Giustizia: "torture e carceri sovraffollate", il Parlamento europeo ri-condanna l’Italia di Maurizio Gallo Il Tempo, 10 aprile 2014 Un dossier di Strasburgo sulle nostre carceri: ultimi in Europa, giustizia da Terzo Mondo. Le più sovraffollate del vecchio continente, con l’eccezione solo di Grecia e Serbia. In attesa disperata di interventi dì ristrutturazione e con pochi spazi per poter socializzare. Strapiene di tossicodipendenti, di stranieri e di detenuti in attesa di giudizio, vittime della carcerazione preventiva. Spesso con servizi igienici, sanitari e dì ristorazione insufficienti, vetusti e inadeguati. Per non parlare dei sospetti sull’esistenza di vere e proprie "stanze della tortura", teatro di pestaggi dei detenuti. E il quadro tragico dei penitenziari italiani tracciato da tre membri della Commissione Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni del Parlamento Ue guidati dal socialista Juan Fernando Lopez Aguilar, che il 26 e il 28 marzo scorsi hanno visitato due sezioni della prigione romana di Rebìbbia e Poggioreale, a Napoli. Lo scopo della delegazione era capire come procedevano gli interventi del nostro Paese per alleviare la situazione e suggerire rimedi. I risultati del "tour" dì Aguilar e dei suoi compagni Frank Engel e Kinga Goncz sono stati desolanti. Sovraffollamento Intanto per il divario enorme fra la capienza nelle 206 strutture esistenti e il numero di "ristretti". In base al rapporto del terzetto europeo, che si basa su dati delle "autorità" tricolori, in Italia ci sarebbero 60.828 galeotti contro una disponibilità di 47.857 posti, con un’eccedenza di 12.971 carcerati. "Questo numero, comunque - si legge nel documento - è contestato da alcune organizzazioni, che calcolano la capienza totale in 41.000 unità". Nel 2001, il Consiglio europeo sulle statistiche penali stabilì che il nostro Paese era terzo nella "classifica" del sovraffollamento, con 147 detenuti su 100 posti disponibili. "Questo - scrivono ancora i tre - malgrado il fatto che l’Italia ha una media di un prigioniero ogni mille abitanti, che corrisponde a quella europea". E ancora: "Circa il 38 per cento delle persone sono detenute per crimini collegati alla droga (con un alto numero di tossicodipendenti fra loro) e 29.000 sono stranieri, soprattutto romeni, marocchini, albanesi e tunisini. E il numero di persone in attesa di una condanna definitiva sono circa il 40 per cento del totale, e questa è la percentuale più alta in Europa". Droga e piani carcere Il documento passa, quindi, in rassegna i tentativi italiani dì uscire dall’emergenza, esaminando le novità sulle pene per droga, l’abolizione del reato di clandestinità, la possibilità di amnistie o indulti e i vari "piani carcere". Il primo del 2010, modificato nel gennaio 2012 e nuovamente modificato nel luglio 2013. Obiettivo: "Raggiungere il numero complessivo di 50 mila posti alla fine del maggio 2014". I delegati ricordano, poi, che il 25 febbraio la Consulta ha dichiarato incostituzionale la "Fini-Giovanardi", che nel 2006 aveva eliminato la differenza fra sostanze stupefacenti leggere e pesanti. "Come conseguenza - osservano i tre - le sentenze dovrebbero essere rideterminate e molti detenuti incarcerati per reati di droga dovrebbero essere rilasciati", il che contribuirebbe a ridurre il sovraffollamento. Ma "la discussione è ancora in corso" e non si sa ancora come andrà a finire. Rebibbia A Rebibbia la delegazione ha visitato il Nuovo Complesso, che ha una capienza di 1.200 posti e ospita 1.700 detenuti, 1.057 italiani e 644 stranieri (249 comunitari). Il 60% sono condannali in via definitiva. I problemi principali sono "la mancanza di spazi dedicati alle attività di socializzazione, il bisogno di ristrutturazione e manutenzione di alcune aree e quello di un numero maggiore di impiegati, oltre alla necessità di migliorare l’assistenza sanitaria". Nella Casa Circondariale Rebibbia Femminile, che accoglie 385 carcerate pur potendone ospitare circa 240, i "problemi principali sono il sovraffollamento, l’assistenza sanitaria e la presenza di bambini molto piccoli all’in-terno della prigione (ce ne sono 13 e sono sotto i tre anni - ndr)". Poggioreale A Poggioreale, costruito nel lontano 1908, i tre parlamentari Ue si sono messi le mani nei capelli. I detenuti sono 2.354 contro una capacità dì appena 1.400. E 800 sono in carcerazione preventiva. Nel penitenziario napoletano c’erano soltanto due cucine (con i detenuti costretti a mangiare cibi freddi), poche possibilità di lavorare o di svolgere attività sociali, assistenza sanitaria "very poor", "condizioni igieniche che facilitano la diffusione di malattie", agenti di custodia insufficienti e, in un edificio, tre docce per 87 prigionieri. I delegati avrebbero appreso anche dell’esistenza di una "cella zero" dove i detenuti verrebbero picchiati dai poliziotti penitenziari. Renzi bacchettato Aguilar e i suoi propongono soluzioni e bacchettano Renzi: "La situazione penitenziaria in Italia è un problema che non è mai stato considerato come priorità politica e finanziaria e sembra non esserci alcun cambiamento - ha detto il deputato socialista. Che il nuovo governo faccia un passo avanti affinché la situazione sia all’altezza della civiltà giuridica e del prestigio del Paese che è tra i fondatori dell’Europa". Giustizia: il ministro Orlando; monitoreremo la chiusura degli Opg… affinché non ci siano più rinvii Tm News, 10 aprile 2014 Si è svolto ieri mattina in via Arenula l’incontro voluto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando con i direttori degli ospedali psichiatrici giudiziari per definire lo stato dell’arte in ordine al percorso da compiere per superare definitivamente tali tipologie di strutture. Il ministro ha ribadito che il decreto-legge del Consiglio dei Ministri, che stabiliva una proroga per l’eliminazione delle strutture, è stato un "passo obbligato alla luce del ritardo in cui non poche regioni italiane si trovano rispetto ai piani di presa in carico dei soggetti e di riconversione delle strutture", ma ha confermato "l’impegno e la volontà di traguardare il cammino verso l’effettivo e definitivo superamento degli Opg". "Il ministero della Giustizia - ha comunicato il Guardasigilli - porterà avanti con attenzione un processo di ricognizione e monitoraggio dell’attuale sistema per evitare ulteriori rinvii o inadempienze sugli interventi necessari al superamento dell’insostenibile situazione ancora in atto". Perché "la scelta della proroga è stata infatti vincolata ad una puntuale osservazione del percorso che prevede anche ipotesi di incisivi poteri sostitutivi delle regioni nel caso di ennesimi ritardi". Giustizia: Garanti dei detenuti; 17mila persone in carcere per possesso droghe leggere, serve soluzione Agi, 10 aprile 2014 La sentenza di incostituzionalità ha cancellato un principio, ma non gli effetti. E sono 12mila persone condannate a pene anche severe per la detenzione e il consumo personale di droghe leggere, mentre altre 5mila attendono una sentenza definitiva. Numeri che al momento ingrossano le cifre del censimento carcerario e che domani potrebbero ingolfare il sistema giudicante per la revisione delle pene. Gli effetti dell’abrogazione della legge Fini-Giovanardi, che non ammetteva distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti e che infliggeva pene tra i 6 e i 20 anni sono stati al centro di un convegno promosso dal garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Adriana Tocco. Un confronto tra operatori del settore carcerario, giuristi e politici per discutere delle soluzioni al vuoto creato dalla pronuncia della Consulta. "Le ipotesi in discussione sono diverse per un tema così complesso - spiega Tocco - un indulto mirato per azzerare la mole enorme di nuovi processi sentenze già definitive o un ricalcolo della pena per chi è già in carcere. Una risposta omogenea e chiara è necessaria per risolvere un problema dettato da una legge dichiarata ormai incostituzionale e che ha ripristinato la norma precedente, la cosiddetta ‘Iervolino-Vassallo". per il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana Franco Corleone "è stata cancellata una norma della dittatura della maggioranza, un abuso che denunciavamo da tempo. Ora però - aggiunge - bisogna trovare una soluzione agli effetti prodotti, perché secondo il principio dell’intangibilità del giudicato le sentenze definitive non possono essere riviste". Si attende dunque una risposta della Corte di Cassazione che a breve si pronuncerà a sezioni riunite per dare un’interpretazione chiara e univoca. Nel frattempo in commissione Giustizia alla Camera sono in discussine i correttivi normativi necessari. Le tabelle di riferimento per la definizione delle droghe sono state aggiornate dal 2006 in poi dal ministero della Salute. "Abbiamo avviato una serie di audizioni in Commissione - spiega la parlamentare Pd Alessia Morani - per un correttivo ad hoc sul ricalcolo delle pene. È sicuramente da escludere l’ipotesi di un indulto mirato". Giustizia: Berlusconi… il carcere è escluso per l’età e per il ruolo, sentenza entro 5 giorni di Liana Milella La Repubblica, 10 aprile 2014 Andare o non andare. All’udienza a Milano, nell’odiato palazzo di giustizia. Nell’aula dove si decide se un condannato definitivo può, o non può, ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Lui, Silvio Berlusconi, condannato come tanti altri condannati (4 anni per frode fiscale, 3 cassati dall’indulto, resta 1 anno, 9 mesi con gli sconti della legge Gozzini). Lì, in quell’aula, tacere o parlare. Ancora: puntare al rinvio o attendere la decisione. È stata gravida di incognite l’attesa del giorno "x". I tanti dubbi, hanno dilaniato l’ultima settimana degli avvocati dell’ex premier. Niccolò Ghedini e Franco Coppi, i due angeli custodi. Possiamo ripercorrerli, con i pro e i contro, alla luce della prassi e di sentenze e vicende simili. Berlusconi andrà o non andrà all’udienza? Attenderà il suo turno davanti alla porta dei giudici o rimarrà a casa ad aspettare il verdetto? Nessun bagno di folla. Ha vinto la linea Ghedini. Berlusconi non è in buona forma fisica. Ma non è questo l’unico motivo che rema per l’assenza. Il metro di valutazione, stavolta, è l’utilità. Sarebbe stata utile la presenza di un imputato pronto ad ammettere le sue responsabilità penali, disponibile ad accettare la condanna e le sue conseguenze, pronto se non a "pentirsi" quantomeno ad ascoltare serenamente la decisione dei giudici, ma Berlusconi non potrà mai calarsi in un ruolo del genere. È vantaggioso o dannoso che lui sia assente? Potrà avere conseguenze negative?. Un fatto è certo. Non esserci non depone bene in un’udienza come quella per decidere se il condannato ha diritto di scontare la pena in affidamento ai servizi sociali, o deve prevalere la detenzione domiciliare. I giudici, che pure hanno sotto mano il fascicolo di Berlusconi, dovrebbero interloquire direttamente con il condannato, non affidarsi solo alla mediazione dei suoi avvocati. La cronaca ci consegna la fotografia dei poliziotti del caso Aldrovandi - il ragazzo picchiato selvaggiamente - che si sono sottratti alle domande del tribunale di sorveglianza e si sono visti negare l’affidamento. Perché la difesa non chiederà il rinvio dell’udienza magari a dopo le europee? Decisione tutta politica. Chiedere il rinvio non dà alcuna certezza sulla data della nuova udienza, che potrebbe "saltare" le elezioni, ma potrebbe collocarsi a ridosso del voto. Con la conseguenza che magari il leader di Fi potrebbe fare la campagna elettorale in prima persona, ma poi vedrebbe annullati i risultati positivi da una "brutta" decisione dei giudici come quella dei domiciliari. "Arresto", una parola pessima a pochi giorni da una tornata elettorale. Oggi Ghedini e Coppi chiederanno che l’udienza sia pubblica, che tutti possano ascoltare la relazione del giudice Crosti, le richieste del sostituto procuratore generale Lamanna, le loro tesi difensive? Anche su questo ha vinto un calcolo di costi-benefici. Hanno prevalso nettamente i primi. I legali non chiederanno di aprire le porte anche alla stampa, come pure una sentenza della Corte di Strasburgo fresca di 6 mesi ha concesso a un avvocato che ne ha fatto richiesta. Ghedini e Coppi considerano l’udienza come una tappa negativissima nella vita dell’ex Cavaliere, perché Berlusconi è stato condannato. Inutile mostrare nei Tg di mezzo mondo l’aula in cui lui dovrà di fatto rinunciare a una fetta della libertà di cui gode oggi. Berlusconi otterrà di essere affidato ai servizi sociali o finirà ai domiciliari? Escludiamo, innanzitutto, il carcere. Un uomo di 78 anni, leader di un partito, per una pena residua di una manciata di mesi, non ci finisce. A palazzo di giustizia, anche chi non si può considerare amico di Berlusconi, fino a ieri mattina tendeva ad escludere che gli venisse negato l’affidamento ai servizi a vantaggio della detenzione domiciliare. Certo, non è stata valutata per niente bene l’ultima uscita "sulla sinistra che usa il suo braccio giudiziario" e gli vuole impedire di fare la campagna elettorale. Perché, pronunciata proprio ieri, la battuta identifica nei magistrati del Tribunale di Sorveglianza il "braccio" armato della sinistra. Quindi l’attacco è diretto a toghe che peraltro non sono affatto considerate su posizioni ultrà. Ma, dicono i difensori, Berlusconi ha fatto ricorso alla Corte dei diritti umani di Strasburgo proprio perché si considera innocente. Di sicuro adesso non può dichiarare l’opposto qui solo per evitare un arresto. Quanto peseranno gli altri processi dell’ex premier? Ruby in appello, Ruby-ter, compravendita senatori a Napoli, falsa testimonianza a Bari. Un fardello che potrebbe avere un effetto negativo. È realistico che l’ex Cavaliere debba occuparsi di anziani per alcuni giorni al mese? Potrebbe non essere necessario perché l’affidamento ai servizi non comporta che il condannato svolga un servizio sociale. Potrebbero essere sufficienti dei colloqui con un assistente sociale anche una sola volta al mese. Berlusconi potrà avere spazi per un’attività politica? Se i giudici considereranno questo il suo lavoro, potrebbe averli. I tempi. Quando si saprà cosa ha deciso il tribunale? La decisione potrebbe essere assunta oggi stesso. Ma le regole vietano che il contenuto sia diffuso separatamente dalla sentenza. Quindi bisognerà aspettare che sia resa pubblica. Il tempo massimo è di cinque giorni. I più lunghi nella vita di Berlusconi. Giustizia: Berlusconi è in carico all’Uepe di Milano, che ha 46 operatori per 4.200 condannati Ansa, 10 aprile 2014 L’Uepe, acronimo di Ufficio Esecuzione Penale Esterna, era quasi sconosciuto fino a qualche giorno fa, quando quello di Milano è balzato agli onori della cronaca perché ha redatto la "proposta di giustizia riparativa" per Silvio Berlusconi - che servirà qualora i giudici del Tribunale di Sorveglianza gli concedessero l’affidamento ai servizi sociali - in cui è indicata la struttura nella quale l’ex premier potrebbe svolgere un’attività. L’Uepe, però, è dal 1975, da quando si chiamava Centro servizi sociali per adulti, che si occupa di migliaia di persone, che, dentro o fuori dal carcere, chiedono misure alternative: detenuti domiciliari semiliberi, ammessi al lavoro esterno, o appunto, persone affidate ai servizi sociali. Attualmente, quello di Milano ha in carico 4.200 persone perché è all’ufficio di Piazza Venino 1, non distante dal carcere di San Vittore, che fanno capo beneficiari di misure alternative e detenuti delle carceri di Lodi, Monza e delle tre milanesi: San Vittore, Opera, Bollate. L’Uepe si occupa anche di verificare se sia effettivamente svolta l’attività di chi ha chiesto e ottenuto, invece di scontare giorni di arresti, di avere accesso ai lavori socialmente utili perché condannato, per esempio, per guida in stato di ebbrezza. Negli uffici dell’Uepe, anche nel pomeriggio, sono seduti in paziente attesa i condannati che periodicamente si sottopongono a colloqui o a verifiche (un cartello ricorda loro di tenere sempre con sé la prescrizione del Tribunale di Sorveglianza). Sono chiamati per nome e cognome ed entrano a parlare con quelli presenti tra i 46 assistenti sociali che svolgono la gran mole del lavoro (per sei di questi il contratto scadrà a giugno e all’Uepe si avverte una certa preoccupazione) e che sono affiancati da esperti come psicologi e criminologi. Gli assistenti sociali dovrebbero essere in 90, qualora fosse rispettata la pianta organica prevista. Un lavoro oscuro, faticoso e delicato quello dei funzionari dell’Uepe, chiamati a svolgere le cosiddette indagini sociali per la concessione dei benefici (nel caso di Berlusconi non è stato necessario in quanto, sulla scorta di un accordo con il tribunale di Sorveglianza di Milano, non sono necessarie per condannati che devono scontare pene inferiori a un anno) e a verificare puntualmente se siano rispettate le prescrizioni imposte per riferirne ai giudici di Sorveglianza i quali, in caso di violazione, potrebbero revocare i benefici. La dirigente dell’Uepe di Milano, Severina Panarello, non nasconde le difficoltà quotidiane, con un personale ridotto all’osso a fronte di migliaia di persone di cui ci si deve occupare, ma è da sempre animata da un principio: "L’unica alternativa possibile è meno carcere, e quindi le misure alternative". E non solo perché lo afferma l’articolo 27 della Costituzione ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato") ma anche perché "con le misure alternative possono essere portati a termine con maggiore facilità i percorsi di reinserimento". Ancora, è la convinzione della dottoressa Panarello: "Va sempre concessa una seconda possibilità a una persona e la percentuale di recidiva per gli ammessi alle misure alternative scende al 15%, mentre nel caso di chi sconta la pena solo in carcere è dell’80%". Giustizia: boss Bernardo Provenzano ricoverato al "San Paolo" di Milano per "problemi neurologici" Corriere della Sera, 10 aprile 2014 Bernardo Provenzano è stato ricoverato mercoledì pomeriggio all’ospedale San Paolo di Milano. Provenzano, 81 anni, affetto da patologie neurologiche, detenuto in regime di 41 bis, due giorni fa era stato trasferito dal reparto detenuti dell’ospedale Civile di Parma al carcere di Opera, nel Milanese, nell’ambito di un avvicendamento di routine dei detenuti al 41 bis. Poco prima delle 17 di mercoledì è stato portato nel reparto detenuti dell’ospedale milanese per accertamenti, da parte dei responsabili del nuovo istituto di pena cui è stato destinato, sulle sue condizioni di salute, in seguito a "problemi neurologici" di cui soffre da tempo. Il 19 marzo 2011 era stata confermata la notizia di un tumore alla vescica. Al momento non ci sono comunicazioni ufficiali sul suo stato di salute. "Per l’ennesima volta i familiari e i difensori di Provenzano apprendono notizie che lo riguardano dalla stampa", commenta l’avvocato del boss, Rosalba Di Gregorio. "C’è da chiedersi - aggiunge - se Provenzano era dimettibile. Cioè: perché visto che era ricoverato all’ospedale di Parma, è stato portato prima in carcere ad Opera e solo in un secondo momento nella struttura sanitaria?". Provenzano, arrivato ai vertici di Cosa Nostra con Salvatore "Totò" Riina, fu arrestato l’11 aprile 2006 in una masseria a Corleone. Era ricercato dal 10 settembre 1963, con una latitanza record di 43 anni, durante i quali il suo volto era stato "invecchiato" dagli investigatori tramite identikit. È condannato a 20 ergastoli, 33 anni e sei mesi di isolamento diurno, 49 anni e un mese di reclusione e 13mila euro di multa. Tra le innumerevoli condanne a carico di Provenzano ci sono quelle relative alla Strage di Capaci, alla Strage di via D’Amelio e alla stagione della strategia stragista attuata da Cosa Nostra tra il ‘92 e il ‘93. Il 4 aprile scorso la Cassazione aveva respinto il ricorso dei legali del capomafia che, invano, hanno sostenuto che le condizioni di salute di Provenzano, affetto da patologie neurologiche, non siano compatibili con il carcere. La settimana precedente il Guardasigilli Orlando gli aveva comunque prorogato il regime di carcere duro, nonostante il parere contrario espresso di tre Procure, ritenendo che sia comunque in grado di dare ordini a "Cosa Nostra". Francesco Paolo e Angelo Provenzano, figli del capomafia di Corleone, dopo la decisione del ministro della Giustizia avevano dichiarato: "Perizie mediche e relazioni del reparto ospedaliero di Parma riconoscono l’incapacità di nostro padre. Alla luce di tali atti le Procure hanno espresso parere negativo alla proroga del 41 bis. Il ministro, invece l’ha prorogato. Ci chiediamo: esiste altra perizia medica che smentisce e dichiara false le precedenti? Pensiamo di no". "Chiediamo, a questo punto, che sia resa pubblica l’immagine attuale di questo "detenuto speciale con gli occhi al soffitto, chiuso in una stanza blindata con tre guardie del Gom e un sondino al naso per nutrirsi - hanno chiesto i figli. Esistono le registrazioni audio e video degli pseudo colloqui mensili con noi. Solo davanti a tale fotografia si può capire quale "pericoloso" soggetto si tiene al 41 bis". Lettere: il carcere come frontiera tra misure cautelari e diritto all’infanzia di Manuela Serra (Senatrice del M5S) Ristretti Orizzonti, 10 aprile 2014 La recente vicenda che vedeva una bambina di soli quattro mesi subire le conseguenze del carcere assieme alla madre, sottoposta a misura cautelare custodiale nel carcere di Buoncammino, è giunta alla fine e la neonata è finalmente tornata a casa assieme alla mamma. Un epilogo lieto, che, però, presenta molti punti d’ombra. Se si considera, infatti, che legge n°62 del 21 aprile 2011 ha introdotto l’articolo 285 bis del codice di procedura penale e ha modificato l’articolo 275 da cui deriva che nei casi in cui la persona da sottoporre a misura cautelare sia una donna incinta o madre con prole di età non superiore a sei anni, con lei convivente, non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere. Il giudice poi, prevede la normativa, può disporre la custodia presso un istituto di custodia attenuata per madri (Icam) in cui non vi sono sbarre e, per quanto è possibile, viene ricreato un ambiente a "misura di bambino". Tale disciplina trova applicazione dal 1° gennaio 2014, tuttavia, nonostante vi siano questi strumenti una piccola incolpevole ha varcato la soglia del carcere pur avendo diritto ad una tutela particolare. In Italia, attualmente, le disposizioni normative restano, fondamentalmente, inapplicate in quanto vi sono solo due istituti di custodia attenuata (Icam): quello di Milano e quello di Venezia. Questi istituti potrebbero consentire alle madri di tenere con sé i figli fino a sei anni, riconoscendo loro il diritto ad essere bambini. Sono, infatti, diverse decine i minori, soprattutto figli di madri straniere, che in Italia vivono in carcere con la madre. Le case famiglia protette, poi, affidate ai servizi sociali e agli enti locali, che dovrebbero sopportarne i costi, sono assenti nel territorio a causa della mancanza di risorse degli enti locali. La convenzione sui diritti dell’infanzia approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1989 riconosce che "l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente". È evidente che sebbene vi siano le norme e gli strumenti tecnici per garantire il diritto all’infanzia e al diritto soprattutto ad essere bambini, risultano ancora inattuati. È necessario che il Governo si adoperi affinché i diritti di madri e bambini siano effettivamente tutelati non solo sulla carta ma anche nei fatti. Occorre, inoltre: voglio rivolgere un invito; che la società s’impegni perché si trovi quello spirito di solidarietà e di umanità che dia alle istituzioni la forza di comprendere e accogliere le istanze anche di quelle persone che non hanno voce. Toscana: la Giunta regionale approva una Mozione Pd per la ristrutturazione del carcere di Arezzo Dire, 10 aprile 2014 Di seguito il testo. "Attivarsi presso il Ministero della Giustizia al fine di acquisire in tempi brevi elementi di valutazioni chiari circa le reali intenzioni relative al destino della Casa Circondariale di Arezzo con particolare riferimento alla tempistica relativa all’inizio ed al termine, oltreché alle modalità di esecuzione, dei lavori di ristrutturazione di detta Casa, interventi necessari per garantire le migliori condizioni di vita per i detenuti ospiti della struttura e contestualmente per alleggerire la pressione in altri penitenziari toscani". È questo l’impegno affidato alla Giunta regionale da una mozione presentata dai consiglieri aretini del Pd Lucia De Robertis ed Enzo Brogi e approvata all’unanimità questa mattina dall’Aula. Nella mozione viene riassunta l’annosa vicenda dei lavori di ristrutturazione della Casa circondariale di Arezzo, sottolineando che la mancata piena utilizzazione della struttura produce "riflessi negativi" sulla già delicata questione del sovraffollamento carcerario in Toscana e incide pesantemente sulla condizione dei detenuti e dei lavoratori. "Siamo di fronte a una vera e propria emergenza della burocrazia italiana - spiegano De Robertis e Brogi - Un caso limite che la relazione 2013 del Garante regionale dei detenuti ha evidenziato a tinte forti: "carcere funzionante chiuso nel 2010 per un progetto di ristrutturazione demenziale che prevedeva lavori al primo e secondo piano e non al piano terra, un progetto che non è mai stato terminato. I lavori sono iniziati giusto per rendere la struttura inagibile, poi tutto è stato abbandonato al degrado". Oggi la Casa circondariale di Arezzo - proseguono i due consiglieri - ospita ogni giorno mediamente 20 detenuti comuni, gli arrestati dalla polizia giudiziaria locale, e 10 collaboratori di giustizia, nonostante una capienza ufficiale di 103 posti. È giunto il momento di fare chiarezza una volta per tutte sui tempi e le modalità di esecuzione dei lavori di ristrutturazione, anche perché rappresenta il luogo di lavoro per 70 persone tra agenti di custodia, personale civile, medici, infermieri e relative famiglie, un complesso di persone che a ragione rivendica chiarezza sulla operatività futura della Casa Circondariale". Emilia Romagna: la Garante regionale incontra don Emanuele, che accoglie emarginati ed ex detenuti Ristretti Orizzonti, 10 aprile 2014 Desi Bruno, Garante regionale delle persone private delle libertà personale, si è recata lunedì 7 aprile nella Parrocchia di Bagazzano, una frazione tra Nonantola e Modena, dove da anni il Parroco, don Emanuele Mucci, accoglie persone con problemi di emarginazione sociale (tossicodipendenti, alcoldipendenti, ex detenuti). La sua proposta si basa sulla condivisione di un’autentica "comunità di vita", all’interno di un contesto di tipo religioso: "Non importa che si tratti di cattolici, musulmani o di persone che abbracciano altri credi, si chiede però una disponibilità a sperimentare, e a condividere, un proprio percorso religioso. Vivendo in una Parrocchia, non avrebbe senso mettere sotto silenzio questa specificità". Comunione di tempi e di spazi, comunicazione di valori semplici vissuti nella quotidianità dei rapporti, creazione di legami affettivi ed emotivamente stimolanti: per don Emanuele, queste sono le condizioni fondamentali di qualunque percorso di reinserimento sociale. "Ho la possibilità di portare avanti un progetto a cui tengo molto, perché credo nelle risorse che possono provenire dalle persone di buona volontà di cui questo territorio, non a caso fra i primi impegnati nella resistenza partigiana, è storicamente dotato. Ma ho bisogno della collaborazione di partner istituzionali", prosegue il Parroco di Bagazzano, sostenuto dalla Diocesi e dalla Caritas di Modena-Nonantola. Don Emanuele ha spazi disponibili per accogliere fino a cinque persone. In un primo momento, gli ospiti vengono alloggiati in quelli della canonica per prendere un contatto diretto con l’ambiente e concordare le regole della vita in comune. A ognuno è richiesto non solo il rispetto degli orari e degli impegni personali all’interno della casa, ma anche la disponibilità a sottoporsi periodicamente a controlli che accertino l’astensione dalle bevande alcoliche e dalle sostanze stupefacenti. Se l’inserimento ha esito positivo, si ha l’ingresso in appositi mini-appartamenti, collocati a breve distanza dalla Parrocchia: qui ogni persona dispone di un proprio spazio di autonomia (ogni struttura è dotata di camera, bagno e cucina), ma la contiguità con le altre persone permette loro di condividere momenti di socialità e di abituarsi alla vita in comune in un contesto di libertà. Fondamentale, in questo percorso, è la ricerca di opportunità di lavoro e formazione professionale, a partire dal tessuto sociale del modenese. La permanenza nelle strutture della Parrocchia di Bagazzano, infatti, è solo temporanea e ha lo scopo di aiutare le persone accolte a riacquistare senso di responsabilità, autonomia di mezzi per la sopravvivenza, senso di appartenenza a una comunità di persone. In questo contesto, l’impegno concreto dei Comuni risulta fondamentale per predisporre una cornice amministrativa e anagrafica che consenta agli utenti di poter usufruire dei servizi collegati al possesso della residenza; Modena, Castelfranco Emilia e Nonantola hanno già manifestato il proprio interesse all’iniziativa. Imprescindibile risulta il coinvolgimento dei soggetti pubblici per il finanziamento di progetti riabilitativi/lavorativi ad hoc, specialmente per quanto riguarda le necessarie attività di sostegno psicologico individuale. "Gli appartamenti sono già ultimati e disponibili da tempo per accogliere persone provenienti dalle strutture detentive di Castelfranco Emilia e Modena. Auspico che il progetto di don Emanuele possa concretizzarsi al più presto: le risorse messe a disposizione sui territori - sottolinea Desi Bruno - devono essere valorizzate per aiutare le persone che escono da situazioni di reclusione a ritrovare il senso della loro esistenza, reintegrarsi e a non recidivare nel reato. Questo progetto va incontro ai bisogni delle fasce deboli della popolazione e soprattutto di chi vive in situazione di totale abbandono, come nel caso degli internati di Castelfranco. Di fronte alla scarsità delle risorse dedicate a questi temi, l’iniziativa portata avanti da don Emanuele rappresenta una straordinaria opportunità e auspico che diventi patrimonio comune e fatta propria dall’apposito Comitato per l’area dell’esecuzione penale adulti", chiude la Garante regionale a conclusione della visita a Bagazzano. Venezia: ex detenuto 60enne si chiude nel capanno di casa e si spara al cuore www.veneziatoday.it, 10 aprile 2014 Ha preso un fucile e si è sparato un colpo al cuore. Tragedia nel primo pomeriggio di giovedì a San Stino di Livenza, dove Giuseppe C., 60 anni, si è tolto la vita all’interno di un capanno degli attrezzi vicino alla propria abitazione. I familiari, udito lo sparo, sono subito accorsi. Ma per l’uomo non c’era più nulla da fare. Giuseppe a quanto pare non avrebbe dato segni di depressione negli ultimi tempi. Per questo motivo, nonostante i problemi giudiziari del passato, nessuno si sarebbe aspettato una tragedia simile. Sul posto i sanitari del Suem e i carabinieri della stazione locale. Entrambi non hanno potuto far altro che constatare il decesso dell’uomo. Accertamenti in corso per capire se il fucile utilizzato per uccidersi sia stato regolarmente detenuto. Gli investigatori dell’Arma hanno trovato nell’abitazione un breve messaggio con cui il 60enne chiedeva scusa per l’estremo gesto alla moglie, la prima a chiedere aiuto a forze dell’ordine e soccorritori. La vittima lascia anche un figlio ormai adulto. La salma è stata ricomposta nella camera mortuaria dell’ospedale di San Donà. Napoli: io, in fila di notte per vedere papà in carcere di Titti Marrone Il Mattino, 10 aprile 2014 All’inizio, quando la maestra Elvira chiedeva il perché di un’assenza a scuola, ì suoi alunni le bisbigliavano la verità da tenere nascosta all’orecchio, nel cavo della mano curvata a cupola vicino alla bocca: "Sono andato al carcere a fare visita a papà". Carcere. Guai a parlarne con gli estranei e figuriamoci a scuola. Cosi suggeriscono le mamme di Scampia in un oscuro misto di vergogna e ostilità verso un’istituzione che gli stessi bambini tendono a percepire come un altro luogo di reclusione. Poi però, piano piano, i 22 bambini della Quinta B affidati alla maestra Elvira nella scuola elementare dell’Istituto comprensivo Virgilio 4 dì Scampia, hanno preso coraggio uno dall’altro e hanno imparato a dirla, la parola terribile del posto che per i tre quarti della classe è la residenza paterna chissà quanto temporanea: carcere, quello di Secondigliano, dove i detenuti sono sottoposti per lo più a regime di massima sicurezza. Quei 22 bambini hanno imparato così a parlare di una condizione orribile, la propria di figli di reclusi che spezza il sonno e lo popola di incubi bui. La loro classe, che una volta sarebbe stata chiamata "di risulta" per essere, sulla carta, un mondo a parte borderline, è diventata un unicum, un vero laboratorio eccellente di politica dell’educazione, grazie al lavoro della maestra Elvira Quagliarella e degli operatori del Centro territoriale "Il Mammut" di Scampia. La maestra e quelli del Mammut hanno profuso mesi di impegno sull’archetipo della Porta, e sulle Porte del Carcere come luoghi di transito fra un "dentro" e un "fuori" che rovesciano la prospettiva del reale. Hanno guidato i bambini in un viaggio lungo e proficuo per guardare in faccia la realtà, ma senza traumi o ipocrisie, per il tramite del mito, stimolando processi profondi d’interiorizzazione. E de "La porta del carcere" si parlerà oggi a Scampia, in una tavola rotonda (alle 15,30) al "Virgilio", in via Labriola, cui parteciperanno tra gli altri padre Fabrizio Valletti, il filosofo Giuseppe Ferraro e lo scrittore Maurizio Braucci. Da sette anni gli operatori del Mammut, sfidando le ironie di chi li considerava troppo elitari, lavorano con i bambini sugli archetipi, su favole e miti come "Alì Babà e i 40 ladroni", "Giano Bifronte", "Orfeo e Euridice", convinti come sono dell’importanza di stimolare la libertà delle associazioni creative per produrre consapevolezza. Stavolta a guidarli è stato un suggerimento della maestra Elvira Quagliarella, impegnata da trent’anni a Scampia a trattenere i bambini in un’infanzia qui del tutto effimera e più difficile che altrove. E hanno messo in campo, con l’insegnante, il mito platonico della caverna. Che idea esplosiva, qui a Scampia, declinata sulle prime in semplici incontri tra adulti e bambini seduti a terra in cerchio a parlare, immaginando la "porta" del quartiere simbolica e reale che ciascuno vorrebbe aprire. Di lì sono venuti i primi segnali, in biglietti in cui ì piccoli indicavano i luoghi da espugnare: la Porta della Villa Comunale (tre su quattro sono chiuse); la Porta della metro, (il biglietto da pagare per l’accesso); la Porta delle case abbandonate, da spalancare vestiti da fantasmi; la Porta del paradiso, a cui bussare vestiti da angeli, nella speranza che venga ad affacciarsi un parente ucciso. Nei biglietti, i bambini hanno annotato le paure del "dentro" arrivate anche "fuori", portate dal buio alla luce, e tra tutte la più pressante: "Se esco mi dicono che sono infame?". E poi: "Se esco, come faccio a trovare lavoro?". Così l’antro buio del carcere che i bambini si portano dentro è stato disegnato, raccontato, descritto, esplorato, rivisto nel film di Gaetano Di Maio "Il loro Natale" che li ha fatti ammutolire per quanto ci si sono rispecchiati, come in un lavacro catartico. Condotti per mano dalla maestra Elvira, da Chiara Ciccarelli, Alessandra Tagliavini, Giovanni Zoppoli e gli altri del Mammut, i bambini hanno raccontato il rito di passaggio "dentro" simile a una discesa agli inferi e vissuto nelle lunghe file notturne del giovedì o del venerdì davanti al carcere, quando si recano lì per levisite. "Io quando stavo andando da mio padre uno si è preso a botte con una zingara e per la zingara è finita male", ha scritto una bambina in un tema. I disegni e gli acquerelli, poi, spezzano il respiro per la nitidezza con cui rappresentano il contrasto tra le tenebre e la verticalità del "dentro" e la luce abbagliante del "fuori". E per come raccontano la distanza insormontabile con cui i bambini percepiscono, dietro i lunghissimi tavoli del parlatorio, le figure dei propri parenti reclusi. Come spiega la maestra Elvira, "con il lavoro di ombre cinesi di Nadia e Tonino Stornatolo, i bambini hanno potuto rivivere il mito della caverna di Platone in una forma simbolicamente molto evocativa". II lavoro con i bambini della 5° B è stato poi affiancato dall’impegno nel carcere di Secondigliano di uno scrittore legatissimo a Scampia come Maurizio Braucci: un laboratorio teatrale in cui i reclusi s’interrogano sui familiari e rispondono alle video-domande dei bambini. "È un laboratorio sui detenuti come artefici dei proprio destino, che rovescia la prospettiva sulle loro responsabilità rispetto all’esterno", spiega Braucci, che sta elaborando i materiali filmati per lo spettacolo finale del 30 maggio nel penitenziario dì Secondigliano. Seduta in un’aula decorata di disegni dei bambini, la maestra Elvira racconta l’avventura de "La porta del carcere" con la lucidità di chi è troppo immerso nella realtà per farsi illusioni. Concorda con Giovanni Zoppoli quando dice: "Ognuno, in questa vicenda, ha un ruolo attivo e noi abbiamo smesso d’inseguire chi non c’era". Aderisce del tutto alla prospettiva indicata da Chiara Ciccarelli che spiega: "Cerchiamo di vincere la frammentarietà, di far percepire scuola, quartiere, campo rom, città, come un cerchio in cui tutto si tiene e non come mondi separati". Quanto a lei, se da maestra dovesse indicare una priorità in una zona priva di tutto, non avrebbe dubbi: "La scuola aperta fino a sera", dice. Lamentele corre a un’alunna che l’aspetta in classe, troppo grande per stare in quinta elementare con i suoi 14 anni, sì, ma solo a scuola protetta da un "fuori" che per lei vuol dire una madre-ragazza depressa che fu violentata a 13 anni, una nonna prostituta, un padre in galera. "Scuola sempre aperta, con uno sportello per l’aiuto e l’orientamento alle madri", dice la maestra. Elvira Quagliarella: una con casa al Vomero, che all’inizio andava a prendere i bambini a casa per portarli a scuola, che in trent’anni non ha mai chiesto un trasferimento e, dice, "mai lo farò perché Scampia è il mio posto, qui tutti mi conoscono e io conosco tutti. E sono onorata di essere chiamata maestra". Da girare, per conoscenza, a governi che volessero cominciare dalla scuola, ma per davvero. Teramo: da domani alla Fiera dell’agricoltura ortaggi e insalata coltivati dai detenuti di Castrogno www.teramonews.com, 10 aprile 2014 La cerimonia d’apertura è in programma per domani, 11 aprile, alle ore 11. Sarà inaugurata così la 26esima edizione della Fiera dell’agricoltura che, in base a una scelta ormai consolidata, occupa lo spazio espositivo di 20mila metri quadri intorno allo stadio di Piano d’Accio. La collocazione della fiera è una delle scelte introdotte dal comitato organizzatore, formato da Comune, amera di commercio, Bim, associazioni di categoria degli agricoltori e altri enti, che ha fatto discuetere ma non cambierà. "È lo spazio più adatto per un evento molto cresciuto negli ultimi anni", spiega il sindaco Maurizio Brucchi, "e che non potrebbe tornare in centro". L’esposizione, alla quale parteciperanno operatori del settore agricolo provenienti da 13 regioni, resterà dunque a Piano d’Accio. Le novità della 26esima eduzione sono rappresentante dalla presenza dei birrai teramani. Per la prima volta parteciperanno alla manifestazione, che chiuderà i battenti domenica 13 aprile, dodici birrifici. Altro spunto significativo sarà offerto dallo stand allestito dall’istituto agrario che, tramite la presenza di un gruppo di detenuti, presenterà ortaggi e verdure prodotti degli orti coltivati all’interno del carcere di Castrogno. Per il resto il programma dell’evento ripercorre il canovaccio ormai consolidato. Ci saranno la fattoria con gli animali, l’angolo delle macchine agricole d’epoca, che riproporranno trebbiatura e altre lavorazioni d’epoca, il mercato contadino dei produttori locali e l’area ristoro organizzata dagli agriturismi. "Anche quest’anno la manifestazione conferma la tendenza ad ampliare il proprio raggio d’azione", fa notare l’assessore al commercio Mario Cozzi, "uscendo dall’ambito strettamente provinciale". I visitatori avranno a disposizione l’ampio parcheggio attiguo allo stadio con ottomila posti auto. Baltour metterà a disposizione bus navetta che partiranno da piazza Garibaldi e faranno tappa a piazza San Francesco. La fiera, durante i tre giorni, resterà aperta dalle 8 alle 20. L’ingresso è gratuito. Larino (Cb): "Salvati da Dentro"; detenuti a lezione di primo soccorso, oggi la consegna degli attestati www.primonumero.it, 10 aprile 2014 Oggi, 10 aprile, i detenuti della Casa circondariale di Larino riceveranno un attestato di operatore al primo corso "Basic Life Support and Defibrillation" ( Bls and Aed). Rivolto ai detenuti delle sezioni di media sicurezza, l’iniziativa si inserisce nel più ampio progetto "Salvati da dentro", per la quale i detenuti diventano soccorritori in quelle che sono le emergenze sanitarie dove il tempo dell’intervento risulta determinante, poiché i primi minuti, a fronte di un problema cardiaco-respiratorio, sono i più importanti e fondamentali per salvare una vita. Il progetto di formazione è stato realizzato grazie alla continua disponibilità della direttrice del carcere Rosa La Ginestra e alla collaborazione della Salvamento Academy, Centro di Formazione Regionale. Incentrato sull’acquisizione delle procedure di primo soccorso a supporto delle funzioni vitali di base, con la trasmissione di strumenti teorici e di supporto pratico, per un primo intervento a favore di compagni di detenzione in caso di malesseri; il corso è stato condotto dagli Istruttori della Salvamento Academy Nicola Fratangelo e Antonio Colombo ideatori del progetto "Salvati da Dentro", in collaborazione con la Fondazione Giovanni Paolo II Ucsc e con l’Agenzia Regionale di Protezione Civile - Molise. La cerimonia di premiazione si svolgerà domani 10 aprile nella casa circondariale di Larino a partire dalle ore 15. Verona: Centro per detenuti psichiatrici, la Regione accelera sul piano di Riccardo Mirandola L’Arena, 10 aprile 2014 La Giunta ha approvato il progetto da 12 milioni di euro che prevede una moderna struttura con 40 posti letto. Interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle contrario alla costruzione di un nuovo edificio "Va utilizzato il vecchio ospedale". Via libera da parte della Giunta regionale al progetto che prevede la realizzazione nel Comune di Nogara (Vr) di una struttura per 40 detenuti attualmente ospitati negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) di Castiglione delle Stiviere e Reggio Emilia. L’ok della Regione arriva dopo il parere positivo del Consiglio comunale di Nogara e apre ora la strada al recupero del finanziamento di circa 12 milioni di euro, che arriverà dal ministero di Grazia e Giustizia. I tempi, secondo Regione e Comune, dovrebbero essere piuttosto celeri. Talmente rapidi che il cantiere dovrebbe già partire nel 2015 nel tentativo di rispettare il termine del 2016 fissato dalla legge per la chiusura degli Opg di tutta Italia e la loro trasformazione in strutture a carattere regionale. Mentre l’iter del progetto viaggia speditamente e senza particolari intoppi, sul fronte politico le acque sembrano agitarsi e non poco. Ascendere in campo è la parlamentare del Movimento 5 Stelle Francesca Businarolo con un’interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando per avere spiegazioni sulle ragioni che hanno spinto la Regione, l’Ulss 21 e il Comune ad edificare il nuovo centro su circa 10mila metri quadrati di terreno derivante dal lascito di Francesco Stellini con un finanziamento statale di 12 milioni di euro. L’istanza, che reca in calce anche la firma di altri 10 deputati pentastellati, punta ad evitare la nuova costruzione e a dare ospitalità ai detenuti psichiatrici nell’ex ospedale. "Anziché costruire una struttura ex novo sui terreni del lascito Stellini con massiccia cementificazione della zona", spiega Businarolo, "a nostro avviso, ed in linea con quanto sostenuto a livello locale, si potrebbe utilizzare l’ospedale Stellini già esistente, tuttora vuoto ma sistemato anche in base alle recenti norme antisismiche, su cui la Regione Veneto ha investito già parecchio. E che perciò, con le dovute modifiche strutturali, può accogliere i 40 posti letto in questione". Non solo. I parlamentari grillini, che di fatto non sono contrari alla struttura purché trovi spazio nel vecchio ospedale, esprimono dubbi anche sui possibili finanziamenti pubblici del progetto. "In base a quali presupposti", chiedono i firmatari dell’interrogazione, "sono stati stanziati i 12 milioni di euro non essendo stato presentato un progetto. Chiediamo chi sia competente nell’effettuare dei controlli e come verranno finanziate a regime queste strutture, dal momento che l’assessore regionale alla Sanità ha dichiarato che l’importo basterà per cinque anni". L’iniziativa parlamentare segue quella locale del consigliere grillino Mirco Moreschi, che ha lanciato una raccolta di firme per impedire la nuova costruzione e far spostare il centro psichiatrico nel vecchio edificio esistente. Ai dubbi dei grillini replica il sindaco Luciano Mirandola: "Sono contento che il M5S sia favorevole ad accogliere questi 40 pazienti psichiatrici. Mi piacerebbe però sapere quanti noga-resi hanno finora firmato per spostare i malati allo Stellini". "Voglio precisare", aggiunge il sindaco, "che nel progetto si prevede di ristrutturare tutta la vecchia corte rurale e anche la parte più datata dell’ex ospedale. Quindi non vi sarà uno Spreco di territorio. D’altronde, nel resto dell’ospedale non possiamo trasferire questi pazienti perché è destinato alla Rsa, al nuovo reparto di Psichiatria per acuti e a servizi di diagnostica". Castrovillari (Cs): Corbelli (Diritti Civili); tutti i detenuti chiedono di incontrare il Papa Adnkronos, 10 aprile 2014 "Le detenute e i detenuti del carcere di Castrovillari vogliono incontrare Papa Francesco in occasione del suo arrivo il 21 giugno prossimo a Cassano". Hanno affidato il loro messaggio e il loro appello a Franco Corbelli, il leader del movimento Diritti civili, che afferma: "Il pontefice ha preannunciato che in occasione della sua visita a Cassano si recherà anche nella casa circondariale di Castrovillari per incontrare i familiari del piccolo Cocò e il presunto assassino del sacerdote don Lazzaro Longobardi". "I detenuti e le detenute della città del Pollino hanno espresso grande gioia per questa notizia e chiedono di poter tutti, quel giorno, incontrare il Santo Padre", continua. L’appello è stato veicolato attraverso la lettera che il papà del piccolo Nicola Campolongo (ucciso e bruciato a tre anni insieme al nonno e alla sua compagna) ha scritto a Corbelli. "Questo meraviglioso Papa è la nostra speranza. Vogliamo poterlo abbracciare per trovare la forza di continuare a sperare anche per noi in un futuro diverso nel rispetto della legge, della solidarietà e dell’aiuto a chi ne ha bisogno", è il messaggio dei detenuti. "Sono certo - afferma Corbelli - che Papa Francesco, che ringrazio per aver accolto la lettera-appello dei genitori del piccolo Cocò che ho fatto subito pervenire in Vaticano dopo averla ricevuta dalla mamma e dal papà di Cocò il 28 gennaio scorso, accoglierà la richiesta delle detenute e dei detenuti di Castrovillari". Torino: studenti alla Comunità Arcobaleno "non tutti sanno come è fatta una prigione" di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 10 aprile 2014 "È stata una bella esperienza perché non tutti sanno come è fatto veramente il carcere. Mi ha colpito molto vedere celle diverse. Secondo me non è giusto far vivere delle persone in posti brutti e delle altre in posti belli perché siamo tutti uguali, qualunque sia la pena". La visita alla Comunità Arcobaleno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, Noemi, allieva della scuola media Caduti di Cefalonia, l’ha vissuta così. Per lei e per i suoi 22 compagni tra i 12 e i 14 anni che hanno attraversato cancello dopo cancello i corridoi fino alla sezione modello che accoglie i tossicodipendenti e li occupa in varie attività, la visita compiuta la scorsa settimana è stata un’esperienza grande, importante. Progetto internazionale L’esperienza di Noemi, Sara, Paula, Alan, Alessandro e degli altri ragazzi che aderiscono all’Associazione di promozione della lettura "Fuorilegge" (nella scuola di via Baltimora c’è un l’Avamposto Fuorilegge chiamato "Caduti nei libri") con i compagni che suonano nell’orchestra della scuola, è avvenuta nell’ambito del "Kaki Tree Project", progetto internazionale che dal Giappone si è diffuso in tutto il mondo per sensibilizzare i giovani sulla pace: il veicolo sono le pianticelle di kaki ricavate dai semi di un albero sopravvissuto alla bomba atomica sganciata su Nagasaki il 9 agosto 1945. L’artista Tatsuo Miyajima ha avuto l’idea di collegare le pianticelle ai bambini e agli adulti attraverso l’arte per sostenere un messaggio di pace e di rinascita. La cerimonia Nei giorni scorsi, alla Comunità Arcobaleno si è svolta la cerimonia di piantumazione di un "Kaki della pace". L’iniziativa è stata promossa dal Servizio dipendenze - Area penale dell’Asl To2 . "La piantumazione del kaki offre l’opportunità anche al carcere di farsi portatore di un messaggio di riconciliazione", spiega il dottor Enrico Teta, responsabile del Servizio e sostenitore del progetto. Dall’alberello nel cortile del penitenziario si è sviluppata un’attività artistica e una serie di collaborazioni con scuole. E la Caduti di Cefalonia ha portato alla Casa circondariale i ragazzi che hanno proposto ai detenuti letture di testi e suonato brani dedicati alla memoria e alla speranza: da Brecht a Madre Teresa di Calcutta, a "Viva la vida" dei Cold play. Umanità "Abbiamo avuto la sensazione comune di aver partecipato a uno scambio importante - riassume la professoressa Maria Riccarda Bignamini- e non solo perché anche noi abbiamo assistito a uno spettacolo di burattini presentato dalle persone detenute o per lo scambio di poesie che c’è stato: noi abbiamo ricevuto la poesia scritta da una detenuta e abbiamo donato "Vivi la vita" di Madre Teresa. Soprattutto, c’è stato uno scambio di umanità tra tutti i partecipanti". Negli spazi della Comunità è stata allestita una mostra ispirata al tema della pace e la scuola ha donato un kaki stilizzato in legno e gommapiuma, realizzato dalla professoressa Paola Stillavato. "Importante è stata anche la preparazione dei ragazzi a scuola in vista della visita - prosegue la docente -, uno psicologo e un’educatrice della Comunità Arcobaleno hanno illustrato la vita nella Comunità e parlato delle dipendenze, oggi, tra gli adolescenti". Verona: quando il teatro porta libertà dietro le sbarre di Vittorio Zambaldo L’Arena, 10 aprile 2014 Grazie a Fondazione San Zeno, Unasp Acli e Le Falìe di Velo. I progetti di laboratorio con i detenuti animati da registi veronesi nel carcere di Montorio. Anderloni: con le persone recluse alzeremo il sipario sulle loro storie e sui loro sogni per raccontarli insieme. Un luogo chiuso come il carcere, che è per antonomasia la negazione della libertà di espressione, diventa laboratorio di creatività grazie al teatro e all’ iniziativa promossa dalla casa circondariale di Verona attraverso il direttore Mariagrazia Bregoli, la Fondazione San Zeno, l’Unione nazionale arti e spettacolo Unasp Acli e l’associazione Le Falìe di Velo. Sono appunto due le iniziative che prendono corpo in carcere: una già avviata dallo scorso gennaio sotto la direzione del regista Renato Perina e l’altra che si avvierà con Alessandro Anderloni e il suo gruppo teatrale. "Sono iniziative diverse", premette Mariagrazia Bregoli, "ma che hanno in comune il desiderio di riscoprire la persona e valorizzare le sue potenzialità. Dall’esperienza in carcere risalta non solo il valore dell’incontro ma anche quello della capacità di introspezione". Anderloni ha già avuto modo attraverso l’associazione Microcosmo di lavorare con i detenuti di Montorio costituendo una giuria per le ultime edizioni del Film Festival della Lessinia. Ma ora la prospettiva è diversa: non si tratta più di guardare quello che fanno gli altri e commentarlo ma di mettersi nei panni dei protagonisti e alzare il sipario sulle proprie storie e i propri sogni. "Entreremo con le Falle per ascoltare le persone, guardare i loro volti, cogliere tutti i colori del mondo. Raccoglieremo storie e fra un anno concluderemo il nostro percorso con un gioco teatrale di improvvisazione", anticipa il regista di Velo, "potrebbe essere un azzardo ma vogliamo condividere questo percorso in un luogo così speciale dove il teatro, che è espressione di libertà, diventa negazione di se stesso, un teatro irregolare, appunto, costruito in un luogo dove mai mi era capitato prima di lavorare ma nel quale ho sempre sognato di poterlo fare", conclude Anderloni. L’iniziativa è rivolta ai detenuti della sezione maschile e femminile, in particolare a quanti hanno da scontare pene lunghe, ma che siano anche motivati a partecipare. L’idea è di replicare il risultato per i visitatori esterni ma di portarlo anche all’eterno, se sarà possibile. Non saranno coinvolti solo attori protagonisti, ma anche detenuti che già operano nei laboratori di falegnameria, sartoria e grafica. L’avvio è previsto per il mese di luglio e dagli incontri nascerà lo spettacolo di fine corso per l’anno successivo, fatto di storie, riflessioni, rielaborazioni che verranno assimilate nel copione. Il progetto è reso possibile dal sostegno della fondazione San Zeno che già dal 1999 opera con le donne detenute, "un’attenzione per la marginalità che ci caratterizza dalla nascita", sottolinea Rita Ruffoli, segretaria generale della Fondazione, "ma la proposta che ci ha spianato la strada è stato un sociodramma realizzato sulle lettere dei detenuti e presentato lo scorso ottobre con un successo incredibile: immaginare che le persone private della libertà possano mettersi in gioco non per essere raccontate ma per raccontare se stesse è stato determinate". Margherita Forestan, garante per i diritti delle persone private della libertà personale per la città di Verona ha riportato il commento di un detenuto che ha definito l’iniziativa "un progetto alto perché ci fa crescere e quando sono sdraiato in branda mi vedo in scena con gli altri a fare teatro". Paolo Presti, commissario capo degli agenti di polizia penitenziaria ha ammesso di non stupirsi del successo del teatro fra i detenuti: "Vivono anche di teatralità e sanno calibrare i loro comportamenti sulle persone che hanno di fronte: ma per loro la cosa peggiore è l’ozio e progetti così fanno solo bene alle persone all’istituzione". Catania: il Gip autorizza l’uso del "braccialetto elettronico" per la misura degli arresti domiciliari Ansa, 10 aprile 2014 Il Presidente dell’ufficio del Gip di Catania, Nunzio Sarpietro, ha diramato il provvedimento che rende pienamente operativa l’applicazione della misura degli arresti domiciliari con il controllo elettronico, il cosiddetto braccialetto elettronico. Il presidente Sarpietro dà "atto dell’orientamento di politica di contrasto al crimine del legislatore che è indirizzata all’utilizzo del carcere come extrema ratio, dando, dove possibile, la preferenza agli arresti domiciliari, che potrebbero diventare la misura cautelare da preferire in prima battuta dai giudici, risultando, invece, quasi subordinata l’applicazione della misura del carcere". Con questo tipo di misura dovrebbero lasciare gli istituti di detenzione diversi indagati o imputati per reati di vario genere, decongestionando le strutture carcerarie. Il braccialetto elettronico, a regime, è stimato comporterà un risparmio di 60-70 milioni di euro l’anno, facendo anche diminuire le forze dell’ordine nei controlli dei detenuti domiciliari. Rossano Calabro (Cs): la cantautrice Verdiana in un concerto speciale per i detenuti del penitenziario www.allaradio.org, 10 aprile 2014 Oggi la giovane cantante Verdiana si esibisce in un insolito contesto: la cantautrice calabrese infatti tiene un concerto presso l’istituto penitenziario di Rossano (Cs), sua città natale. In questa particolare occasione Verdiana regalerà a tutti i detenuti, una copia del suo primo album ufficiale "Nel centro del caos" (Carosello Records). "Questo concerto nasce da una mia idea, dalla volontà di riuscire a eliminare le barriere e i tabu che spesso riguardano il mondo della detenzione - spiega l’artista -"La musica è un momento di condivisione e mi piace pensare di poterla condividere con chi non può goderne. Concerti come quello di domani spero possano essere anche un momento di motivazione nel processo di riabilitazione". "Nel centro del caos", uscito il 25 marzo, lascia trasparire una nuova Verdiana, un’artista matura in grado di affrontare ogni tipo di musicalità. "Nel centro del caos" è la foto di una generazione, la mia, che non ha certezze ma sogni che fluttuano in bolle d’aria e scelte che spesso viaggiano in direzione contraria a quelle che sognavi da bambino, o a quelle per cui hai studiato, sudato, o pensato di vivere!" - commenta Verdiana. La giovane cantautrice, finalista dell’edizione 2013 di Amici, ha presentato dal vivo il nuovo album al Blue Note di Milano (sold out). Verdiana ha contribuito anche alla scrittura dei testi ed è stata affiancata da grandi autori: Brunori SAS, Ermal Meta, Niccolò Agliardi, Luca Chiaravalli, Andrea Bonomo, Mario Cianchi, Debora Vezzani, Fabio Barnaba e la giovane cantautrice di origini italo tanzane Chanty. Nel disco la giovane artista è accompagnata dalla sua storica band con la quale suonava già prima dell’esperienza di Amici. Tra qualche settimana verranno comunicate le prime date live di Verdiana. Cinema: "Meno male è lunedì", l’officina dei detenuti del carcere della Dozza si racconta in un film di Giulia Zaccariello Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2014 Il nuovo documentario firmato dal giornalista e regista Filippo Vendemmiati è interamente girato tra le stanze della Dozza. La pellicola trae spunto dall’esperienza di tre aziende bolognesi che hanno deciso di aprire una sede di lavoro nell’ex palestra della struttura di detenzione. Capita che dietro le sbarre la realtà si capovolga. Che ciò che è ordinario fuori diventi straordinario dentro. E che l’avvio di una settimana di lavoro si trasformi nell’inizio della strada per la libertà e per il riscatto. E capita anche che questo viaggio diventi un film: si chiama Meno male è lunedì, ed è il nuovo documentario firmato dal giornalista e regista, Filippo Vendemmiati, e girato in queste settimana tra i corridoi e le stanze del carcere di Bologna della Dozza. La pellicola trae spunto dall’esperienza che ha portato le tre aziende bolognesi leader nel settore del packaging, Marchesini Group, Ima e Gd, ad aprire una vera e propria officina nella ex palestra del carcere. Qui, ogni giorno, si producono componenti meccaniche ad alta tecnologia. Un investimento in piena regola, con la creazione di una società, la Fid, e l’assunzione di 13 detenuti, inquadrati con contratto nazionale dei metalmeccanici, a tempo indeterminato. Un progetto unico in Italia, che Vendemmiati, già premio David di Donatello nel 2011 con il documentario sulla storia di Federico Aldrovandi È stato morto un ragazzo, ha deciso di trasformare in un film, la cui uscita nelle sale è prevista per l’autunno del 2014. Girato in presa diretta, le scene non sono né preparate né costruite, ma raccolte dal vivo, seguendo una narrazione che alterna dialoghi a storie del passato degli intervistati. E usa un tono tutt’altro che drammatico. Ma protagonisti non sono solo i detenuti-lavoratori. L’idea di fondo su cui si poggia l’intero documentario, infatti, è un’altra: raccontare il rapporto e lo scambio reciproco tra carcerati ed ex-operai in pensione, chiamati a insegnare i segreti del mestiere. Sono dieci quelli reclutati dalle stesse aziende per le quali hanno lavorato una vita intera, con l’inedito ruolo, questa volta, di maestri dietro le sbarre. "Non si muove una foglia che il tutor non voglia" scherza un detenuto davanti all’operatore. La telecamera segue, passo dopo passo, il percorso dei protagonisti per arrivare nel luogo di lavoro. I detenuti dalle celle, gli ex operai dalle proprie case. E quando la chiave gira e si apre la porte dell’officina i ruoli si mescolano, gli status si annullano, e il luogo di lavoro diventa uno spazio di libertà, di scambio e di trasmissioni di saperi. Per questo, se nella vita fuori il lunedì è il giorno più grigio, dietro le mura del carcere è quello migliore. Mentre il sabato e la domenica altro non sono che ore di attesa del ritorno in fabbrica. L’officina non è l’unico progetto che ha offerto opportunità di lavoro ai detenuti della Dozza. Anche nel reparto femminile, un colosso come Ikea ha deciso di investire nel laboratorio di cucito del carcere bolognese, chiamato Gomito a Gomito. Nei mesi scorsi Ikea ha donato diversi metri di tessuti alla sartoria delle detenute. Materiale con cui poi sono stati creati astucci, borse e grembiuli. I prodotti saranno in vendita all’Ikea di Casalecchio di Reno, nel bolognese, l’11, il 12 e il 13 aprile. Immigrazione: tensione al Cie di Bari, nella notte bruciano i materassi di Francesca Russi La Repubblica, 10 aprile 2014 Alle due di notte una nuvola di fumo è uscita dal modulo numero 2. L’allarme è stato immediato. Sono stati i dipendenti del Centro di identificazione ed espulsione a intervenire subito e spegnere l’incendio con un estintore. Torna la tensione all’interno del Cie di Bari. A bruciare la scorsa notte, all’interno del modulo, è stato un materasso. Il fuoco è stato appiccato da uno dei migranti detenuti in quella cella proprio all’indomani della visita nella struttura di un gruppo di giornalisti, avvocati, professori e attivisti della campagna "LasciateCientrare" che si batte per l’abolizione dei Cie. Al momento del rogo sono stati identificati dalla polizia e dai carabinieri in servizio una decina tra algerini, tunisini e albanesi. "Non sappiamo chi sia stato - spiegano gli operatori del Centro presenti al momento dei disordini - perché il materasso è stato portato in un punto in cui le telecamere sono cieche. Anche se sospettiamo sia stato un migrante che tutto il giorno si è lamentato, dicendo di voler uscire per raggiungere suo fratello in Calabria, perché gli avevano sparato". Sull’episodio indaga la polizia. Intanto ieri il presidente della commissione diritti umani del Senato, il Pd Luigi Manconi, ha visitato sia il Cie sia il Cara di Bari. "I Centri di identificazione e espulsione vanno aboliti - ha detto il senatore - nei Cie la persona è ridotta alla sua materialità che è la sua corporeità. Nei Cie troviamo dei corpi, assistiamo a processi che sono quelli studiati da Marx: alienazione, scissione e reificazione. Riduzione, cioè, a cosa". La storia di Rohan…. da clandestino a responsabile del Cie Tredici anni fa era appena sbarcato sulle coste siciliane dopo un lungo viaggio in aereo dallo Sri Lanka all’Egitto e poi su un barcone di fortuna dall’Egitto fino all’Italia. Voleva, come gli altri, raggiungere un sogno chiamato Europa. Ma, una volta messo piede sul territorio italiano, aveva capito che in realtà lo aspettava un incubo di nome Cpt, ovvero un Centro di permanenza temporanea, dove chiudono gli immigrati appena sbarcati. Quell’acronimo sarà la cifra del suo destino. Aveva solo 24 anni allora Rohan Lalinda. Quel giorno del 2001, appena arrivato a Catania, era spaventato ed emozionato. Ma, soprattutto, per la legge italiana, era clandestino: così era stato rinchiuso nel Cpt di Trapani. In attesa di essere rimpatriato. Perché senza documenti e senza lavoro non si può stare. Nello Sri Lanka, però, non ci è più tornato se non in vacanza. Ora Rohan ha 37 anni, vive in Italia e di uno di quei centri in cui è stato dietro le sbarre è diventato direttore. Rohan Lalinda Kuruppu Arachchige - è il suo nome completo che scrive su un foglio ma che non usa mai perché, dice, "gli italiani non lo sanno pronunciare" - è il nuovo direttore del Centro di identificazione ed espulsione di Bari, la versione aggiornata dei vecchi Cpt. È stato nominato al vertice del centro gestito dalla cooperativa "Connecting people" a novembre ma per due mesi è stato fuori in ferie. A febbraio è tornato e adesso lavora nella struttura al quartiere San Paolo del capoluogo pugliese in cui sono detenuti 80 tra tunisini, algerini, albanesi, georgiani, marocchini. Con la sua squadra di dipendenti deve far fronte alle difficoltà e alle sofferenze di migranti rinchiusi nel Cie perché irregolari. "Clandestini come ero io" riflette. E, in effetti, è così. Rohan è passato dall’altro lato della barricata, ma, ragiona, "non è un male". "Capisco le loro esigenze e cerco di fare tutto quello che mi è possibile per andare loro incontro, faccio del mio meglio" spiega Rohan. "Io sono entrato in Italia clandestinamente tredici anni fa - fa un tuffo indietro nel passato per raccontare la sua storia - purtroppo anche io sono entrato in un Cpt, a Trapani. In quel periodo ho avuto la possibilità di fare la richiesta di asilo politico, così mi hanno fatto uscire con un permesso di tre mesi rinnovabili. Dopo un anno e mezzo mi ha chiamato la Commissione che analizza le richieste di asilo, purtroppo, però, in quel periodo non c’era più guerra nello Sri Lanka e la mia domanda è stata respinta. Ma sono stato fortunato - va avanti Rohan - perché dopo il diniego ho avuto la possibilità di avere un contratto di lavoro nel centro in cui sono stato ospite a Trapani". Così comincia la vita italiana del giovane asiatico che, dopo sette anni di lavoro in Sicilia, è stato inviato a Bari. In uno dei centri più difficili. "Le rivolte sono pane quotidiano - si stringe nelle spalle - ogni giorno per qualsiasi piccolo motivo ci sono proteste perché, giustamente, sono in libertà limitata qui dentro. Per loro anche se tu crei un albergo a cinque stelle non cambia niente perché quello di cui hanno bisogno è la libertà". Lo sa bene Rohan e ne soffre. È vero che la struttura è fatiscente, che i bagni sono rotti (tre moduli in ristrutturazione), che gli spazi sono limitati, che il cibo non è di prima classe, ma il vero problema, al di là delle condizioni di vita, è stare dietro le sbarre. "Le attività sono limitate, sono pochissime - va avanti - è difficile anche fare qualcos’altro, io come direttore posso fare molto poco perché con la legge che esiste dobbiamo sempre chiedere il permesso. Dentro possono giocare a carte, a dama, a scacchi. Forse il carcere è meglio di qua" ammette. Nel cortile un campo da basket e uno da calcio ma, per giocare, si fanno i turni. "I rimpatri effettivi - conclude Rohan - sono appena il 20%, gli altri dopo un po’ di tempo escono". Centro di identificazione sicuramente sì, di espulsione qualche volta: un dato che la dice lunga, stando anche ad una ricerca portata avanti dall’Università, sulla reale utilità di queste carceri amministrative. Iraq: due inchieste sulle presunte torture praticate dai militari italiani a Nassiriya di Pier Giorgio Pinna La Nuova Sardegna, 10 aprile 2014 Due inchieste al via. Sulla denuncia in tv di torture da parte di uomini del Sismi e delle forze armate italiane su detenuti iracheni stanno per partire le indagini della Procura di Roma e della magistratura militare. Le dichiarazioni fatte nella trasmissione Le Iene da un ex caporale della "Sassari" e da altri soldati presentati come effettivi nella Brigata si configurano come "notizie di reato". Quindi perseguibili sul territorio nazionale nonostante si riferiscano a Nassiriya, nell’autunno-inverno della strage. Le prassi. Per il momento i fascicoli dovrebbe essere intestati con la dicitura "Atti relativi a…". In questa fase, una procedura standard. Che però, con l’acquisizione dei documenti sulla nuova trasmissione in onda ieri sera su Italia 1, potrebbe subire un’accelerazione. Programma-rivelazione. E questo perché nella puntata, curata sempre da Luigi Pelazza, Le Iene hanno presentato altre testimonianze. La prima è un’intervista, che sembra registrata senza il consenso dell’interlocutore. un anonimo vestito con una t-shirt nera e pantaloni verde scuro, indicato come "soldato della "Sassari" stretto collaboratore di un generale a Nassiriya". Il suo volto non compare. Seduto su un divano, accento sardo, conferma la pratica di torture a Nassiriya da parte dei "servizi" italiani. Sullo sfondo, voci di bambini. La seconda "prova" è un video: s’intravede un uomo in divisa con lo scudetto tricolore vicino a due prigionieri a terra, le mani legate con fascette da elettricista, gli occhi bendati. Altri particolari. Pelazza mostra il filmato asserendo di averlo ricevuto da un militare. Il quale, sostiene, l’avrebbe girato nella tenda di un accampamento gestito da italiani a Nassiriya. In precedenza il soldato della Brigata aveva spiegato che gli americani lanciarono l’allarme qualche giorno prima dell’attentato. Ritornando sulle torture, ha poi aggiunto che i detenuti venivano tenuti "come polli": "Li facevano entrare prima in un box e se non parlavano li massacravano di botte, poi in un altro dove il pestaggio si ripeteva via". Vie d’investigazione. La ricerca di riscontri si svolgerà dunque lungo differenti canali d’indagine. Uno interessa la credibilità dei racconti e l’affidabilità di chi rivela a distanza di oltre 10 anni dettagli sconvolgenti. In particolare, sarà ascoltato l’unico ex caporale che parla con nome e cognome, Leonardo Bitti, 40 anni, sassarese con origini a Mara. Ora fa l’avvocato, ma per oltre 20 anni è stato nella Brigata. Il secondo filone riguarda, il merito della questione: e cioè se esistesse a meno di un chilometro dalla White Horse - sede del comando italiano a Nassiriya - una casa di colore bianco, vasta un centinaio di metri quadrati, dove prigionieri iracheni venivano seviziati da italiani appartenenti a corpi diversi dalla Brigata. Esatte identità. Con ogni probabilità altri passi saranno quelli d’individuare le altre persone che hanno rilasciato dichiarazioni alle Iene, riascoltare lo stesso Pelazza (già sentito per un precedente collegato al caso) e valutare poi il materiale e tutti gli altri indizi raccolti. Rischi e responsabilità. "Certo è che i soldati che adesso fanno queste rivelazioni sarebbero stati tenuti, secondo quanto prevedono le norme militari, a mettersi a rapporto dai loro comandanti già all’epoca dei fatti e a riferire gli elementi in loro possesso nel momento in cui temevano violazioni di legge", tengono a puntualizzare in proposito alcuni specialisti in procedure che rientrano nei codici penali di pace e di guerra. La Difesa. Anche in attesa che venga data una risposta all’interrogativo su come mai queste testimonianze diventino pubbliche solo oggi, per ora sui fatti resi noti dalle Iene è arrivata a livello ufficiale una raffica di "no comment". Nessuna dichiarazione, quindi, dall’ufficio stampa del ministero, dallo Stato Maggiore e dal ministro Roberta Pinotti. Il deputato Scanu: "Una denuncia da non far cadere" Il deputato gallurese Gian Piero Scanu segue con attenzione tutta la vicenda. "Pare che le modalità attraverso le quali l’opinione pubblica è stata informata non siano quelle tipiche delle insinuazioni e delle calunnie", commenta d’acchito. "Ci troviamo di fronte ad affermazioni rese in maniera esplicita da persone ben individuate o individuabili", aggiunge Scanu, che per il Pd è capogruppo alla Camera nella commissione difesa. "Così - prosegue - prima di ogni altra cosa questo impone di non sottovalutare o di derubricare come frasi pronunciate dai mitomani di turno testimonianze invece attribuibili ad addetti ai lavori presumibilmente a conoscenza di situazioni specifiche". "Com’è naturale è persino ridondante ricordare che in casi del genere si conferma la stima, la fiducia e il rispetto per le forze armate italiane nella loro interezza - sostiene ancora Gian Piero Scanu. Ma una denuncia di questo tipo non può comunque cadere nel vuoto. E quindi saranno indispensabili tutte le verifiche opportune in ambito politico e giudiziario, sia penale ordinario sia militare. Troppe pagine della nostra storia moderna e contemporanea, mi riferisco per esempio alle foto dei soldati italiani che in Somalia hanno torturato prigionieri con gli elettrodi, sono rimaste avvolte dall’oscurità". L’esponente del Pd è conosciuto come l’autore del cosiddetto Lodo Scanu, da lui ribattezzato: ossia l’approvazione da parte delle Camere della disposizione secondo cui tutte le spese militari devono essere sottoposte non più solo al ministero e ai capi di Stato maggiore, ma decise dal parlamento. "E proprio in un nuovo contesto nel quale si sta, per così dire, democratizzando la spesa si avverte l’esigenza di una trasparenza che dai conti si estenda a ogni cosa - afferma in ultima analisi Scanu. Dunque un fatto sarà evidente d’ora in poi: su chi svolge funzioni pubbliche anche all’interno delle forze armate, in patria come nelle missioni all’estero, non possono addensarsi ombre o distorsioni di alcuna natura". Il generale e l’appuntato: "Inverosimile" Erano a Nassiriya la mattina della strage, il 12 novembre 2003. E sono stati tra i militari che hanno organizzato i primi soccorsi e tentato di ricostruire, ognuno col proprio ruolo, l’attentato costato la vita a 19 italiani. Il generale Gianfranco Scalas, all’epoca in forza alla "Sassari", dal 2011 in pensione, aveva il compito di fare da portavoce per la missione "Antica Babilonia". L’appuntato scelto dei carabinieri Pietro Sini, di Porto Torres, ha combattuto a lungo prima di vedere riconosciuto il suo altruismo nell’assistenza ai feriti: alla fine gli è stata data la medaglia d’oro al valor militare per aver contribuito a salvare diverse vite. "Ma oggi tutto quello che vedo in tv mi appare inverosimile - spiega - Io non ho mai sentito parlare di una base segreta per interrogatori. Né ho visto nulla. Eppure, facevo l’istruttore della polizia irachena, mi è spesso capitato di assistere ai colloquio con arrestati". "Ma a quegli interrogatori partecipavano gli avvocati e i magistrati iracheni: tutto avveniva in regola", sottolinea Sini. "Io credo che affermazioni come quelle che ho ascoltato nella trasmissione vadano dimostrate: lo stesso sconcerto che ho avuto sentendo certe cose ha colpito decine di altri militari che mi hanno telefonato da mezza Italia dopo aver visto Le Iene", conclude il carabiniere, dicendosi stupito "dalle motivazioni di una crociata del genere". "Non capisco davvero tutti quelli che oggi fanno queste dichiarazioni", attacca il generale Scalas, che nel frattempo ha intrapreso una militanza politica attiva ed è diventato il segretario nazionale di Fortza Paris. "La loro prima mossa doveva essere quella di mettersi a rapporto dai superiori - incalza l’ex ufficiale. Soprattutto in una Brigata dovei soldati non sono mai stati reticenti e le cose non le hanno mai mandate a dire quando si tratta di segnalare qualcosa che non va. Conosco bene i sassarini: queste caratteristiche li hanno sempre distinti rispetto ad altri reparti". "E allora mi chiedo e chiedo: perché solo adesso sento parlare di basi per interrogatori delle quali quando ero lì non ho mai saputo nulla?", spiega. "Anzi, ora che ci penso l’unico fatto che ricordo interessò l’articolo di un giornalista del Corriere della Sera per maltrattamenti di detenuti, ma riguardava il carcere gestito dai soli iracheni nel centro di Nassiriya, non certo posti simili a quelli di cui si parla oggi in tv", sostiene Scalas. Grecia: denuncia su mancanza di sicurezza e violazioni dei diritti umani nelle carceri www.globalist.it, 10 aprile 2014 Un detenuto picchiato a morte dalle guardie nel carcere di Nigrita, un altro si uccide nella prigione di Korydallos, un terzo accoltella un agente a Trikala La Commissione nazionale greca per i diritti umani ha denunciato ieri "la mancanza di sicurezza e di violazione dei diritti umani nelle carceri" dopo il misterioso episodio che ha coinvolto alcune guardie carcerarie Nigrita ,nel nord del Paese, che adesso sono sospettate di aver ucciso un prigioniero. Quindici agenti del carcere di Nigrita avrebbero continuato a picchiare un detenuto albanese, Ilie Kareli, 42 anni, fino a provocarne la morte: lo accusavano i di aver ucciso un loro collega in un altro carcere. "L’assassinio di Kareli è l’ultimo di una serie di eventi che hanno già dimostrato il malessere esistente nelle carceri greche", denuncia Kostis Papaioannou, presidente della Commissione nazionale per i diritti umani. "Queste guardie pensano di vivere in uno stato di impunità che non contempla sicurezza nè diritti per i detenuti". Papaioannou propone che tutte le carceri in Grecia siano controllate da un organismo indipendente. Ilie Kareli era stato trasferito il 27 marzo per motivi di sicurezza nel penitenziario di Nigrita dopo aver ucciso una guardia nel carcere di Malandrino, dove da sette anni stava scontando una pena per tentato omicidio. La France Press ricorda che la Grecia è stata ripetutamente richiamata dalle organizzazioni internazionali per le condizioni miserabili delle sue carceri, ulteriormente peggiorate dai i tagli di bilancio decisi all’inizio della crisi. Per sorvegliare circa 13.000 detenuti in 34 carceri del paese ci sono solo 1.800 guardie, ha recentemente spiegato il ministero della Giustizia. Domenica, un detenuto di 43 anni si è ucciso nell’ospedale della prigione di Korydallos, la più grande del paese alla periferia di Atene, dove i pazienti hanno proclamato uno sciopero della fame da diverse settimane per protestare sulle condizioni cura e custodia. "Nell’ospedale Korydallos ci sono solo 60 posti letto per 200 pazienti e la maggior parte dei degenti non dovrebbe essere lì a causa della gravità delle loro condizioni", dice Vangelis Mallios, del consiglio della commissione per i diritti dell’uomo. Lunedi un detenuto accoltellato una guardia nel penitenziario di Trikala, Il governo ha annunciato una riforma del sistema carcerario, criticata dal principale partito di opposizione, la sinistra radicale Syriza. "La grande riforma consiste solo nel di vietare le autorizzazioni di uscita per i condannati alle pene più lunghe e nel limitare le visite delle loro famiglie", ha detto Vassiliki Katrivanou, membro di Syriza. Stati Uniti: esecuzione in Texas nonostante numerosi appelli, è la sesta nel 2014 Ansa, 10 aprile 2014 Un detenuto messicano è stato giustiziato nel Texas con l’accusa di avere ucciso il suo datore di lavoro e di averne violentato la moglie, nonostante numerosi appelli avessero sollevato l’irregolarità delle procedure, oltre che l’irresponsabilità penale del condannato. Ramiro Hernandez, 44 anni, è morto alle 18.28 ora locale nel penitenziario di Huntsville, nel Texas, secondo quanto comunicato dal ministero della Giustizia dello Stato. È la sesta persona sottoposta ad esecuzione capitale quest’anno nel Texas. Il ministero degli Esteri messicano ha immediatamente reagito, condannando l’esecuzione in una nota. Hernandez era stato condannato a morte nel 2000 per avere ucciso il suo datore di lavoro e per aver violentato, a più riprese, la moglie della vittima, a San Antonio. La scorsa settimana, la Corte suprema degli Stati Uniti aveva rifiutato di farsi carico dell’ appello di Ramiro Hernandez che sosteneva di non essere stato informato dei suoi diritti consolari al momento del suo arresto. La Convenzione di Vienna, ratificata da 175 Paesi tra cui gli Stati Uniti, sancisce che tutti i residenti all’estero devono essere informati e ricevere assistenza dai rappresentanti del proprio consolato, dopo esserne stato precedentemente avvisati. E la Corte internazionale dell’Aja aveva ordinato nel 2004 la revisione dei dossier di 51 prigionieri messicani, tra cui Ramiro Hernandez, proprio per la mancata applicazione della Convenzione di Vienna. Brasile: 5 reclusi carbonizzati durante rivolta in carcere, altri 27 ustionati a seguito del rogo in cella Ansa, 10 aprile 2014 Almeno cinque detenuti sono morti carbonizzati, e altri 27 sono rimasti ustionati, a seguito di un incendio provocato dentro il carcere di Icoaraci a Belem, capitale amazzonica dello Stato brasiliano del Pará. Secondo le autorità del locale penitenziario, il rogo sarebbe stato appiccato al culmine di un momento di tensione tra i reclusi di una cella dove si trovavano ammassate 32 persone. Pensando che fosse in corso una rivolta, alcuni di loro avrebbero dato fuoco a lenzuoli e materassi, senza poi riuscire a controllare le fiamme. Stati Uniti: liberato dopo 24 anni in carcere, non aveva commesso l’omicidio di cui era accusato Tm News, 10 aprile 2014 Ha passato 24 anni e 8 mesi in carcere accusato di aver commesso l’omicidio dell’amico Darryl Rush avvenuto nel 1989 a Williamsburg, un quartiere di Brooklyn, New York. L’uomo, Jonathan Fleming, è stato liberato ieri. Il 51enne da sempre ha sostenuto che quel giorno, il 15 agosto, si trovava in vacanza con la sua famiglia a Disney World a Orlando, Florida. Fleming era stato messo in carcere perché secondo i giudici aveva ucciso a colpi di pistola Rush dopo una lite per soldi. Ma il suo avvocato non si è mai dato pace e dopo aver fatto riaprire il caso ha fornito alla giuria video e foto che provavano la presenza del 51enne in Florida. E ancora, a scagionare l’uomo, sono stati alcuni testimoni che hanno ritrattato le loro deposizioni. "Questo giorno è arrivato, l’ho sognato tante notti", ha detto Flaming appena uscito dalla prigione di New York. A chi gli ha chiesto cosa avrebbe fatto nel suo primo giorno da persona libera il 51enne ha risposto: "Andrò a mangiare con mia madre e la mia famiglia, e mi preparerò a vivere il resto della mia vita". "La decisione di oggi segue una seria e meticolosa revisione di questo caso, è basata su importanti alibi che mostrano che Fleming si trovava in Florida nel periodo dell’omicidio, ho deciso di sollevare tutte le accuse contro lui nell’interesse della giustizia", ha detto in una nota Ken Thompson, il procuratore del distretto di Brooklyn. Tunisia: uccisero oppositori a premier Ben Ali, 4 poliziotti condannati a pene da 5 a 10 anni di carcere Aki, 10 aprile 2014 Un tribunale militare tunisino ha condanno quattro poliziotti al carcere, con pene che variano dai cinque ai dieci anni di detenzione, per aver ucciso manifestanti dell’opposizione durante le rivolte del 2011 che hanno portato alla deposizione del presidente Zine al-Abidine Ben Ali. In particolare, come spiega la radio pubblica, un agente di polizia è stato condannato a dieci anni di carcere e gli altri tre a cinque anni ciascuno. Sarà possibile presentare appello. I quattro sono stati condannati per il loro ruolo nell’uccisione di due manifestanti durante una protesta nella provincia di Sidi Bouzeid nel dicembre del 2010. Tagikistan: condanna a trent’anni di carcere per detenuto-barbiere che uccise il direttore del carcere Tm News, 10 aprile 2014 Gli doveva tagliare soltanto i capelli. E, invece, il parrucchiere detenuto ha usato le forbici per assassinarlo. È successo al direttore di una prigione della regione di Khatlon, nella parte meridionale della repubblica ex sovietica dell’Asia centrale. Un tribunale ha condannato il prigioniero a 30 anni ulteriori di carcere. I fatti risalgono a febbraio. Il prigioniero 29enne, di lavoro barbiere e parrucchiere, fu chiamato dal direttore della prigione per fargli i capelli. Ma l’uomo, usando le forbici, lo accoltellò selvaggiamente per 17 volte alla testa e sul resto del corpo. Il detenuto era in prigione per una condanna a 17 anni e mezzo per aver assassinato un giovane colpendolo 57 volte con un coltello.