Giustizia: verso il processo elettronico, basta udienze lumaca di Paolo Baroni La Stampa, 22 aprile 2014 In Italia un procedimento civile dura in media 1.185 giorni (la media Ue è di 544) e i costi sono aumentati anche del 180% Uno studio di Confartigianato: oltre 5 milioni di pratiche arretrate. Le riforme degli ultimi anni non sono servite a nulla: lo spread della giustizia civile è ancora fuori controllo, a livelli record. Se si guarda alla durata dei processi relativi alle dispute commerciali siamo penultimi in Europa: da noi un procedimento dura infatti 1.185 giorni contro una media europea a fine 2013 di 544. Tre anni e tre mesi contro i 13 mesi di Francia e Germania. Un’enormità. Se in Italia le imprese faticano a crescere, se dall’estero arrivano pochi investimenti, è anche colpa di questo pezzo della nostra giustizia che proprio non funziona. L’ultimo rapporto sulla competitività del World economie forum ci colloca al 49° posto su 148 Paesi, ma l’efficienza del nostro sistema giuridico vale addirittura il 145° posto. Ecco perché dopo quelle del lavoro, del fisco e della pubblica amministrazione, il governo ha messo anche giustizia nella sua agenda delle riforme. Giustizia penale, ma soprattutto civile. Dove Renzi pensa di intervenire allargando a tutto campo il processo elettronico. I tavoli al ministero della Giustizia sono aperti da alcune settimane e il clima, soprattutto con gli avvocati, con l’arrivo del nuovo governo è notevolmente migliorato. Spiega Cosimo Ferri, ex magistrato e ora sottosegretario alla Giustizia: "L’inefficienza della giustizia civile in Italia costituisce uno dei fattori che condizionano la competitività e la capacità di crescita dell’Italia, rendendo talvolta parzialmente inefficaci le riforme realizzate dal Parlamento in differenti materie". Inoltre "l’irragionevole durata dei processi, a seguito di condanne per la legge Pinto, costringe lo Stato a pagare cifre molto rilevanti che non ci possiamo permettere. E soprattutto pesa quanto la burocrazia" nel rallentare la crescita delle nostre imprese. Meno liti, boom dei costi Gli ultimi dati sullo "spread della giustizia civile", elaborati da Confartigianato per uno studio che siamo in grado di anticipare, rivelano che negli ultimi tempi la situazione è lievemente migliorata: al 30 giugno 2013, per effetto di una maggiore produttività degli uffici giudiziari e di una riduzione della litigiosità, la durata media dei processi pendenti davanti alle corti d’appello è infatti scesa del 2,5% rispetto ai 12 mesi precedenti arrivando a 1.025 giorni, quelli pendenti davanti ai tribunali del 6,4% (a 437 giorni), del 2,6% quelli gestiti dai giudici di pace (258 giorni). Peccato che tra il 2005 ed il 2012 la durata di un procedimento civile di cognizione ordinaria, per intenderci il rito standard, sia invece salito del 23,9% passando da 914 a 1.132 giorni. E questo, come denunciava a fine gennaio il Consiglio nazionale forense, nonostante in questi anni si siano succeduti ben 17 interventi legislativi. Che non solo non hanno ridotto i tempi, ma hanno fatto letteralmente esplodere i costi: +55,6% per il primo grado, +119,5% per l’appello e + 182,6% per la Cassazione. Arretrato monstre A pesare è soprattutto l’arretrato, segnala lo studio di Confartigianato, cresciuto a dismisura al ritmo 325 pratiche ogni ora dal 1980 al 2013, sino a toccare 5.257.693 pratiche a metà dello scorso anno. Dal 2009 ad oggi lo stock è sceso del 9,8% ma ovviamente ancora non basta. Basti pensare che mettendo uno davanti all’altro i fascicoli ancora pendenti davanti ai tribunali italiani arriveremmo a 1840 chilometri, ovvero la distanza che separa Roma da Copenaghen. Oggi in Italia per arrivare ad una sentenza di fallimento occorrono in media 2.566 giorni, ovvero 7 anni e 11 giorni, 1.252 per una esecuzione immobiliare, 1.046 giorni per una causa legata alla previdenza, tra 674 e 801 giorni per una causa di lavoro (più del 20% del totale dei processi) a seconda che sia nell’ambito privato o della "PA". Un miliardo di extra-costi "I ritardi del nostro sistema giudiziario determinano enormi costi per cittadini e imprese - commenta il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti -. Si traducono in distorsione della concorrenza, finiscono per incrinare la fiducia nei confronti delle istituzioni, scoraggiano gli investimenti nel nostro Paese. Ma alimentano anche un grave malcostume: l’utilizzo del contenzioso come strumento per sottrarsi ai propri doveri nei confronti dello Stato e degli altri cittadini". Il danno diretto alle nostre imprese prodotto dai ritardi della giustizia, secondo Confartigianato, ammonta a oltre un miliardo di euro: 488 milioni alla voce recupero crediti e 543 milioni sugli attivi delle aziende fallite. Numeri anche questi da vera emergenza. Giustizia: maggiori poteri agli avvocati, la mossa per ridurre l’arretrato di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 aprile 2014 Il tema ritorna spesso nei discorsi di Matteo Renzi, e la scadenza che lui stesso ha fissato per giugno s’avvicina inesorabile. Tuttavia un’idea precisa su come e dove intervenire per arrivare a quel "pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente" annunciato due mesi fa in Parlamento ancora non c’è. E se si chiede ai più stretti collaboratori del premier, rispondono che per adesso tocca ad altre priorità. Di giustizia, insomma, si parlerà in termini concreti fra qualche settimana. A cominciare dal settore amministrativo, dove la modifica dei Tar dovrebbe semplificare l’assegnazione e la conduzione degli appalti. Nel frattempo però il ministro Guardasigilli Andrea Orlando ha pronti dei provvedimenti che aspettano solo il via libera da palazzo Chigi per essere portati all’esame del primo Consiglio dei ministri utile. Il processo civile troppo lento che frena gli investimenti è uno dei settori che più necessitano di rimedi, e il governo ha pronto un testo (che potrebbe diventare decreto legge, visto il carattere di necessità e urgenza della materia) per provare a smaltire l’arretrato costituto dai milioni di fascicoli che ingolfano i tribunali. In sostanza per tutte le cause pendenti (tranne quelle che hanno ad oggetto i diritti indisponibili delle persone, il lavoro, la previdenza e l’assistenza)viene introdotta la possibilità di affidarne la composizione agli avvocati; se c’è l’accordo delle parti, saranno loro a decidere senza l’intervento del giudice. Inoltre viene allargato il ricorso all’arbitrato, anche se resta da sciogliere il nodo di chi avrà il potere di nomina dell’arbitro, che potrebbe essere assegnato al giudice oppure al consiglio dell’ordine. L’altro aspetto trattato dal provvedimento che sta per essere licenziato è l’ampliamento della composizione di conflitti e controversie fuori dall’ambito giudiziario, attraverso una negoziazione assistita e in qualche modo cogestita dagli avvocati delle parti, che però diventerebbe subito esecutiva. Lo snellimento delle procedure, quindi, si accompagnerebbe alla certezza e immediata applicabilità delle soluzioni trovate. Sempre in tema di giustizia civile c’è da rendere effettivo in ogni suo aspetto il processo telematico, anche se non tutti gli uffici giudiziari sono adeguatamente attrezzati. Nel settore penale, invece, e in particolare in quello del contrasto alla criminalità organizzata, ci sono a disposizione del governo le conclusioni di ben due commissioni di studio che hanno lavorato durante il procedente governo; una insediata al ministero della Giustizia, presieduta dal professor Giovanni Fiandaca (oggi candidato del Pd alle elezioni europee) e l’altra a palazzo Chigi guidata dall’ex segretario generale Roberto Garofoli. Di quest’ultima ha fatto parte, tra gli altri, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, che Renzi voleva nella sua squadra come ministro della Giustizia. Saltata la nomina, il magistrato continua a frequentare con una certa assiduità palazzo Chigi, nel tentativo di rimettere in piedi la commissione e tradurre in articoli di legge le proposte già elaborate; l’ultimo incontro con Renzi risale a giovedì 17 aprile. Chi è diventato ministro al posto suo, Andrea Orlando, s’è portato avanti facendo proprie le conclusioni della commissione Fiandaca (che in alcuni punti si sovrappongono a quelle della Garofoli). Così è pronto il disegno di legge che introduce l’auto-riciclaggio. Attualmente viene perseguito solo chi occulta la provenienza delittuosa del denaro altrui, mentre con la nuova norma sarà punito con pene fino a 6 anni di carcere anche chi "avendo commesso un delitto non colposo, sostituisca o trasferisca denaro, beni o altre utilità per finalità imprenditoriali o finanziarie". Nello stesso settore, sono stati definiti gli interventi sui beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni mafiose, ampliando la gamma dei delitti per i quali sarà consentito questo tipo di intervento; al tempo stesso sarà introdotto il cosiddetto "controllo giudiziario" che dovrebbe servire a disinquinare l’azienda dal condizionamento mafioso, continuando a farla funzionare al meglio, prima di arrivare a soluzioni drastiche come il sequestro che spesso ha ricadute negative sull’andamento economico dell’impresa. Maggiori poteri di intervento vengono attribuiti alle commissioni incaricate di gestire gli enti locali sciolti per sospette infiltrazioni mafiose, dando più spazio alla professionalità e alla specializzazione dei componenti. Inoltre nel testo pronto per essere approvato dal governo, si prevede un più ampio utilizzo delle video-conferenze per far partecipare i condannati ai procedimenti per l’esecuzione della pena, in modo da limitare le traduzioni davanti al giudice. Era l’idea con la quale Gratteri conquistò Renzi quando era solo il segretario del Pd, prima di convincersi a proporlo come il ministro che non è diventato. Giustizia: il governo punta sull’efficienza, già pronti auto-riciclaggio e riforma del civile di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2014 Mentre Silvio Berlusconi vuole farne il cuore della sua campagna elettorale, Matteo Renzi aspetta il voto prima di scoprire le carte. È dunque prematuro dire se, e fino che punto, l’ex premier e quello in carica convergeranno sul tema scivoloso della giustizia. Il Def dedica all’argomento una ventina di pagine ma non va molto oltre "titoli" e "dichiarazioni di intenti", soprattutto sui punti politicamente più sensibili. Anzi, il passaggio dal Consiglio dei ministri alle Camere ha visto una serie di aggiustamenti ed errata corrige, cosicché, a seconda dei testi, alcuni di quei punti - conflitto d’interessi, falso in bilancio, corruzione, prescrizione - vanno e vengono dal capitolo "Giustizia" e non si capisce più quale sia il loro grado di priorità. Quel che è certo è che il governo mette al centro della riforma "l’efficienza", riconoscendo che "una giustizia celere, accessibile e che produce esiti di qualità e ragionevolmente prevedibili" ha "un ruolo fondamentale" per il rilancio della crescita e della competitività, anzi è "precondizione" per il buon funzionamento del sistema economico e per la ripresa degli investimenti stranieri. Da questo punto di vista, l’Italia si allinea all’Europa, che già a marzo 2012 ci aveva messo sotto osservazione, insieme ad altri cinque Paesi Ue, per le "particolari problematicità" del sistema giudiziario, con particolare riguardo alla durata dei processi e all’organizzazione del servizio. Ma anche alla corruzione. Tuttavia, tra le prime misure annunciate dal neoministro della Giustizia Andrea Orlando, nessuna riguarderà la riforma della prescrizione o il rafforzamento della legge Severino sull’anti corruzione né il falso in bilancio o il conflitto di interessi. L’ora X della giustizia scatterà a giugno, ma è previsto un "antipasto", fanno sapere a via Arenula, anche piuttosto abbondante: introduzione del reato di auto-riciclaggio, norme contro le infiltrazioni mafiose nell’economia e nei comuni nonché alcune misure simboliche, come una giornata in memoria delle vittime della mafia; nel civile, norme deflative dell’arretrato, in gran parte recuperate dal ddl che l’ex guardasigilli Cancellieri presentò alla Camera il 12 febbraio scorso (due mesi dopo il varo del Consigli o dei ministri) ma congelato dal governo Renzi in vista di una riscrittura frutto di una maggiore "concertazione" con magistrati e avvocati. "Noi siamo pronti, aspettiamo il via libera di Palazzo Chigi" dicono alla Giustizia, segnalando anche l’importanza di una serie di misure per riavviare il reclutamento del personale amministrativo (c’è una vacanza di 8mila unità su mila posti in organico) e per implementare l’informatizzazione degli uffici giudiziari civili, penali, amministrativi, contabili, tributari. Quanto alla riforma della giustizia amministrativa - a cui Renzi ha dato grande rilievo fin dal suo insediamento - "è di competenza della Presidenza del Consiglio", mentre gli altri temi - prescrizione, falso in bilancio, corruzione - vengono minimizzati nel loro impatto sull’efficienza o definiti "feticci", non senza ammettere, però, che su quelli "è chiaro che non c’è una maggioranza coesa". Perciò resta un mistero se e in che termini faranno parte del menù di giugno oppure no. Certo, non manca chi fa notare che punire l’auto-riciclaggio è togliere acqua dal serbatoio della corruzione oppure che agire sull’efficienza del processo significa rendere meno impellente la riforma della prescrizione. Della quale, peraltro, il Def parla rimandando a un testo (in verità erano due, alternativi) messo a punto ad aprile 2013 dalla commissione ministeriale Fiorella, insediata da Severino quanto i tempi della legislatura erano ormai scaduti. Nel frattempo, in Parlamento sono stati presentati vari ddl, ma finora non hanno avuto corsie né privilegiate né ordinarie. Idem sull’auto-riciclaggio e sul falso in bilancio. Poiché giustizia e sicurezza vengono definiti "asset reali per lo sviluppo del Paese", il Def prevede risultati già nel "breve periodo".Ilchecun imperativo categorico nel caso del carcere visto che il 28 maggio scade il termine che ci ha concesso la Corte dì Strasburgo. Tra le azioni prefigurate dal governo c’è anche un potenziamento della politica antimafia, con una serie di interventi sulle misure di prevenzione patrimoniali e di gestione e destinazione dei beni confiscati, anche aziendali. Nel civile, molto dipenderà dall’atteggiamento degli avvocati, con cui Orlando sta ricucendo un difficile rapporto che però rischia di avere ricadute negative sulla piena attuazione della nuova geografia giudiziaria entro il 13 settembre, visto che gli avvocati sono da sempre contrari. Giustizia: stragi e segreto di Stato, abbiamo diritto alla verità di Valter Vecellio L’Unità, 22 aprile 2014 Ha promesso, Matteo Renzi, di desecretare tutto quello che c’è a proposito delle stragi che hanno insanguinato il paese. Speriamo accada, e soprattutto speriamo che ci possa essere qualche elemento, qualche "notizia" per accertare come si sono svolti i fatti, i mandanti, la verità insomma. Il segreto di Stato dovrebbe servire per tutelare gli "interessi supremi da difendere con il segreto di Stato: l’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali; la difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento; l’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e le relazioni con essi; la preparazione e la difesa militare dello Stato"; così almeno il decreto del 2008 a proposito del segreto di Stato; a utile integrazione possiamo aggiungere quanto poi stabilito dalla Corte Costituzionale l’anno successivo: "l’individuazione degli atti, dei fatti, delle notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e che devono rimanere segreti costituisce il risultato di una valutazione ampiamente discrezionale". Tuttavia è pur vero che troppe volte il "segreto di Stato" è stato invocato e apposto non tanto per garantire la sicurezza dello Stato, quanto per impedire di conoscere le malefatte perpetrate. A tutti verrà in mente una serie di segreti di Stato che a tutto sono serviti, meno che a difendere gli interessi supremi del Paese, la Costituzione e le sue istituzioni: che la sicurezza dello Stato sia compromessa dalla conoscenza delle dinamiche del cosiddetto "golpe bianco" degli anni ‘70, lo si può lecitamente dubitare: anche a voler proteggere eventuali fonti, sono ormai trascorsi cinquant’anni. Per quel che riguarda la strage alla stazione di Bologna, si sta parlando di 34 anni fa. Insomma, che non ci siano più zone d’ombra coperte dal segreto di Stato dovrebbe essere elementare diritto di tutti noi. Negli Stati Uniti esiste il Freedom of Information Act (Foia): una normativa che garantisce un controllo democratico sull’azione amministrativa e di governo nel suo complesso. Approvato nel 1966, consente a tutti i cittadini di richiedere l’accesso a documenti o altro materiale conservato dalle agenzie governative, senza necessità di dimostrare un personale e diretto interesse, o anche di fornire alcuna motivazione per la domanda. L’accesso può essere negato nei casi indicati dalla legge, sostanzialmente ristretti a dati particolarmente sensibili sul piano dell’ordine pubblico interno, della sicurezza nazionale e della privacy oppure di natura confidenziale; in questi casi, la decisione è appellabile: attraverso un ricorso amministrativo interno, e nel caso di fronte ad un tribunale. Analoghi Freedom of Information Act sono in vigore in Regno Unito, Svezia, Germania, e in altri paesi europei. Non che il Foia di per sé sia sufficiente a garantire conoscenza e verità, sia pure nel tempo. E su questo ci si tornerà, che la storia è di utile insegnamento e ammonimento per il presente e il futuro. In Italia, su questo terreno siamo molto in ritardo; la cosa andrebbe affermata e inserita nella "categoria" dei diritti umani, e potrebbe contribuire a risvegliare l’anima sfiduciata e rassegnata in cui sembra essere precipitata la democrazia italiana. Nella passata legislatura, i parlamentari radicali presentarono una interrogazione molto semplice, e breve: "Per sapere in quali casi e in quali date nella storia repubblicana sia stato apposto il segreto di Stato e per quali di questi è tuttora valido". Interrogazione rimasta inevasa. Si potrebbe partire da qui, ed è "curiosità" che il presidente Renzi potrebbe facilmente soddisfare: in quanti e quali casi il segreto di Stato è stato apposto, e per quale motivo resta? La risposta a queste domande potrebbe aiutare a fare luce sui tanti misteri di questo Paese, oltre che a corrispondere a un più generale diritto alla conoscenza e alla verità. Giustizia: intervista a Felice Casson (Pd) "la riforma è possibile, grazie all’asse Pd-M5S" di Giacomo Galeazzi La Stampa, 22 aprile 2014 "Ora che è saltato il tappo, si può riformare la giustizia". Felice Casson, ex giudice istruttore e oggi senatore del Pd, è convinto che "adesso, per la prima volta negli ultimi vent’anni, Berlusconi non ha più i numeri per bloccare la riforma del settore". E, "da presidente del Forum giustizia del partito" il Guardasigilli Andrea Orlando "aveva già messo a punto con magistrati e avvocati una serie di provvedimenti indifferibili per intervenire in profondità su temi ben precisi come la lotta alla corruzione e alla criminalità, il falso in bilancio e l’auto-riciclaggio, la modifica della prescrizione e il conflitto d’interessi, i delitti contro l’ambiente, le garanzie per la riservatezza delle persone e delle istituzioni". Insomma "è il momento buono per agire". Ritiene che Renzi riuscirà a mettere mano alla giustizia? "Sì. Vedo un’apertura di credito nuova. Orlando è del tutto fuori dalle logiche berlusconiane, quindi il suo pacchetto di interventi in tutti gli ambiti (penale, civile, amministrativo) potrà trovare anche il sostegno di 5 Stelle, Sel e del centro di Monti e Casini. Alla Commissione Giustizia del Senato sono pronte le misure per accelerare i processi. In Parlamento ci sono i numeri per riformare il codice penale. Ad opporsi è il solito blocco ma non ha più la forza per impedire il cambiamento". Da chi è composto questo blocco anti-riforme? "Lo si è visto per le autorizzazioni a procedere, anche in questa legislatura. Forza Italia, Nuovo Centrodestra di Alfano e Lega si ricompattano quando si discute di corruzione e falso in bilancio. A volte i leghisti sembrano distaccarsi ma poi arrivano ordini superiori e si riallineano. Il fatto politicamente più rilevante, però, è che, sui temi della giustizia, grillini, Sel e Centristi fanno blocco con il Pd. Si è già perso troppo tempo: la macchina della giustizia penale è in uno stato inaccettabile. Servono norme adeguate per fare in modo che il carcere sia previsto solo per le situazioni di allarme sociale. Bisogna depenalizzare situazioni bagatellari, modificare le norme sulla custodia cautelare, prevedere misure alternative al carcere, consentire nella maniera più ampia possibile il lavoro e lo studio alle persone detenute, abrogare la legge Cirielli sulla recidiva oltreché le leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi". E gli "incroci pericolosi" tra politica e magistratura? "Due mesi fa il Senato ha fissato regole chiare per i magistrati che decidono di optare per l’attività politica e sarebbe opportuno che il testo fosse approvato al più presto dalla Camera. Vanno evitate sovrapposizioni: i due piani devono rimanere separati. Da una parte c’è la persona del magistrato che, in quanto cittadino, gode, come ogni altro, dei diritti fondamentali, tra cui quello dell’elettorato passivo, pur con limitazioni territoriali e temporali. Dall’altra parte, occorre garantire, per la magistratura, un’immagine di obiettività, imparzialità, terzietà È giusto prevenire i conflitti che si possono creare nei casi di magistrati passati alla politica". A proposito di magistrati, è d’accordo con il premier sul tetto agli stipendi delle toghe? "Sì, ma bisogna chiarire che non si tratta di un provvedimento contro i magistrati. In Italia ce ne saranno 5-6 in tutto che guadagnano più di 240 mila euro e se gli stipendi previsti per questi ruoli apicali scendessero a 240 o anche a 200 mila euro non ci sarebbe alcun motivo di opporsi". Giustizia: Pannella (Radicali), nelle carceri situazione illegale… il Papa deve conoscerla Ansa 22 aprile 2014 "Oggi alle 12 il Papa intonerà il Regina Coeli, vorremmo che lui sapesse qual è la situazione di illegalità del nostro stato per la situazione della giustizia e delle carceri". Lo ha detto Marco Pannella intervenendo questa mattina da Radio Radicale. "Proprio perché la parola di Papa Francesco ha riaperto il rapporto possibile fra politica, democrazia, coscienza popolare, della giustizia - ha detto Pannella - c’è chi trema e trama dentro e fuori le care istituzioni con sede a Roma. Oggi Papa Francesco ha voluto immaginare un qualcosa e alle 12 intonerà la preghiera Regina Coeli perché probabilmente anche lui sente e comprende che qualcosa non va". "In questo momento si sta determinando una situazione opposta a quella di questi mesi o anni - ha spiegato Pannella - una situazione che ha visto Giovanni Paolo II, che Bergolio si appresta a santificare e siamo molto d’accordo, andare nel carcere Regina Coeli e in Parlamento a chiedere la clemenza, e con Papa Ratzinger una dichiarazione formale del portavoce della Cei per l’amnistia". "Oggi - ha proseguito Pannella - il nostro Presidente della Repubblica, nell’esercizio della sua suprema magistratura in difesa della Costituzione, della legge e della legalità del nostro Paese, ha compiuto un atto straordinario producendo un piccolo meraviglioso saggio del messaggio alle Camere nel quale ha indicato al Parlamento l’obbligo di intervenire per difendere la legge, la legalità non solo italiana ma quella che la giurisdizione europea, la Cedu, aveva proclamato dando un ultimatum allo stato italiano". "Oggi il Presidente della Repubblica è trattato dal presidente del consiglio in modo che lo qualifica - ha dichiarato ancora Pannella - Il presidente del consiglio ha preso posizione contro l’amnistia ed ha eliminato non solo la Bonino, ma anche la ministra Cancellieri che aveva anticipato la parola dello stesso Presidente della Repubblica sull’amnistia come assolutamente necessaria per far scattare quel processo di riforma che la Cedu indica quale premessa essenziale per uscire dalla condizione criminale che dura da trent’anni". "Oggi alle 12 il Papa intonerà il Regina Coeli, vorremmo che lui sapesse tutto ciò e che lo sapessero i detenuti - ha concluso Pannella - ricordando come il 25 aprile due anni fa con il sostegno di molti cappellani penitenziari tenemmo la marcia per l’amnistia per una nuova liberazione, chiediamoci cosa faremo il prossimo 25 aprile". Giustizia: intervista a Cecco Bellosi, delle Brigate Rosse al recupero dei detenuti di Emmanuele Michela Tempi, 22 aprile 2014 La camicia a quadri parla di un’epoca che non c’è più. Va bene tanto per le manifestazioni di piazza degli anni Settanta quanto per la vita di provincia trascorsa in riva al Lario. La faccia stagionata è quella di chi ne ha viste tante nei suoi sessantasei anni di vita, tra volantinaggi fuori dalle fabbriche, corse al confine svizzero e anni dietro le sbarre dei carceri. Ma da quando nel 1992 Francesco Bellosi, detto Cecco, ha lasciato San Vittore, la sua espressione ha trovato qualcosa di nuovo per cui impegnarsi ancora, abbandonando la lotta armata tra le fila di Potere Operaio e dedicando la maturità della sua vita all’accoglienza di tossicodipendenti, persone con problemi di alcol e droga, ex detenuti. Ed è a Olgiasca, sponda est del Lago di Como, che Bellosi ha messo la sua casa. Qui il rigurgito del Lario contro i sassi smussati dalla Breva è il solo rumore che infrange il silenzio di questa piccola penisola. Per il resto è solo verde e pace, la stessa che nel Medioevo portò alcuni monaci a scegliere queste terre come luogo per la loro contemplazione: vi edificarono l’Abbazia di Piona. Ma appena prima che la via tortuosa s’incammini verso il complesso religioso sulla sinistra c’è una strada: la chiamano Malpensata, ma a guardare il concerto di orti e vigneti che circondano lo sterrato si direbbe che chi vi ha costruito una villa settecentesca abbia fatto le scelte giuste. Giuste come la decisione di chi vi ha poi portato, trent’anni fa, la Comunità Il Gabbiano, fondata da un padre somasco, fratel Attilio Tavola, per dare ospitalità ai più disperati. E proprio grazie a un sacerdote Bellosi è arrivato al Gabbiano per scontare gli anni di semilibertà, e ora che ha finito di scontare la sua pena è coordinatore della struttura organizzativa. Tiene insieme le attività delle sei case d’accoglienza che l’opera ha aperto tra le province di Pavia, Lecco e Sondrio. "Qui a Piona ci sono 24 ospiti, con le altre strutture serviamo in tutto 150 persone". E di queste, "circa 60 sono detenuti in misura alternativa. È una delle peculiarità del nostro lavoro: siamo molto attenti ai carcerati. Altre opere fanno più fatica ad ospitarli, perché un detenuto arriva con una logica coatta e non sempre ha voglia di seguire un percorso educativo. Noi, invece, ci siamo detti: perché non provarci?". E ad ascoltare la vita di Bellosi si capisce il perché di quest’occhio di riguardo verso il carcere. Cecco dietro alle sbarre ci è stato per 12 anni, dopo un decennio da militante di Potere Operaio, movimento di sinistra estrema tra i più noti degli Anni di Piombo. "Potere Operaio era diventato la mia vita dal 1969, quando arrivai a Milano per fare l’università. Prima, a Como, ero nelle file dei giovani comunisti: mio padre era socialista, ma io volevo andare più a sinistra di lui". Dopo la Seconda Guerra Mondiale quelli sono stati gli anni più violenti dell’Italia: l’epoca delle stragi di Stato e delle manifestazioni, dei picchetti fuori dalle scuole e delle azioni terroristiche, degli scontri rossi contro neri e dell’eskimo in redazione. Per Bellosi l’ideale era tutto, e ben presto all’attivismo fuori dalle fabbriche affiancò la vita clandestina del terrorista: "Nel 1971 ci fu la svolta del congresso di Roma: a margine di Potere Operaio nacque "Lavoro Illegale", struttura segreta che sosteneva la lotta armata. Eravamo legati ai Gap di Giangiacomo Feltrinelli e per il nord-ovest del paese il punto di riferimento ero io". All’inizio il gruppo si muoveva con azioni terroristiche di intensità "ridotta": assaltavano banche e furgoni portavalori per autofinanziarsi, prendevano di mira sedi locali del Movimento sociale italiano (Msi). Il rogo di Primavalle Nella bocca di Bellosi i racconti scorrono rapidi, offrendo uno spaccato della storia d’Italia di quegli anni. Nel 1970 è lui che aiuta Feltrinelli a scappare in Svizzera: "Essendo Como città di confine eravamo i referenti per chi voleva espatriare". Tra questi l’editore milanese, che abbandonò il paese per darsi alla clandestinità. Quando, dopo la morte, fu ritrovata la sua agenda con i nomi di tanti militanti, gli inquirenti si interrogarono davanti ai numerosi appuntamenti presi con una persona indicata come Cocco Bill. "Era il mio nome in codice", confessa Bellosi, che di quel nome ha voluto tenere una piccola eredità, trasformandolo in Cecco Bill, nickname con cui ora firma le sue mail. Poi arrivò il 1973, e Potere Operaio visse le settimane del rogo di Primavalle: tre militanti che non erano stati ammessi nella cellula di Lavoro Illegale cosparsero di benzina la porta di casa di Mario Mattei, segretario della sezione dell’Msi del quartiere popolare di Roma. Il fuoco travolse tutta l’abitazione, la famiglia Mattei fuggì ma due dei suoi figli rimasero intrappolati dalle fiamme e morirono carbonizzati. "Fu un dramma, e di fatto segnò la fine del movimento: a molti fece impressione pensare che un atto intimidatorio poteva uccidere. E oggi mi fa ancora impressione pensare il perché di quell’azione: Grillo, Lollo e Clavo, i tre militanti incriminati, avevano agito perché erano stati esclusi del ramo terroristico del movimento, quasi a voler dimostrare che invece potevano farne parte". I tre andarono avanti a lungo a dichiararsi innocenti: "Ma prima che iniziasse il processo Grillo e Clavo scapparono all’estero, e ancora una volta fui io ad accompagnarli in Svizzera". Di lì in avanti per Bellosi sarà un camminare sempre più a fondo nella spirale del terrorismo: "Quando Potere Operaio si sciolse, alcuni militanti seguirono Toni Negri e aderirono a Autonomia Operaia. Noi invece ci associammo alle Br". Nel 1977 due compagni vennero arrestati a Parigi assieme ad alcuni membri dell’Olp: Cecco e gli altri capirono che la lotta comunista stava perdendo in maniera inesorabile. "Ma volevamo andare fino in fondo: per questo entrammo nella Colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse. Anche qui seguivamo l’organizzazione logistica delle azioni, controllando il passaggio di armi e persone dalla Svizzera e cercando finanziamenti alle attività armate: ogni 15 giorni assaltavamo una banca". Ma Cecco Bellosi non è soltanto un ex terrorista che fa i conti col suo passato. Da più di vent’anni è tornato libero, e il pane delle sue giornate è diventato l’accoglienza: "Ma non faccio questo lavoro per riscattarmi a livello sociale, semmai per qualcosa di più personale: sarebbe strumentale stare con questa gente perché ho un debito da pagare. Io faccio questo lavoro perché mi piace". Al Gabbiano le attività per gli ospiti si moltiplicano: c’è chi viene mandato a fare lavori di mantenimento del verde nei comuni, si instaurano rapporti lavorativi con alcuni artigiani della zona, ci sono laboratori e orti interni alla casa. "Dietro a ciò vedo una possibilità di cambiamento che ho sperimentato prima di tutto io, su di me. Negli anni Settanta pensavamo di cambiare il mondo per cambiare gli uomini, ma questa idea era sbagliata. Ora sono convinto che se prima di tutto non cambio io, il mondo non cambierà mai". Vogliamo tutto Parole che a Bellosi sono diventate care negli anni trascorsi in carcere. Ne ha girati tanti in quei dieci anni spesi tra le maglie della giustizia: "Fossombrone, Trani, Novara, Cuneo, Nuoro… Erano le galere più dure: più eri fastidioso e più ti mandavano in strutture rigide. Poi gli ultimi anni li ho passati a San Vittore". E dietro alle sbarre ha incontrato qualcosa che mai si sarebbe aspettato di trovare in un mondo tanto complesso: "L’umanità. Ricordo il mio primo giorno di carcere: ero in cella con alcuni contrabbandieri bergamaschi. Sono arrivato e due di loro mi hanno fatto il letto, poi mi hanno preparato un piatto di spaghetti". Per questo quando parla dei carcerati, anche di quelli più violenti, come alcuni protagonisti della mala milanese che ha incontrato di persona, continua a riconoscervi una virtù: l’autenticità. "Tra detenuti si genera un sistema di solidarietà unico. Spesso quando una persona entra in carcere crede di essere persa: si chiude un cancello dietro alle sue spalle e si sente solo. Ma invece non lo sei: tantissime volte puoi trovare persone che ti danno una mano. E questo stupisce chi crede che la galera sia soltanto un luogo per criminali, e non per uomini". Tra gli amici che Bellosi ha aiutato c’è, ad esempio, Rossano Cochis, ex braccio destro di Renato Vallanzasca ai tempi della banda della Comasina, che in carcere ha scontato una pena di 27 anni per omicidio e oggi collabora col Gabbiano. "E nella sede di Calolziocorte ogni domenica viene a fare attività di volontariato lo stesso Vallanzasca". Poi torna a parlare di quella stagione di Piombo, del desiderio impazzito ereditato dal Sessantotto, di quel "Vogliamo tutto" che ha dato il nome a uno dei testi programmatici del periodo, un grido potente e deciso, disperato nel suo affidarsi alla vita politica. E accusa la risposta rigida e inadeguata che secondo lui il sistema offrì: le stragi di Stato, il compromesso storico e la democrazia limitata. Eppure, avverte un senso di colpa, anche se in quell’escalation di violenza non uccise mai nessuno: "Io non sono stato condannato per fatti di sangue, ma sono arrivato alla convinzione che se entri in un’organizzazione che ha come programma la violenza e l’omicidio, non è diverso se uccidi o meno. Le responsabilità giuridiche saranno anche differenti, ma quelle morali sono identiche". E incalza: "Eravamo convinti che il nostro compito fosse quello di prendere in mano la Resistenza tradita. Abbiamo sbagliato, portando fino in fondo il nostro progetto, ma a pagare non siamo stati solo noi". Ma ora che ha pagato il suo debito, Cecco ha trovato un nuovo modo di fare la rivoluzione. Toscana: Università in carcere, alla Dogaia di Prato nuova sezione per i detenuti studenti Adnkronos, 22 aprile 2014 Esperienze di Università in carcere. Rinnovato il protocollo d’intesa tra la Regione Toscana, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Toscana e le Università di Firenze, Pisa e Siena per le attività del "Polo Universitario Penitenziario della Toscana". Il progetto si rivolge ai detenuti nelle carceri della Toscana e offre la possibilità di una formazione universitaria attraverso un sistema specifico di didattica e di assistenza. L’accordo è stato presentato, nei giorni scorsi, alla casa circondariale della Dogaia di Prato, presso la quale è stata aperta anche la nuova sezione universitaria che già ospita dieci detenuti. Sono intervenuti il direttore della casa circondariale di Prato Vincenzo Tedeschi, il rettore dell’Università di Firenze Alberto Tesi, il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, il provveditore regionale per le amministrazioni penitenziarie della Toscana Carmelo Cantone, il presidente del Tribunale di sorveglianza Antonietta Fiorillo, il vice presidente della Regione Toscana. è intervenuto un rappresentante dei detenuti. Complessivamente sono 68 i detenuti che fanno riferimento al Polo Universitario Penitenziario (35 iscritti all’Università di Firenze, 10 a Pisa e 23 a Siena), distribuiti nei corsi di laurea di quasi tutte le aree disciplinari. A livello italiano è l’iniziativa più rilevante per diversi aspetti: estensione, coinvolgimento delle istituzioni, offerta formativa, numero di docenti ed operatori coinvolti, situazioni interessate. Il progetto si estende, infatti, anche a detenuti in alta sicurezza, di sezioni protette e in esecuzione penale esterna. Il Polo Universitario Penitenziario della Toscana è nato nel 2010, con un accordo che ha riunito precedenti intese stipulate singolarmente tra gli atenei, la Regione e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: l’accordo che riguarda l’Università di Firenze risale al 2000, al 2003 quelli per gli atenei di Pisa e Siena. Fino ad oggi, a seguito delle attività del polo penitenziario, si sono laureati presso l’Università di Firenze 24 detenuti. Veneto: Salvini (Ln) fa visita in carcere agli indipendentisti arrestati lo scorso 2 aprile L’Arena, 22 aprile 2014 Visita a "domicilio" per i secessionisti veneti arrestati lo scorso 2 aprile. Oggi, alle 16, l’eurodeputato e segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, andrà in carcere a Montorio per incontrare gli ultimi secessionisti detenuti. Con lui ci sarà anche il compagno all’europarlamento Lorenzo Fontana (entrambi ricandidati insieme al sindaco Flavio Tosi). Salvini si era fin da subito schierato al fianco dei nuovi Serenissimi, promuovendo una affollata manifestazione in piazza dei Signori. Sul palco degli oratori lo stesso Salvini aveva fatto salire i familiari di alcuni degli arrestati. "Quelli che sono ancora in carcere, tra cui delle donne", ha dichiarato ieri Salvini, "vanno liberati subito. Sono cittadini incarcerati per le loro idee da uno Stato che si lascia invadere da migliaia di clandestini. È una vergogna, vado dagli ultimi tenuti in galera e spero proprio che per loro sia il momento della libertà. Poi questo Stato dovrà chiedere scusa alle famiglie cui ha tolto padri e madri e figli". Tra gli indipendentisti ancora dietro le sbarre ci sono infatti la pasionaria toscana, veronese d’adozione, Patrizia Badii (già candidata sindaco per il Comune di Verona sotto l’egida di Veneto Stato) e il compagno Luca Vangelista, originario di Rivoli (Torino). A casa sono rimaste le due figlie della Badii (di cui una minorenne) e una nipote che, dal momento dell’arresto dei genitori, si troverebbero sprovviste di sostentamento e per le quali nel quartiere di Golosine è stata avviata una colletta. Intanto, proprio oggi, a Brescia si deciderà per la scarcerazione della Badii. Oltre alla coppia di Golosine, dietro le sbarre ci sono ancora la veronese (di Villafranca) Elisabetta Adami, Maria Luisa Violati e Marco Ferro (entrambi di Lendinara, Rovigo), Maria Marini di Volpago del Montello (Treviso) e Luigi Faccia di Conselve (Padova). Ai domiciliari ci sono invece ancora Flavio Contini, Tiziano Lanza, Corrado Turco, Stefano Ferrari, Michele Cattaneo ed Erika Pizzo. Intanto, dopo la scarcerazione, il leader veronese del presidio di Soave, Lucio Chiavegato, ha deciso di ritirarsi qualche giorno per "ricaricare le pile", non prima però di lanciare un ringraziamento a tutti gli indipendentisti che gli sono rimasti accanto e un incitamento dalla sua pagina Facebook. "Se qualchedun pensava de metarme la musarola, de metarme da drio le sbare par fanne paura, ga sbajà de bruto. Deso son pì carico de prima, son pì rabià. Viva la Veneta Republica, viva el Veneto Libaro. Ve vojo ben a tuti. Grassie", scrive. Napoli: allarme Opg di Secondigliano; troppi internati, ingressi superiori alle dimissioni di Claudia Procentese Il Mattino, 22 aprile 2014 Sono 24 i nuovi ingressi tra marzo ad aprile nell’ospedale psichiatrico di Secondigliano. Molti i giovani internati, appena ventenni. Gli ultimi due, entrati di recente in misura provvisoria, hanno 18 e 19 anni. Su 97 ristrettì (a fronte di una capienza di 100 posti) soltanto il 20% è recluso per reati gravi come l’omicidio, il restante 80% lo è per crimini bagattellari, come l’oltraggio a pubblico ufficiale. "C’è anche un ragazzo che è dentro perché ballava sulle auto per pubblicare il video su Youtube", racconta Dario Stefano Dell’Aquila, uno dei componenti della commissione regionale, guidata dal consigliere Antonio Amato, che ha ispezionato la struttura sabato scorso. "La fragilità dei servizi territoriali, che hanno difficoltà a gestire un ragazzo con una crisi -spiega Dell’Aquila dell’Osservatorio nazionale sulla detenzione di Antigone, fa sì che il manicomio diventi il contenitore degli scarti che il sistema non riesce a raccogliere. Ma ad interrogarci so noi 3 suicidi in 9 mesi, l’ultimo a febbraio: di certo le condizioni dell’Opg di Secondigliano non sono più da supplizio medievale, ma questo miglioramento non rende meno doloroso vivere in un posto in cui non vi è alcuna relazione terapeutica". Celle in condizioni igieniche precarie, sprovviste di doccia e dove non c’è tv perché manca l’adattamento della presa elettrica. Gli psichiatri sono 4, solo dalle 8 alle 17 nei giorni feriali. "Se succede qualcosa dopo tale orario oppure la domenica - sottolinea Antonio Esposito, il ricercatore che ha partecipato al blitz ispettivo, resta a guardia medica generica". Il timore è che per gestire tali criticità si faccia uso delle celle lisce di isolamento. "Ci hanno detto che queste due celle non vengono utilizzate da mesi - rimarca Esposito, ma non esiste registro ei resti alimentari non deperiti che vi abbiamo trovato fanno pensare ad una presenza di internati recente". Dietro le sbarre storie di sofferenza psichica si intrecciano a percorsi giudiziari paradossali. G., 39 anni, della provincia di Avellino, ex sergente in Kosovo e in Bosnia, caduto in depressione dopo l’ultima missione, è giunto in Opg per una lite in famiglia. Cerca i suoi jeans per poter ritornare a casa. E se la chiusura definitiva degli Opg, prevista per il 2013, poi slittata al primo aprile 2014, è stata ulteriormente prorogata al 2015, quello di Secondigliano continua a riempirsi. "Gli ingressi pareggiano o addirittura superano le dimissioni - afferma Amato. Eppure oltre l’80% degli internati non dovrebbe stare qui, non sussiste per loro alcuna pericolosità sociale, vi restano per l’incapacità di presa in carico della sanità territoriale". Sostitutive degli Opg saranno le Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. In Campania è prevista la realizzazione di 8 Rems, ognuna da 20 posti letto. A Napoli sarà ristrutturata una parte dell’ospedale "Gesù e Maria" con un costo di oltre 3 milioni di euro. "Si rischia di creare mini-opg su scala regionale, sprecando soldi pubblici - denuncia Esposito - Non si interviene, infatti, sulla questione delle misure di sicurezza, sia quelle definitive per chi è riconosciuto incapace di intendere e volere che possono trasformarsi in ergastoli bianchi, sia quelle provvisorie, disposte senza che nemmeno ci sia stato il processo". La Rems al "Gesù e Maria" sorgerà vicino all’ex manicomio di Sant’Eframo e al liceo Genovesi, anch’esso manicomio nel 900, "costruita dall’Asl, che affiderà il servizio gestione pazienti a soggetti privati - chiosa Dell’Aquila - senza superare la logica del manicomio, che vuole l’esigenza di custodia prioritaria a quella di cura". Napoli: un viaggio nella realtà terrificante degli Opg, tra i "residui manicomiali" Otto Pagine, 22 aprile 2014 Duecento quarantaquattro internati, continui nuovi ingressi (24 solo a Napoli tra marzo e aprile), 8 persone recluse da più di vent’anni, tra cui L. di Avellino da 27 anni rinchiuso ad Aversa ed L. da 29 anni tra Aversa e Napoli: circa l’80% di quanti sono in queste strutture non avrebbe più motivo per restarvi. E ancora strutture fatiscenti, condizioni igienico sanitarie precarie, internati che a Napoli sono costretti anche a magiare chiusi in celle sprovviste finanche di un televisore o una doccia, ricorso sistematico alle celle di isolamento, persone che rientrano dopo il fallimento della licenza finale d’esperimento, spesso anche solo per aver rifiutato di assumere la terapia all’interno di strutture neo-manicomiali di cui anche i magistrati chiedono solo l’indirizzo e nulla più. È parte della realtà dei due ospedali psichiatrici giudiziari della Campania che il consigliere regionale del Pd Antonio Amato ha ispezionato nelle ultime settimane con due visite non annunciate realizzate nelle strutture di Secondigliano (sabato scorso) e Aversa (mercoledì 9 aprile). Hanno fatto parte della commissione ispettiva il ricercatore Antonio Esposito (ad Aversa e a Secondigliano), e (a Napoli) Dario Stefano Dell’Aquila componente dell’Osservatorio Nazionale sulla Detenzione di Antigone. "Ci siamo trovati di fronte a contenitori di sofferenza che continuano a riempirsi: a fronte dei progetti di dimissione degli internati in previsione del superamento prorogato al 2015, i perversi meccanismi delle misure di sicurezza e della cosiddetta osservazione psichiatrica restano immutati. Cosi solo a Napoli tra marzo e aprile ci sono stati 24 nuovi ingressi" afferma Amato. "Ognuna delle storie incontrate dimostra l’assoluta inefficacia di un sistema manicomiale infernale, incapace di curare, che colpisce i più’ deboli, oggi molti immigrati e anche ragazzi (abbiamo incontrato anche tanti, troppi ventenni) che dal circuito delle dipendenze e della sofferenza mentale arrivano poi in Opg, anche per piccolissimi reati. La proroga al 2015 difficilmente verrà rispettata e comunque la soluzione individuata, quella delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, non risolverà alcunché, riproporrà su scala ridotta la stessa logica manicomiale e costerà una cifra spropositata". Solo in Campania, infatti, per le 8 Rems da 20 posti ciascuna previste nelle 5 province, tra costi di ristrutturazione e costruzione ex novo è prevista una spesa di oltre 19 milioni di euro". "Innanzitutto, non si inter- viene sulla questione delle misure di sicurezza, sia quelle definitive per persone riconosciute incapaci di intendere e volere che trasformano la certezza della pena nella possibilità di ergastoli bianchi, sia quelle provvisorie, disposte senza che nemmeno ci sia stato il processo, e che poi possono durare anche anni in attesa del dibattimento. C’è poi la seconda questione, quella più importante, quella del sistema territoriale di cura della sofferenza psichica, che, come dimostrano diversi esempi concreti, realizzerebbe una fondamentale opera di prevenzione". Modica (Rg): "Il carcere non deve chiudere", il piazza protesta del Comitato di cittadini Giornale di Sicilia, 22 aprile 2014 "Abbiamo voluto organizzare questo assemblea informativa per chiedere un incontro con il Ministro di Grazia e Giustizia e per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla chiusura delle due strutture che penalizzeranno fortemente il territorio modicano e non solo - dichiara l’avvocato Enzo Galazzo, portavoce del Comitato Pro Tribunale - considerato che, ad oggi, nonostante abbiamo sollecitato le istituzioni tutte ed abbiamo organizzato varie iniziative si sta comunque procedendo alla chiusura di due importanti strutture. Vogliamo percorrere una strada diversa ovvero vogliamo organizzare una manifestazione che coinvolga tutta la cittadinanza dai bambini agli adulti. Sabato prossimo terremo un incontro per stabilire l’organizzazione della manifestazione che molto probabilmente si terrà in piazza Matteotti a Modica. L’obiettivo è quello di rendere consapevole la cittadinanza tutta della grave perdita che subirà il territorio. Vogliamo far capire alla gente, agli studenti e alla Diocesi che tale chiusura colpirà in prima persona la gente meno abbiente. È assai probabile poi che i detenuti attualmente ospitati nel carcere di Piano Gesù siano trasferiti a Palermo poiché il carcere di Ragusa non ha la disponibilità per ospitarli e deve ancora essere oggetto di ristrutturazione". Assemblea del Comitato Pro Tribunale di Modica, ieri mattina, nel piazzale antistante la chiesa di Santa Maria del Gesù adiacente al carcere di Modica Alta, in difesa della chiusura del Tribunale di Modica e della Casa circondariale di Piano Gesù. Presenti i sindaci di Modica, Ignazio Abbate, di Ispica, Piero Rustico, e di Pozzallo, Luigi Ammatuna. Assente per motivi istituzionali il sindaco di Scicli, Franco Susino. Interrogativi sui disagi delle famiglie dei detenuti e del personale penitenziario. "Un disagio non indifferente per i familiari che per mezz’ora di visita si dovranno spostare a Palermo - hanno detto ieri i componenti del Comitato. Dove saranno trasferiti gli attuali agenti della Polizia Penitenziaria ed i dipendenti amministrativi? Tanti i disagi e le chiusure di altre strutture importanti, e già si vocifera pure dell’Agenzia delle Entrate, che porteranno alla desertificazione del territorio. Noi come Comitato lotteremo fino all’ultimo giorno". Cosenza: Corbelli (Diritti Civili); mamma detenuta, figlio di due anni rischia affidamento Ansa, 22 aprile 2014 Dopo quella per il piccolo Cocò e per la sua mamma, una nuova iniziativa di solidarietà del movimento Diritti Civili parte dalle detenute del carcere di Castrovillari. È l’appello lanciato, attraverso Franco Corbelli, a favore di N.M., reclusa nella struttura penitenziaria, e per il suo piccolo di due anni. In una lettera, inviata al leader del movimento, le detenute di Castrovillari, chiedono aiuto per una loro compagna, una ragazza madre, che è stata portata in carcere per scontare una condanna definitiva a tre anni. "La ragazza - è scritto nella missiva - ha dovuto lasciare il suo bambino di due anni nella casa famiglia dove era ospitata. Le suore di questa struttura religiosa vorrebbero adesso affidare il bambino ad un’altra famiglia". Corbelli, che ha reso nota la vicenda, chiede che "questa ragazza-madre, per scontare i tre anni di carcere, venga mandata nella casa famiglia dove si trova il bambino e, soprattutto, non le venga sottratto il suo bimbo. Ancora una volta e come sempre - aggiunge - chiedo solo un atto di giustizia giusta e umana. Questa ragazza, tra l’altro in carcere per un piccolo reato, deve scontare una pena definitiva di tre anni. Perché riportarla e tenerla in carcere, perché, buttarla nella disperazione, togliendole il suo bambino e affidandolo ad una altra famiglia? Mandarla ai domiciliari sarebbe la soluzione più giusta. Significa, come mi scrivono le detenute di Castrovillari, salvare questa ragazza ed evitare una nuova tragedia". Lecce: progetto "Gap", dal design ecologico in carcere al recupero degli ulivi abbandonati Adnkronos, 22 aprile 2014 Il rispetto per la natura può entrare anche in carcere oppure incontrarsi con la tradizione come nel caso del progetto salentino "Gap, la città come galleria d’arte partecipata". Grazie all’iniziativa nel carcere leccese di Borgo San Nicola, i detenuti partecipano al laboratorio "Giardino Radicale", per la trasformazione e riprogettazione degli spazi comuni, utilizzando materiali di riciclo e con l’aiuto di esperti di riuso, registi teatrali e designer. Nell’ambito dello stesso progetto, inoltre, attraverso colture rispettose dell’ambiente si produce olio da ulivi abbandonati, con degustazioni ed eventi "Lampa" di condivisione e incontro per la comunità. Reggio E.: guidò ubriaco e non chiede misura alternativa, va in carcere a scontare 1 mese Ansa, 22 aprile 2014 Condannato ad un mese per guida in stato di ebbrezza, non ha mai presentato istanza per ottenere una pena alternativa, come l’affidamento in prova ai servizi sociali. Così alla fine, è andato in carcere. La storia arriva da Reggio Emilia. L’uomo, oggi 45enne e residente nella provincia, fu sorpreso, il 20 agosto del 2006, a guidare l’auto dopo aver fatto uso smodato di alcol. Fu denunciato per guida in stato d’ebbrezza. L’iter processuale ha visto poi il Tribunale di Reggio Emilia, con sentenza del 23 novembre 2010, condannarlo a un mese di arresto e 1.000 euro di ammenda. La pena è poi diventata definitiva ma l’esecuzione era stata sospesa nell’ottobre del 2013 (come di prassi data l’esiguità della pena) per dare la possibilità al condannato di chiedere misure alternative, come appunto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Istanza che però non è mai stata presentata. Così qualche giorno fa, il 5 aprile, è arrivata la revoca del decreto di sospensione della misura cautelare con conseguente ripristino del provvedimento di carcerazione (emesso dall’Ufficio Esecuzioni Penali della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia). Provvedimento che è stato eseguito dai carabinieri della stazione di Rubiera. L’altra sera l’uomo quindi è stato raggiunto nella sua abitazione dai militari e portato in carcere. Immigrazione: l’abisso della cattiva politica di Gianluigi Pellegrino La Repubblica, 22 aprile 2014 Abissi spaventosi quelli che sa toccare la peggiore politica. Neri e profondi come il mare che troppe volte ha inghiottito i disperati in cerca di asilo, a poche miglia dalle nostre coste. A prenderli sul serio fanno patirà Salvini e Gasparri che urlano "adesso basta soccorsi" ben sapendo di solleticare istinti diffusi in un popolo sempre incline a cercare nemici e per lo più fiaccato dalla crisi che tutti arrabbia e inaridisce. E questa volta ha ragione Angelino Alfano, ministro degli interni, contro il quale muove chiaramente l’offensiva elettorale ma che non insegue su questo irresponsabile terreno gli ex colleghi di partito. Ovviamente cosa del tutto diversa è pretendere che l’Europa non ci lasci soli a difendere una frontiera che è continentale. Ed ancora diverso è proporre misure di prevenzione e solidarietà alternative allo spiegamento di forze della Marina militare. Proposte valide come quelle avanzate sul Mattino da Luigi Manconi che partendo dall’ineluttabilità del crescente fenomeno migratorio, e dalla ormai pacifica preponderanza di chi domanda asilo, chiede di invertire le tappe di quei viaggi disperati collocando nei porti di partenza le verifiche che oggi effettuiamo caoticamente all’esito degli sbarchi. Per poter poi governare con meno spreco di risorse e meno ambasce i trasferimenti. Per non dire ancora del vergognoso stato dei centri di accoglienza ridotti a lager per innocenti. Ma tutto questo, come è persino avvilente dover sottolineare, nulla ha a che fare con il tribale appello a fermare i soccorsi, in buona sostanza a "lasciarli morire". Il punto è che dimentichiamo tutto. Ogni giorno seppellisce il precedente senza una scala di valore. Scordiamo cosi l’immane tragedia di ottobre a pochi metri da Lampedusa, con centinaia di morti stipati in sale motori peggio che in carri bestiame. Tutti allora piangevamo ma molte erano lacrime di coccodrillo che basta una campagna elettorale a spazzare via. Senz’altro si può fare meglio, ma fermare i soccorsi vuol dire nuove sfilate di bar e e nuovi fiori in un mar e di ipocrisia. A quel punto insieme al triste sciabordio delle onde, nelle orecchie ci resterebbe solo l’impietosa e struggente voce di Candice Bergen in Soldato blu davanti al massacro dei Cheyenne: e ora non piangi più, soldato, non reciti poesie? Immigrazione: Mazzoni (Fi); modificare il Regolamento di Dublino sul diritto di asilo Ansa, 22 aprile 2014 "Il salvataggio di 1.219 immigrati in 24 ore sulle nostre coste, molti dei quali provenienti dalla Siria e quindi richiedenti asilo di diritto, dimostra quanto sia urgente e indispensabile modificare il Regolamento di Dublino, e questo deve costituire una delle priorità del governo Renzi nel semestre di presidenza italiana dell’Ue". Lo scrive in una nota il senatore di Forza Italia Riccardo Mazzoni secondo il quale cambiare non sarà facile perché "ben 24 Stati su 28 si sono opposti a ripensare il principio cardine che disciplina la politica europea sul diritto d’asilo, ossia che deve essere richiesto, ed eventualmente concesso, solo nello Stato d’arrivo". Nonostante la fortissima pressione sui paesi mediterranei, "come Italia, Spagna o Grecia" secondo il senatore di Fi "gli stati europei si sono dimostrati indisponibili a modifiche radicali". Per questo "l’Italia deve sostenere la proposta dell’introduzione di quote nazionali: ogni Paese, in base alle sue dimensioni, dovrebbe accogliere un determinato numero di profughi, con una gestione comune del diritto d’asilo". "I salvataggi delle ultime ore - conclude Mazzoni - dimostrano che l’allarme del ministro Alfano sui 60mila disperati pronti a imbarcarsi verso l’Italia non è infondato, e dunque il governo non può rimanere inerme di fronte a un’Europa che sa solo gettare il sasso delle sanzioni e ritirare la mano quando si tratta di assumersi responsabilità comuni". Israele: Mordechai Vanunu, una storia che non vuole cadere nell’oblio di Michele Giorgio Il Manifesto, 22 aprile 2014 Nucleare. Dieci anni fa veniva scarcerato il tecnico nucleare che rivelò al mondo la produzione segreta di bombe atomiche da parte di Israele. Oggi pochi ricordano un eccezionale atto di coraggio compiuto in nome della verità e della non proliferazione in Medio Oriente. Quando Mordechai Vanunu il 21 aprile 2004 lasciò dopo 18 anni la prigione di Shiqma (Ashqelon), 11 dei quali passati in completo isolamento, trovò ad accoglierlo un gruppetto di sostenitori israeliani. "Ghibor, Ghibor" (eroe), gli urlavano. Per il resto di Israele invece Vanunu era soltanto un traditore, colpevole di avere rivelato nel 1986 al settimanale britannico Sunday Times i particolari della produzione militare nucleare nella centrale atomica di Dimona (Neghev). A lui del giudizio della maggioranza degli israeliani non importava più nulla da anni. Camicia bianca, cravatta, valigetta, le dita che facevano il segno della vittoria, Vanunu cullava il progetto di diventare il simbolo della lotta contro l’atomica israeliana e della non proliferazione in Medio Oriente. "Sono orgoglioso di ciò che ho fatto", proclamò ad alta voce. Prima salire a bordo dell’auto che lo avrebbe portato a Gerusalemme, Vanunu salutò con calore l’attrice britannica Susannah York, attivista no-nuke. "Mordechai ha seguito la sua coscienza – disse York al manifesto - ha compreso che doveva rivelare che nel suo paese si producono in segreto ordigni atomici. Tutti i paesi, quelli arabi e Israele, devono rinunciare alle armi di distruzione di massa. Sono qui a salutare il suo ritorno alla vita". Sono passati dieci anni è Mordechai Vanunu non è mai tornato alla vita. Non è ancora riuscito ad ottenere il permesso per lasciare il Paese. Il tecnico nucleare si aggira come un fantasma per le strade della zona araba (est) di Gerusalemme dove vive dal giorno della sua scarcerazione per affermare il rifiuto di tornare in Israele. Raramente capita di vederlo in compagnia di qualcuno. Le restrizioni gli impediscono di rilasciare interviste alla stampa estera: le disposizioni prevedono l’espulsione immediata e permanente dal paese dei giornalisti stranieri che proveranno ad intervistarlo. Ma oggi sono ben pochi i reporter che hanno ancora interesse verso l’uomo che con coraggio, pagando con 18 anni di carcere duro, rivelò nel 1986 la produzione di ordigni atomici da parte di Israele in violazione della legalità internazionale. E con passare degli anni l’ex tecnico della centrale di Dimona nelle strade, tra la folla, diventa sempre più una persona qualunque, uno sconosciuto, pur avendo scritto un capitolo della storia recente del Medio Oriente. Se le autorità israeliane intendevano farlo cadere nell’oblio, poco alla volta stanno raggiungendo l’obiettivo. Si tratta di una vicenda umana e politica eccezionale che riguarda anche l’Italia. Pochi lo ricordano ma Vanunu fu rapito dal Mossad a Roma e riportato in Israele dove è stato processato e condannato per "tradimento". L’Italia, tranne una timida richiesta di spiegazioni presentata a Israele da Bettino Craxi, ha taciuto per quasi 30 anni. Vanunu, ebreo di origine marocchina, prima di formarsi una coscienza politica aveva svolto con diligenza il suo lavoro di tecnico nucleare nella centrale di Dimona, costruita ufficialmente per produrre energia elettrica ma che l’attuale capo dello stato israeliano Shimon Peres, con l’aiuto del padre dell’atomica francese Francis Perrin, trasformò in un centro segreto. Vanunu cominciò a riflettere su ciò che avveniva a Dimona quando venne trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove, secondo i dati raccolti dal tecnico nucleare, sono (o erano) prodotti annualmente una quarantina di chilogrammi di plutonio. Quella e altre scoperte, documentate con fotografie, lo convinsero dell’importanza di rivelare al mondo la produzione di ordigni atomici in Israele. Le sue domande ai diretti superiori da quel momento in poi divennero più incalzanti, i suoi dubbi generavano imbarazzo tra i colleghi. Nel 1985 Vanunu fu costretto a dimettersi per "instabilità psichica" e partì per l’Australia dove poco dopo si sarebbe convertito al Cristianesimo. E proprio dall’Australia per la prima volta si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il quotidiano britannico gli firmò un assegno da 300 mila dollari - mai incassato - ma esitò fino al 5 ottobre a pubblicare il suo racconto. Vanunu, come nel più classico dei film di James Bond, cadde in una trappola preparata da una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, un’agente del Mossad, per la quale perse la testa. Il sequestro non avvenne a Londra ma a Roma dove il tecnico fu attirato da Cindy per un "weekend romantico". Fu riportato in Israele con una nave il 7 ottobre. Vanunu riapparve solo per qualche attimo a Gerusalemme, durante il processo, quando con uno stratagemma - scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula - fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British Airways e di essere stato là rapito. E dove ha ancora desiderio di tornare per fare domande a coloro che in questi 28 anni hanno fatto finta di non sapere nulla. Medio Oriente: Hamas rilascia 6 detenuti di Fatah, in vista riconciliazione Aki, 22 aprile 2014 Il ministero degli Interni del governo di Hamas nella Striscia di Gaza ha annunciato che verranno oggi rilasciati sei detenuti appartenenti al partito rivale di al-Fatah, che con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) controlla la Cisgiordania. Si tratta di un gesto di apertura rispetto ai colloqui previsti per le prossime ore e mirati a mettere in pratica l’accordo sulla riconciliazione palestinese raggiunto nel 2012 al Cairo con la mediazione egiziana. "Non ci sono detenuti politici nelle carceri di Gaza", si legge nel comunicato diffuso dal ministero degli Interni di Hamas, che ha spiegato che i sei esponenti di al-Fatah erano in prigione per motivi di sicurezza.