Giustizia: giornalisti e carceri… cosa dice la deontologia www.luccaindiretta.it, 21 aprile 2014 Il carcere non è necessariamente per sempre. E anche i giornalisti lo devono ricordare. È per questo che la quinta puntata del viaggio nella deontologia giornalistica, ad uso e consumo dei lettori che hanno, ex articolo 21 della Costituzione, il diritto di essere informati correttamente, si occupa della cosiddetta Carta di Milano ovvero, come recita il testo del "Protocollo deontologico per i giornalisti che trattano notizie concernenti carceri, detenuti o ex detenuti" approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti l’11 aprile del 2013. Il concetto di base è, oltre al doveroso rispetto alla verità sostanziale dei fatti già contenuto nella legge istitutiva dell’Ordine, che il diritto di cronaca su fatti e responsabilità può trovare dei limiti se viene in conflitto con i diritti del soggetto di cui si racconta, con particolare attenzione alle finalità di reinserimento sociale sottese alla pena comminata e al diritto all’oblio, vero il diritto di ciascuno di noi ad essere tutelati dalla diffusione di dati su precedenti giudiziari. Questi i dettami della Carta di Milano, secondo cui occorre "Tenere presente che il reinserimento sociale è un passaggio complesso che può avvenire a fine pena oppure gradualmente, come previsto dalle leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi ordinari, i permessi-premio, la semi-libertà, la liberazione anticipata e l’affidamento in prova ai servizi sociali; usare termini appropriati in tutti i casi in cui un detenuto usufruisce di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari evitando di sollevare un ingiustificato allarme sociale e di rendere più difficile un percorso di reinserimento sociale che avviene sotto stretta sorveglianza. Le misure alternative non sono equivalenti alla libertà, ma sono una modalità di esecuzione della pena; fare riferimento puntuale alle leggi che disciplinano il procedimento penale e l’esecuzione della pena e alla legge sull’ordinamento penitenziario (354 del 1975); fornire dati attendibili e aggiornati che permettano una corretta lettura del contesto carcerario; considerare che il cittadino privato della libertà è un interlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi, ma può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze e gli eventuali rischi dell’esposizione attraverso i media". La Carta di Milano chiede inoltre di "tutelare il condannato che sceglie di parlare con i giornalisti, non coinvolgendo inutilmente i suoi familiari, evitando di identificarlo solo con il reato commesso e valorizzando il percorso di reinserimento che sta compiendo; garantire al cittadino privato della libertà di cui si sono occupate le cronache la stessa completezza di informazione qualora sia prosciolto; tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio, usare termini appropriati nel definire il personale addetto alle carceri". Giustizia: Circolare Dap su "Antigone", due interrogazioni parlamentari da Pd e Sel Ristretti Orizzonti, 21 aprile 2014 Interrogazione a risposta in Commissione, presentata dall’On. Paolo Beni (Pd) Al Ministro della Giustizia. Per sapere, premesso che: Lo scorso 25 marzo è stata trasmessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ai direttori generali degli istituti penitenziari una nota avente ad oggetto la richiesta dati da parte dell’Associazione Antigone; in particolare, la nota prevede che le richieste di dati e informazioni sugli istituti penitenziari formulate dall’Associazione Antigone dovranno essere indirizzate direttamente al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al fine di evitare incoerenze pregiudizievoli all’immagine esterna dell’Amministrazione; l’Associazione Antigone, che dal 1998 è autorizzata a svolgere attività di ricerca, osservazione e narrazione pubblica delle condizioni carcerarie, ha tenuto a precisare come tale decisione possa rappresentare un inspiegabile passo indietro che si tradurrà in ritardi nell’assunzione delle informazioni di rilevanza pubblica e in una burocratizzazione del rapporto tra la società civile e l’organizzazione penitenziaria; da sempre l’Associazione opera con trasparenza e nel pieno rispetto della sicurezza e della privacy dei dati e delle informazioni ricevute per informare l’opinione pubblica sulle condizioni di vita nelle carceri, pertanto risulta incomprensibile la motivazione riportata nella nota del Dipartimento in ordine all’immagine esterna dell’Amministrazione Penitenziaria -: se non ritenga opportuno rivedere i contenuti della nota trasmessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al fine di consentire all’Associazione Antigone di poter raccogliere dati e informazioni con le stesse procedure finora seguite. Interrogazione a risposta scritta, di Daniele Farina, Sannicandro, Migliore, Di Salvo, Boccadutri, Ferrara, Fratoianni, Costantino, Melilla, Nicchi, Paglia, Pannarale, Piazzoni, Scotto, Coccia e Zaccagnini. Al Ministro della giustizia. Premesso che: in data 25 marzo 2014, il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) avrebbe dato indicazione, con una nota indirizzata ai provveditorati regionali, nonché ai direttori degli istituti di pena, di non fornire dati e informazioni agli osservatori dell’associazione Antigone, seppur regolarmente autorizzati ad entrare nelle carceri, "onde evitare incoerenze pregiudizievoli in ordine all’immagine esterna dell’Amministrazione", e di indirizzare le richieste dell’associazione direttamente al dipartimento per l’amministrazione penitenziaria stesso per una valutazione; l’associazione Antigone, sin dal 1990, è impegnata sul fronte dei diritti e le garanzie nel sistema penale, e costituisce il riferimento nazionale per il comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (Cpt), raccogliendo autorevoli adesioni tra magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, e comunque cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale; in particolare, tale associazione, oltre ad organizzare dibattiti sui modelli di legalità penale e processuale del nostro Paese, raccoglie informazioni sulla realtà carceraria sia come lettura costante del rapporto tra norma e attuazione, sia come base informativa per la sensibilizzazione sociale ai problemi del carcere, e ciò attraverso un osservatorio nazionale delle condizioni di detenzione, istituito al solo fine di verificare la prestazione delle garanzie e dei diritti riconosciuti dall’ordinamento penitenziario e dalle convenzioni internazionali; sin dal 1998 l’associazione è autorizzata a svolgere attività di osservazione negli istituti di pena di tutto il Paese con la disponibilità e collaborazione di numerosissimi operatori, raccogliendo dati (in ogni caso non sensibili né attinenti alla sicurezza penitenziaria) direttamente dai direttori degli istituti di pena al fine di una corretta informazione dell’opinione pubblica circa l’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione; l’emanazione della nota diffusa dal dipartimento per l’amministrazione penitenziaria in data 25 marzo 2014, a parere degli interroganti, oltre a minare l’obiettivo auspicabile di un "carcere trasparente", limita l’attività di chi, proprio per la competenza e l’esperienza che ha maturato nell’occuparsi delle problematiche del carcere, svolge costantemente un ruolo di supporto nell’attività dei parlamentari impegnati nel rispetto dei diritti, e della dignità, dei detenuti-: Per sapere: di quali informazioni disponga il Ministro in relazione a quanto esposto in premessa; quali siano i motivi per i quali sia stata emanata la nota in questione; se non ritenga opportuno intervenire per far sì che l’Osservatorio dell’Associazione Antigone possa continuare ad effettuare la raccolta dei dati sulle condizioni di detenzione direttamente dai direttori degli istituti di pena. Giustizia: Pannella (Radicali); preghiamo perché Papa Bergolio proponga un’amnistia Ansa, 21 aprile 2014 "Preghiamo perché Papa Bergolio sia illuminato e avvisato di questo: il Presidente della Repubblica, tutti, dicono che è necessaria un’amnistia per uscire dalla criminale situazione di flagranza di reato del nostro stato. Con lo splendore dell’arrivo di Papa Bergolio probabilmente manca proprio, e manca gravemente, una sua parola esplicita, dopo quelle del Presidente della Repubblica, delle giurisdizioni internazionali, delle massime autorità anche in questo settore". Lo ha detto a Radio Radicale Marco Pannella, al termine della sua visita al carcere romano di Rebibbia. "Papa Bergolio rischia di non sapere - ha detto Pannella - che l’assenza di una sua parola esplicita, cioè di una sua parola, può avere un effetto disastroso in questo mondo italiano e non solo. Preghiamo perché Papa Bergolio sia illuminato e avvisato di questo: il Presidente della Repubblica, tutti, dicono che è necessaria un’amnistia per uscire dalla criminale situazione di flagranza di reato del nostro stato. È necessario che Papa Bergolio confermi magari quello che la Cei aveva ufficialmente detto prima del suo pontificato, ma temo che lui non lo sappia, quando si è ufficialmente espressa per la riforma della giustizia, per la interruzione della flagranza criminale del nostro stato attraverso l’amnistia, esigenza strutturale perché si passi a quella riforma che coincide con la cessazione di una flagranza infame, tremenda del nostro Paese". Giustizia: tra le sbarre il fiore del perdono, tre storie di reclusi raccontate dai Cappellani di Umberto Folena Avvenire, 21 aprile 2014 Tre cappellani di tre carceri del Nord e del Sud. E le loro tre storie di perdono. Storie di morte e risurrezione, storie nate del dolore e nell’ingiustizia che poi, a poco a poco, sanno aprirsi alla speranza. Percorsi mai facili, spesso tortuosi, sempre dolorosi. Perché perdonare gli altri, per un cuore generoso ed educato, è difficile ma non impossibile: accade. Più arduo è "perdonare" Dio, quando lo si prega con la preghiera straziante di chi gli urla la propria rabbia, come fa il protagonista della storia narrata da don Virginio Balducchi: "Perché hai permesso di uccidessi? Perché non mi hai fermato?". La pace è assai più difficile, quando deve fare i conti con il dono più meraviglioso e terribile di Dio all’uomo: la libertà. Ma difficilissimo, quasi impossibile è perdonare se stessi, riconciliarsi con il proprio passato. Terribile è il perdono - per il protagonista della storia narrata da don Marco Pozza - da negare o concedere a tua madre che ti ha abbandonato accanto a un cassonetto a quindici giorni di vita, condannandoti a un’esistenza a metà, ad affetti amputati, a un cuore zoppo. E difficile, a volte, è per le istituzioni fidarsi, accettando che "criminali incalliti" decidano per un diverso futuro, come i detenuti della sezione d’alta sicurezza della storia narrata da don Raffaele Sarno. Quando però il perdono zampilla, la festa è immensa. Chiamiamola Pasqua. E il boss incallito si inginocchiò davanti al prete (Storia raccontata da don Raffaele Sarno, Trani) Chi da sempre vive da criminale, e criminali sono i suoi pensieri, e frequenta solo altri criminali, beh, la sua vita è molto, molto difficile da comprendere per noi. Impossibile, forse. Appartengono a un mondo totalmente diverso. Così rimasi stupito quando mi chiamarono... Ero appena arrivato. Loro erano cinque detenuti dell’alta sicurezza, la sezione della criminalità organizzata: mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita. Un altro mondo. Però mi chiamano. Hanno tutti pene pesanti da scontare, fino a 2025 anni. Lo ammetto: detenuti così li immaginavo "senza speranza". Ma loro no. Eppure la disperazione sarebbe stata una tentazione facile. Loro invece mi cercavano. Avevano già cominciato un percorso, capace di dare un senso a tutti quegli anni da trascorrere in carcere. Ma quel percorso sentivano che aveva bisogno di visibilità, di una forma di riconoscimento anche di fronte alle istituzioni. La voglia di riscatto non poteva rimanere confinata nei loro cuori. Era un gruppo vero e proprio, per quanto piccolo, quindi bisognava darsi un nome: "Il laghetto pensatore", con il trattino tra "la" e "ghetto", perché erano acqua capace di ospitare e dare vita, ma erano anche, oggettivamente, rinchiusi. E il pensatore? Pensiero, ossia riflettere sui propri personali percorsi criminali e maturare un futuro fatto di riscatto e reinserimento. Cominciava così un percorso umano, culturale e anche spirituale, scandito da periodici incontri personali. Riprendono in mano i libri. Riescono a ottenere il diploma, alcuni si iscrivono all’università. Avevamo un giornalino "In comunione", un fatto eccezionale per l’alta sicurezza. Ogni mese riuscivo a farlo pubblicare come inserto centrale nel settimanale diocesano. Di una cosa ero soprattutto orgoglioso: non era fatto di piagnistei, come purtroppo accade in tanti fogli simili. Invece grondava ottimismo, a partire dall’atteggiamento critico e da una chiara presa di distanza dalle scelte criminali del passato. E poi c’era il teatro, testi scritti da loro, un pubblico fatto di studenti. Poi tutto è finito. Alcuni di loro sono stati trasferiti, l’alta sicurezza smantellata; e le istituzioni faticavano a reagire, di fronte a un percorso così proficuo e limpido. Forse non credevano abbastanza in loro... Con molti ho mantenuto i contatti. Uno è fuori, in semilibertà, e lavora. Ne sono felice. Il perdono lo vedevo e vedo in loro. Nel desiderio di reinserirsi, nella richiesta di aiuto. Perdonateci, e dateci credito. Perdonateci, e offriteci un’altra possibilità. Nell’abisso del male il vangelo mi ha ridato luce (Storia raccontata da don Virginio Balducchi, Roma) "Neanche Dio mi può perdonare". Ricordo bene le sue parole ai nostri primi incontri. Lui, giovanissimo omicida della persona a cui voleva più bene. "Perché l’ho fatto? Perché Dio ha permesso che lo facessi?". Era il suo duello con se stesso e con Dio, il corpo a corpo di un ragazzo di 23 anni che aspetta una condanna severa e lunga e si domanda che senso possa avere, di lì in poi, la sua vita. "Meglio morire...". Dopo qualche mese, proprio in un momento in cui forte, urgente, straziante era la domanda "che ne sarà di me?", pensai che fosse il momento giusto: "Prova a leggere il Vangelo di Luca - gli dissi - senza pretendere di capire tutto subito". Da lì in poi il rapporto tra noi divenne più personale. Dopo otto mesi fu pronto per il sacramento della riconciliazione. Partecipava alla catechesi, a messa faceva il lettore, pregava tutti i giorni. È una storia di molti anni fa. Oggi è fuori, libero. Il Signore gli ha fatto comprendere che la sua vita poteva ancora avere un senso. È riuscito nell’impresa di perdonare se stesso, nonostante il suo passato, con il suo peso da reggere, sia sempre lì,. Ma adesso sente che Dio lo accompagna, lo aiuta a reggere quel peso, gli permette di vivere. Avrebbe desiderato ricevere il perdono della famiglia della ragazza. Ha provato a cercare un contatto. Ma non gli è stato concesso. La ferita è ancora troppo dolorosa. Ma forse, un giorno... Ho bestemmiato mia madre. Ora la benedico (Storia raccontata da don Marco Pozza, Padova) Le cicatrici sul capo narrano di una storia remota e ingarbugliata. Cinquant’anni di strada e orfanotrofi e vita all’addiaccio. Come se la prima condanna fosse stata emessa quando aveva appena quindici giorni di vita e un passante, un buon samaritano, l’aveva raccolto nei pressi di un cassonetto. Ci aveva messo parecchio a finire in galera, quasi non sapesse nemmeno rubare. Il nostro primo incontro è di tre anni fa. Lo ricordo irascibile, scorbutico, ingestibile. Con il cuore immenso connaturato ai semplici. La sua preghiera era il rosario, erano le orazioni consunte della vecchia catechesi, era la pietà tipica di chi non ha mai nemmeno sfiorato un libro. Pur di stare vicino al Cristo, s’era messo a completa disposizione: a lavare le mattonelle e pulire i vetri con le inferriate, per fare di quella sala di galera la nostra piccola chiesa, così simile a un "ospedale da campo dopo una battaglia". Dopo un’infinità di battaglie. Il suo cruccio? Lei, quella donna mai conosciuta e che mai chiamò "mamma". La bestemmiava nelle sue preghiere, condannandola per quel gesto folle dell’abbandono. D’altronde anche nella Scrittura la ribellione anticipa la comprensione, le urla fanno da preludio ai canti, e prima della Terra Promessa c’è l’agonia dell’Egitto. Lo lasciavamo fare, dire, vociare. Mi ricordava un vecchio rudere di montagna: un rudere, certo, ma abbastanza prezioso da meritare di venir restaurato, avendo cura prima d’imbragarlo. Noi abbiamo costruito l’imbragatura, il resto fu opera di quella Grazia non sempre del tutto "comprensibile". Ben presto, nel suo cuore al Dio minaccioso è subentrato il Dio della consolazione, il raggio di luce che gli ha permesso di scandagliare l’abisso della sua umanità. E, riconciliatosi con Dio, si è riconciliato con i fratelli. Si è riconciliato con il volto ignoto della mamma mai conosciuta. Dalla maledizione al silenzio. Lui figlio che perdona la madre: "Oggi voglio pregare per mia madre. Chissà perché l’ha fatto". E il perché di un gesto è l’avventura più ostica da braccare tra il ferro e il cemento di una galera. È uscito dal carcere l’altro giorno. Fa il giardiniere in un’oasi di spiritualità, dimostrando una spiccata sensibilità per il bello. Proprio lui, che nella sua prima vita ha conosciuto soltanto la bruttezza. Ha portato con sé le poche, piccole reliquie di una vita. Ogni tanto borbotta: "Se la mia mamma avesse abortito, ogni non sarei qui. Che spettacolo: grazie, Dio!". Riconciliato con Dio, con la sua mamma, con se stesso. Ai vecchi compagni di galera ha lasciato un biglietto sull’altare, quasi un preludio di Pasqua: "Vivo per stupirmi ancora". Giustizia: ministro Alfano; fare l’impossibile per trovare responsabili eccidio di Palagiano Ansa, 21 aprile 2014 In una lettera al Corriere del Mezzogiorno, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, chiede "di fare l’impossibile, ciascuno per la propria parte", per assicurare alla giustizia i responsabili dell’eccidio di Palagiano (Taranto) dello scorso 17 marzo nel quale furono uccisi il detenuto in semi libertà Mimmo Orlando, la compagna Carla Fornari e il figlioletto di questa Domenico, di quasi tre anni. Illesi rimasero i suoi fratellini di otto e sei anni. Riferendosi al piccolo Domenico, Alfano rileva che il suo "sacrificio" non "risponde a nessuna logica di violenza, se non al degrado etico, umano e morale al quale l’uomo senza regole può arrivare". "La magistratura e le forze dell’ordine - scrive - in assoluta sinergia stanno lavorando senza tralasciare alcuna pista. Grazie al lavoro e al contributo di tutti, sono certo che riusciremo a identificare e arrestare gli autori dell’agguato". "Nessun riflettore - prosegue Alfano - sarà spento su questo orribile crimine. Domenico aveva il diritto di diventare uomo. Aveva il diritto di crescere, di coltivare i suoi sogni e le sue speranze. Aveva soprattutto il diritto al riscatto". "Non ci devono essere più Domenico - insiste il ministro - non ci devono essere più ragazzi derubati del diritto di vivere, di emanciparsi dalle logiche di violenza che hanno condizionato la loro esistenza. Questo è ciò per cui io lavoro, ma siamo in tanti, perchè l’amore per un Paese libero, è contagioso, riguarda tutti, chiede il contributo di tutti per la riuscita del progetto". "Lo Stato - conclude - dimostrerà, anche in questa occasione, di essere più forte di chi lo contrasta, dando un volto e un nome a chi ha ucciso un innocente di soli tre anni". Lettere: non serve l’amnistia per svuotare le carceri di Giorgio Zanin (Deputato Pd) Il Piccolo, 21 aprile 2014 I giorni della passione pasquale stimolano a sguardi di profondità e solidarietà per la condizione umana. Seguo con attenzione rinnovata le vicende legate alle carceri. Con questo spirito ho tenuto in grande attenzione in queste settimane l’azione di Rita Bernardini, segretario nazionale dei Radicali italiani, che per 46 giorni ha fatto lo sciopero della fame per ricordare la data del 28 maggio che la Corte Edu ha fissato per l’Italia affinché ponga fine all’infamia in corso dei trattamenti inumani e degradanti ai quali sono sottoposti i detenuti nelle nostre carceri. Insieme a lei si sono mobilitati nel digiuno oltre 1.500 persone, tra i quali, come si è appreso anche dai giornali, il pordenonese Stefano Santarossa. Il primo pensiero va com’è logico alla situazione pordenonese e alla prospettiva della sua soluzione, finalmente a un passo con la realizzazione del nuovo carcere provinciale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sei mesi fa ha sollecitato in modo perentorio il Parlamento a salvaguardare i diritti umani e non sono mancati in questi mesi i percorsi per dare una risposta concreta al suo appello. È dello scorso 2 aprile infatti l’approvazione definitiva del provvedimento sulla cosiddetta "messa alla prova" con cui è stata tra l’altro conferita al Governo la delega per l’introduzione di pene detentive non carcerarie. La campagna ha già portato un frutto di trasparenza, avendo costretto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a fornire finalmente il dato effettivo della capienza regolamentare dei nostri 205 istituti penitenziari: non 49mila o 50mila come veniva costantemente riferito pubblicamente, ma 43.500 per 60mila detenuti. Penso che la strada avviata dal Parlamento possa portare frutto senza il ricorso all’amnistia. Tuttavia da nonviolento non posso che apprezzare il metodo del Satyagraha scelto dai Radicali per ingaggiare questa lotta. Esprimo grande stima per la capacità di testimonianza dimostrata da Rita Bernardini e mi propongo di invitarla per affrontare anche con lei il tema del metodo nonviolento e della sua attualità politica. Lettere: Opg, sai quando entri… non sai quando esci di Pino Beccaria La Gazzetta di Reggio, 21 aprile 2014 Recentemente ho appreso che una persona si trova nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) dalla bellezza di 11 anni per una serie di furtarelli. Un "disgraziato" sta dietro le sbarre dell’Opg da 25 anni (avete letto bene: 25 anni) per oltraggio e resistenza. Sono due casi emersi durante la visita dell’unione delle camere penali a cui hanno partecipato Vinicio Nardo, segretario dell’unione camere penali nazionale, il presidente provinciale Noris Bucchi, Antonella Calcaterra e Annamaria Alborghetti, responsabile nazionale dell’osservatorio carceri dell’unione camere penali e Antonella Correnti che rappresentava le camere provinciali. Cosa è emerso dal… Blitz"? Che oggi, nella Casa circondariale sono presenti 199 detenuti per una capienza di 100, mentre lo scorso anno c’erano (sic!) 350 persone. Pazzesco o no? Personalmente, e son conscio di quello che sto scrivendo per la Gazzetta, dove risiedo e non solo, mi guarderanno con sospetto (qualche "amico" lo perderò di certo…). Amen, ho vissuto la "realtà" dell’Opg per circa 3 anni, per cause legate ad una "storia" di stupefacenti (come consulente della comunicazione mi occupavo a Milano di moda, ambientino dove la cocaina era più usata dello zucchero…). Probabilmente avrei "meritato" una comunità, non un ospedale giudiziario dove ti strafogavano di sedativi. Punto e basta. Già, nessuna cura, nessun percorso riabilitativo, ma solo tanto Valium… Se qualcuno dava di matto veniva legato ad un letto e buonanotte suonatori. La carta igienica non c’era, il pane era di marmo, dal soffitto entrava acqua (anche oggi), se poi avevi la malaugurata idea di farti una doccia fredda (l’acqua calda latitava…), lo dico senza tema d’essere smentito, correvi il pericolo di essere tranquillamente sodomizzato. Ecco perché in tanti, a conoscenza del "rischio", puzzavano come delle carogne. Meglio sporchi e puzzolenti che essere dolorosamente violentati controvoglia. Sbaglio? Dalla visita dell’unione delle Camere penali al "manicomio" di via Settembrini cosa è saltato fuori? Che chi sta marcendo lì è perché resistono alle "cure" a cui vengono sottoposti o perché non hanno all’esterno persone di riferimento. Corrispondendo con alcuni internati dell’Opg, per nulla "svalvolati", non è proprio così. C’è gente, tanta più di quanto si possa immaginare, che fuori un "riferimento" l’avrebbe pure… Ma nessuno fa un bel cavolo. Perché? Ma che gusto c’è, io mi chiedo, non ridare la vita a gente che si è (ben) resa conto del proprio reato e lasciandosi "curare" è sana e non pericolosa socialmente? Sicilia: "hanno commesso reati gravi", 500 precari perdono il diritto all’assegno sociale La Repubblica, 21 aprile 2014 Che le espulsioni fossero nell’aria erano in tanti a saperlo tra gli ex Pip, ma i numeri non erano ancora noti. Adesso il dipartimento Lavoro ha fatto chiarezza, pubblicando l’elenco definitivo dei precari che hanno diritto all’assegno sociale erogato dall’Inps e pagato dalla Regione. Nell’elenco compaiono 2.335 nomi, rispetto ai 2.800 iscritti fino alla scorsa settimana. In tutto ne mancano all’appello quasi 500: "Si tratta di persone che hanno commesso reati gravi dopo l’inserimento nel bacino nato nel 2001 - dicono dal dipartimento Lavoro - persone che hanno commesso reati che vanno dall’associazione mafiosa alla rapina passando per lo spaccio di droga. Espulsi, chiaramente, anche quelli che hanno precedenti per abusi sessuali. Al di là delle norme previste in Finanziaria sulle espulsioni dal bacino, abbiamo deciso di non utilizzarli più nella e quindi non riceveranno il sussidio. Di fatto sono fuori". A dare un’accelerazione a queste espulsioni è stato il governatore Crocetta, dopo l’ennesimo episodio di Pip coinvolti in rapine. Il neo assessore alla Famiglia, Giuseppe Bruno, assicura che "i controlli saranno capillari", ma smentisce espulsioni oltre questa cifra: "Al momento stiamo vagliando altre posizioni, ma non coinvolgeremo chi ha reati commessi prima del 2001 perché il bacino è nato come aiuto all’inserimento lavorativo proprio di ex detenuti", dice Bruno. Queste espulsioni si aggiungono a quelle varate a inizio anno, e che hanno riguardato 200 tra condannati per reati di mafia o reddito Isee superiore ai 20 mila euro. Compreso il caso del Pip con l’attico a Villa Sperlinga. Lecce: "solidarietà con i detenuti in lotta", a Pasqua presidio pacifico di fronte al carcere www.lecceprima.it, 21 aprile 2014 Una protesta per denunciare la situazione di invivibilità nell’istituto di pena di Borgo San Nicola, dove sovraffollamento e carenze igieniche sono i mali che ogni giorno i detenuti devono affrontare. "Chiusi in tre dentro celle da 10 metri quadrati". "Solidarietà con i detenuti in lotta". Lo striscione, dal sapore forse un po’ anacronistico e retrò, campeggia su via Borgo San Nicola, di fronte a una delle sezioni dell’istituto penitenziario alle porte del capoluogo salentino. Da alcune grosse casse posizionate sul ciglio della strada, si alzano verso il cielo grigio di una primavera capricciosa canti di protesta e di "lotte di classe e di giustizia". Qualcuno agita le braccia in segno di saluto (forse più immaginario che reale) verso un detenuto. Anche a Lecce, così come in altre città italiane (compresa la vicina Taranto), gli anarchici hanno organizzato un presidio dinanzi al carcere. La manifestazione, assolutamente pacifica, si è svolta nel pomeriggio, sotto lo sguardo vigile ma sereno, della polizia e dei colleghi della penitenziaria. Una protesta finalizzata a denunciare la situazione di invivibilità nell’istituto di pena di Borgo San Nicola, dove sovraffollamento e carenze igieniche e strutturali sono i grandi mali che ogni giorno i detenuti devono affrontare. Chiusi in tre dentro celle da circa 10 metri quadrati; dormono in letti a castello (il materasso più in alto è a 50 centimetri dal soffitto); in cella c’è una sola finestra ed un bagno cieco senza acqua calda; il riscaldamento funziona d’inverno poche ore al giorno; le grate sono chiuse per 18 ore al giorno; carta igienica, shampoo, bagno schiuma, detersivi solo per chi può comprarli nello spaccio interno. Gli anarchici denunciano le condizioni di invivibilità delle carceri italiane, dove nel 2013 ci sono state 148 morti, lanciando e amplificando l’appello fatto da vari detenuti per una mobilitazione in tutte le città dal 5 al 20 aprile 2014. Nel corso del presidio si sono susseguiti interventi, e soprattutto musica, per dare un momento di svago ai detenuti che hanno salutato dalle inferriate sventolando stracci. "Si cerca di fare in modo che le carceri - spiega uno dei partecipanti al presidio - siano lontane da noi sia fisicamente che idealmente, che chi vi è detenuto sia cancellato dalla vista, non esista più, isolato in una condizione, quella della privazione della libertà, che lo escluda dalla società di cui avrebbe intaccato le regole. Il carcere dimostra così la sua vera funzione, che non è quella dichiarata della rieducazione, bensì quella reale dell’esclusione". Lecce: Osapp; la Festa di Pasqua degenera in una rissa tra detenuti leccesi e baresi Ansa, 21 aprile 2014 Rissa tra detenuti nel carcere di Lecce durante la fruizione della socialità per la festività di Pasqua. Lo afferma l’Osapp (Sindacato degli agenti di Polizia penitenziaria), in un comunicato secondo cui i detenuti erano "alticci". Per il sindacato, gli agenti sono intervenuti per ristabilire la calma. Sono nove gli agenti aggrediti con prognosi variabili tra 6 e 8 giorni mentre "un detenuto ha tentato di impiccarsi ed è stato salvato in extremis" dagli agenti intervenuti. Il comunicato stampa del Osapp: "Alle ore 15,45, nel Reparto C2 - 4/a sezione della casa circondariale di Lecce, durante la fruizione della socialità per la festività di Pasqua è scoppiata una maxi rissa tra detenuti leccesi e baresi (una sorta di derby penitenziario). Parrebbe che i detenuti fossero alticci". Sempre secondo l’Osapp, "gli agenti della polizia penitenziaria hanno faticato non poco per ristabilire la calma". Per Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, "la situazione sembra al momento nuovamente tranquilla ma la tensione resta alta anche perchè il carcere di Lecce continua ad essere uno degli istituti con il minore numero di personale rispetto alla popolazione detenuta e da tempo nè l’amministrazione Centrale (come per il restante territorio nazionale) nè il Provveditore Regionale forniscono più alcun supporto operativo all’istituto". Genova: Osapp; ritrovato un cellulare in una cella del carcere di Pontedecimo Ansa, 21 aprile 2014 La Polizia penitenziaria ha sequestrato, in una cella del carcere di Pontedecimo, un orologio cellulare perfettamente funzionante con la sim e l’auricolare. Lo rende noto il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci. "Fortunatamente - si legge nella nota di Beneduci - la Polizia Penitenziaria riesce a tenersi aggiornata attraverso internet e non grazie ai corsi di formazione che l’attuale e del tutto obsoleta amministrazione penitenziaria non organizza da anni". Mantova: "Una Pasqua per sperare", il Vescovo Roberto Busti dice messa in carcere di Elena Caracciolo Gazzetta di Mantova, 21 aprile 2014 "Vi chiamo fratelli e sorelle perché è questo che siete per me" . Parole amichevoli, pronunciate con sincerità e ripetute più volte. Il vescovo Roberto Busti ha celebrato la messa di Pasqua nel carcere di via Poma ed è così che ha salutato all’inizio e alla fine della liturgia i detenuti. Uomini e donne, insieme ai volontari e agli agenti della polizia penitenziaria, si sono riuniti per celebrare la resurrezione di Gesù. Gli sguardi tra i banchi della chiesa si cercavano l’un l’altro, come a voler essere sicuri di poter contare sui propri compagni, di non essere soli. Qualcuno invece è rimasto tutto il tempo con la testa piegata, stretta tra le mani in segno di preghiera. "In questo giorno non vogliamo sentirci abbandonati - recitava la lettera scritta dai detenuti - vorremmo sentirci uniti, risorgere anche noi verso una vita nuova ed essere amati così come siamo". Una richiesta subito accolta da Busti, che ha ricordato il significato della Pasqua. "Sono contento di celebrare questa messa insieme a voi - ha detto - Porto al collo una croce di legno, che proprio qualcuno di voi mi ha regalato. È leggera, a differenza delle altre, soprattutto di quelle che si portano nel cuore, che invece pesano come macigni e per questo mi fa ricordare la resurrezione". Anche se la libertà cosa fatica. "È la messa più bella della mia Pasqua - ha proseguito il vescovo - la celebro per voi, per chi vuole la liberazione ma sa che costa fatica, pazienza e sacrifici. Bisogna liberare il nostro cuore dalle angosce". Un invito rivolto a chi, ognuno per un motivo diverso, si è visto privare della propria famiglia, degli affetti, figli e amici, per lasciare il posto a una distanza incolmabile. "Dobbiamo comprendere cosa significa bene o male. Il male è tutto ciò che ci fa mettere gli uni contro gli altri e che contrasta quell’orizzonte verso l’eternità che vediamo quando incontriamo Gesù. La voglia di fare bene c’è, ma a volte le cose non vanno così, poi ci pentiamo". La speranza diventa quindi l’appiglio a cui potersi ogni giorno aggrappare, più forte di qualsiasi difficoltà. "Dobbiamo averla sempre con noi - ha raccomandato Busti senza mai smettere di usare il plurale, trasmettendo vicinanza ai detenuti - la liberazione che ci propone Gesù non è solo quella nella quale sperate voi, ma è quella ancora più vera e che ci assicura che non stiamo buttando via la nostra vita, nemmeno qua". Il vescovo è poi sceso dall’altare, per raggiungere i carcerati e scambiare con loro il segno di pace. "La mia preghiera quotidiana tiene presente tutti voi - ha affermato con affetto - le vostre paure e i vostri cari. Vi auguro di fidarvi di questa vita e del dono che Dio ci ha fatto e che nessuno può toglierci". Egitto: violenze pro-Morsi; 30 manifestanti condannati a tre anni e mezzo di carcere Ansa, 21 aprile 2014 Il tribunale di El Azbakeya ha condannato 30 sostenitori dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi a tre anni e mezzo di carcere ciascuno in seguito alle violenze dello scorso dicembre davanti al palazzo di giustizia del Cairo a margine del processo allo stesso Morsi. I pro-Morsi erano accusati tra l’altro di resistenza a pubblico ufficiale e di appartenere a un gruppo terroristico.