; lo spazio che gli riservano giornali e tv è totalitario (come documenta l’osservatorio sulle tv di Pavia); i toni sono perentori; i rimandi alle sue poliedriche capacità incontinenti; il servilismo degli adulatori dilagante (papa Francesco copia "lo stile di Renzi" ci ha informato un notiziario). Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento; sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un "moderno" autoritarismo. "Moderno" perché è quello auspicato dall’alta finanza, che ormai controlla la politica e le nostre vite; come emerge anche da un documento spesso citato della Banca J.P. Morgan che si scaglia contro le costituzioni antifasciste e democratiche che ostacolerebbero il proficuo svolgimento degli "affari". È l’autoritarismo perseguito dalle "riforme" costituzionali ed elettorali di Renzi, tese a cancellare con premio e soglie di sbarramento ogni possibilità di controbilanciare i poteri dei partiti - o del partito - al potere: non solo in Parlamento, ma ovunque; a partire dai Comuni, non certo aiutati a "fare", bensì paralizzati dai tagli ai bilanci e dal patto di stabilità per costringerli ad abdicare dal loro ruolo, che è fornire quei servizi pubblici locali di cui è intessuta l’esistenza quotidiana dei cittadini. Renzi, come Letta, Monti e Berlusconi, vuole costringerli ad alienarli: come aveva fatto Mussolini sostituendo ai consigli comunali i suoi prefetti. Una riprova non marginale di questo clima è il modo in cui stampa e media seguono la campagna elettorale europea, confinandola interamente in un confronto Renzi-Grillo (con Berlusconi ormai ai margini) privo di contenuti programmatici e tutto incentrato sulle diverse forme di "carisma" che i due leader esibiscono. In questo contesto il silenzio calato sulla lista L’altra Europa con Tsipras, l’unica che si presenta con un programma per cambiare radicalmente l’Europa (che è l’argomento di cui è proibito parlare) e non per abbandonarla insieme all’euro, né per continuare sulla rotta di quell’austerity difesa e votata fino a ieri come passaggio obbligato per tornare alla "crescita". Della lista L’altra Europa stampa e tv hanno seguito e ingigantito le difficoltà incontrate nel corso della sua formazione, per poi calare una cortina di silenzio totale sulla sua esistenza e sui suoi successi. La venuta di Tsipras a Palermo, con un teatro pieno, la gente in piedi e mille persone rimaste fuori ad ascoltare, con una visita all’albero di Falcone accompagnato da centinaia di sostenitori e con l’incontro con il sostituto Di Matteo, non ha meritato nemmeno un cenno o una riga. Nemmeno la consegna delle 220 mila firme raccolte per consentire la partecipazione della liste alle elezioni, un risultato su cui molti media avevano scommesso che non sarebbe mai stato raggiunto, ha avuto la minima menzione. L’apertura della campagna elettorale al teatro Gobetti di Torino con la partecipazione di Gustavo Zagrebelsky e altre centinaia di sostenitori è anch’essa scomparsa nel nulla. Quando si accenna di sfuggita alla lista L’altra Europa, per lo più per denigrare o sbeffeggiare i tanti intellettuali di valore che la sostengono - ribattezzati "professoroni"; e solo per questo se ne parla - il suo programma viene assimilato a quello dei no-euro, dei nazionalisti o addirittura dei fascisti. Perché "se non si è con Renzi non si può che essere contro l’Europa". Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’Europa diversa da quella che c’è; che è quella di Renzi, come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo. Eppure non è mancato agli stessi giornali e telegiornali lo spazio per occuparsi del congresso del "nuovo" (il 14°) partito comunista fondato da Rizzo, della presentazione della lista elettorale Stamina, della riammissione dei Verdi alla competizione elettorale anche senza aver raccolto le firme (mentre chi le ha raccolte non ha meritato nemmeno una riga). Il tutto viene completato con la presentazione di sondaggi che danno la lista per morta: sono i tre divulgati dalle tv di regime, mentre tutti gli altri sondaggi la danno due o tre punti al di sopra della soglia di sbarramento, ma non vengono resi noti. Io, che ho lavorato anche in una società di sondaggi, so bene come si fa ad orientarli (e anche a falsificarli) e quanto contribuiscano a "orientare" e a manipolare la realtà. Giornali occupati dalla stigmatizzazione della casta non fanno un cenno del fatto che siamo l’unica lista ad affrontare questa campagna elettorale senza un euro di finanziamenti di stato o di pubblicità. E così via. Poco per volta, e a volte impercettibilmente, si scivola verso un nuovo regime e in questa temperie persino le critiche all’operato di Renzi vengono proposte come ragioni per un sostegno dovuto e ineluttabile. Tipico da questo punto di vista, perché riassume una parabola che coinvolge un pò tutti i commentatori politici che in qualche modo devono misurarsi con numeri e dati che contraddicono frontalmente le dichiarazioni del leader, è l’editoriale (l’omelia settimanale) di Eugenio Scalfari comparso sul numero pasquale di Repubblica. In sostanza, vi si dice, gli 80 euro di Renzi sono una bufala senza copertura finanziaria, che gli servirà per stravincere le elezioni europee, anche se è basata un una serie di imbrogli contabili che presto verranno alla luce. Ma - scrive Scalfari, che pure, in margine a una critica alla riforma del Senato proposta da Renzi manifesta, senza sottolinearla, la consapevolezza che la sua riforma elettorale stravolgerà completamente l’assetto democratico del nostro paese - c’è da augurarsi comunque che quell’imbroglio funzioni; perché così il governo si rafforzerà, recupererà anche in Europa il prestigio perduto e la crescita potrà ripartire. Il che mostra in che conto Scalfari tenga "questa Europa": quella a cui stiamo sacrificando le ormai molte "generazioni perdute" del nostro e di altri paesi, l’esistenza, la salute, la vecchiaia e la vita stessa di un numero crescente di cittadini, di lavoratori e di imprenditori, e l’intero tessuto produttivo del nostro e paese. E mostra anche che idea abbia - e non solo lui - della crescita (il "flogisto" del nostro tempo, come lo chiama Luciano Gallino: tutti ne parlano e nessuno sa che cosa sia). Ma soprattutto mostra dove porta questa teoria, o visione, o percezione, sempre più diffusa dai media e tra la gente, del governo Renzi come "ultima spiaggia". Così, quando si sarà compiuto il disastro economico, sociale e istituzionale a cui ci sta trascinando quella sua cavalcata fatta di vuote promesse, di trucchi contabili e di nessuna capacità di progettare un vero cambiamento di rotta per l’Italia e per l’Europa, non si potrà più tornare indietro. È per questo che bisogna fermarlo qui e ora, a partire da un rovesciamento dei pronostici - meglio sarebbe chiamarli auspici di regime - tutti a favore delle destre nazionaliste e razziste mascherate dietro la campagna anti-euro, o delle larghe intese tra Ppe e Pse, con le quali la politica economica, fiscale e monetaria dell’Unione dovrebbe proseguire indisturbata il suo cammino di distruzione. Giustizia: Decreto legge per il superamento degli Opg, le osservazioni delle Regioni www.ilfarmacistaonline.it, 23 aprile 2014 Impegno a mettere in atto tutte le misure possibili per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal Dl "superamento degli Opg", ma per le Regioni servono alcune misure per facilitare il rispetto della tempistica, ossia arrivare alla chiusura delle strutture entro il 31 marzo 2015. Le osservazioni. Trasferire in altre sedi i detenuti impropriamente presenti negli Opg, bloccare ulteriori invii e spostare gli internati nelle proprie strutture di riferimento regionali. Velocizzare le procedure di approvazione e assegnazione dei finanziamenti sia per quanto riguarda la spesa corrente sia quella per gli investimenti. Attivare una regia politica per monitorare i tempi di attuazione. Infine conferire subito ai presidenti delle Regioni poteri commissariali per velocizzare le procedure ex articolo 20. Sono queste le misure considerate dalle Regioni necessarie per facilitare la tempistica prevista per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Misure contenute nelle osservazioni inviate alla Conferenza Stato e Regioni che sarà chiamata ad esprimere il proprio parere al Decreto-legge "superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari" domani all’esame dell’Aula di Palazzo Madama. Il decreto, lo ricordiamo, oltre a prorogare al 31 marzo 2015 il termine ultimo per la loro definitiva cancellazione, detta norme stringenti per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze e stabilisce un monitoraggio costante degli interventi regionali per assicurare il rispetto della nuova data e anche l’intervento diretto del Governo qualora le Regioni non dovessero rispettare i tempi. Ma non solo, in aggiunta alla precedente normativa prevede il dovere del giudice di verificare se nei confronti dell’infermo di mente è possibile l’adozione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, idonea ad assicuragli cure adeguate e a far fronte alla sua pericolosità sociale. E proprio rispetto ai tempi, le Regioni si impegnano a mettere in atto tutte le misure possibili per il raggiungimento degli obiettivi ed in particolare a predisporre programmi individualizzati, con vari livelli di intensità e di necessità di protezione, da presentare alla magistratura. Giustizia: Antigone; 10mila firme in pochi giorni per chiedere una legge contro la tortura Ristretti Orizzonti, 23 aprile 2014 Diecimila firme in pochi giorni. È questo lo straordinario risultato raggiunto dalla petizione che, indirizzata ai capogruppo parlamentari e alla presidente della Commissione Giustizia della Camera, chiedeva l’inserimento del reato di tortura nel codice penale. Da oltre 25 anni l’Italia aspetta di adeguarsi a tutti i paesi democratici, mantenendo fede ad un impegno assunto con le Nazioni Unite che, con il Consiglio d’Europa, ritengono la tortura un crimine contro l’umanità. I prossimi mesi saranno cruciali proprio per il nostro paese. La Corte Europea dei Diritti Umani deciderà infatti se condannarci per la condizione di disumanità a cui sono sottoposti i detenuti in Italia mentre, le stesse Nazioni Unite, valuteranno la tenuta dei diritti umani nel nostro paese. Non indifferente sarà la questione della mancanza del delitto di tortura nel nostro ordinamento. Siamo tra i pochissimi nella Ue. 10 mila cittadini che si aggiungono a firme importanti tra le quali quelle di: Andrea Camilleri, Massimo Carlotto, Ascanio Celestini, Cristina Comencini, Erri De Luca, Luigi Ferrajoli, Davide Ferrario, Elena Paciotti, Mauro Palma, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Ettore Scola, Daniele Vicari, Vladimiro Zagrebelsky, Don Luigi Ciotti, Franco Corleone, Cecilia Strada, Paolo Flores D’Arcais. Lo scorso mese di febbraio il Senato ha approvato una proposta di legge contro la tortura. Un passo in avanti, anche se non la migliore delle leggi possibili. Ad esempio il reato non è considerato come un reato specifico che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale. È invece qualificato come un delitto generico che chiunque può commettere. È importante ora che la discussione della legge sia immediatamente calendarizzata anche alla Camera dei Deputati. E così la pensano anche le migliaia di persone che hanno firmato la nostra petizione su www.change.org. Nel frattempo, essendo l’obiettivo ultimo di 10.000 firme stato raggiunto e superato in così poco tempo, abbiamo deciso di lasciare aperta la petizione, dando la possibilità a chi non lo avesse fatto di firmare a favore dell’introduzione del reato di tortura. Giustizia: Cassazione; il consenso a scontare la pena nel Paese d’origine non è revocabile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2014 Il cittadino dell’Unione europea, condannato in Italia, che dà il consenso al trasferimento nel suo paese d’origine per scontare la pena residua non può più cambiare idea. La Corte di Cassazione, con la sentenza 16022 depositata l’11 aprile scorso, respinge il ricorso di un cittadino rumeno che, dopo aver aderito alla decisione di trasferirlo in Romania, aveva fatto ricorso per ottenerne la revoca e restare in Italia, possibilmente a Milano. Il ricorrente affermava di aver avallato la scelta dell’amministrazione perché, all’epoca, i suoi familiari vivevano in patria mentre in un secondo momento la moglie e i figli, avevano preso la residenza nel capoluogo lombardo. Per la Cassazione però il consenso è senza "ritorno". Il trasferimento delle persone condannate è regolato dalla Convenzione, una norma di rango superiore che prevede la possibilità (articolo 2) di esprimere il desiderio di scontare la pena nel territorio di un altro Stato. Con l’articolo 7 la Convenzione disciplina i termini del consenso che deve essere dato sempre volontariamente e nella consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne derivano. L’Italia ha dato attuazione al legislatore sovranazionale con le leggi 334/2008 e 257/1989, articolo 5, il quale stabilisce che l’adesione del condannato deve essere prestata davanti al magistrato di sorveglianza, al pretore del luogo, o davanti alla Corte d’Appello procedente, dopo averne verificato la consapevolezza. Quello che i giudici della Cassazione si chiedono è se e fino a quando il consenso prestato sia revocabile, in tal senso non sono d’aiuto né la decisione quadro 2008/909/Gai né il decreto legislativo 161/2010 che la attua, entrambe le norme non disciplinano, infatti, la possibilità di revocare il sì iniziale. La giurisprudenza si schiera per l’irrevocabilità del consenso. Un principio che l’articolo 205-bis delle disposizioni di attuazione del Codice penale ha esteso a tutte le procedure di cooperazione giudiziaria, ponendo il solo limite della permanenza delle condizioni di fatto conosciute e rilevanti, tra le quali la Cassazione, che respinge il ricorso, non fa evidentemente rientrare il cambio di residenza dei familiari. Sulla richiesta di trasferimento dell’esecuzione della pena, tenuta distinta dal consenso alla consegna per l’esecuzione della pena è intervenuta ancora la Cassazione (sentenza 19774 del 2013) chiarendo che questa può essere revocata sino alla deliberazione della Corte d’Appello. Sul tema è recentemente intervenuto il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria per chiedere di eliminare il consenso dalle condizioni alle quali è subordinato il trasferimento dei detenuti nel paese d’origine. Giustizia: ecco le "Linee guida psicoforensi"... per un processo sempre più giusto di Guglielmo Gulotta Altalex, 23 aprile 2014 Attualmente, in Italia, l’argomento maggiormente trattato concerne una auspicabile e dovuta riforma della Giustizia. Questo non è, tuttavia, il tema che si discute in questa sede. L’obiettivo è quello di stilare delle Raccomandazioni volte a garantire la riduzione del rischio che si incorra in errori giudiziari. Ciò, recependo i progressi scientifici maturati nel campo della psicologia giuridica, forense e investigativa, nel rispetto delle vigenti norme del Codice di Procedura Penale anche tenendo conto delle sentenze di legittimità più significative. Che giudicando sia possibile commettere errori è un fatto umano. Chiunque di noi, nei propri giudizi, incappa in qualche errore, ma la scienza psicologica rileva che non sempre si tratta meramente di errori di tipo casuale, di difficile previsione e che sfuggono al controllo del singolo, bensì talvolta di errori sistematici insiti nel comune modo di ragionare e decidere in condizioni di incertezza. Dal 1992, negli Stati Uniti, alcuni esperti del mondo giuridico hanno dato vita a un’organizzazione, l’Innocence Project, che ha come scopo principale quello di far emergere, attraverso il test del Dna, i casi in cui degli individui siano stati ingiustamente condannati. Le indagini svolte da questa associazione hanno permesso di individuare un numero impressionante di errori giudiziari, restituendoci un’immagine quantomeno problematica dei metodi e delle prassi investigative e giudiziarie. In particolare, dai molti casi esaminati è emerso in maniera drammatica quanto l’errore umano possa inficiare i processi decisionali, portando degli individui innocenti a languire incolpevolmente in carcere. Nei soli Stati Uniti, dal 1992 ad oggi, son ben 311 le persone ingiustamente condannate - 18 delle quali si trovavano nel braccio della morte in attesa di essere giustiziate - successivamente scagionate, in seguito alle nuove prove emerse grazie all’Innocence Project. Il tempo medio trascorso in carcere per questi 300 innocenti, prima di riuscire ad ottenere la legittima scarcerazione, è stato di 13 anni. Sappiamo inoltre, per certo, che almeno una persona è stata giustiziata prima che la prova del Dna potesse provarne l’effettiva innocenza. Si badi che, contrariamente a ciò che si crede, non sempre, nei casi citati, la colpevolezza è stata determinata da una giuria. Linee guida psicoforensi Cosa può portare a condannare o, all’estremo, a giustiziare un innocente? Ed eventualmente ritenere innocente un colpevole? Nelle condanne prese in esame nell’ambito dell’Innocence Project, le ingiuste detenzioni sono state determinate da una serie di diverse cause, tutte accomunate dalla preminenza del fattore umano: 1. Errate identificazioni da parte dei testimoni oculari (riconoscimento sia personale che fotografico); 2. Uso improprio o inaccurato della scienza forense; 3. False confessioni e ammissioni di colpevolezza da parte dei sospettati; 4. Condotte fraudolente da parte degli investigatori o della Pubblica Accusa; 5. Accuse nei confronti del sospettato mosse da un informatore della Polizia; 6. Inadeguata assistenza legale da parte degli avvocati difensori. Il fatto che quasi mai nei reati resti una traccia biologica che possa eventualmente correggere l’errore giudiziario dà il senso di quanto vasto può essere l’ambito su cui intervenire. Si potrebbe pensare che l’America è lontana e che in Italia le cose vanno diversamente. In realtà, non è proprio così. Molti sono, infatti, gli esempi giudiziari nostrani che presentano le medesime problematiche emerse nell’ambito dell’Innocence Project. Volgendo lo sguardo al nostro Paese, il ministro Paola Severino, all’interno della relazione sullo stato della Giustizia in Italia, riferisce che nel solo 2011, sono stati spesi, per ingiuste detenzioni o errori giudiziari, 47 milioni di euro. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze riporta, inoltre, che, dal 1989 ad oggi, la spesa erogata per la riparazione degli errori giudiziari è stata superiore ai 545 milioni di euro per quanto riguarda le ingiuste detenzioni e superiore ai 30 milioni di Euro per quanto riguarda gli errori giudiziari. Si tratta, oltretutto, di cifre che sarebbero potute essere ben superiori qualora il tetto massimo per il risarcimento per ingiusta detenzione non fosse stato stabilito nell’importo di 516 mila euro, circa. Si tratta di cifre sconcertanti - senza far menzione dell’immane sofferenza causata a dei cittadini incolpevoli - sulle quali taluni organi di stampa, spesso nel silenzio degli addetti ai lavori, richiamano periodicamente l’attenzione. In altri paesi, soprattutto anglosassoni, l’emergere di questi dati ha prodotto intense reazioni e mobilitazioni da parte di governi e esperti del settore giuridico e forense. Per elencare solo alcune delle Commissioni sorte per indagare le cause di queste problematiche e, Linee guida psicoforensi conseguentemente, cercare delle possibili soluzioni attraverso la redazione di relazioni, possiamo menzionare: Report on the prevention of miscarriages of Justice (Canada) aggiornata al 2011; The Morin public inquiry (Canada) del 1996; Commission of inquiry into the wrongful conviction of Thomas Sophonow (Canada) del 2000; Commission on capital punishment (Illinois, America) del 2000; Criminal justice commission (Oregon, America) del 1995; Committee on identifying the needs of the forensic sciences community, National research council (Washington, America) del 2006; Criminal cases review commission (Inghilterra, Scozia, Irlanda) del 1997; Commission of inquiry into certain aspects of the trial and the conviction of James Driskell (Canada) del 2005. Center of wrongful convictions (Northwestern School of Law - Bluhm Legal Clinic, Chicago) del 1998; Innocence project of Florida (Florida) del 2003; The California commission on the fair administration of justice (California) del 2004; Final report of the California commission on the fair administration of justice (California) del 2008; Innocence commission for Virginia (Icva, Virginia) del 2003; Report and recommendation regarding wrongful convictions in the Commonwealth of Virginia (Virginia) del 2005; Report of the governor’s commission on capital punishment (Illinois) del 2002; Griffith University Innocence Project (Queensland, Australia) del 2002. Tutte le Commissioni citate, dopo aver individuato la radice umana e scientifica che sta alla base di ingiuste condanne, hanno prodotto delle raccomandazioni o delle linee guida al fine di adottare le migliori prassi operative possibili per cercare di ridurre il rischio di errori giudiziari. Linee guida psicoforensi In Italia, fatta eccezione per la testimonianza di individui minorenni - in ragione della cui corretta prassi sono stati redatti importanti protocolli quali la Carta di Noto, il Protocollo di Venezia, le Linee guida nazionali: l’ascolto del minore testimone e le Linee guida per l’acquisizione della prova scientifica nel processo penale - si è preferito, come spesso capita, lamentarsi piuttosto che tentare di comprendere il fenomeno e adottare eventuali soluzioni. L’amministrazione della Giustizia è cosa umana, così come umani sono gli errori che stanno alla base delle ingiuste condanne. Decenni di ricerche e studi sperimentali, spesso ignorati dai giuristi, ci hanno dimostrato che quando siamo chiamati a giudicare in condizioni di incertezza, siamo portati a compiere degli errori sistematici. La psicologia può vantare due scienziati premi Nobel, Simon e Kahneman, che proprio dei processi decisionali si sono occupati e dei quali hanno messo in luce funzionamento e disfunzioni. Allo stesso tempo, la ricerca psicosociale, ha indicato alcuni possibili metodi per mitigare gli errori e le distorsioni cognitive cui tutti siamo soggetti. Le varie Commissioni sorte a livello internazionale hanno fatto proprie queste acquisizioni scientifiche e lavorano affinché si possano tradurre in buone prassi operative. Tanto i dati emersi nell’ambito dell’Innocence Project, quanto quelli relativi al nostro Paese, hanno evidenziato la questione in tutta la sua drammaticità. Abbiamo scelto di non continuare a maledire il buio ma di accendere una candela. Valuterà il Governo se investire anche solo parte dell’ingente spesa destinata per la riparazione degli errori giudiziari, in un progetto teso a superare, anche attraverso una formazione psicoforense degli operatori coinvolti (avvocati, magistrati, forze di polizia) fondata sulle seguenti Linee guida. Giustizia: Meloni (Clemenza e Dignità): necessario potenziare l’informazione sul carcere www.imgpress.it, 23 aprile 2014 "Nelle meditazioni della Via Crucis al Colosseo di quest’anno, sono stati affrontati in maniera forte e molto coraggiosa, il grande problema delle carceri e la grave tragedia umana che ne consegue. In particolare, nella meditazione per la VII Stazione, c’è un passo molto interessante che dice "Il carcere, oggi, è ancora troppo tenuto lontano, dimenticato, ripudiato dalla società civile". Lo afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, responsabile del movimento Clemenza e Dignità, che aggiunge: "È proprio vero, il carcere ancora oggi è una realtà completamente dimenticata dalla società. Sembra un mondo a se stante, è come se si trattasse di persone non realmente in vita, è come se si trattasse di persone già decedute. Questo atteggiamento mentale nei riguardi delle carceri, questa completa dimenticanza nei riguardi di quel mondo, - osserva - discende non solo da un atteggiamento mentale favorevole alla crudeltà della pena, che sebbene temperato da considerazioni di natura cristiana, è ancora vivo ed è abbastanza diffuso nella popolazione, ma discende anche da un problema di informazione che impedisce materialmente l’avvicinamento del mondo delle carceri al mondo dei vivi. Basti pensare - conclude - che da diversi anni ed ancora oggi, nonostante la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, possono trovarsi delle notizie sul sovraffollamento, sulle violenze, sulle patologie infettive dilaganti, sugli atti di autolesionismo, sui suicidi, sui decessi per malattia e per cause da accertare, solo o prevalentemente attraverso internet, e spesso dovendo pure digitare appositamente la parola "carceri" nei motori di ricerca, non essendo tali notizie poste in evidenza nelle varie testate on line". Trieste: "Stanno insabbiando il caso", parla madre della giovane morta in Commissariato di Laura Tonero Il Piccolo, 23 aprile 2014 "Stanno insabbiando tutto, vogliono non far pagare a nessuno la morte di mia figlia. Sono disperata e amareggiata". Sono passati ormai due anni dalla morte di Alina Bonar Diachuk e in questi giorni la madre è tornata a Trieste, nel cimitero di Sant’Anna, a piangere sulla tomba della giovane ucraina. Si era tolta la vita con un cappio al collo legato ad un termosifone il 16 aprile del 2012 all’interno di una stanza di sicurezza del commissariato di Opicina. La Procura ha aperto un’indagine ma ad oggi "nessuno sa nulla - riferisce la madre che, accompagnata dalla figlia minore, ha portato fiori, dolci e piccoli regali ad Alina - non sono mai stata sentita o contattata. Vogliono far dimenticare la mia Alina. Ogni volta che suona il mio telefono, - continua disperata la donna che affronta ore di viaggio pur raggiungere il cimitero di Sant’Anna - spero sia il mio avvocato che mi comunica che finalmente ci sono delle novità per quanto riguarda l’inchiesta. Invece tutto tace, il mio timore è che nessuno pagherà per la morte di mia figlia". I primi accertamenti avviati dal pm Massimo De Bortoli avevano evidenziato che Alina non doveva essere trattenuta in custodia dalla polizia. Dal carcere del Coroneo era tornata in libertà il 14 aprile del 2012 dopo aver patteggiato per un’accusa di favoreggiamento all’immigrazione. Avrebbe dovuto essere trasferita subito nel Centro di identificazione ed espulsione di Bologna. E invece, dopo la scarcerazione, era stata prelevata da una pattuglia della polizia e portata nel commissariato di Opicina. E lì parcheggiata in una camera di sicurezza. Due giorni dopo si è impiccata. "Ad oggi il processo è ancora nella fase delle indagini, - precisa Sergio Mameli, il legale che difendeva Alina e oggi ne rappresenta la famiglia - nessuno ha comunicato ancora la conclusione delle indagini". "Ma non stanno indagando, - accusa invece la madre della giovane che al momento della sua morte aveva 32 anni - non stanno facendo assolutamente nulla". "Il fatto di aver individuato altri 49 casi simili, - spiega Mameli - non ha dato certamente accelerato le indagini. Solo per fare tutti i capi d’accusa ci vuole molto tempo". Se il caso di Alina fosse stato affrontato singolarmente, la procedura sarebbe sicuramente stata più sbrigativa e oggi, forse, si sarebbe riusciti a far maggior chiarezza su eventuali responsabilità. Restano indagati l’allora responsabile dell’ufficio immigrazione della Questura, Carlo Baffi e il suo vice Vincenzo Panasiti. Baffi è accusato di sequestro di persona e omicidio colposo. Medesime le accuse a carico di Panasiti. Nel mirino della Procura sono finiti anche quattro poliziotti addetti alle pattuglie dello stesso ufficio immigrazione. Sono accusati a vario titolo di omicidio colposo, violata consegna e di aver gestito i cosiddetti trasporti e la detenzione nel commissariato di Opicina secondo modalità ritenute fuorilegge dalla Procura. Secondo il pubblico ministero titolare dell’inchiesta, Massimo De Bortoli, era ormai diventata una prassi trattenere gli stranieri scarcerati o clandestini in un commissariato fino al momento dell’espulsione. Sulla cella dove era rinchiusa Alina, nel commissariato di Opicina, vigilava una telecamera di sicurezza ma nei 40 minuti di agonia della donna nessuno si era accorto di nulla. "Per procedere almeno in sede civile, - spiega l’avvocato Mameli - ho chiesto alla Procura una copia del cd con le immagini delle ultime le di Alina, per capire meglio cosa sia successo. Ad oggi non ho ancora ricevuto nulla". Napoli: ieri militare in Kosovo, oggi internato nell’Opg per una lite in famiglia Redattore Sociale, 23 aprile 2014 La depressione dopo l’ultima missione, difficoltà economiche, il mancato riconoscimento di una pensione, una situazione psichica che si è via via aggravata. Il consigliere regionale del Pd Antonio Amato ha ispezionato sabato l’Opg di Napoli, dove sono rinchiuse 97 persone. "Ho visto tanti morti, li sogno ogni notte". G., 39 anni della provincia di Avellino, da sergente è stato con l’esercito in Kosovo e in Bosnia. Poi la depressione dopo l’ultima missione, difficoltà economiche, il mancato riconoscimento di una pensione, una situazione psichica che si è via via aggravata. Un mese fa per una lite in famiglia è giunto all’Opg di Napoli all’interno del carcere di Secondigliano, in misura di sicurezza provvisoria. "Vi prego fatemi tornare il jeans che si sono portati via, poi fatemi tornare a casa". È la richiesta che fa al consigliere regionale del Pd Antonio Amato che sabato 19 aprile si è recato in visita ispettiva non preannunciata nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli accompagnato dal ricercatore Antonio Esposito e da Dario Stefano Dell’Aquila, dell’Osservatorio Nazionale sulla Detenzione di Antigone. A Napoli sono 97 gli internati su una capienza limite di 100, 1/3 in misura di sicurezza provvisoria, come Benedetto, in Opg per porto abusivo di coltello, l’ultimo morto suicida meno di due mesi fa. Tra marzo e aprile 24 nuovi ingressi. "Abbiamo verificato come questi inferni non si svuotino mai - afferma il consigliere Amato, che la scorsa settimana aveva visitato anche l’Opg di Aversa - Gli ingressi pareggiano o addirittura superano le dimissioni. D’altro canto, alle richieste di presa in carico territoriale, molte Asl continuano a rispondere dinieghi. E nel frattempo anche a Pasqua queste persone mangeranno chiuse in una cella, non hanno nemmeno un refettorio. Dovrebbero ricevere cura e assistenza, ma qui ci sono solo psicofarmaci e sbarre". La commissione ispettiva ha incontrato L., 54 anni, rinchiuso negli Opg da 24 anni, e M., internato tra Aversa e Napoli da 29 anni. Di nuovo in Opg anche F., 54 anni, affetto da Hiv e tornato in Ospedale perché è la fallita la licenza di esperimento. "Ma oggi abbiamo incontrato anche molti ragazzi - afferma Antonio Esposito - F., 20 anni di Roma, F., anche lui dalla capitale di 21 anni, C., 28 anni di Termoli. E sono recentemente entrati in misura provvisoria anche due ragazzi di 18 e 19 anni. Ventitre internati sono in osservazione dal carcere, solo il 25% è qui per un reato grave, il restante per crimini bagatellari. Molti stanno pure tornando in Opg per il fallimento delle licenze esterne d’esperimento. Li mandano in luoghi che a volte sono peggio del manicomio". I dati dell’Osservatorio Nazionale di Antigone ricordano come oggi ci siano 1188 internati che scontano una misura di sicurezza, più di mille in Opg, mentre nella struttura napoletana da giugno 2013 ad oggi ci sono stati 3 suicidi. Nel 2013 i tentativi di suicidio sono stati 8, mentre nel 2012 sono stati 6. "È vero che qui non si usa più la contenzione ed è una vittoria politica di quanti come Antigone si sono spesi in questi anni per il superamento degli Opg - conclude Amato - Ma è del tutto evidente che oltre l’ottanta per cento delle persone oggi chiuse nel manicomio criminale di Secondigliano non dovrebbe stare qui, che non sussiste per loro alcuna pericolosità sociale, che restano qui per l’incapacità di presa in carico della sanità territoriale, che si sono aperti nuovi pericolosi meccanismi di internamento, che oggi gli Opg e domani le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza rispondono ad esigenze contenitive che nulla hanno a che fare con la cura. Agirò d’urgenza perché gli organi deputati del consiglio e della giunta regionale verifichino lo stato dell’assistenza psichiatrica territoriale, perché è lì che bisogna agire". Cagliari: Sdr; in allestimento Centrale Operativa Regionale per trasferimento detenuti Ristretti Orizzonti, 23 aprile 2014 "Importante novità nell’ambito della riorganizzazione del sistema penitenziario. È in fase di allestimento nella Palazzina della Direzione della Casa Circondariale di Cagliari la Centrale Operativa Regionale per le traduzioni e i trasferimenti dei detenuti. Un servizio coordinato dall’apposito ufficio del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria in stretto contatto con quello centrale del Dipartimento che consentirà in ogni momento di garantire al massimo la sicurezza nelle fasi di modifica delle dislocazioni dei cittadini ristretti". Lo ha annunciato stamane Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendo osservare che "la nuova gestione dei trasferimenti potrà anche garantire una maggiore organicità nell’assegnazione dei detenuti nelle strutture penitenziarie e dei piantonamenti". "La realizzazione della Cor - sottolinea Caligaris evidenziando anche il passaggio al Prap degli spazi amministrativi di Buoncammino - risponde a diverse esigenze organizzative del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che a livello nazionale ha istituito la Centrale di coordinamento con compiti di pianificazione, programmazione, coordinamento e controllo. La struttura regionale si avvale di una rete di ponti radio attraverso i quali con un sistema criptato possono essere seguite tutte le operazioni di smistamento e distribuzione dei detenuti nelle diverse fasi della reclusione". "La nuova organizzazione, con l’istituzione dell’Ufficio della Sicurezza e delle Traduzioni di competenza del Provveditorato che dovrà gestire la COR, potrà governare in modo più snello e razionale l’operatività dei Nuclei Traduzioni della Polizia Penitenziaria sia a livello locale che interprovinciale. L’auspicio è che i detenuti possano essere assegnati nei diversi Istituti salvaguardando - conclude la presidente di "Socialismo Diritti Riforme" - la territorialità della pena in modo da favorire il loro reintegro sociale a conclusione del periodo espiazione". Lecce: detenuto tenta il suicidio, è il terzo caso in 4 giorni nel carcere salentino Gazzetta del Mezzogiorno, 23 aprile 2014 Un tentativo di suicidio, il terzo in quattro giorni, si è verificato nel carcere di Lecce dove un detenuto di 24 anni che si trovava nel reparto infermeria ha tentato di impiccarsi con un lenzuolo all’inferriata della finestra del bagno. Il giovane è stato soccorso dalle guardie penitenziarie e le sue condizioni non destano preoccupazione. Lo rende noto la segreteria generale del sindacato di polizia penitenziaria Cosp che sottolinea come nello stesso carcere, il giorno di Pasqua, è scoppiata una rissa tra detenuti che ha portato al ferimento lieve di alcuni agenti. Il giovane detenuto sta scontando pene per reati contro la persona e il patrimonio fino al febbraio 2016. È ora tenuto sotto stratta osservazione. Il Cosp segnala ancora una volta le condizioni di invivibilità da sovraffollamento della struttura leccese che ospita 1200 reclusi rispetto a una capienza di 671. Bolzano: i detenuti "producono" magliette, un progetto dall’associazione Libera Terra di Fabio Zamboni Alto Adige, 23 aprile 2014 Entrare in carcere può essere un’esperienza interessante, se l’uscita è rapida e garantita e soprattutto se il motivo dell’ingresso è legato ad un’esperienza come quella presentata dalla direttrice del penitenziario Anna Rita Nuzzaci. Che ha fatto da guida ai giornalisti in occasione della presentazione di un progetto legato al Festival delle Resistenze: in uno dei percorsi di avvicinamento alla manifestazione, un progetto proposto dall’associazione Libera Terra ha coinvolto il professor Antonino Benincasa della facoltà di Design della Lub e una dozzina di detenuti che ieri hanno mostrato i primi risultati di due mesi di lavoro creativo. I carcerati che si sono proposti per questa iniziativa, stanno realizzando 150 t-shirt serigrafate da loro stessi, magliette che saranno distribuite nelle giornate del festival in cambio di un’offerta libera. Di più: oltre alle magliette, stanno realizzando anche tre manifesti con immagini che simboleggiano il loro passato, il loro presente e il loro futuro, manifesti che verranno esposti al Museion in autunno. La direttrice sottolinea la valenza positiva di queste esperienze: "Il carcere si apre alla realtà esterna in occasione delle visite del Vescovo a Pasqua e Natale, e in occasione di due importanti spettacoli di musica e teatro che ospitiamo. Ma quello che ci preme sottolineare è l’attività creativa che occupa molti dei nostri carcerati. Crediamo nel reinserimento e siamo impegnati in vari progetti: è dimostrato che quelli che partecipano a queste iniziative sono fortemente motivati a reinserirsi nella società. L’arte è sempre liberatoria. Questo "Resistere in assenza di libertà" è un progetto importante, perché i carcerati producono qualcosa che mostrano poi alla società esterna, e questo è gratificante". Dentro il laboratorio, ci sono alcuni dei carcerati-artisti: italiani e stranieri, dentro per vari reati dall’omicidio allo spaccio d’eroina. Storie di varia disperazione a cui non si può dare un’identità. Tutti si impegnano alla stessa maniera, sfoderando un certo orgoglio per quello che stanno facendo: "Prima hanno disegnato su carta la loro idea per decorare la maglietta, poi l’hanno trasferita sul computer - ci spiega il professor Benincasa. Infine con il telaio e i colori ecologici si stampano le t-shirt. Ho trovato una buona creatività, qui dentro. Un giovane islamico, restio all’uso delle immagini per motivi culturali e religiosi, ha lavorato sulla scrittura, un altro ci ha trasferito i simboli del suo precedente lavoro di carpentiere. Vengono fuori le loro storie personali". Il design scelto per le t-shirt è stato deciso a maggioranza dagli stessi carcerati, fra quelli proposti dai singoli. L’immagine scelta, rappresenta un martello che spacca un cuore (il male che prevale sul bene, il reato che li ha portati in carcere, insomma), e due figure, una maschile e una femminile, che si librano in volo di fianco alla scritta "forza, amore , volontà". Sant’Angelo dei Lombardi (Av): i detenuti del "Il germoglio" producono vini pregiati Corriere dell’Irpinia, 23 aprile 2014 Grande interesse per i vini prodotti dai detenuti della Casa di reclusione e per le altre attività come "Le ali di carta". Sempre più alla ribalta nazionale la Cooperativa "Il Germoglio" di Sant’Angelo dei Lombardi, che con le sue molteplici attività sociali è stata oggetto negli ultimi giorni dell’attenzione dei media, dal Tg3 al Corriere del Mezzogiorno per finire al Fatto Quotidiano, che hanno dedicato ampio spazio e rilevanti servizi sui giovani che guidano la cooperativa. In particolare i vini prodotti dai detenuti della Casa di reclusione di Sant’Angelo hanno suscitato grande interesse, come pure il lavoro della tipografia "Le ali di carta", anche questa nata e ubicata nel carcere altirpino. Attività che in occasione del Festival del Volontariato, che si è tenuto di recente a Lucca, hanno meritato il plauso dei vertici politici e istituzionali del nostro paese, dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, al Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, i quali hanno ascoltato con grande attenzione il racconto dell’impegno che Il Germoglio profonde per il recupero sociale dei detenuti. Molti reclusi, infatti, fin dal loro ingresso nella casa di detenzione, vengono selezionati e avviati ad attività lavorative consone alle loro competenze e aspirazioni; tra queste è certamente rilevante la produzione di quattro vini bianchi di qualità: una straordinaria falanghina, la coda di volpe, un buon fiano e il greco di tufo, ricavati tutti da rinomati vitigni locali e commercializzati in tutt’Italia con l’etichetta "Il Galeotto", anche questa ideata dai detenuti. A questa produzione si è interessato finanche il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che si è fatto ritrarre con in mano una di queste bottiglie, al fianco di Fiorenzo Vespasiano che gli ha illustrato le fasi della produzione che si svolgono interamente tra le mura del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. Per completare l’iter produzione-vendita, a breve la Cooperativa II Germoglio inaugurerà una cantina sociale a cui è stato dato il nome assai evocativo di "Al fresco di cantina". Un evento al quale interverranno autorevoli esponenti del mondo politico. Altra attività carica di significato è la tipografia "Le ali di carta" che, oltre ad essere aperta alle commesse che arrivano dall’esterno, si occupa anche della stampa di tutto il materiale cartaceo del Ministero di Giustizia. Lavoro che mostra molteplici aspetti positivi, che Antonello Caporale del Fatto Quotidiano ha definito "un ottimo affare" nel suo ampio reportage sulla struttura penitenziaria santangiolese: "Lo Stato ottiene un prezzo imbattibile, i detenuti hanno di che lavorare, maturano ferie e contributi, raccolgono in carcere quel po’ che e indispensabile per far fronte al futuro incerto, quando la libertà riscattata dovrà fare i conti con la società, la famiglia, il lavoro vero". Del resto lo scopo fondamentale della fattoria sociale è il reinserimento lavorativo dei detenuti anche attraverso la produzione del vino. Un’autentica mission che ha consentito alla cooperativa sociale di raggiungere e tagliare prestigiosi traguardi nel panorama dell’impegno sociale. "E per meglio proseguire lungo questa strada, certamente non priva di sacrifici - dice Marco Luongo, presidente de il Germoglio - abbiamo lanciato una campagna di fund-raising così da recuperare delle risorse da reinvestire per lo sviluppo delle nostre finalità sociali alle quali ci stiamo dedicando ormai da sette anni. Teramo: iniziativa dei Radicali; Brucchi in carcere da medico visita gratis una detenuta Il Centro, 23 aprile 2014 Di Nanna sollecita altri medici a fornire assistenza ai carcerati per migliorare le loro condizioni di vita. Una long list di medici e personale sanitario che metta a disposizione la sua consulenza per visite specialistiche gratuite ai detenuti. È la richiesta avanzata dagli esponenti radicali teramani ieri mattina nel corso di una iniziativa simbolica al carcere di Castrogno che ha visto il coinvolgimento del sindaco Maurizio Brucchi. Il primo cittadino ha infatti risposto all’invito formulato da Vincenzo Di Nanna e Ariberto Grifoni, del coordinamento abruzzese di Amnistia giustizia, libertà, visitando in qualità di medico una detenuta gratuitamente. "Un gesto che abbiamo chiesto al sindaco anche in qualità di massima autorità sanitaria" spiega Di Nanna, "auspicando che possano aderire altri colleghi per dare un contributo fattivo ad arginare la strage nelle carceri dovuta al sovraffollamento che impone condizioni di degrado disumane". Di Nanna spera che da questa iniziativa simbolica nascano "ulteriori impegni per garantire un’assistenza sanitaria adeguata ai detenuti che al momento viene garantita dal personale sanitario dell’istituto penitenziario con grande abnegazione, ma che non è sufficiente per mancanza di strumenti adeguati e di consulenze specialistiche appropriate. Speriamo che il nostro appello venga raccolto dai professionisti teramani, intanto noi continueremo a portare avanti la nostra battaglia per migliorare le condizioni dell’intera comunità penitenziaria e non solo dei detenuti. Il problema delle condizioni degradanti coinvolge a cascata anche la polizia penitenziaria, il personale amministrativo, medico e la direzione che si confronta quotidianamente con una situazione disumana già sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo". Novara: giornate di "Recupero del patrimonio ambientale", al lavoro squadra di detenuti www.novaratoday.it, 23 aprile 2014 Avviate le giornate di "Recupero del patrimonio ambientale" coordinate da Assa sulla base del protocollo di intesa siglato da Comune di Novara, Magistratura di sorveglianza, Casa circondariale, Uepe Ufficio esecuzioni penali esterne e Assa, la spa del Comune di Novara per i servizi di igiene ambientale. Il progetto che prevede l’impiego di detenuti per la pulizia straordinaria di alcune aree critiche o di maggior fruizione della città. Nella prima uscita, avvenuta la scorsa settimana, i detenuti della Casa circondariale di Novara hanno ripulito l’area spettacoli viaggianti in Zona Agogna, dietro al Bocciodromo di viale Kennedy, raccogliendo un grosso quantitativo di rifiuti urbani, ingombranti e pneumatici che erano stati abusivamente abbandonati nell’incolto e provvedendo anche a decespugliare parte del verde. Bergamo: concessi i domiciliari al 74enne incarcerato per un reato commesso 24 anni fa Il Giorno, 23 aprile 2014 Ad annunciarlo è stato Marco Tropea, legale del settantenne, precisando che il magistrato di sorveglianza ha concesso all’uomo i domiciliari per motivi di salute. L’avvocato si era attivato anche per chiedere la grazia al Presidente della Repubblica. È uscito questo pomeriggio dal carcere di Bergamo il pensionato bergamasco di 74 anni, arrestato circa un mese fa per scontare una sentenza legata ad un reato di droga commesso nel 1990. Ad annunciarlo è stato Marco Tropea, legale del settantenne, precisando che il magistrato di sorveglianza ha concesso all’uomo i domiciliari per motivi di salute. L’avvocato si era attivato anche per chiedere la grazia al Presidente della Repubblica. Il pensionato, ex artigiano, nel 1990 era stato arrestato per aver venduto dosi di cocaina. Era stato processato una prima volta nel 1993 e tra un grado e l’altro, la sentenza definitiva era arrivata il 14 marzo scorso con la Cassazione: condanna a 7 anni e 8 mesi, che, scontati dell’indulto e dei 22 giorni già passati in carcere 24 anni fa, diventavano appunto 4 anni, 7 mesi e 7 giorni. Genova: torna in Italia Bartolomeo Gagliano, evaso da permesso premio a dicembre www.crimeblog.it, 23 aprile 2014 Tornerà oggi in Italia, dopo pochi mesi di permanenza in Francia, il serial killer Bartolomeo Gagliano, il 55enne fuggito da Genova nel dicembre scorso dopo un permesso premio e arrestato una manciata di ore dopo a Mentone, piccolo comune nell’area francese delle Alpi Marittime. L’uomo, in passato condannato per omicidio, si trovava in carcere per estorsione dall’agosto 2006, quando fu arrestato appena una settimana dopo esser stato rilasciato grazie all’indulto mentre stava scontando una condanna per rapina. Tre omicidi alle spalle e diverse fughe, eppure nulla aveva impedito a Gagliano di godere di un nuovo permesso premio e di darsi alla fuga per l’ennesima volta. Il killer era stato arrestato e condotto in carcere in Francia. Lì, il 23 dicembre scorso, è stato condannato a 10 mesi di carcere senza condizionale per violazione delle norme sulle armi e falsificazione di documenti, reati che Gagliano avrebbe commesso in territorio francese. Ora, come anticipato nei mesi scorsi, la Francia ha concesso l’estradizione e il criminale sarà rimandato oggi in Italia. Alle 12, lo fanno sapere fonti locali, Bartolomeo Gagliano sarà consegnato alle autorità italiane e tornerà dietro le sbarre per terminare di scontare ciò che resta della sua condanna. L'Aquila: si ammalò di legionella, agente penitenziario chiede 900mila euro al Ministero www.abruzzoweb.it, 23 aprile 2014 È rimasto invalido dopo aver contratto la legionella e ora chiede 900mila euro di risarcimento danni al Ministero della Giustizia. Protagonista della vicenda un uomo di 55 anni, V.S. dell’Aquila, all’epoca dei fatti agente penitenziario, assistito dagli avvocati Antonello Carbonara e Danilo Iannarelli. L’uomo aveva iniziato a avvertire uno strano malessere, con febbre molto alta tanto da essere ricoverato. A seguito degli esami venne accertato che, probabilmente attraverso l’ingestione di acqua l’uomo aveva contratto la legionella. Il direttore del carcere, come spiega Il Messaggero, aveva allora diramato una nota che vietava l’utilizzo di acqua. A quel punto si corse ai ripari fino a che la Asl non si assicurò che il pericolo fosse rientrato. Ma l’agente presentò una denuncia per accertare eventuali responsabilità, ma l’indagine si chiuse con un nulla di fatto. Solo dopo il responso che ha attestato per lui l’invalidità all’80 per cento a causa dei problemi cardiaci scaturiti dalla malattia, e il conseguente termine del servizio, la decisione di intraprendere una nuova causa e la richiesta del maxirisarcimento. Trapani: la Polizia penitenziaria rinviene e sequestra della marijuana durante i colloqui Ristretti Orizzonti, 23 aprile 2014 In data 17 aprile u.s. la Polizia Penitenziaria della Casa circondariale di trapani, ha sventato un ennesimo tentativo di introduzione in carcere di sostanza stupefacente, grazie alla intensificazione dei controlli sui familiari, che accedono in istituto a fare colloqui con i detenuti, disposta dal Comandante Commissario Giuseppe Romano, e grazie al cane Quter del gruppo cinofili della Polizia Penitenziaria è stata scoperta della marijuana abilmente celata all’interno delle mutande di un ragazzo che si apprestava ad entrare nella sala colloqui, con la probabile intenzione di cederla al familiare detenuto. Spesso accade che familiari di detenuti tentino di introdurre, attraverso il momento dei colloqui, ovvero l’unico momento in cui può avvenire il contatto fisico tra familiare e detenuto, piccole dosi di sostanze stupefacenti, con mille artifizi e sotterfugi. ed è proprio in questi momenti che prevale la professionalità del poliziotto penitenziario che ha il compito di scoprire le modiche quantità di droga che una volta all’interno dell’istituto potrebbero creare problemi di ordine e sicurezza o essere usate come merce di scambio per altri prodotti o "favori". dispiace constatare che alcuni detenuti facendo rischiare la denuncia o l’arresto ai propri familiari, usino i loro cari come una sorta di cavallo di troia, ed è riprovevole che questi si prestino a fare da pusher; ma ciò che più delude (in questo momento storico per l’amministrazione penitenziaria che è protesa ad applicare quanto dettato dalla sentenza "Torreggiani" ovvero più ore di "libero movimento" all’interno dei reparti) è la consapevolezza che non tutti i detenuti apprezzano quanto di buono sta facendo l’amministrazione penitenziaria nei loro confronti adottando comportamenti che cercano di prendersi gioco delle istituzioni. Catania: condannato il "corriere della droga" del carcere di piazza Lanza, un agente di Laura Distefano www.livesicilia.it, 23 aprile 2014 Cocaina e marijuana. Nelle tasche dell’agente di polizia penitenziaria Antonio Raineri i colleghi e i carabinieri la sera del 3 novembre 2012 trovarono diverse dosi di stupefacente oltre a beni (vietati in carcere) destinati ai detenuti. Non ebbe scampo l’agente penitenziario quella notte: gli investigatori in accordo con la procura avevano pianificato una vera e propria trappola. Era ben conosciuto nella casa circondariale di Piazza Lanza, Antonio Raineri, condannato dalla Terza sezione penale del Tribunale di Catania, presieduta dal Giudice Rosa Anna Castagnola, a tre anni e quattro mesi per aver svolto il ruolo di "corriere" per conto dei detenuti. Tutto dietro un corrispettivo di denaro, come dimostrato anche da un pedinamento svolto poche ore prima dell’arresto del 45enne. L’indagine, condotta dai carabinieri con il pieno supporto della polizia penitenziaria, prese avvio da informazioni acquisite attraverso confidenti o lettere "della possibile introduzione - si legge nelle motivazioni della sentenza - da parte di Raineri di merci di uso vietato all’interno della struttura sin dal 2009." A indirizzare i sospetti che si trattasse proprio dell’imputato un piccolo particolare: le confidenze parlavano di un agente inteso "il carrapipano", con cui si indicano gli abitanti di Valguarnera Caropepe in provincia di Enna. Stesso luogo di residenza dell’assistente di Polizia Penitenziaria, che venne sottoposto ad uno "stringente controllo". Raineri fu pedinato da quando uscì di casa, la sera del 3 novembre 2012, fino a quando non prese servizio a Piazza Lanza. L’agente non andò direttamente al posto di lavoro, ma prima fece due fermate. Le soste furono monitorate dai carabinieri che in fase di dibattimento hanno raccontato ai giudici di aver visto l’imputato fermarsi ben due volte in Corso Indipendenza. Nella seconda sosta, "all’interno del parcheggio di un condominio" dove prima è arrivato un uomo a bordo di uno scooter, Honda SH, "che si è fermato a parlare con il Raineri". "Il soggetto alla guida dello scooter - scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza - estraeva una busta, un sacchetto del tipo di quelli utilizzati per la spesa di colore verde e lo consegnava al Raineri. Successivamente lo stesso individuo a bordo dello scooter SH prendeva dalla tasca delle banconote, le contava e le consegnava all’imputato. Dopo pochi minuti giungeva un secondo soggetto a bordo di altro scooter che si fermava anch’egli a parlare con il Raineri e l’altro individuo". Intorno alle 22, nel reparto Simeto prima della conta notturna, l’agente è stato accompagnato nell’ufficio del comandante: alla domanda "hai capito perché siamo qui?" l’agente ha tirato fuori, spontaneamente, dalle tasche della mimetica diversi pacchetti chiusi con dello scotch marrone (lo stesso che i carabinieri hanno trovato nella sua macchina durante la perquisizione). A quel punto Raineri è stato arrestato e in fase di interrogatorio di garanzia al Gip "ammise" le sue responsabilità, "adducendo tutto ad un pagamento di debiti". Versione, però, completamente ribaltata durante il processo, dove ha parlato invece di un "comportamento dovuto ad alcune minacce subite". All’interno degli involucri sequestrati sono stati trovati, come ben elencato nelle motivazioni: "bevande alcoliche, confezioni di cartine per sigarette, spazzole per capelli, profumi, chiavette di archiviazione di massa Usb e, in particolare, due pacchetti: uno contenente della polvere di colore bianca accertata essere cocaina per circa 6 grammi, ed un altro chiuso sempre con nastro adesivo marrone contenente sostanza stupefacente del tipo marijuana per un peso di circa 20 grammi. Nel suo portafoglio i militari e gli agenti penitenziari hanno trovato, oltre a 460 euro in contanti, un pizzino con scritto "sono un amico di Angelo ci possiamo vedere e le da il tutto, dopodiché il giorno dopo dai risposta". Messaggi simili sono stati trovati anche nel suo armadietto "Caro Andrea, ... mi devi mandare un po’ di cosa e un po’ di coso, ok. Eventualmente anticipali tu 250,00 € e ti faremo il vaglia. Mandami risposta con lui stesso capito, o un telegramma ...ciao fratello". Pizzini che hanno condotto i giudici ad una sentenza di condanna e al convincimento che quanto accaduto non fosse un fatto "estemporaneo ed occasionale, lo si deduce dalla chiara lettura delle lettere trovate nell’armadietto del Raineri - si legge nelle motivazioni - lettere in cui detenuti non meglio identificati, commissionavano proprio la consegna del "coso" (chiara allusione al fumo) o della cosa (la cocaina)". Se fosse stato un caso isolato, dopo l’arresto poi i detenuti durante l’ora "del passeggio" non avrebbero commentato con gli agenti "finalmente ci siete riusciti a togliere il corriere...". Nel corso del dibattimento che si è svolto tra il 2013 e il 2014, con sentenza lo scorso febbraio, si sono susseguiti diversi testi. Dal comandante di Polizia Penitenziaria di Piazza Lanza, ai Carabinieri che hanno effettuato il pedinamento e la perquisizione di Ranieri. L’ultimo a salire sul banco degli interrogatori è stato l’imputato che - come detto - ha ribaltato completamente quanto affermato in sede di interrogatorio di garanzia. Il processo è terminato con la richiesta di pena del pm a 3 anni e sei mesi per droga, mentre i difensori si sono rivolti al Tribunale chiedendo "l’assoluzione dell’assistito", incentrando sulla l’arringa sulla "mancanza di consapevolezza da parte dell’imputato circa il fatto che taluni degli involucri sequestratigli contenessero sostanza stupefacente". Per i giudici la condotta e l’apparato probatorio contenuto negli atti costituiscono il fondamento per la contestazione dei reati contestati a Raineri dall’accusa e cioè del "reato di detenzione a fine di cessione a terzi di sostanza stupefacente, sia del delitto di corruzione, del quale ultimo sussistono - si legge ancora nelle motivazioni - i presupposti tanto soggettivi, della sussistenza della qualifica di pubblico ufficiale, quanto materiali, ovverossia ricezione di una somma di denaro, prezzo per il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, quale l’ingresso all’interno del carcere di beni vietati e addirittura di sostanze stupefacenti di natura illecita". Antonio Raineri è stato condannato a tre anni e quattro mesi di detenzione, a cinque anni di interdizione dai pubblici offici. La Terza sezione penale del Tribunale ha disposto la confisca della somma sequestrata il 3 novembre 2012 e della sostanza stupefacente. Per la droga i giudici hanno "ordinato la distruzione". Roma: nel carcere di Rebibbia parte "CO2", laboratorio musicale di Franco Mussida di Roberta Scorranese Corriere della Sera, 23 aprile 2014 Ci sono luoghi dove i sensi rischiano di congelarsi. Laghi ghiacciati di parole (non dette). Sono le carceri, frigoriferi delle emozioni. Proprio in questi luoghi dove le atrofie sentimentali sono una minaccia costante, Franco Mussida ha scelto di portare la Musica. "Con la M maiuscola, mi raccomando, perché qui parliamo di una concezione più profonda dell’ascolto - racconta il musicista- scultore, che spiega: l’idea è venuta a me e a Gino Paoli anni fa, quando ci siamo detti: perché in carcere ci sono le biblioteche e non le audio-teche?". Ecco allora il progetto CO2 (nome mutuato da uno degli elementi indispensabili per respirare): laboratori musicali in quattro istituti di pena italiani, Monza, Opera, Rebibbia femminile e Secondigliano. Oggi a Rebibbia l’avvio ufficiale di questa sperimentazione (nella foto), con l’intervento dello stesso musicista, di Gino Paoli e Gaetano Blandini, presidente e direttore generale della Siae (istituzione che ha promosso il progetto, insieme al ministero di Grazia e giustizia e a Luigi Pagano, vicecapo vicario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Respirare, si diceva. Anche quando a volte il presente soffoca. "Le audio-teche - spiega Mussida - funzioneranno come laboratori con duplice scopo: da una parte far conoscere ai detenuti la Musica, ovvero quel potere capace di far emergere gli stati d’animo. E dall’altra, analizzare proprio il loro sentire, andare a fondo". Come? Prendendo le mosse dall’interessante libro che Mussida ha pubblicato per Skira, La musica ignorata. In particolare, nell’ultima parte, l’artista ha analizzato Il racconto della principessa indiana, un raga (antica struttura musicale dell’India) di quasi duemila anni fa. Da questo ascolto (lui parla di "osservazione della Musica") si risale a un moto dell’animo, a una condizione emozionale. "Per tre anni, ogni giorno ciascuno di loro avrà accesso a una speciale audio-teca - dice Mussida - divisa non solo per generi musicali, ma per grandi stati d’animo. I detenuti potranno accedervi direttamente selezionando lo stato d’animo che vivono in quel momento o quello che desiderano evocare, scegliendo il genere che desiderano: dalla classica al rock passando per il jazz. Il resto lo farà la Musica". Accanto, la compilazione di uno speciale questionario, che lega i brani a nove stati d’animo, dalla gioia all’inquietudine. I suoni si associano così a modi di sentire personali. Già, la "Musica creatrice", chiamata a rivestire un ruolo che va oltre l’intrattenimento. In fondo, il lavoro che ha impegnato Mussida negli ultimi anni (con le sue ormai famose "stazioni d’ascolto"). La speranza? "Che il progetto possa allargarsi. E aiutare sempre più persone". India: i sikh d’Italia scendono in piazza per chiedere la liberazione dei marò di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 23 aprile 2014 C’è un tam tam che nei giorni scorsi è riecheggiato per tutta l’Italia, ovunque sia presente una comunità di immigrati indiani. Dal Veneto a Milano, all’Emilia e giù fino a Latina gli uomini col turbante abituati a pregare Shiva e Visnù hanno fatto sentire la loro voce per chiedere al paese d’origine la liberazione di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò trattenuti in India dal febbraio 2012. Un gesto eclatante e non scontato, visto che la vicenda dei due marò in India è oggetto di un virulento scontro politico oltre che fonte di attriti diplomatici tra Roma e Nuova Delhi. E loro, gli immigrati divenuti braccianti, addetti alla cura del bestiame nella stalle della Pianura padana, domestici delle belle case di città hanno messo la loro faccia per protestare contro la madrepatria. Sorprende l’uscita allo scoperto da parte delle comunità indiane, sorprendono le dimensioni che la campagna ha assunto, andando in crescendo con il classico effetto valanga. I primi echi risalgono alla fine di marzo quando a Milano viene organizzata una manifestazione pubblica a sostengo di Latorre e Girone: c’è una raccolta di firme, un presidio di piazza Fontana quando a sorpresa compare una folta delegazione (circa 300 persone) degli indiani residenti a Milano. Portano una lettera indirizzata al sindaco Giuliano Pisapia con in calce 5 mila firme di loro connazionali residenti in città in cui si chiede il rilascio dei militari italiani. Negli stessi giorni in provincia di Verona centinaia di fedeli sikh che lavorano nelle campagne della zona si uniscono a una manifestazione a favore dei marò. "Il governo indiano faccia chiarezza sulla vicenda" chiedono come un sol uomo. È solo l’inizio. A metà aprile, in coincidenza con una serie di festività religiose indiane, le iniziative si moltiplicano e crescono di dimensione. A Pessina Cremonese, dove sorge il più grande tempio sikh d’Europa, gli immigrati indiani organizzano una petizione rivolta al governo del loro Paese sempre per ottenere il ritorno a casa dei marò; la sottoscrizione sfonda in breve quota 10 mila adesioni e la foto di Girone e Latorre viene portata in processione assieme alle statue delle divinità indiane. L’apoteosi arriva sabato scorso, quando a scendere in piazza è la comunità di Brescia, una delle più numerose di tutta Italia. I sari dorati delle donne, i turbanti degli uomini, i petali lanciati dal cielo con un elicottero formano un serpentone immenso e coloratissimo di ben 20 mila persone che sfilano dietro uno striscione con la scritta "I marò subito a casa". "Riteniamo che il trattamento riservato a due soldati sia ingiusto - dichiara Kolovinder Singh, portavoce degli indiani di Brescia - indipendentemente dalla loro nazionalità. Se hanno commesso dei reati siano processati, ma non in quel modo e soprattutto senza tenerli separati dalle loro famiglie". Facciamo notare a Singh che a Nuova Delhi le autorità la pensano diversamente e che anzi c’è chi ritiene sia stato usato un trattamento di favore per due accusati di duplice omicidio... "Laggiù c’è di mezzo la politica, la vicenda dei marò viene usata per scopi propagandistici specialmente dagli estremisti indù. Ma noi siamo sikh e l’85% dei morti per l’indipendenza indiana erano nostri fratelli". Stati Uniti: eseguita in Missouri la condanna a morte di 57enne condannato per omicidio La Presse, 23 aprile 2014 Le autorità del Missouri hanno eseguito la pena di morte nei confronti di un uomo condannato per aver ucciso una coppia di agricoltori nel 1993. Il 57enne William Rousan è stato pronunciato morto alle 00.10 ora locale nel carcere di Bonne Terre, situato a pochi chilometri dalla fattoria in cui fu commesso il reato. Secondo la procura, Rousan, il figlio 16enne Brent e il fratello Robert uccisero Charlie e Grace Lewis perché volevano rubare alla coppia due mucche. Brent Rousan sta scontando l’ergastolo senza la possibilità di libertà condizionata, mentre Robert Rousan aveva scontato una condanna a sette anni dopo essersi dichiarato colpevole di omicidio di secondo grado. Ieri sera il governatore del Missouri, Jay Nixon, aveva respinto la richiesta di clemenza avanzata da Rouson e la Corte suprema Usa ha negato di rinviare l’esecuzione. Si è trattato della sesta esecuzione in Missouri in altrettanti mesi. Bahrein: Center for Human Rights denuncia, le Paese quasi 3.000 detenuti politici Ansa, 23 aprile 2014 Sono almeno 2.853 i detenuti per ragioni politiche in Bahrein - il piccolo emirato del Golfo a maggioranza sciita ma governato da una minoranza sunnita - investito anch’esso dall’ondata delle rivolte arabe del 2011, represse anche con l’aiuto militare dell’Arabia Saudita. A fare il punto è il Bahrain Center for Human Rights (Bchr), che riferisce anche della morte, dopo due mesi di coma, di un manifestante ferito dalle forze dell’ordine nel corso di una protesta a febbraio. La vittima - Abdul Aziz Moussa Al-Abbar, 27 anni - sarebbe stato colpito alla testa da un lacrimogeno, oltre che da fucilate a pallini da parte della polizia che sparava contro i manifestanti. Le proteste erano seguito al funerale di una giornalista nel villaggio di Saar. La settimana scorsa, riferisce ancora il Bchr, vi sono stati una cinquantina di arresti, fra cui almeno sette minori, mentre cinque detenuti sono stati rilasciati. Il mese scorso, ricorda l’organizzazione per i diritti umani, è stato condannato a dieci anni di carcere il fotogiornalista Ahmed Humaidan, insignito di numerosi riconoscimenti internazionali. La sentenza sarebbe stata emesso al termine di un processo non equo, e dopo che l’imputato, durante la detenzione, era stato sottoposto a varie forme di tortura, si afferma. Il Bahrain Center for Human Rights è presieduto dal noto attivista Nabeel Rajab, che sta scontando tre anni di carcere, e da Maryam Al-Khawaja, figlia di Abdulhadi Al-Khawaja, condannato all’ergastolo e protagonista di un lungo sciopero della fame in occasione della Formula 1 del 2012. Grecia: Movimento antirazzista Keerfa "nei Cie e nelle carceri la polizia tortura e uccide" di Marco Santopadre www.contropiano.org, 23 aprile 2014 Il movimento antirazzista ellenico Keerfa (Uniti contro il razzismo e la minaccia fascista) e la comunità pakistana greca hanno denunciato pubblicamente nei giorni scorsi che nel centro di detenzioni per immigrati del paese gli internati sono sottoposti a pestaggi quotidiani e addirittura a torture con l’utilizzo di elettrodi ed elettricità. Nel corso di una conferenza stampa realizzata ad Atene uno dei portavoce di Keerfa, Petros Konstantinu, e il presidente della comunità pakistana di Grecia, Javed Aslam, hanno chiesto la chiusura immediata di tutti i centri di detenzione per immigrati che hanno giustamente definito "campi di concentramento". A riprova delle torture inflitte dai sorveglianti agli immigrati Konstantinu e Aslam hanno denunciato il caso di un immigrato pakistano torturato con scariche elettriche quando si rifiuto di firmare un documento che ne prevedeva il "rimpatrio volontario" nel suo paese di provenienza. I due hanno anche informato che ad un altro immigrato le torture inflitte dai carcerieri hanno causato danni permanenti ai genitali e che dopo le torture i responsabili del Cie gli hanno anche rifiutato la necessaria assistenza sanitaria. I due casi di tortura sono già stati regolarmente denunciati nei tribunali ellenici ma la Ong Keerfa ha denunciato la assoluta mancanza di cooperazione da parte della Polizia nonostante che uno dei due immigrati torturati abbia anche identificato gli autori degli abusi. Secondo l’associazione i pestaggi all’interno dei centri di identificazione per immigrati sono all’ordine del giorno e numerose organizzazioni internazionali che si interessano della difesa dei diritti umani - Amnesty Internacional, Human Rights Watch tra le altre - hanno più volte chiesto al governo ellenico una "inchiesta approfondita". Non è l’unica denuncia che in questi giorni alcuni media greci hanno rilanciato a proposito delle violenze degli apparati dello stato ellenico - commissariato per altro dalla troika e dalle istituzioni dell’Ue - nei confronti degli immigrati. Qualche giorno fa Ilia Kareli, un uomo di origine albanese detenuto da qualche tempo nel carcere ellenico di Malandrino ha ucciso a coltellate Ghiorgos Tsironis, un secondino della prigione. Per tutta risposta è stato trasferito nel carcere di Nigrita e dopo qualche giorno è stato trovato morto. L’inchiesta disposta dal Servizio Affari Interni della Polizia Greca ha rivelato - anche grazie alle immagini riprese dalle telecamere del penitenziario - che l’uomo è stato oggetto di una tremenda vendetta da parte delle guardie carcerarie. I video di sorveglianza rivelano che durante la notte dello scorso 27 marzo un gruppo di secondini preleva Kareli dalla sua cella, lo conduce nella cosiddetta "stanza dell’accoglienza" e lo sottopone a un tremendo e lunghissimo pestaggio. Solo dopo quasi 3 ore le guardie carcerarie trascinano il detenuto, seminudo e sanguinante, nella sua cella, dove di lì a poco morirà. Un caso isolato, secondo il governo e le autorità penitenziarie. Uno dei tanti casi di abusi nei confronti dei detenuti - giustificato dalla stampa come reazione, anche se eccessiva, contro un carcerato colpevole di aver ucciso un secondino - finito male e reso pubblico, rispondono altri. Iran: impiccato 19enne, era stato condannato a morte in minore età Aki, 23 aprile 2014 Un 19enne iraniano, Ebrahim Hajati, è stato impiccato nel carcere di Mashad, nel nord-est della Repubblica islamica, perché colpevole di un omicidio commesso quando era ancora minorenne. Lo ha denunciato Iran Human Rights (Ihr), un’Ong che si batte contro la pena di morte, secondo cui l’esecuzione è stata eseguita domenica nel carcere di Vakilabad. Secondo Ihr, Hajati era stato condannato alla pena capitale per aver ucciso durante una lite, quando aveva 16 anni, un ragazzo di tre anni più grande, identificato con il nome di Abdollah. La stessa Ong ha riferito la scorsa settimana che altri tre giovani sono saliti al patibolo per reati commessi quando erano ancora minorenni nel carcere di Bandar Abbas, nel sud della Repubblica islamica. Iran: prigionieri politici picchiati in carcere, deputati chiedono inchiesta Aki, 23 aprile 2014 Sette parlamentari iraniani hanno chiesto l’apertura di un’inchiesta sui pestaggi subiti da alcuni prigionieri politici della sezione 350 della famigerata prigione di Evin, a Teheran. Lo ha riferito l’agenzia d’informazione Irna, secondo cui la decisione è stata presa dai deputati all’indomani di un incontro con i familiari dei detenuti. Nei giorni scorsi alcuni siti d’informazione in lingua farsi basati all’estero hanno denunciato i maltrattamenti subito da alcuni detenuti nel corso di un’ispezione alle celle eseguita dalle guardie carcerarie a Evin. I vertici del penitenziario hanno negato i pestaggi, spiegando che diversi prigionieri si sono feriti alle mani rompendo i vetri delle finestre per protestare contro l’ispezione. Successivamente 74 detenuti del braccio 350 hanno scritto una lettera aperta nella quale hanno denunciato le violenze subite e chiesto alla procura di Teheran di aprire un’inchiesta. Iran: Nessuno Tocchi Caino condanna violenze sui detenuti nel carcere di Evin www.radicali.it, 23 aprile 2014 Nessuno tocchi Caino e il Partito Radicale condannano l’attacco del 17 aprile al carcere iraniano di Evin da parte di agenti del Ministero dell’Intelligence che, insieme a circa cento guardie del penitenziario, hanno infierito sui prigionieri della sezione 350. Almeno 30 di loro hanno riportato gravi ferite durante il pestaggio e 32 sono stati violentemente trasferiti in isolamento. Fra questi, l’avvocato Abdolfattah Soltani; Said Metinpour, attivista per i diritti della minoranza azera; il sindacalista Behnam Ebrahimzadeh e gli oppositori politici Behzad Arabgol e Hootan Dolati. Molti dei detenuti sottoposti ad atti di violenza appartengono all’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (Ompi). Dal 18 aprile nel carcere di Evin è in corso uno sciopero della fame. Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino e Marco Perduca, Rappresentante all'Onu del Partito Radicale hanno dichiarato: "Negli otto mesi di Presidenza di Ruaounai, l’Iran si è distinto non solo per un record di esecuzioni ma anche per una politica criminale nei confronti dei prigionieri politici ed in particolare contro i componenti l’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran". I due esponenti radicali hanno continuato: "La Comunità internazionale apra gli occhi nei confronti di un Presidente salutato da tutti i Governi, in particolare quelli occidentali, come una speranza di cambiamento perché un autentico cambio di regime può esserci solo se si riforma radicalmente il sistema istituzionale basato sul dominio assoluto di una teocrazia anacronistica ed oscurantista che vede ancora nella guida spirituale suprema il fulcro intoccabile ed indiscutibile di un potere assoluto. Occorre sempre più aiutare e sostenere le opposizioni democratiche che in Iran e fuori dall’Iran da decenni lottano per questo autentico cambiamento di regime. L'Italia può fare la sua parte confermando la propria disponibilità ad ospitare un centinaio di mujaidin al momento detenuti nel campo Liberty in Iraq", hanno concluso i Radicali "anche a dimostrazione del sostegno della resistenza, non armata, alle angherie subite malgrado il loro status internazionale di rifugiati". Egitto: noi, prigionieri siriani nelle carceri egiziane L’Unità, 23 aprile 2014 Quella che segue è una lettera di profughi siriani, fuggiti alla guerra e torture in Siria, che si ritrovano trattenuti in un commissariato di polizia in Egitto. "Noi prigionieri del posto di polizia al Rashid ad Alessandria d’Egitto, arrestati il 14 aprile 2014, e a nome di tutti i prigionieri siriani presenti nelle carceri egiziane, chiediamo un corridoio umanitario verso l’Europa. Non siamo delinquenti per meritare di essere messi in carcere, con i nostri bambini e le nostre donne. Solo in questo posto di polizia ci sono 44 i bambini che dal 14 dormono a terra, non hanno pannolini a sufficienza , non mangiano e dormono bene. In vita nostra non siamo mai rimasti senza una doccia per una settimana. Qui le condizioni igieniche sono a dir poco pericolose e i nostri bambini si ammalano giorno dopo giorno. Come ha sofferto l’Europa negli anni del nazifascismo stiamo soffrendo oggi noi. Questo è l’olocausto siriano, molti di noi anche dopo l’uscita dal carcere non potranno rinnovare il loro permesso per restare in Egitto. Non possiamo tornare nella nostra terra perché molte delle persone qui presenti hanno i loro nomi nelle liste nere del regime siriano e quindi un ritorno in Siria significa pena di morte. Non possiamo rinnovare il permesso per restare in Egitto e non possiamo tornare nella nostra terra perché molte delle persone qui presenti hanno i loro nomi nelle liste nere del regime siriano e quindi un ritorno in Siria significa pena di morte. Con noi è presente una persona che sta male e che ha bisogno di cure di lunga durata, perché è stato torturato nelle prigioni siriane. È arrivato il momento che il mondo senta il nostro grido anche noi siamo essere umani e non vogliamo che il mondo si svegli un giorno per commemorare un altro 27 gennaio. Salvateci e salvate le vite dei nostri bambini. Potreste mai accettare che i vostri figli vivano in carcere? Potreste mai accettare che i vostri figli muoiano in mare? Accettereste mai come tomba per i vostri figli il mar mediterraneo? Tante persone prima di noi sono annegate e nonostante siamo consapevoli di questo sappiamo benissimo che se non ci verrà concesso un corridoio umanitario tanti siriani come noi tenteranno la fortuna via mare perché non possiamo perdere più di quello che già abbiamo perso". I prigionieri di al Rashed in rappresentanza di tutti i prigionieri siriani nelle carceri egiziane Medio Oriente: sono 294 i prigionieri gerosolimitani nelle carceri dell’occupazione www.infopal.it, 23 aprile 2014 Il Centro per i diritti dei Prigionieri palestinesi della Gerusalemme occupata ha pubblicato i dati secondo cui il numero di prigionieri gerosolimitani rinchiusi nelle carceri dell’occupazione ammonterebbe a 294. Tra essi si segnalano i 36 condannati all’ergastolo, i 2 che da più di 20 anni si trovano in prigione, i 37 minorenni e le 3 donne. Le statistiche pubblicate dal centro con la collaborazione del Comitato delle famiglie dei prigionieri presentano anche la suddivisione dei detenuti gerosolimitani in base alla zona cittadina di provenienza. Secondo tali dati, l’area dalla quale proviene il maggior numero di prigionieri sarebbe quella di Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa (80 detenuti), cui seguono Issawiya (39), il campo di Shufat- Anata (29), la zona di Sur-Bahir (26), la Città Vecchia (24), l’area del Monte Scopus (17), quella di Kafr Aqab-Qalandya (16), Thawri (12), Bayt Hanina (10), Wadi al-Jawz (9) e Shuafat (3). Chiudono la graduatoria le aree di Bayt Safafa, Sawana e Shaikh Jarrah con due detenuti ciascuna ed il quartiere di Umm Tuba, dal quale proviene un solo prigioniero. I dati rivelano che il decano dei detenuti gerosolimitani risulta essere Samir Abu Na’ma (54 anni), detenuto da 28 anni e condannato all’ergastolo. Il prigioniero di più grande prestigio è però Mohammad Abu Teir, membro anziano di Hamas, che ha passato più di 30 anni nelle carceri dell’occupazione. Il più giovane è invece il quattordicenne Shabal Layth al-Husseyni, condannato a 9 mesi di reclusione. Sempre secondo i dati, la sentenza più pesante è quella decretata contro Wail Kassim, 43 anni, condannato a 35 ergastoli ed in carcere da 12 anni. Il rapporto sottolinea poi il caso del detenuto gerosolimitano Murad Namr (29 anni), condannato a 10 anni di reclusione ed in regime d’isolamento da ben 9 mesi. Si segnala infine la presenza nelle carceri dell’occupazione di 53 prigionieri gerosolimitani ammalati e di due deputati della città santa: Ahmad Attun ed il già citato Mohammad Abu Teir. Egitto: riprende processo a giornalisti al-Jazeera, è la sesta udienza Aki, 23 aprile 2014 Si tiene oggi al Cairo, nel carcere di Tora, la sesta udienza del processo ai giornalisti di al-Jazeera. Lo ha riferito il sito web del quotidiano Daily News Egypt. I reporter sono accusati di aver diffuso notizie false e di aver sostenuto i Fratelli Musulmani, inseriti di recente dal governo egiziano nella lista nera delle organizzazioni terroriste. L’udienza precedente si era tenuta lo scorso 10 aprile. In quell’occasione il giudice aveva negato la libertà su cauzione ai tre giornalisti. Inoltre non aveva ammesso alcune prove video presentate dall’accusa per dimostrare il sostegno dei giornalisti - Peter Greste, Mohamed Fahmy e Baher Mohamed - ai Fratelli Musulmani. Per al-Jazeera le accuse contro i suoi giornalisti sono "assurde e prive di fondamento". La tv satellitare del Qatar è da tempo nel mirino delle autorità egiziane che la accusano di faziosità a favore dei Fratelli Musulmani, movimento sostenuto da Doha. Libia: imminente la liberazione dell’ambasciatore giordano dopo accordo con i rapitori Nova, 23 aprile 2014 L’ambasciatore giordano in Libia, Fauaz al Aitan, rapito la settimana scorsa a Tripoli, potrebbe essere rilasciato in qualsiasi momento. È stato raggiunto, infatti, un accordo tra i sequestratori e le autorità giordane in base al quale il diplomatico sarà liberato in cambio di un detenuto libico, Mohammed al Dersy, accusato di "attività illecite" in territorio giordano. Lo riferisce il quotidiano "Asharq al Awsat". Intanto, una sigla estremista che si fa chiamare "I Giovani del monoteismo" ha rivendicato il rapimento del diplomatico tunisino Mohammed Balsheik trasmettendo un video in rete nel quale chiede alle autorità di Tunisi d’intavolare trattative per la liberazione dell’ostaggio. Chi c’è dietro il rapimento dell’ambasciatore giordano? Nonostante si parli di trattative in stato avanzato tra i mediatori libici e i rapitori dei diplomatici stranieri in Libia "resta il mistero su chi ci sia veramente dietro questi sequestri e in particolare dietro a quello dell’ambasciatore giordano". Secondo quanto si legge in un editoriale apparso oggi sul quotidiano libico "Quryna", "il rapimento di diplomatici in Libia sta terrorizzando le rappresentanze straniere presenti nel paese. Nonostante il governo di Tripoli si sia affrettato ad affermare che gli ambasciatori non hanno lasciato la Libia, ha provocato il terrore l’attacco avvenuto venerdì notte contro l’ambasciata portoghese a Tripoli. Per quanto riguarda i rapitori dei due diplomatici tunisini in Libia sappiamo benissimo che dietro ci sono le famiglie dei libici detenuti in Tunisia". Giordania pronta a liberare detenuto libico Le autorità giordane hanno dato il via libera alla scarcerazione del detenuto libico Mohammed Said al Darsi per scambiarlo con l’ambasciatore giordano in Libia, rapito la scorsa settimana a Tripoli. Secondo quanto rivelano fonti governative giordane all’emittente televisiva "al Jazeera", alcuni capi tribù libici stanno conducendo una mediazione tra le parti per arrivare ad un accordo e sarebbe stata già trovata l’intesa per portare al Darsi, sul cui capo pende una condanna all’ergastolo, dalla Giordania in Libia, in modo da procedere allo scambio entro breve tempo.