Giustizia: debole con i forti, forte con i deboli… avremo mai una legge "uguale per tutti"? di Vittorio Emiliani Il Centro, 16 aprile 2014 È comprensibile che nel Paese si manifestino amarezza, ironia, sarcasmo e sconforto. Infatti dieci anni di ricerche giudiziarie, di sessioni processuali nei tre gradi di giudizio, sfociati in una condanna per l’odioso reato di frode fiscale (di portata milionaria) ai danni dello Stato, cioè di tutti noi, si risolvono per il condannato Berlusconi in poche ore a settimana di "servizio sociale" agli anziani di Cesano Boscone. Il tempo di qualche barzelletta in cui è maestro, per un totale di sette giorni pieni di "lavoro" obbligato distribuiti in dieci mesi. Anche chi non ama né il giustizialismo né il tintinnio di manette, di fronte a questa pena di disarmante mitezza non può non rilevare la sproporzione esistente fra essa e quello che ordinariamente subisce in Italia il più scalcinato rubagalline o un giovane immigrato sorpreso a vendere "fumo", sbattuti in galera per mesi o anni. La sentenza del Tribunale di Milano, sostanzialmente confermata in Cassazione, era parsa, nonostante i tre anni di indulto, equa e importante, se non altro come simbolo: anche un potente, anche uno degli uomini più ricchi d’Italia e non solo poteva essere condannato in via definitiva. Ma la sua attuazione da parte del Tribunale di Sorveglianza lascia margini amplissimi alla perplessità o all’incredulità. In molti commenti si coglie la sconsolazione: davvero la legge italiana non è uguale per tutti. E non sappiamo quando lo sarà. Avremo mai una giustizia efficiente, veloce e giusta per tutti? Gli avvocati dell’ex premier sono palesemente soddisfatti. I suoi compagni di partito, pure. Anche se per Capezzone il "vulnus democratico" rimane. Berlusconi potrà essere per due giorni a Roma e quindi partecipare da regista, quanto meno, ad una campagna elettorale europea che i sondaggi gli prospettano piuttosto difficile. Non è poco. Non potrà più attaccare la magistratura, le predilette "toghe rosse", pena il ritiro di questa semi-libertà. Dovrà comportarsi da cittadino normale addetto a lavori socialmente utili. Gli toccherà rincasare entro le undici. Appresa la notizia, fra gli anziani di Cesano Boscone c’è chi si è messo a ridere. Qualche altro ha osservato che lui, il loro coetaneo, magari imparerà qualcosa dai giovani del volontariato. Altri si sono stretti nelle spalle. Forse erano tifosi dell’Inter. Si può immaginare quanta letteratura, giornalistica e televisiva, si rovescerà su di noi, in questi dieci mesi sul Paperone costretto per quattro ore a settimana ad assistere gli anziani e i disabili dell’istituto di Cesano Boscone. Roba da mal di mare. Perché si è giunti ad un trattamento tanto mite? Probabilmente anche per non farne un "martire" della "giustizia di sinistra", per non dare ai tanti media che egli controlla la possibilità di far montare l’onda del vittimismo che così bene ha funzionato in passato. Probabilmente ha influito anche la posizione di interlocutore privilegiato del presidente del Consiglio Matteo Renzi che Silvio Berlusconi si è abilmente conquistato col patto per le riforme collegate alla nuova legge elettorale. Patto ribadito nel lungo colloquio di lunedì sera a Palazzo Chigi, alla vigilia del pronunciamento del Tribunale di Sorveglianza. Non rompere quella preziosa alleanza era l’unica via dopo che Napolitano aveva ancora una volta negato la via della grazia. I suoi difensori, Coppi e Ghedini, hanno archiviato il giudizio come "equilibrato" anche "in relazione alle esigenze della attività politica del presidente Berlusconi". La linea "morbida" di Franco Coppi ha pagato. Il giudice di Sorveglianza definisce il condannato "ancora persona socialmente pericolosa", ma il pagamento da parte sua del risarcimento danni e delle spese processuali ne "evidenziano la scemata pericolosità sociale". Questo, almeno, potevano risparmiarcelo. Giustizia: la pena "ad personam", ovvero il castigo esemplare di un Paese da operetta di Alessandro Cassinis Secolo XIX, 16 aprile 2014 Scusate, abbiamo scherzato. Quasi dieci anni di indagini, sei anni di processo in primo grado, condanna in tribunale, condanna in appello, condanna definitiva in Cassazione a quattro anni ridotti a uno per l’indulto. Il governo sottoposto a un ricatto continuo nel timore non della galera, per carità, ma degli arresti domiciliari. Ed ecco finalmente la pena tanto temuta dall’ex Cavaliere Silvio Berlusconi, colpevole di frode fiscale come patron di Mediaset e sedicente vittima sacrificale della casta dei giudici rossi: quattro ore la settimana di affidamento in prova a un istituto per anziani alle porte di Milano, ossia sedici ore al mese per dieci mesi e mezzo (gli altri 45 giorni saranno scontati). Centosessantotto ore in tutto, che messe in fila fanno una settimana esatta. Negli altri giorni il condannato potrà fare quello che vuole, anche andare a Roma dal martedì al giovedì a fare campagna elettorale, con l’unico obbligo di chiudersi in casa tra le 23 e le 6. Per dare una spiegazione credibile a questo castigo da operetta, i giudici del tribunale di sorveglianza di Milano ricordano che Berlusconi è un uomo anziano, è socialmente pericoloso ma sulla via della redenzione, ha da tempo restituito le somme frodate al fisco e alla fine del periodo di prova dovrà dimostrare di essere davvero riabilitato. Sono argomenti più leggeri della pena stessa. Silvio Berlusconi ha 77 anni, è vero, ma si prepara a capitanare per l’ennesima volta una campagna elettorale all’ultimo comizio. Nessuno se l’immaginava in cella e in un Paese garantista i forcaioli sono giustamente relegati negli spazi più oscuri e incontrollati del web. Ma ci sono uomini della sua età che per reati meno gravi sono agli arresti domiciliari o servono i più deboli con rigore e senza sconti, però non si chiamano Berlusconi, non insultano i giudici e non ricattano il governo di turno. E perfino nella nomenklatura della Prima Repubblica si trovano esempi di espiazioni più serie. Aveva 73 anni Arnaldo Forlani, colonna della Dc e vicepremier di Craxi, quando nel 1998 venne condannato a due anni e due mesi per finanziamento illecito ai partiti nel processo sulla maxitangente Enimont. Per 790 giornate fece l’archivista in una mansardina della Caritas diocesana di Roma, aiutato da un volontario di origine srilankese e mangiando in mensa con tutti gli altri. Non erano i Piombi o lo Spielberg, certo, ma un lavoro serio e forse vagamente utile svolto con "socratica rassegnazione", diceva lui, per tutta la durata della pena. Quanto alla restituzione del maltolto, come sarebbe felice il ladruncolo da supermercato di cavarsela rendendo al cassiere il suo bottino: sono un ladro socialmente pericoloso, ma sulla via del pentimento, mi occuperò degli anziani quattro ore la settimana e fra dieci mesi e mezzo i giudici vedranno quanto mi sarò riabilitato. Scusate, non avevamo capito niente. Pensavamo che i legittimi impedimenti, le leggi ad personam, la minaccia di bloccare le riforme essenziali al Paese fossero l’estrema difesa di un premier o ex premier di fronte allo spettro di una Cayenna infernale, che gli avrebbe tolto a lungo e con infamia la libertà di partecipare alla vita democratica. No, erano solo il prologo all’ultima, estrema beffa di un Paese sempre in bilico tra furore ideologico e farsa. Ci mancava la pena ad personam. Giustizia: Berlusconi affidato ai servizi sociali, assisterà anziani e potrà spostarsi a Roma Tm News, 16 aprile 2014 Sostanzialmente salva "l’agibilità politica" per l’ex premier. Silvio Berlusconi sconterà il residuo di pena per la condanna per la frode fiscale sui diritti tv Mediaset (4 anni in tutto, di cui 3 condonati) con un’attività "di volontariato come da lui stesso proposto", ma potrà spostarsi tre giorni alla settimana tra Milano e Roma, come richiesto dai suoi legali, e potrà di conseguenza condurre la campagna elettorale per le Europee, con qualche, possibile limitazione: per recarsi fuori dalla Lombardia all’ex premier dovrà essere concessa un’autorizzazione. La decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano non sembra quindi pregiudicare in maniera sostanziale la cosiddetta "agibilità politica" del leader di Forza Italia, più volte evocata in questi mesi dai suoi sostenitori. L’ordinanza di oggi fa seguito alla decisione presa giovedì scorso dai giudici milanesi, subito dopo l’udienza in camera di consiglio: l’ex Cavaliere è stato ammesso ai servizi sociali in un istituto per anziani indicato dall’Ufficio esecuzione penale esterna, con impegno di almeno una volta alla settimana e per un tempo non inferiore a quattro ore consecutive. Come tutti i detenuti in prova, dovrà rispettare le prescrizioni di orario, cioè uscire di casa solo dopo le sei e rientrare prima delle 11. Non potrà nemmeno frequentare tossicodipendenti e pregiudicati. Sappe: 12mila persone affidate ai servizi sociali, 31mila in area penale esterna "Mi auguro che la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano di affidare in prova ai servizi sociali il presidente Berlusconi e l’attenzione mediatica che questa decisione catalizzerà possa essere utile per rafforzare il ricorso a questo istituto. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Oggi in Italia vi sono, oltre a Berlusconi, altre 11.646 persone affidate in prova. Complessivamente quasi 31mila persone affollano l’area penale esterna: ve ne sono infatti nel Paese 800 in semilibertà, 10.071 in detenzione domiciliare, 4.857 in lavori di pubblica utilità, 3.103 in libertà vigilata, 193 in libertà controllata, 9 in semidetenzione e 4 in sospensione condizionale della pena", aggiunge. Il leader del primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria si appella "ai ministri dell’Interno Alfano, già Guardasigilli, e della Giustizia Orlando affinchè riprendano dai cassetti delle scrivanie ministeriali in cui inspiegabilmente è stato riposto da sinistre mani maldestre lo schema di decreto interministeriale finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della polizia penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) nel contesto di un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione. Quello della polizia penitenziaria proiettata nel controllo esterno dei detenuti è un provvedimento che alla luce della legge concepita dal Governo e ratificata dal Parlamento assume una prioritaria urgenza". Giustizia: Fondazione Sacra Famiglia, ecco dove svolgerà i servizi sociali Silvio Berlusconi Il Giorno, 16 aprile 2014 L’ex premier sconterà nella struttura di piazza Moneta la pena definitiva a un anno di reclusione per la frode fiscale Mediaset, incassata il primo agosto 2013 (4 anni di condanna ma 3 coperti da indulto). Il direttore generale della struttura: "Non ce lo aspettavamo". Silvio Berlusconi ai servizi sociali alla Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, in provincia di Milano "con impegno di almeno una volta alla settimana e per un tempo non inferiore a quattro ore consecutive". Sorpreso Paolo Pigni, il direttore generale: "Noi non abbiamo fatto nessuna richiesta. Non ce lo aspettavamo. La notizia l’abbiamo appresa dalla stampa". La struttura nel paese dista una quarantina di chilometri da Arcore, dove vive l’ex premier. Le principali aree di intervento della Fondazione Sacra Famiglia sono servizi residenziali, diurni, ambulatoriali, domiciliari per anziani, attività di riabilitazione, assistenza psichiatrica, con una Comunità Protetta ad alta Assistenza, servizi e cura per persone disabili. La storia della struttura Fondata nel 1896 da don Domenico Pogliani, per il quale è in corso la causa di beatificazione, la Casa della Sacra Famiglia nasce come ospizio "per gli incurabili della campagna", soprattutto per offrire assistenza in una zona, fuori dalla città, dove mancavano completamente forme di sostegno. A succedere a don Pogliani alla guida della Sacra Famiglia fu monsignor Luigi Moneta che tra il 1921 e il 1955 creò 18 nuovi reparti, aprì le sedi di Intra e Premeno, le case di Cocquio Trevisago (Va) e Andora (Sv), costruì il teatro e la lavanderia, ampliò la Chiesa presso la sede di Cesano Boscone e organizzò i primi soggiorni estivi all’esterno dell’Istituto. Nel 1955 - secondo quanto spiega la Fondazione sul proprio sito - gli ospiti assistiti nelle varie sedi della Sacra Famiglia sono quasi 3.500; pochissimi i laici, oltre 100 le suore che prestano servizio nella struttura. Negli anni della guerra, dell’occupazione tedesca e della repubblica di Salò, su richiesta del Cardinale Ildefonso Schuster, Moneta offrì ospitalità anche a circa 40 sacerdoti per i quali il Cardinale di Milano aveva ottenuto il domicilio coatto in sostituzione della pena detentiva del carcere. Piero Rampi prese il posto di Moneta, prima come direttore (sino al 1977) e poi come presidente dell’Istituto. in questi anni l’istituto "realizza una vera e propria riconversione" e con la legge 118 del 1971, l’Istituto Sacra Famiglia diventa centro interregionale di riabilitazione e si dota quindi di tecnici, palestre, strutture e servizi specializzati. Alla fine degli anni Settanta, si riduce notevolmente il numero degli assistiti (1600 ospiti a degenza piena). I laici entrano in numero massiccio nella struttura, affiancando l’attività delle religiose. Dopo Monsignor Rampi l’Istituto è presieduto da Monsignor Attilio Nicora che nel 1989 lascia la presidenza a Monsignor Enrico Colombo. Nel 1997 la Sacra Famiglia abbandona la veste giuridica pubblica di Ipab e assume quella privata di Fondazione Onlus. Oggi la Fondazione "è riconosciuta come gestore plurimo di una rete molto variegata di servizi sanitari e assistenziali e garantisce cure continuative alle disabilità cognitive di bambini, adulti e anziani in regime residenziale, diurno, ambulatoriale e domiciliare". Giustizia: Forlani, Previti e gli altri… i "condannati eccellenti" tra parrocchie e pomodori di Federica Fantozzi L’Unità, 16 aprile 2014 A New York si può incontrare Paris Hilton, maglietta gialla e tacchi, che ripulisce i muri dai graffiti. A Cesano Boscone, in mezzo al verde dell’hinterland milanese, ad accudire i vecchietti dell’ospizio Sacra Famiglia sarà l’ex premier Silvio Berlusconi. Se nel mondo anglosassone aiutare la comunità è prassi per star con problemi di droga o risse, va detto che in Italia a quella che Berlusconi considera un’inaccettabile "umiliazione" si sono sottoposti prima di lui diversi politici. Senza affaticarsi oltremisura, sebbene in molti casi l’impegno fosse quotidiano e non limitato a 4 ore a settimana. Tra i primi l’ex ministro e segretario Psdi Mario Tanassi, dichiarato decaduto da Montecitorio nel 1977 e condannato a 2,4 anni per l’affare Lockheed. Il contenuto della sua pena alternativa rimase però nebuloso: "Non facevo niente di speciale. Dovevo solo comportarmi bene" raccontò anni dopo. Quindici anni dopo, un altro segretario socialdemocratico, Pietro Longo, condannato per maxi-tangente, si occupò di devianze giovanili alla Caritas e finì sbeffeggiato dal Secolo d’Italia: "Chi salverà quei ragazzi dall’assistente sociale?". Ma tra i precursori dell’ex Cavaliere c’è stato un altro presidente del Consiglio: il Dc Arnaldo Forlani, che dei 2 anni e 4 mesi inflittigli nel 1998 per le tangenti Enimont non ha scontato neppure un giorno in cella. Anche lui in servizio presso la Caritas: curava la rivista, visitava le parrocchie, aggiornava le statistiche sull’immigrazione. Ogni giorno, con serietà e cristiano senso di rassegnazione, fino a "fine pena". Certo, la fede aiuta, ma anche il senso di fare qualcosa di utile agli altri: "Ho scelto per darmi una ragione di vita, dato che era impossibile difendermi" disse l’ex ministro della Sanità De Lorenzo. Condannato a 5 anni per associazione a delinquere e corruzione, ha lavorato come medico volontario ad Amelia. All’epoca di Tangentopoli, i servizi sociali si popolarono di ospiti illustri, dal socialista Mario Chiesa, che aiutò una comunità di disabili, a Sergio Cusani, che ne ebbe la vita completamente cambiata ed è stato riabilitato nel 2009. L’ex consulente finanziario di Raul Gardini, condannato a quasi 6 anni per la "madre di tutte le tangenti" Enimont (con Forlani e Craxi), ne scontò 5 in carcere e il resto occupandosi di detenuti. Tematiche che non ha più abbandonato, dalla campagna per indulto e amnistia all’impegno per la riforma penitenziaria, con il suo "Piccolo piano Marshall per le carceri". Più vicino nel tempo, se Berlusconi desidera lumi sull’imminente esperienza di vita può chiedere a due vecchi amici: Cesare Previti e Lele Mora. L’ex agente dello spettacolo, che con Emilio Fede ha introdotto ad Arcore diverse ragazze, sconta la condanna per bancarotta trascorrendo un giorno a settimana nella comunità di Don Mazzi. Dove, giura, ha imparato "la lezione di Icaro", al punto da invitare Silvio: "Venga a cogliere i pomodori con me". Del resto, il fondatore della comunità Exodus per tossicodipendenti lo aspettava a braccia aperte: "Vorrei lavorare alla sua redenzione, buttarlo giù dal letto la mattina e invitarlo a rimettere a posto lenzuola. Vorrei che facesse silenziosi e umili lavori manuali, a partire dalla pulizia del bagno. Come a 15 anni quando non aveva il potere". Fatto sta che l’interessato si è tenuto alla larga. Da lui come dalle altre offerte: il Centro Astalli, a due passi da Palazzo Grazioli, i City Angels che assistono i senzatetto, i sindaci di Albenga e Abano Terme, la cooperativa sociale partenopea "Il tappeto di Iqbal" e la scuola d’arte di Borgognone di Lodi, dove avrebbe potuto coltivare musica e botanica. Sul tavolo anche l’ipotesi del Ceis di Don Picchi, dove "Cesarone" Previti ha trascorso 3 anni e 7 mesi. Ogni mattina lasciava l’attico di piazza Farnese per la struttura sull’Appia. Nei week end lo si vedeva al circolo Canottieri Aniene o all’Olimpico per le partite della Lazio. Alla fine del 2009 è tornato un uomo libero, con l’unica limitazione di non potersi ricandidare a causa dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Berlusconi, però, può fare attenzione a un altro precedente. L’ex terrorista di Prima Linea Sergio D’Elia, eletto alla Camera nel 2006 con i Radicali e diventato tra le polemiche segretario d’aula. L’affido in prova lo aveva riabilitato al punto che nel 2000 il tribunale di Roma gli aveva restituito l’eleggibilità cancellando l’interdizione. Giustizia: caso Dell’Utri; tempi lunghi per il ritorno in Italia… e la prescrizione si avvicina di Claudia Fusani L’Unità, 16 aprile 2014 La chiave per capire il destino prossimo venturo di Marcello Dell’Utri è il nome e il profilo del suo avvocato libanese. Si chiama Nasser al Khalil, è figlio del potente Kazim al Sharin, leader della coalizione di governo, più volte ministro e capo indiscusso di Al-Aharar national liberal party. L’avvocato Nasser al Khalil ha potuto incontrare il suo prezioso assistito italiano; ha creato le condizioni perchè incontrasse la moglie Miranda Ratti e il figlio nella sezione dei servizi di intelligence del Comando della polizia, nell’area tra l’ospedale francese Hotel Dieu e la zona del Museo; ha fatto in modo che gli fossero consegnati alcuni libri e medicine. Dell’Utri resta detenuto presso il comando della polizia di Beirut, blocco di cemento vicino sia all’ambasciata italiana che all’hotel Phoenicia, il 5 stelle extralusso dove l’ex senatore è stato fermato sabato mattina. Ma, come hanno riferito la moglie e il figlio, "è stato trattato bene ed è di buon umore" e ha a disposizione un mini appartamento. E allora è lecito farsi venire il sospetto che alla fine tutta questa intricata storia comprensiva di rocambolesco arresto non diventi un straordinario alibi per garantire al settantenne fondatore di Forza Italia un temporaneo e sereno esilio. In attesa che il primo luglio scatti la prescrizione. Cominciamo dai punti fermi. L’udienza di convalida dell’arresto richiesta dalla polizia e dall’autorità giudiziaria italiana non è stata celebrata. Né ieri. Né mai. "Non è prevista dal nostro ordinamento" ha spiegato ieri mattina a giornalisti, funzionari dell’ambasciata e dell’Interpol giunti appositamente a Beirut, il procuratore generale presso la Corte di Cassazione libanese Samir Hammud. Erano tutti lì al palazzo di giustizia dalle 8 del mattino, orario previsto. Alle tredici il dietrofront: l’alto magistrato ha sottolineato di avere approvato due giorni fa l’esecuzione del mandato di arresto di Dell’Utri giunto alla polizia libanese tramite Interpol con la procedura che viene definita di "segnalazione rossa". "Ora - ha aggiunto Hammud - in linea di principio può rimanere detenuto fino a quando verrà deciso se concedere o meno l’estradizione, senza obbligo da parte mia di tenere un’udienza, almeno fino all’arrivo della richiesta formale da Roma con la documentazione necessaria". Ora, si sa come vanno le cose in certi posti: precisazioni come "in linea di principio" rinviano subito a bizantinismi, distinguo, ipotetiche. Tutto tranne che la certezza della pena. "In linea di principio", infatti, può succedere che il procuratore generale, che ha già acconsentito a una perizia medica nei confronti del cittadino Dell’Utri, lo sottragga all’arresto preventivo e lo consegni, seppur in stato di fermo, a un hotel, un domicilio controllato, una struttura sanitaria. Insomma, sempre meglio che stare in Italia a rischiare di finire arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa e la prospettiva di sette di anni di galera. "In linea di principio", dunque, tutto resta congelato. Almeno un mese. Perché questo è il tempo che il trattato bilaterale Italia-Libano concede per la trasmissione dei documenti da Roma a Beirut. Solo che i documenti sono le oltre 500 pagine della sentenza d’Appello che a novembre 2013 ha confermato per la seconda volta i 7 anni di condanna. In via Arenula, al ministero della Giustizia, è stata messa intorno a un tavolo una squadra di traduttori. Ma è impossibile che questi complessi atti vengano tradotti in breve tempo. Solo quando il procuratore generale avrà a disposizione quegli atti, con le accuse e le prove, avrà il dovere di sentire Dell’Utri e presentare una relazione al ministero della Giustizia per raccomandare la concessione o meno dell’estradizione. In ogni caso il provvedimento dovrà essere firmato dallo stesso ministro della Giustizia, dal primo ministro e dal presidente della Repubblica. Insomma, un iter lungo e complesso che fa guadagnare a Dell’Utri tempo prezioso nella corsa verso la prescrizione dell’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Anche in Italia gli avvocati lavorano per la prescrizione. Entrambi gli avvocati - Massimo Krogh e Giuseppe Di Peri - sono improvvisamente caduti malati. Ecco che oggi l’udienza sarà rinviata. E il rinvio, anche se in questo caso i tempi della prescrizione dovrebbero essere congelati, è sempre una buona notizia per un imputato che rischia la prigione. A corollario di tutto questo, va ricordato che il reato per cui Dell’Utri deve essere arrestato è il concorso esterno in associazione mafiosa. Reato non scritto nel nostro codice ma previsto nella prassi della giurisprudenza. Come reagirà il procuratore di Beirut Hammud quando leggerà che quell’italiano deve essere arrestato per un reato non previsto dal codice? Giustizia: Massimo Cacciari; le carceri italiane come i manicomi... luoghi di tortura www.blitzquotidiano.it, 16 aprile 2014 Massimo Cacciari contro le carceri italiane. Secondo il filosofo, infatti, le nostre celle "sono luoghi di tortura. Lo dice anche l’Unione Europea, che per questo ci fa pagare 300 milioni di multa". Cacciari ne ha parlato facendo un parallelo provocatorio con i manicomi chiusi con la legge 180 del 1978, ispirata da Franco Basaglia, di cui martedì 15 aprile si è discusso a Milano. L’occasione è stata la presentazione di "Le nuvole di Picasso". un libro scritto dalla figlia di Basaglia, Alberta, insieme alla giornalista veneziana Giulietta Raccanelli. "Ho pensato che era ora - ha detto Alberta Basaglia, che è responsabile del Servizio di Partecipazione giovanile e Cultura di pace del Comune di Venezia, dove dal 1980 dirige il Centro donna e il Centro anti violenza - che cominciassi a raccontare una vicenda (quella della Legge 180, ndr) che non si è ancora conclusa. Ma vista con gli occhi dei bambini". "La cosa che mi ha più colpito di questo libro (Feltrinelli, 91 pagine, 10 euro, ndr) - ha detto Cacciari - è il fatto che Franco e Franca Basaglia sono sempre sullo sfondo ma non compaiono mai. Alberta non ne parla direttamente. Ed è importante conoscere il rapporto di questi personaggi coi bambini; quello del genitore che non ti insegna il latino o il tedesco, ma ti allena al giusto comportamento, semplicemente col suo esempio". Anche per Cacciari, quella dei manicomi è una storia non finita: "La rivoluzione di Basaglia è rimasta incompiuta. Perché quando butti giù i muri dei manicomi e non aiuti le persone, nelle case, ad affrontare i problemi, si vanifica ogni riforma. Ma non si può dire oggi che era una rivoluzione sbagliata perché poi la società è stata lasciata sola. E lo sa bene chi come me ha fatto il sindaco: siamo stati completamente abbandonati. Ci volevano investimenti nel sociale che non ci sono stati. Ma i manicomi erano una barbarie, luoghi di tortura". Appunto "come oggi le carceri, per le quali l’Unione Europea ci fa pagare 300 milioni di multa". Giustizia: omicidi con il piccone; Kabobo "semi-infermo di mente", condannato a 20 anni Corriere della Sera, 16 aprile 2014 Il gup Manuela Scudieri ha riconosciuto al ghanese la semi-infermità mentale. I parenti delle vittime: "Sono sei anni a omicidio, in un Paese normale non è giustificabile". Adam "Mada" Kabobo, il ghanese che l’11 maggio 2013 uccise tre passanti a Milano a colpi di piccone, è stato condannato a vent’anni di carcere e un periodo "non inferiore a 3 anni" di casa di cura e custodia come misura di sicurezza. La sentenza è stata emessa col rito abbreviato dal gup di Milano Manuela Scudieri, che gli ha riconosciuto la semi-infermità mentale. È stato quindi sostanzialmente accolta la richiesta del pm che aveva chiesto 20 anni più 6 in una casa di cura, col riconoscimento della semi infermità mentale. Il giudice ha riconosciuto la tesi accusatoria e ha ritenuto il ghanese capace di intendere e volere al momento del fatto, malgrado soffra di schizofrenia paranoide. La difesa aveva invece chiesto l’assoluzione con il riconoscimento della totale infermità di mente. Alle famiglie delle vittime, parti civili nel processo che si è svolto con rito abbreviato, sono state riconosciute provvisionali per somme che vanno dai 100mila euro in su come risarcimento. Il ghanese però è nullatenente. Le aggressioni col piccone L’11 maggio 2013 era un sabato. Adam Kabobo, 31 anni, irregolare in Italia, con precedenti per resistenza, rapina, furto e stupefacenti, foto-segnalato nel 2011 in Puglia e intimato all’espulsione, si aggirava all’alba in via Monte Grivola, armato di una spranga, in evidente stato di alterazione. Senza motivo si scagliò contro un 24enne che tornava dal turno nel supermercato: il ragazzo andò a farsi medicare al pronto soccorso di Niguarda e fu dimesso. Dopo una ventina di minuti il ghanese incrociò un secondo passante in via Passerini, un operaio 50 enne, e lo colpì alla testa: anche questo, non grave, andò in ospedale. Nessuno chiamò i carabinieri. Ma a quel punto Kabobo raccolse un piccone in un vicino cantiere e alle 6.30 del mattino incrociò Ermanno Masini, 64 anni, pensionato. Lo colpì alla testa e all’addome in via Adriatico: le ferite furono mortali. In piazza Belloveso il ghanese vide Alessandro Carolé, 40 anni, seduto davanti al bar, e lo colpì più volte alla testa, uccidendolo. Infine, in via Monte Rotondo, l’aggressione al 21enne Daniele Carella, colpito alle spalle mentre scaricava giornali assieme a suo papà: ricoverato in fin di vita al Niguarda, il ragazzo morì per le numerose ferite alla testa. I parenti delle vittime "In qualsiasi altro Paese, per esempio negli Stati Uniti, Kabobo sarebbe stato condannato alla pena di morte o all’ergastolo. Se penso che vent’anni di carcere sono sei anni a omicidio, dico che in un Paese normale non è giustificabile", è il commento amareggiato di Andrea Masini, il figlio di Ermanno. "Non ce l’ho con il giudice, che era obbligato a pronunciare questa sentenza, visto il riconoscimento della semi infermità mentale e il rito abbreviato, ma ce l’ho con lo Stato italiano che fa entrare i clandestini e non li segue", ha spiegato Masini. In relazione al risarcimento che il giudice gli ha concesso, Masini sottolinea che "mio padre non è monetizzabile, lo Stato dovrebbe risarcirmi in automatico, non dovrei essere io a chiedere a Kabobo che è nullatenente". Masini ha ricordato l’intenzione delle altre parti civili di fare causa al Viminale per ottenere il risarcimento dei danni subiti, per poi commentare: "Lo Stato è inadempiente sui risarcimenti. In un paese normale dovrebbe essere automatico, qua devi fare causa. Io mi assocerò solo se mi diranno che Kabobo non esce più dal carcere. Quel che è successo è colpa dello Stato, perché a uccidere mio padre è stato un irregolare, un clandestino". Si sente solo e non capisce... "Mi ha detto che si sente solo, che non capisce perché si trova da solo in cella", ha raccontato ai cronisti Nancy Asare, interprete ghanese che ha avuto modo di parlare nel corso delle udienze del processo con Adam Kabobo. "Ha un livello di alfabetizzazione bassissimo - ha spiegato - ha fatto 4-5 anni di scuola elementare, parlavo con lui dialetto ghanese e un po’ di inglese". L’avvocato Francesca Colasuonno, che con il collega Benedetto Ciccarone difende il ghanese, ha raccontato: "Abbiamo spiegato a Kabobo quel che è successo. Noi riteniamo che il carcere non sia il luogo adatto per curarlo e ci auguriamo che venga trasferito. Aspettiamo le motivazioni e poi andremo in appello". I difensori hanno ricordato ai cronisti che pende in Cassazione (udienza fissata per il 30 maggio) la loro istanza, bocciata in passato dal gip e dal Riesame, per chiedere il trasferimento del ghanese dal carcere di San Vittore in un ospedale psichiatrico giudiziario, sempre in regime di custodia cautelare, dove l’uomo potrebbe essere meglio curato e seguire "un percorso riabilitativo". Friuli Venezia Giulia: la Regione adotta protocollo per garantire diritto salute ai detenuti www.marketpress.info, 16 aprile 2014 Nell’ottica di garantire il diritto alla salute anche delle persone detenute, Regione e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia hanno siglato ieri un protocollo d’intesa che definisce forme di collaborazione che consentono di assistere le persone recluse nelle carceri del Friuli Venezia Giulia, non solo con interventi di cura e risposta alle emergenze ma anche con iniziative di promozione della salute. A sottoscrivere l’intesa, che non prevede oneri a carico della Regione, sono stati l’assessore alla salute Maria Sandra Telesca e il provveditore reggente Pietro Buffa. Tutte le prestazioni saranno assicurate dalle Aziende per i servizi sanitari, d’intesa con le direzioni degli istituti penitenziari, che garantiranno la sicurezza in caso di ricoveri o visite in strutture esterne alle carceri. Parallelamente è garantito l’accesso in carcere di medici di fiducia del detenuto. Sarà attivato anche un Osservatorio regionale per la sanità penitenziaria, con il compito di monitorare efficacia e appropriatezza degli interventi e proporre strumenti correttivi nel caso si manifestino delle criticità. Proprio per questa ragione il protocollo è soggetto ad una fase sperimentale di un anno, per poter prevedere una eventuale modifica di disposizioni poco efficaci. All’intesa tra Regione e Ordinamento penitenziario faranno ora seguito protocolli locali tra le Aziende sanitarie e gli istituti di pena. Piemonte: nelle carceri di Asti, Alessandria e Saluzzo torna il progetto "Voltapagina" www.atnews.it, 16 aprile 2014 Una finestra spalancata sul mondo e sulla vita, che si apre sfogliano pagine di romanzi, saggi, poesie e racconti. È il progetto Voltapagina, l’iniziativa del Salone Internazionale del Libro nata nel 2007 per portare i grandi autori della narrativa italiana nelle carceri, durante i giorni della festa del libro torinese. Un progetto di impegno sociale, alla sua ottava edizione, cresciuto negli anni per apprezzamento e partecipazione di scrittori, penitenziari e pubblico esterno, organizzato in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia. Quest’anno sale a quattro il numero degli istituti penali piemontesi coinvolti: la Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo (Via Regione Bronda, 19/bis), che per prima ha aderito al progetto; la Casa Circondariale Quarto Inferiore di Asti (Strada Quarto Inferiore, 266) al quarto anno di coinvolgimento, la Casa di Reclusione San Michele di Alessandria (Strada Casale, 50/A), che partecipa per la seconda volta; e per la prima volta l’Istituto Penale per i Minorenni Ferrante Aporti di Torino (Via Berruti e Ferrero, 3), già coinvolto nell’iniziativa Adotta uno Scrittore. Sono otto gli autori che incontreranno i detenuti e il pubblico esterno: Alessandro Bergonzoni (Torino), Luca Bianchini (Saluzzo), Mauro Corona (Asti), Giovanni Floris (Saluzzo), Maurizio Maggiani (Saluzzo), Antonio Pennacchi (Alessandria), Andrea Vitali (Alessandria) e Fabio Volo (Asti). Nelle settimane che precedono gli incontri, i detenuti che hanno volontariamente scelto di partecipare a Voltapagina vengono guidati alla lettura e all’approfondimento dei libri da un gruppo di assistenti sociali, educatori e volontari dei penitenziari. Il momento dell’incontro con l’autore sarà così occasione di discussione e dialogo sui temi trattati nell’opera e sull’esperienza della scrittura. Voltapagina è patrocinato dalle città di Saluzzo, di Asti e di Alessandria. Domenica 11 maggio alla Casa Circondariale Quarto Inferiore di Asti saranno protagonisti Fabio Volo (ore 11) e Mauro Corona (ore 15). Voltapagina è aperto anche al pubblico esterno, che dovrà presentarsi munito di documento d’identità. Chi desidera partecipare può prenotarsi qui entro il 2 maggio: ufficioeducatori.cc.asti@giustizia.it (specificando in oggetto: Salone del Libro) oppure 0141.293732. Pisa: detenuto morto al Don Bosco. Il direttore del carcere "probabili cause naturali…" www.pisatoday.it, 16 aprile 2014 Sembra esclusa l’ipotesi quindi del suicidio: l’uomo è stato trovato esanime riverso sul tavolino, senza alcun segno apparente del tragico gesto. È stato un poliziotto penitenziario a dare l’allarme e ad attivare gli ormai inutili soccorsi "Non c’era alcun segno che possa far pensare ad un suicidio". Così il direttore del carcere Don Bosco di Pisa, Fabio Prestipino, che abbiamo raggiunto al telefono, sulla morte del detenuto, un uomo di origine slava di 64 anni, morto domenica sera all’interno della Casa Circondariale pisana. La notizia del decesso era stata diffusa dal vicesegretario generale dell’Osapp Giuseppe Proietti Consalvi. "Il detenuto aveva qualche problema di salute, si trovava infatti all’interno del Centro Diagnostico Terapeutico - continua il direttore - al momento comunque è esclusa l’ipotesi che si sia tolto la vita. Non so ancora se il Pubblico Ministero disporrà o meno l’autopsia per chiarire le cause esatte della morte". Firenze: Sollicciano e l’Europa… l’urgenza di una svolta di Enzo Brogi (Consigliere regionale Pd) Corriere Fiorentino, 16 aprile 2014 Tola da due anni e mezzo abita a Sollicciano, accusato di tentato omicidio "ma sono innocente", si affanna a dire in un italiano imparato bene. Sbarcato anni fa a Brindisi dall’Albania e poi disperso, emarginato per le mille strade dello stivale, fino a quando, riuscì a trovare il grande generoso ufficio di collocamento della delinquenza, che lo assunse. Una storia simile a quella di tanti altri nordafricani, rumeni, bulgari. Tola avrà si e no 25 anni. L’ho incontrato durante una delle mie "improvvisate" al carcere fiorentino, nella terza sezione del giudiziario. Dove ci sono i detenuti in attesa di giudizio, appunto. Avevano appena fatto la doccia, dicono che spesso è fredda, in un angusto e fatiscente locale con tre erogatori d’acqua, per oltre 60 persone. Gli spazi, ma meglio sarebbe dire i ristretti, sono una delle questioni che a Sollicciano ti colpiscono di più, come una travata. Eppure per arrivare alle celle devi percorrere decine di corridoi, centinaia di metri, stanze ed ambienti ampi e deserti. Tutto è riscaldato e umidiccio. Poi, fatti ancora pertugi e rampe di scale ecco che entri nel caravanserraglio della disperazione. Tutti ammassati in pochi metri quadrati, spesso personale di custodia compreso. Tola ha i capelli a zero numerosi tatuaggi ben in vista sulle braccia: una donna nuda, delle date, un nome con caratteri barocchi proprio vicino al cuore. "Qua stiamo come bestie, chiusi per 20 ore al giorno senza fare niente. Poco più avanti c’è Hannes, lui arriva da un villaggio vicino a Essauira, quello spettacolo di posto che si affaccia su un mare immenso e cristallino, assai diverso dal suo attuale affaccio, cemento ed ancora cemento, spesso talmente fatiscente e inumidito da essere divenuto una specie di ospitale e produttiva serra del lichene. Potrei proseguire, ogni cella un racconto, una disperazione. Neppure nel punto più turistico e nevralgico di New York ti imbatteresti in tanto capitale umano. Le cifre sono impietose, le carceri italiane sono le peggiori d’Europa, basti pensare alla sentenza Torreggiani. Ma c’è di più, c’è perfino chi si rifiuta di mandare i detenuti nei nostri penitenziari per mancanza di garanzie sui trattamenti, giudicati inumani. Qualcuno ha per caso qualcosa da obiettare alla Royal Courts of Justice di Londra che praticamente per due volte nel giro di poco meno di un mese ha negato l’estradizione di due detenuti nelle carceri italiane? Ah, dimenticavo, il penitenziario in questione, quello che manca di garanzie, è Sollicciano, proprio quello dove ho incontrato Tola e Hannes. Questa vicenda londinese ha dell’incredibile, non perché credo sia importante dove si sconta o meno il periodo di reclusione, ci mancherebbe altro. Ha dell’incredibile perché per un Paese avere un sistema detentivo adeguato e rispettabile, è una questione di civiltà. Anche Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana, nei giorni scorsi è tornato sulla gravità di questo cortocircuito e ha detto che se dall’amministrazione penitenziaria non arriveranno risposte a questa situazione saranno prese in considerazione forme di protesta. Ecco, io credo che si debba scongiurare uno scenario del genere; pertanto si scriva una nuova pagina di storia sul sistema penitenziario. A Sollicciano ci sono quasi mille detenuti, ben oltre il 40% sopra la regolarità dei posti previsti, 60% il numero degli stranieri, 50% quelli in attesa di giudizio, 40% gli arrestati per questioni di droga che potrebbero andare in comunità, altri agli arresti domiciliari. Eh sì, l’incostituzionale Fini-Giovanardi ha dato un bell’aiuto alla crescita della popolazione carceraria. Ci stupiamo se da Londra non si fidano? Corleone ha detto che nelle carceri toscane c’è un problema di agibilità; aggiungo che manca un sistema che preveda il reinserimento nella società per chi esce dal carcere e percorsi alternativi per chi ha problemi di tossicodipendenza, e anche se la nostra Regione in questo senso si sta muovendo bene, da sola non può farcela. Serve un cambiamento radicale: una riforma generale del sistema penitenziario capace di dare energie positive a questa spirale di disperazione. Possiamo farcela? Io credo di sì. Però sono necessari provvedimenti immediati. Perché così... così a Tola e Hannes manca l’aria. Genova: dietro le sbarre di Marassi, tra gli "invisibili" non ci sono soltanto i detenuti di Daniela Amenta L’Unità, 16 aprile 2014 Stefania Trinchero, psicologa che lavora nell’istituto di Genova, ha scritto un libro-metafora per Sensibili alle foglie. "Il tempo in carcere non ti appartiene più e pur trascorrendo, come per tutti gli esseri umani, sembra fermarsi... e fermarti. È un tempo che ti condanna e ti libera contemporaneamente. Apre e chiude le tue giornate con una sua drammatica circolarità". Un paragrafo da "La carezza del sole" (pag. 95, euro 12, Sensibili alle foglie) esordio letterario di Stefania Trinchero, psicologa che dal 1997 lavora all’interno del carcere di Marassi, a Genova. È la storia di una madre detenuta, di una figlia, di un rapporto andato a rotoli che in qualche modo, e in fondo a un tunnel buio, si ricompone. È la storia di vite dietro le sbarre, non solo le vite dei condannati, ma degli altri invisibili: le guardie, i medici, gli amministrativi, gli psicologi. Una nebulosa sconosciuta e che il mondo civile non sembra minimamente interessato a conoscere. Anzi: più alto il muro, più solide le grate, più filo spinato a delimitare il loro e il noi, il dentro e il fuori. Spiega Trinchero: "Oggi tutto ciò che non viene raccontato non esiste. Anche noi operatori sanitari che lavoriamo in carcere non abbiamo voce, siamo trasparenti, esattamente come i nostri pazienti, e come loro, siamo dimenticati". Ventiquattro ore settimanali di supporto psicologico ai detenuti, nella maggioranza dei casi tossicodipendenti. Una fatica, opera improba, scalare pezzi d’inferno a mani nude. "Ma in 17 anni ho avuto tante soddisfazioni, mai un’aggressione, neppure verbale - continua Stefania - e tanti attestati d’affetto, di gratitudine anche da parte di quelli che ce l’hanno fatta, sono usciti. Come la lettera di un ex paziente che mi ha scritto: "Prima di agire ho pensato a quello che avrebbe fatto lei. Come si sarebbe comportata". Chi vieni in terapia è motivato, ne ha bisogno, richiede aiuto. Sono pazienti rispettosi e affettivi. Parti sane che andrebbero riattivate in ogni modo, con molte forze in gioco. Qui in carcere si vede con chiarezza: è impossibile mentire a se stessi". È un libro lieve, e insieme durissimo La carezza del sole. Un libro tutto virato al femminile: tre donne, un rapporto matrilineare e il carcere come spazio sia fisico che inconscio dove tutto si svolge, che marchia i rapporti, dimensiona i sentimenti, accresce i ricordi e il sentire. Una giornata di pioggia durante l’ora d’aria, ad esempio, oppure lo sguardo dei bambini piccolissimi detenuti con le loro mamme, o ancora l’ascolto di un disco e la lettura di un libro, il momento dei colloqui. Scrive Trinchero: "Il male, fatto o subito, in un contesto come quello carcerario, non si può far finta di non vederlo, o di non sentirlo. Può essere circoscritto, arginato da mura sempre più alte come grandi dighe che trattengono fiumi in piena, ma prima o poi qualcosa di tutto questo malessere che c’è dentro e fuori dal carcere, penetra, si contamina, non si capisce più cosa è veramente buono, sano, e giusto da quello che non lo è, o non lo è più". È la difficoltà ad attraversare ogni giorno la linea di demarcazione tra noi e loro, tra il fuori e il dentro, tra codici che non dialogano. "Marassi è nella città, è Genova, quando i detenuti fanno rumore si sentono in strada - continua l’autrice. È una presenza reale ma è come se non esistessimo. Noi e loro. Siamo pochi operatori nelle carceri. In questo carcere solo quattro psicologi e due giovani psichiatre. Vediamo una media di ottanta, cento persone al mese in una stanza che è una cella. Persone che hanno spesso problemi di autolesionismo, hanno vissuti molto faticosi". Un libro durissimo, come si diceva, ma con un messaggio conclusivo di speranza e in qualche modo di riscatto. Conclude Stefania Trinchero: "È in questa fiducia in un futuro diverso per ciascuno di noi che cerco e trovo le risorse e la forza per affrontare una nuova giornata con i miei "pazienti involontari", come mi piace chiamarli, al fine di restituire qualcosa della vita che mi raccontano, qualcosa che sia più gestibile e meno doloroso. A loro dedico il mio libro". Palermo: primo braccialetto elettronico a un detenuto ai domiciliari per mafia La Repubblica, 16 aprile 2014 Prima misura cautelare del braccialetto elettronico, oggi, a Gela, per un detenuto agli arresti domiciliari, Claudio Domicoli, di 34 anni, esponente della famiglia "Rinzivillo" di "Cosa Nostra" gelese. L'ha disposta il giudice monocratico del tribunale, Manuela Marra, nel corso dell'udienza di convalida dell'arresto dello stesso imputato che i carabinieri avevano bloccato, ieri, perchè evaso dal suo domicilio dove si trovava in stato di detenzione. Il provvedimento, come prevede la legge, è stato emesso dietro preventiva accettazione da parte dell'imputato, il quale avrebbe potuto anche rifiutare, optando per la detenzione in carcere. Il braccialetto elettronico è un dispositivo che viene collocato alla caviglia o al polso del carcerato. Si tratta di un trasmettitore che invia impulsi radio a un ricevitore fisso detto "Smu" (unità di sorveglianza locale) simile a una radiosveglia, che viene installata dai tecnici del gestore Telecom nell'abitazione del detenuto. Se si supera la distanza prestabilita (un ragionevole raggio di alcuni metri), scatta la segnalazione d'allarme che, attraverso una linea telefonica, giunge alla centrale operativa di Telecom Italia e da questa girata alle forze dell'ordine. Prato: la Garante, Ione Toccafondi, insediata nell’Ufficio dell’assessorato ai Servizi sociali Adnkronos, 16 aprile 2014 Si è insediata nell’Ufficio istituito presso l’assessorato ai Servizi Sociali e Sanità del Comune di Prato la Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Ione Toccafondi. I compiti che il regolamento attribuisce al Garante consistono essenzialmente nella promozione dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile dei detenuti e delle persone comunque private della libertà personale residenti, domiciliate o dimoranti nel Comune di Prato, nella sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani, nella promozione di iniziative congiunte con altri soggetti pubblici nonché con il mondo dell’associazionismo finalizzate alla realizzazione di progetti utili al reinserimento dei detenuti. Roma: progetto "Semi di libertà", per contrastare la recidiva… la birra "made in carcere" di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 16 aprile 2014 Il progetto nato dall’idea di Paolo Strano, coinvolge ministero della Giustizia, Miur e diversi mastri birrai italiani. Nove i detenuti che parteciperanno, di età compresa tra 20 e 30 anni: "Vogliamo puntare sui più giovani, perché sia per loro una seconda vita quella che li aspetta d’ora in poi". "Chi esce senza misure alternative torna in galera sette volte su dieci. Chi ha imparato un lavoro due su cento". Il senso e il valore del progetto Semi di libertà è tutto racchiuso in questa frase che troneggia nella testata del sito internet dell’associazione che l’ha ideato. Un obiettivo, quello del reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, che è anche una sfida di qualità e che punta tutto su una tendenza in ascesa: quello di produrre birra artigianale. L’idea è di Paolo Strano, fisioterapista di professione, ma birraio per passione, che nel 2010 dopo aver messo per la prima volta piede in un carcere ha deciso di fare qualcosa per permettere alle persone incontrate a Regina Coeli di avere una seconda chance. E così a marzo è partito il progetto che coinvolge ministero della Giustizia e Miur e che permetterà a 9 detenuti di iniziare la produzione di tre nuove birre, all’interno dell’Istituto agrario Sereni di Roma, con la collaborazione dei migliori mastri birrai italiani. Un’iniziativa che prevede anche corsi di legalità nelle scuole: i detenuti racconteranno agli studenti la loro storia personale come esempio di contrasto alla criminalità. "È nato tutto per caso - racconta Strano. Qualche anno fa sono stato mandato dalla Asl a lavorare nel carcere, perché era difficile trasportare fuori i ragazzi che avevano bisogno di cure. Così iniziai a fare fisioterapia lì. Incontravo queste persone in una stanza e mi confrontavo con loro senza la mediazione delle guardie. Alla fine fu inevitabile instaurare un rapporto, che era fondato sul rispetto reciproco. Ho capito che al di là dei cosiddetti delinquenti abituali ci sono persone che commettono reati perché dalla vita non hanno avuto nessuna opportunità. E così da questa esperienza, umanamente la più formativa e al tempo stesso la più violenta della mia vita, ho deciso di andare oltre e dare una chance a chi stava scontando una pena". L’idea di Strano è di puntare su uno dei pochi campi in espansione e di tendenza in questo momento in Italia: quello della birra artigianale. E dopo un viaggio in Belgio e aver preso contatti con alcuni dei più noti mastri birrai nazionali, decide di presentare un progetto di reinserimento lavorativo al ministero della Giustizia, ma è solo a fine 2012 che arriva la svolta, dopo la firma di un protocollo tra lo stesso ministero e il Miur per la formazione professionale dei detenuti. "La battaglia contro la burocrazia ministeriale è stata dura ma ero molto determinato - aggiunge - e così grazie anche all’aiuto della sezione integrazione del ministero dell’Istruzione siamo riusciti a partire solo a marzo 2014". Il progetto coinvolgerà nove persone in tutto, che a gruppi di tre inizieranno prima una formazione teorica, con tirocinio nei birrifici italiani più importanti, e poi una parte pratica con la produzione vera e propria di tre birre cosiddette residenti (cioè la cui produzione sarà fissa): una saison prodotta da Paolo Mazzola con le materie prime coltivate dagli studenti dell’Istituto agrario e che si chiamerà "A piede libero"; una golden ale e una american pale ale, prodotte con la collaborazione del mastro birraio di Stavio, Marco Meneghin. Altri importanti birrai daranno il loro apporto al progetto con la produzione di birre one shot, in edizione limitata, e prodotte dai detenuti insieme ai ragazzi della scuola. Il birrificio artigianale si chiamerà "Vale la pena", e all’interno nasceranno anche laboratori di integrazione che coinvolgeranno gli studenti per scegliere i nomi da dare ai prodotti e gli slogan della campagna di comunicazione ma anche per riflettere sull’esperienza di reinserimento. "I nove detenuti che partecipano al progetto sono quasi tutti giovani, di età compresa tra i 20 e i 30 anni - spiega ancora Strano. L’idea è proprio quella di insegnargli un mestiere, da spendere una volta usciti dal carcere. C’è anche una persona di 54 anni ma vogliamo innanzitutto puntare sui più giovani, proprio perché sia per loro una seconda vita quella che li aspetta d’ora in poi". I ragazzi scelti provengono dal reparto semiliberi, a basso controllo, del carcere di Rebibbia. Tra i birrifici che hanno aderito al progetto c’è Eataly (che venderà anche le birre prodotte), Birra da mare di Fiumicio, Turan di Bagnaia, Freelions di Tuscania e Aurelio di Ladispoli. Busto Arsizio: evasione Cutrì; agenti Polizia penitenziaria promossi, fecero fronte assalto Ansa, 16 aprile 2014 Promozione per merito straordinario alla qualifica superiore agli Assistenti per Pierpaolo Giacovazzo ed Erasmo Gianluca Nardulli, i due assistenti in servizio al Nucleo traduzioni del carcere di Busto Arsizio, che il 3 febbraio scorso erano rimasti coinvolti nell’evasione del detenuto Domenico Cutrì messo in atto da un commando armato presso il Tribunale di Gallarate (Cutrì fu poi catturato il 7 febbraio). Lo comunica il Dap. La promozione, decisa dalla Commissione per le questioni concernenti la professione in carriera del personale di Polizia Penitenziaria, è il riconoscimento per la prontezza e il coraggio mostrato dai due Assistenti Giacovazzo e Nardelli che, mettendo a repentaglio la propria vita, salvaguardarono quella dei cittadini presenti sul luogo dell’assalto. Domani saranno esaminate le proposte di promozione per merito straordinario per gli Assistenti Capo Antonio Vincenzo Indorato ed Espedito Settembrese, entrambi facenti parte del servizio di scorta al detenuto Cutrì e rimasti coinvolti nel medesimo tentativo di evasione Velletri (Rm): Sippe; discarica abusiva con tavoli e sgabelli in dotazione alle celle detenuti Agenparl, 16 aprile 2014 Il giornale online della polizia penitenziaria polpen.it ha denunciato l’esistenza, nell’area antistante il parcheggio del Carcere di Velletri, una discarica con della sterpaglia, tavolini e sgabelli simili a quelli in dotazione nelle celle dei detenuti e vari oggetti non identificabili, forse perché sono stati dati alle fiamme. Sembrerebbe che siano stati interrati anche dei rifiuti dato che sotto il groviglio di rami e piante sembra esserci un ammasso di terra sollevata. L’area dove insiste questo scempio non è accessibile al pubblico ma è di proprietà dell’amministrazione penitenziaria e si trova a circa 100 metri dall’ufficio del Direttore del carcere il quale, assume una posizione di garanzia nell’attuazione di tutte le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. È noto a tutti che l’abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati dall’articolo 192 del D.Lgs.152/2006. Si tratta quindi di un fatto imbarazzante per l’Amministrazione Penitenziaria, forse senza precedenti, nonché un serio pericolo per la salute dei lavoratori per un potenziale rischio di esposizione ad agenti biologici visto che l’abbandono non sembra occasionale ma sta assumendo il carattere di una vera e propria discarica abusiva in un’area della pubblica amministrazione trasformata ormai in deposito. Resta da capire chi ha portato questo materiale fuori dal carcere per poi buttarlo a tal punto da creare una vera e propria discarica. Catania: "Etna patrimonio dell’Umanità", tema incontro svoltosi ieri all’Ipm di Acireale Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2014 L’Etna patrimonio dell’Umanità, questo il tema della conferenza svoltasi ieri mattina presso l’Istituto Penale per Minori di Acireale, in collaborazione tra la direzione dello stesso e l’Ente Parco dell’Etna. All’incontro, che è stato particolarmente seguito ed apprezzato dai giovani ospiti dell’Istituto, oltre alla direttrice, Carmela Leo, al comandante degli agenti di Polizia Penitenziaria, Aristide Catania ed agli educatori, sono intervenuti la presidente dell’Ente Parco, Marisa Mazzaglia, il vulcanologo, Salvo Caffo ed il responsabile del settore fruizione, Francesco Pennisi. Nel corso della conferenza, durante la quale sono state proiettate numerose immagini del Vulcano, i rappresentanti dell’Ente Parco, nel ricordare le diverse fasi attraverso le quali l’Etna è stata riconosciuta come patrimonio dell’Umanità, si sono soffermati sugli aspetti geologici e naturalistici del territorio in questione, ma anche sugli aspetti turistici, sportivi e culturali, suscitando l’interesse dei giovani presenti. "L’Etna - ha detto, tra l’altro, la presidente Marisa Mazzaglia - costituisce una ricchezza del territorio locale, ma rappresenta pure uno dei luoghi attraverso i quali è possibile studiare e conoscere meglio il nostro pianeta. Per questo è necessario proteggerlo ma anche rispettarlo, contribuendo ad accrescerne il grado di conoscenza da parte dell’opinione pubblica e dei giovani in particolare." La conferenza sull’Etna rientra nel protocollo di collaborazione tra l’IPM di Acireale e l’Ente Parco promosso su iniziativa dell’ex Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, Salvo Fleres. Il progetto, approvato dal Centro per la Giustizia Minorile e dalla competente Magistratura di sorveglianza, vede già alcuni giovani dell’Istituto acese impegnati in attività di volontariato agricolo ed ecologico presso il Campo collezioni e la Banca del Germoplasma, che si trovano nella sede dell’Ente, a Nicolosi, ed alla cui cura collaborano molto attivamente i funzionari della Soat di Zafferana Etnea. Verbania: la "Banda Biscotti" diventa una web series prodotta da "Illogica Lab" www.verbanianotizie.it, 16 aprile 2014 "Are you series?" è il progetto pensato dal Milano Film Festival, volto alla produzione di una web serie in 10 episodi che racconti il mondo del non profit italiano, attraverso l’utilizzo di soluzioni creative e linguaggi innovativi. "Illogica Lab", laboratorio creativo nato dall’incontro tra le diverse personalità creative di Giorgia Di Pasquale, Claudia Palazzi e Clio Sozzani ha scelto così di partecipare raccontando le avventure della Banda Biscotti, un gruppo di detenuti del Carcere di Verbania "condannati a creare dolcezze", che grazie all’art. 21 della legge 354/1975, ogni giorno esce dal carcere per lavorare in un laboratorio di pasticceria. Il progetto, con la sua puntata pilota, ha passato la prima selezione del concorso del Milano Film Festival. "Nella parola "non profit" - racconta Giorgia Di Pasquale, ideatrice del progetto insieme a Clio Sozzani e Claudia Palazzi - si racchiude un mondo di progetti e persone che con coraggio tentano di migliorare le cose. La Banda Biscotti ci ha letteralmente "rapite" riuscendo ad abbattere lo stereotipo legato ai carcerati e dando un nuovo senso a parole come "banda" ed "evasione". "Chiunque può sbagliare e chiunque si può riprendere" - dice il Nonno (componente "storico" della Banda) - noi speriamo di vincere per avere la possibilità di dimostrarvelo". Concept e finalità della serie A tutti noi è chiaro che andare in carcere significa essere "puniti" per un reato commesso, tuttavia è molto meno diffusa la consapevolezza che il vero scopo della detenzione penitenziaria dovrebbe essere la riabilitazione e il reinserimento nella società. Ma cosa succede veramente nelle nostre carceri? Come vivono le persone al loro interno? Ed essere riabilitati è effettivamente possibile? Se potessimo parlare con gli oltre 65.000 carcerati italiani scopriremmo che sono in molti a sentirsi isolati e pieni di rabbia e vorrebbero poter fare qualcosa per riconciliarsi in un mondo che li teme. La Banda Biscotti, grazie all’art. 21 della legge 354/1975 relativa alle norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, è riuscita a far entrare la dolcezza dietro sbarre e Illogica Lab ha raccontato questa storia di evasione e libertà attraverso dei prodotti di pasticceria. Banda Biscotti trae le proprie origini dall’esperienza di lavoro nel contesto penale maturata in più di 35 anni dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus. Il progetto si dedica alla formazione professionale in pasticceria all’interno del carcere di Verbania rappresentando, per le persone con problemi di Giustizia, un’importante speranza di reintegrazione sociale attraverso il lavoro (grazie all’articolo 21). Il progetto crede nel fatto che la formazione possa giocare un ruolo di primo piano rispetto allo sviluppo di politiche votate all’inclusione sociale delle persone più fragili presenti all’interno dei circuiti di pena. Il progetto nasce nel 2008 e nell’arco di questi anni sono stati formati più di 120 detenuti, così Banda Biscotti si presenta oggi come una realtà ormai conosciuta e affermata. Alcuni dei maggiori canali di distribuzione della loro produzione di biscotti sono: Ctm Altro Mercato (330 botteghe in tutta Italia), Eataly, Iper Coop, Gas (gruppi di acquisto solidali) e moltissime botteghe private (soprattutto nel nord Italia). Questa web series dedicata alle avventure di Banda Biscotti ha molteplici finalità, ovvero: - abbattere i pregiudizi nei confronti dei carcerati: i biscotti prodotti dalla Banda, buoni e genuini, fanno da ponte "sensoriale" tra i detenuti e le persone "libere" che li mangiano e li apprezzano. In modo intuitivo, verrà mostrato come questi biscotti creino un legame tra qualcosa di buono e le persone, "presunte cattive" che li producono - scoprire il carcere: seguendo la produzione e la vita quotidiana della Banda si conoscerà la realtà carceraria al suo interno. Ogni biscotto racconterà una storia particolare, la storia delle mani che lo hanno fatto: passati tortuosi, di resistenza, isolamento, fatica e soprattutto di attesa di un futuro migliore. Di puntata in puntata si scoprirà, oltre a come/cosa comporta realmente vivere in carcere, quanto siano "normali" e "comprensibili" i pensieri e i problemi dei detenuti - far conoscere e apprezzare l’art. 21: carcere come punizione o carcere come occasione per cambiare il corso della propria vita verso la legalità? Oggi solo 2.000 carcerati hanno la possibilità di lavorare durante il periodo di detenzione, sfruttando in questo modo la pena in senso riabilitativo. Ovviamente un numero ridicolo rispetto all’intera popolazione carceraria che ammonta a più di 65.000 persone. Senz’altro raccontare una storia positiva legata all’art. 21 può, oltre a far conoscere questa legge, far aumentare la partecipazione dei cittadini e permettere di sviluppare nuove idee e progetti che aiutino i carcerati a ritrovare la propria dignità. - creare curiosità intorno a qualcosa che normalmente si vuole ignorare/dimenticare. Il carcere, luogo che per antonomasia rappresenta il lato oscuro della società, stimolerà la curiosità di chi è al di là delle sbarre grazie ai contenuti "culinari". La serie, con spirito scanzonato e leggero, attraverso l’ironia, parlerà di detenzione e carcere, eliminando il senso di paura e repulsione che normalmente ispira nelle persone. Viterbo: nel carcere di Mammagialla detenuto si laurea con una tesi in giurisprudenza da Associazione Gavac www.tusciaweb.eu, 16 aprile 2014 Sostenere e accompagnare gli studenti detenuti nel loro percorso didattico rientra da sempre tra le attività della nostra associazione: sono molti gli insegnanti in pensione infatti che offrono gratuitamente la loro esperienza e il loro costante impegno affinché le persone che hanno sbagliato strada possano ritrovarla attraverso lo studio; purtroppo sembrava che il diploma di maturità dovesse costituire un limite pressoché invalicabile. Ma sette anni fa, nonostante le tante (a volte troppo difficoltà) un gruppo di volontari volle organizzare anche al carcere di Viterbo un polo universitario spontaneo, non solo per aumentare l’offerta formativa, ma per accrescere il desiderio di riscatto e di cambiamento e per restituire a chi si volesse impegnare una dignità che a volte si perdeva dietro le sbarre. Ebbene, si cominciò con un solo studente universitario, ma oggi sono circa 25 gli iscritti in varie facoltà distribuite nei diversi atenei della regione (Viterbo, Roma, Terni) e quindi la notizia di una laurea non è più così eccezionale come una volta: sono già quattro infatti gli studenti laureati e altrettanti stanno preparando la tesi. Nei giorni scorsi, nella sala del teatro del carcere si laureato L.B., un altro detenuto che ha scelto la strada della cultura per riscattare sé stesso. Il neo dottore in Giurisprudenza ha presentato una tesi che ha suscitato l’interesse di tutti i presenti tra i quali, oltre ai familiari e ai volontari delle associazioni che operano all’interno del carcere, non sono mancati educatori e rappresentanti dell’istituto; tutti hanno assistito con attenzione alla discussione della tesi tra il candidato e la commissione d’esame composta da tre professori provenienti dall’Università di Roma Tre. Lo studio rappresenta indubbiamente un percorso privilegiato per il riscatto della dignità dell’uomo e costituisce sicuramente una delle migliori opportunità per il reinserimento sociale previsto dalla nostra Costituzione: tutti i presenti possono testimoniare di aver assistito a un esempio autentico di ricomposizione di quel conflitto sociale che si genera normalmente tra reo e società, a testimonianza del fatto che cambiare si può. Al termine della discussione, il presidente della commissione d’esame, constatato anche il curriculum accademico del candidato, ha declamato la formula di rito conferendogli ufficialmente la laurea magistrale di dottore in Giurisprudenza. I volontari che operano nel carcere di Viterbo, svolgendo una intensa attività di tutoraggio e preparando questi studenti che non possono ovviamente frequentare le lezioni in quanto detenuti, non sono animati da una sterile indulgenza verso coloro che hanno un discutibile passato ma dalla convinzione di accompagnare chi vuole riprogettare un degno futuro. Per raggiungere questi obiettivi dentro un penitenziario è necessario poter contare su una Direzione attenta e disponibile e soprattutto convinta che lavorare con questi obiettivi, pur se tra tante difficoltà organizzative (orari, lezioni, aule di studio, dispense, ecc.), significa restituire alla società persone rinnovate che potranno forse scegliere una nuova cultura in alternativa alle sub culture della devianza. Volontari e operatori del carcere di Viterbo pertanto, sono tutti convinti che l’interesse per lo studio possa riscattare l’uomo di buona volontà e renderlo davvero libero per sempre. Al termine della sessione, tutti i presenti hanno potuto partecipare ad un ricco buffet offerto dalla famiglia e che si è potuto svolgere solo grazie all’assistenza amichevole degli agenti di polizia penitenziaria. Isernia: questa mattina delegazione Uil-Pa visita il penitenziario, segue conferenza stampa www.primapaginamolise.com, 16 aprile 2014 Questa mattina una delegazione della Uil-Pa Penitenziari, composta da Eugenio Sarno, segretario generale, Luigi Di Michele, coordinatore regionale per il Molise, e Maria Prenassi, coordinatore provinciale di Isernia, sono in visita alla Casa Circondariale di Isernia. Seguirà una conferenza stampa nel piazzale dell’Istituto. Nella stessa mattinata, a partire dalle 11, nella sala riunioni della Casa Circondariale seguiranno i lavori del primo Congresso Regionale del sindacato dal titolo "Sbarrichiamo il futuro della Polizia penitenziaria". Nuoro: progetto "Il carcere va a scuola", i detenuti di Mamone salgono in cattedra di Bernardo Asproni La Nuova Sardegna, 16 aprile 2014 Continua l’esperienza di socializzazione, scambio culturale e "abbattimento" delle pesanti cancellate, a Mamone. "Il carcere va a scuola" è un progetto che da 12 anni, le docenti del Centro territoriale permanente, fra le altre, Maria Lucia Sannio e Raffaela Podda, sostenute dal dirigente Antonio Alba, portano avanti, calando l’importante percorso di legalità tra la casa di reclusione di Mamone e diverse scuole medie e superiori della Provincia. Questa volta l’incontro si terrà domani al liceo Scientifico di Nuoro, il cui preside Bachisio Porru ha trovato interessante l’idea di ospitare i detenuti nella sua scuola per un confronto con alcune classi terze dell’istituto. I detenuti saliranno per un giorno in cattedra per parlare con i ragazzi. Insomma conoscere le problematiche, le ansie e le prospettive di reinserimento dei detenuti è un ulteriore momento di riflessione e di crescita per gli studenti. I detenuti che partecipano all’attività godono di un permesso premio di circa 7 ore che permette loro di trascorrere una giornata "libera", accompagnati dagli insegnanti Ctp, dal cappellano di Mamone e da alcuni volontari che da sempre si occupano di aiutare i detenuti. Ed è una lunga e collaudata iniziativa che viene riproposta. La coordinatrice del corso Maria Lucia Sannio crede fermamente in questa esperienza e si adopera ogni anno affinché un gruppo di detenuti salga in cattedra e faccia di monito ai giovani cittadini. "Troppo spesso - dice Sannio - i nostri giovani pensano che eludere le regole della società civile non porti alcuna conseguenza, purtroppo non è così e i giovani testimoni detenuti di Mamone ne sono il chiaro esempio". I docenti ringraziano, oltre il dirigente Porru, il magistrato di sorveglianza dottor Carta, il direttore del carcere di Mamone Gianfranco Pala, gli educatori, la polizia penitenziaria "che hanno reso possibile l’iniziativa, di portare avanti questo percorso di educazione alla legalità". Rovigo: studenti di Adria alla scoperta del carcere, incontro con gli operatori penitenziari La Voce di Rovigo, 16 aprile 2014 Il carcere è un mondo a sé stante: una cittadella dentro la città, che oggi è anche una società multietnica. A Rovigo, per esempio, la maggioranza dei detenuti è musulmana. La vita complessa e a tratti drammatica della vita all’interno di via Verdi è stata al centro di una recente incontro nell’aula magna dell’ex Badini dove le classi 3° e 4° dell’indirizzo scienze umane del liceo "Bocchi-Galilei" si sono confrontati con alcuni operatori del penitenziario di Rovigo. Subito la rappresentante dell’area pedagogico-giuridica ha spiegato che "lo scopo principale del carcere è riabilitativo e trattamentale con colloqui costanti; a tale scopo si elaborano documenti di sintesi per godere di eventuali benefici, anche se poi è sempre decisivo l’intervento del magistrato di sorveglianza". Un altro aspetto della vita carceraria è l’ascolto per creare il più possibile condizioni di collaborazione. "L’ascolto - ha affermato - è alquanto rilevante per evitare atti insani di autolesionismo o suicidi, per questo viene garantito 24 ore su 24: è fondamentale il clima di solidarietà e di dialogo esistente tra il personale. Inoltre - ha aggiunto - ci si avvale di esperti per l’apprendimento della lingua, ma c’è anche un mutuo sostegno tra i detenuti; poi, può esserci la consulenza psichiatrica e esiste una sezione speciale per le tossicodipendenze". Nella conferenza è emerso che molti principi costituzionali sono disattesi, a cominciare dal fine rieducativo della pena, rivalutato negli ultimi anni. Libri: "Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione" Adnkronos, 16 aprile 2014 Giovani, italiani di seconda generazione o convertiti, abili nell’uso del Web, dei blog e dei social network. È il ritratto dei nuovi jihadisti italiani, una rete di militanti islamici per ora piuttosto esigua rispetto a quelle attive in Francia, Regno Unito, Germania o Belgio, ma non meno pericolosa. La descrive l’esperto di terrorismo islamico Lorenzo Vidino nell’e-book "Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione", edito da Ispi e European Foundation for Democracy e presentato ieri alla Camera. L’obiettivo che accomuna questi giovani è il desiderio di combattere la guerra santa, che si tratti di combatterla in Italia o, come più spesso accade, nei teatri più attivi del jihad internazionale, quale è in questo momento la Siria. Vidino spiega che, come accaduto con alcuni anni di anticipo nel resto d’Europa, i jihadisti autoctoni italiani hanno "scarsi legami con le grosse moschee. Non hanno, perlomeno all’inizio delle loro attività, alcuna connessione con gruppi jihadisti strutturati e Internet riveste un ruolo cruciale in tutte le loro attività, dalla radicalizzazione alla fase operativa". Raramente questi giovani vengono arruolati dalle comunità islamiche tradizionali, mentre è molto più frequente che siano loro stessi ad auto-arruolarsi tramite blog, forum e social network. Ecco perché è più difficile per loro coronare l’ambizione di combattere il jihad in Siria, visto che non hanno referenti o sponsor che garantiscano per loro con i gruppi attivi sul terreno. Questo non ha impedito ad almeno 10-15 volontari italiani di entrare in Siria attraverso la Turchia e combattere il jihad contro i militari di Bashar al-Assad, al fianco di circa 400 francesi, quasi altrettanti inglesi e centinaia di tedeschi, belgi e olandesi. Gran parte di questi giovani aspiranti jihadisti vivono nell’Italia settentrionale e in particolare in Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, ma anche in Toscana e in Campania. Vidino racconta tre casi emblematici di giovani jihadisti cresciuti nella provincia di Brescia e in Liguria, o "Liguristan" come la definiva Giuliano Delnevo. Il ragazzo, nato a Genova nel 1989, si era convertito all’Islam a 18 anni, diventando Ibrahim Giuliano. Lavorava in un cantiere navale e, si racconta nell’e-book, "fu lì che incontrò un gruppo di operai membri della Tablighi Jamaat, un movimento missionario islamico i cui adepti si prefiggono di spargere la loro visione estremamente conservatrice dell’Islam". Iniziò per lui un percorso di progressiva radicalizzazione, con un tentativo di creare un network di jihadisti italiani e l’apertura di un profilo su YouTube chiamato Liguristan e destinato alla diffusione di "messaggi religiosi e politici dai toni sempre più forti". Dopo un viaggio sul confine tra Turchia e Siria e un tentativo fallito di unirsi al jihad contro Assad, Ibrahim Giuliano tornò a Genova per poi, dopo pochi mesi, ripartire per la Siria, riuscendo questa volta a entrarvi e a schierarsi con un gruppo jihadista. Da lì chiamava il padre via Skype, raccontandogli le sue giornate sul campo di battaglia. Fino a quando, a metà giugno, il padre ricevette una telefonata da uno sconosciuto, che gli comunicò che il figlio era morto da "martire" la notte precedente mentre cercava di aiutare un commilitone somalo ferito. "Il suo elogio funebre - racconta Vidino - in cui Delnevo è chiamato Abu Musa, è apparso su vari siti jihadisti, incluso al-Fidaa, uno dei più importanti". È approdato in Siria anche Anas al-Abboubi, ma di lui si sono perse le tracce. Arrivato in Italia dal Marocco a sette anni, Anas viveva nel bresciano e faceva il rapper. Trascorreva molte ore su Internet e, entrato in contatto con la rete Sharia4Belgium, decise di creare l’omologa italiana Sharia4Italy. Nel 2012 finì nel mirino della polizia quando chiese informazioni in questura su come organizzare una manifestazione contro un film "blasfemo", annunciando di voler bruciare bandiere di Israele e scandire slogan contro Barack Obama. Scoperto a usare Google Maps per cercare obiettivi di colpire in Italia, tra i quali una caserma a Brescia, fu messo brevemente agli arresti e, una volta uscito dal carcere, entrò in contatto con una rete di musulmani slavi che lo aiutò a entrare in Siria, Da lì cominciò a riempire il suo profilo Facebook con messaggi a favore del jihad e contro l’Italia, prima che, lo scorso gennaio, si perdessero le sue tracce. Viveva a Brescia come Anas il 20enne Mohamed Jermoune, anche lui di origini algerine. Timido e schivo, intorno ai 16 aveva cominciato a frequentare siti jihadisti, creando un blog ed entrando in contatto con altri jihadisti. Passò quindi "dalla militanza da tastiera a quella nella vita reale", imparando a fabbricare esplosivi e raccogliendo informazioni sulla comunità ebraica di Milano. Arrestato per attività finalizzate al terrorismo, è ancora oggi in carcere. Ibrahim Giuliano, Anas e Mohamed sono tre casi emblematici di un fenomeno che certo in Italia è al momento su scala ridotta rispetto ad altri paesi europei e "riguarda solo una frazione statisticamente insignificante della popolazione di fede musulmana", ma con il quale, conclude Vidino nel suo libro, "è fondamentale che gli apparati di sicurezza e dell’intelligence, il mondo politico e il grande pubblico familiarizzino e prendano coscienza". Immigrazione: 29enne originario Gambia muore nel "Centro di accoglienza" di Siracusa www.strettoweb.com, 16 aprile 2014 Morto un giovane migrante di 29 anni, originario del Gambia, questa mattina all’interno del Centro di accoglienza Umberto I di Siracusa. A dare la notizia è l’associazione Borderline Sicilia. "Apprendiamo con sconcerto che ieri, 14 aprile, alle 10:30, è deceduto un ragazzo gambiano all’interno della struttura di accoglienza Umberto I di Siracusa - dicono gli attivisti. Il giovane sarebbe arrivato in Sicilia lo scorso 11 aprile, probabilmente ad Augusta. Sul molo del porto il ragazzo era stato già immediatamente segnalato dagli operatori dell’Oim come caso vulnerabile in quanto accusava evidenti problemi medici con disturbi forti alla vista. Nonostante ciò il ragazzo è stato collocato presso l’Umberto I di Siracusa, un centro di prima accoglienza senza alcuno status giuridico definito, né personale adeguato all’accoglienza di soggetti vulnerabili, meno che mai di persone con seri problemi di salute". E infatti il giovane è giunto in pieno arresto cardiocircolatorio nel polibus di emergency che staziona fuori dal centro dalla scorsa estate. Non l’avevano mai visto prima di oggi, non lo vedranno più. Immigrazione: riapre il Cie di via Corelli… riapre la stagione del controllo! dal Naga* Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2014 Nonostante sia dannoso, inutile, disfunzionale, diseconomico, un buco nero dove vengono ogni giorno violati i diritti dei cittadini stranieri reclusi, riapre il Centro di Identificazione ed Espulsione (Cie) di Milano in Via Corelli. O meglio, il fatto che sia dannoso, inutile, disfunzionale, diseconomico, un buco nero dove vengono ogni giorno violati i diritti dei cittadini stranieri reclusi, non ha nessuna rilevanza perché l’obiettivo del centro non è né l’identificazione, né l’espulsione, né tantomeno l’accoglienza, ma il controllo. Nella stessa logica è prevista anche l’apertura del Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) entro la fine dell’anno. "Con la riapertura del Cie e del Cara di Milano riapre, in grande stile, la stagione del controllo, l’unica risposta che, da sempre, la politica riesce a dare al fenomeno migratorio." Dichiara Luca Cusani, presidente del Naga. "Dato che la ristrutturazione è avvenuta a seguito di una distruzione da parte dei detenuti e visto che le ribellioni interne sono state l’unica vera forma di contrasto ai Cie, immaginiamo che la nuova versione del Cie conterrà strumenti e dispositivi che tenteranno di neutralizzare ogni forma di rivolta attraverso meccanismi di sottomissione e costrizione" prosegue il presidente del Naga. "Nel vuoto abissale della politica è evidente, una volta di più, che l’ordine pubblico e le carceri rimangono i soli strumenti per non- affrontare l’immigrazione: un fenomeno della realtà e non un’emergenza da dover controllare!" conclude Luca Cusani. Il Naga si augura che con la riapertura del Cie di via Corelli si riaprirà non solo la stagione del controllo, ma anche quella delle risposte forti da parte della città che, ci auguriamo anche con la voce del suo sindaco, ripudia ogni forma di discriminazione, reclusione e razzismo. *Naga-Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti Droghe: la Regione Lombardia riduce i servizi e contrae le rette reali per le Comunità di Cecco Bellosi* Il Manifesto, 16 aprile 2014 Lo scorso anno, dopo le elezioni regionali, il governatore della Lombardia aveva dichiarato che la nuova giunta avrebbe operato in discontinuità con le cattive pratiche che avevano travolto l’amministrazione precedente, procedendo, tra l’altro, al riequilibrio tra il settore sanitario, premiato negli anni scorsi a dismisura, e il settore sociale, cenerentola triste del sistema. A oltre un anno di distanza, nulla invece sembra cambiato. Non solo: nell’ultimo anno da piccolo impero crepuscolare, la vecchia giunta aveva aperto, quasi a giustificazione riparativa, degli importanti cantieri sperimentali sui bisogni attuali, con l’intenzione di metterli in seguito a sistema. L’attenzione della nuova giunta al mondo delle dipendenze è invece inesistente su tutti i fronti. Primo, le sperimentazioni: il mondo del privato sociale ha saputo costruire in questi due anni dei progetti capaci di risposte efficaci su problemi come la cronicità sociale, gli adolescenti a rischio di dipendenza, le unità mobili e i drop-in sulla prossimità e la riduzione del danno. Le istituzioni locali, a partire dal Comune di Milano, e gli organi tecnici della Regione hanno valutato molto positivamente questi progetti, ma le sperimentazioni non possono essere tenute in vita con le flebo del rinvio di mese in mese fino alla inevitabile chiusura. Secondo, il carcere: al 31 dicembre 2013 la Lombardia ospitava 8.756 detenuti, un sesto di tutta la popolazione carceraria, con un numero di persone detenute significativamente superiore alla capienza regolamentare. La differenza si attesta a quasi tremila unità: un quinto del totale e un quinto, quindi, delle sanzioni previste per trattamento inumano dei detenuti dall’Unione Europea. Eppure, la giunta regionale finora non ha fatto nulla, a differenza di altre Regioni, per costruire progetti e protocolli con il ministero della Giustizia e con le realtà del privato sociale per l’accoglienza esterna dei detenuti in misura alternativa, in particolare per coloro che sono in carcere in violazione della legge sulle droghe (il 38% del totale). La Regione Lombardia è assente nel momento in cui il ministero ha messo a disposizione risorse per affrontare in maniera significativa il virus endemico del sovraffollamento e per favorire l’accoglienza delle persone con problemi di tossicodipendenza. Non si tratta solo di una questione umanitaria o di risparmio economico rispetto sanzioni previste dall’Unione Europea, si tratta di sicurezza sociale. Non solo: non c’è nessuna volontà di approvare una legge sulla canapa terapeutica. Infine, le comunità: i servizi residenziali e i servizi ambulatoriali sono il cuore del sistema delle dipendenze che, sia pure con fatica, cerca di rispondere in maniera adeguata alle domande di aiuto in continuo aumento e trasformazione. La Regione Lombardia, di contro, risponde riducendo i servizi e contraendo le rette reali per le comunità, senza alcun adeguamento neppure nominale da ormai sette anni, esigendo peraltro servizi da alberghi di lusso ai costi di misere locande. Le rette previste dalla Regione Lombardia per le comunità terapeutiche sono ormai al quart’ultimo posto nel panorama nazionale: anche in questo caso, la desertificazione è vicina. Su questi temi bisognerebbe aprire un confronto efficace, superando la logica degli interventi frammentati, che costano fatiche eccessive senza un punto di partenza, una rotta e un approdo determinati e condivisi. Finora la Regione Lombardia non lo ha fatto, dimostrando di non avere alcuna attenzione nei confronti di un mondo e di problemi che segnano in maniera pesante le persone, le famiglie, la società. *Responsabile gruppo carcere Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza (Cnca) Stati Uniti: due detenuti in libertà condizionale stuprano e uccidono quattro donne La Presse, 16 aprile 2014 I due, già detenuti per reati sessuali, avrebbero compiuto le nuove violenze mentre indossavano cavigliere elettroniche per il controllo degli spostamenti. Ora rischiano la pena di morte o l’ergastolo senza possibilità di uscire sulla parola. Due detenuti della California condannati per reati sessuali hanno stuprato e ucciso quattro donne mentre erano in libertà condizionale e per questo sono stati nuovamente arrestati venerdì. I nuovi omicidi sono stati compiuti dallo scorso ottobre a Santa Ana e Anaheim, mentre i due indossavano cavigliere elettroniche per il controllo degli spostamenti. Lo riferisce il capo della polizia della contea californiana di Orange, Raul Quezada. Per i due, il 27enne Franc Cano e il 45enne Steven Dean Gordon, la procura distrettuale della contea ha formulato quattro capi d’accusa per omicidio e altrettanti per stupro. Se condannati, Cano e Gordon rischiano la pena di morte o l’ergastolo senza possibilità di uscire sulla parola. Al momento i due, che si sarebbero conosciuti nel 2012 e sono stati arrestati venerdì, sono trattenuti senza possibilità di libertà condizionale. Nelle prossime ore compariranno di fronte a un giudice. Iraq: chiude Abu Ghraib, carcere della scandalo torture perpetrate dai militari americani Aki, 16 aprile 2014 Le autorità irachene hanno chiuso per motivi di sicurezza il carcere di Abu Ghraib, a ovest di Baghdad, teatro nel 2004 dello scandalo delle torture perpetrate dai militari americani sui detenuti iracheni. A darne notizia è il ministro della Giustizia Hassan al-Shimmari spiegando che 2.400 prigionieri sono stati trasferiti in altre carceri in zone più sicure del Paese. La decisione di chiudere la struttura, spiega il ministro, è stata presa in quanto Abu Ghraib si trova in una "zona caratterizzata da instabilità". Il carcere si trova infatti al confine con la provincia di al-Anbar, a maggioranza sunnita, che dal 27 dicembre è teatro di violenti scontri tra le forze del governo centrale e i miliziani legati ad al-Qaeda. Lo scorso luglio alcuni miliziani hanno assediato il carcere di Abu Ghraib permettendo l’evasione di molti detenuti. Nell’attacco sono state uccise decine di detenuti e di uomini della sicurezza. Il carcere di Abu Ghraib era stato chiuso già nel 2006, per riaprire il 21 febbraio 2009 ristrutturato e ribattezzato Baghdad Central Prison. La nuova struttura può ospitare circa 14mila detenuti. Medio Oriente: Hamas, rapire soldati di Israele per ottenere rilascio detenuti palestinesi Aki, 16 aprile 2014 "La liberazione dei detenuti palestinesi passa per il rapimento dei soldati israeliani". È quanto ha dichiarato il primo ministro del governo palestinese dimissionario a Gaza, Ismail Haniye, sottolineando che "la detenzione di soldati israeliani è in cima all’agenda del movimento di Hamas e della resistenza palestinese". In occasione di una conferenza dal titolo "Prigionieri palestinesi, modello di libertà", che si è tenuta all’Università islamica a Gaza, Haniye ha assicurato che "la resistenza palestinese non risparmierà alcuno sforzo in vista della liberazione dei prigionieri" palestinesi, precisando che "la politica dei sequestri di soldati israeliani è lo strumento principe della resistenza, finché resteranno prigionieri nelle carceri dell’occupazione". Allo stesso tempo, Haniye ha fatto appello a "trovare un nuovo equilibrio palestinese" basato sul ripristino dell’unità nazionale, la fine delle divisioni e il conseguimento della riconciliazione. Hamas "procede su questa via", ha detto Haniye, ricordando che il movimento "prenderà in esame tutte queste questioni" in occasione del suo incontro con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) previsto per la prossima settimana. Per l’esponente di Hamas "è necessario che i palestinesi si accordino su un programma nazionale che tuteli i diritti e i punti saldi della causa palestinese", ma anche "ricostruire la leadership del popolo palestinese attraverso le elezioni del Consiglio nazionale". Australia: governo decide destino di 26 bambini nati nei centri per immigrati clandestini Nova, 16 aprile 2014 Australia, bambini in stato di detenzione: gli avvocati fanno appello per posticipare il trasferimento di 26 neonati a Nauru. Gli avvocati che rappresentano 26 bambini nati presso una struttura di detenzione per immigrati in Australia hanno scritto al ministro per l’immigrazione, Scott Morrison, per esortarlo a non trasferire i neonati nel centro di Nauru fino a quando il caso giudiziario del piccolo Ferouz, che dovrà stabilire se i bambini nati in carcere possono essere definiti come "arrivi marittimi non autorizzati", sarà risolto. I rappresentanti legali dei bambini hanno visitato di recente i centri di detenzione sulla Christmas Island e hanno incontrato le famiglie di richiedenti asilo che temono di essere trasferiti presso il centro offshore di Nauru. Il piccolo Ferouz è nato nel centro di Brisbane, da una famiglia di richiedenti asilo che precedentemente era stata detenuta a Nauru. Gli avvocati di Ferouz sostengono che dal momento che il bambino è nato in Australia dovrebbe ricevere un passaporto australiano e non può, quindi, risultare come un richiedente asilo. Jacob Varghese, uno degli avvocati dei 26 bambini, 24 dei quali sono nati sulla Christmas Island e due a Melbourne, ha dichiarato che il "minimo" che il governo potrebbe fare è quello di non trasferire i bambini mentre il caso Ferouz è ancora in corso. "I detenuti dei centri per immigrati ci hanno riferito che altre famiglie sono state prelevate da Christmas Island nel bel mezzo della notte, senza la possibilità di ottenere una consulenza legale. Sono tutti comprensibilmente preoccupati e hanno paura di sentire bussare alla loro porta prima dell’alba. Non c’è ragione per cui le famiglie debbano essere trattate con tanta crudeltà. Hanno diritto alla consulenza legale e ci chiedono di poter avere il tempo per farlo". Una copia della lettera inviata a Morrison, e visionata da "The Guardian Australia", informa che il ministro ha tempo fino alle 16 di domani per fornire delle risposte. Il caso del piccolo Ferouz prevede un’altra udienza in tribunale entro la fine del mese. Egitto: 37 sostenitori ex premier Morsi condannati a 5 anni di carcere per protesta illegale Aki, 16 aprile 2014 Un Tribunale di Nasr City al Cairo ha condannato 37 sostenitori del deposto presidente Mohammed Morsi a cinque anni di carcere per manifestazione e riunione illegali. Gli imputati sono stati arrestati durante manifestazioni a sostengo di Morsi lo scorso dicembre dopo che a novembre era stata approvata una legge che vietava manifestazioni non autorizzate. Sono migliaia i sostenitori dei Fratelli Musulmani arrestati dal 3 luglio, dalla deposizione di Morsi, e centinaia quelli uccisi in scontri con le forze di sicurezza. Libia: rapitori ambasciatore giordano Fawaz Al Itan chiedono rilascio detenuto politico Ansa, 16 aprile 2014 I rapitori dell'ambasciatore giordano a Tripoli hanno richiesto il rilascio di un prigioniero libico detenuto ad Amman da 9 anni. Lo riferiscono fonti della sicurezza citate da media locali secondo cui i sequestratori del diplomatico Fawaz Al Itan avrebbero richiesto il rilascio del jihadista Muhammad Al Drisi e hanno inoltre fatto sapere che l'ambasciatore sta bene. La notizia non è stata per il momento confermata dalle autorità giordane. Nel mese di gennaio 5 diplomatici egiziani furono rapiti e poi messi in libertà nella capitale libica. In cambio della liberazione dei funzionari i rapitori avevano chiesto alle autorità del Cairo il rilascio di un prigioniero libico detenuto in Egitto.