Giustizia: gli "inseguimenti" di Orlando, il "non ci sto" dell’Anm, le riflessioni di Nordio di Valter Vecellio Notizie Radicali, 8 agosto 2014 Che cosa fa il ministro della Giustizia Andrea Orlando? "Insegue" e tenta di rabbonire le toghe, che sarebbero "deluse e preoccupate sulla riforma della responsabilità civile". Orlando, ministro del "dialogo", non accetta che la sua annunciata (per ora abbiamo una "linea guida") riforma sulla responsabilità civile del magistrato per colpa grave o dolo, "possa essere l’anticamera della rottura con i magistrati". Il virgolettato riportato è sicuro, lo si ricava da un articolo di Liana Milella per "Repubblica". E cosa paventano i magistrati associati dell’Anm? Lo dice Rodolfo Sabelli, il presidente: "Si rischia di aumentare a dismisura i ricorsi, anche strumentali, contro i magistrati". E che, vogliamo correre questo rischio, abituati come siamo, alla pacchia efficacemente riassunta dal "Garantista" per un articolo di Errico Novi: "Medici denunciati 600mila. Pm denunciati: 4. Strano". PM denunciati, in 26 anni di legge Vassalli sulla responsabilità civile, quattro! Più che strano, surreale. La dice lunga su come funziona (o meglio, non funziona) questa legge, la dice lunga su come funziona (o meglio, non funziona) il Consiglio Superiore della Magistratura. E come funzionino (o meglio, non funzionino) le cose lo comprende un lettore attento dei giornali: che riportano ogni settimana almeno uno o due casi di cittadini accusati di crimini gravi, tenuti in carcere per giorni e settimane, e poi, quando va bene, con una pacca sulle spalle scagionati. Per dire: il ministro della Giustizia Orlando, tra un "inseguimento" e l’altro, gli venisse la voglia e la curiosità di spiegare come sia potuta accadere quella mostruosità delle presunte sevizie sessuali nell’asilo di Rignano Flaminio? E volesse provare il presidente Sabelli, a spiegarcelo? E, naturalmente il Csm, visto che chi era titolare di quell’inchiesta finita alle ortiche, è pure stato promosso? Di casi come questo se ne potrebbero citare centinaia, finiti come bolle di sapone, nessuno ha pagato, nessuno ha chiesto scusa. Ora può essere pure che chi scrive sia affetto da congenita, radicata, pregiudizievole diffidenza nei confronti dei magistrati. Non si ha alcuna difficoltà ad ammettere che non sono molte le toghe conosciute in più o meno quarant’anni di mestiere giornalistico, di cui ci si fida, e di tantissimi invece si diffida. Con molta amarezza, chi scrive, trova ottimo il consiglio di Benedetto Croce contenuto in una lettera a Giovanni Amendola a proposito di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini, il consiglio era di stare quanto più possibile lontano dai tribunali, e pensate!, la data della lettera è del 1 giugno 1911! Come da allora sia mutato poco, e quel poco non in meglio ognuno lo sa e lo vede. La conferma della strumentalità di certe affermazioni, di certe prese di posizione, le resistenze anche alle pur minime riforme che chiamare riforme è tanto, troppo, ci viene dal procuratore aggiunto della procura di Venezia Carlo Nordio, di cui ricordiamo alcuni libri come "Giustizia", "Emergenza giustizia" e "In attesa di giustizia" (con Giuliano Pisapia) la cui lettura si raccomanda al ministro della Giustizia (che potrebbe sfogliare utilmente anche il "Crainquebille" di Anatole France, da Nordio tradotto e commentato). Cosa dice Nordio, intervistato dal "Corriere della Sera"? "Se si pensa di sanzionare un magistrato con una pena pecuniaria, si sbaglia… così incrementeranno soltanto i premi delle assicurazioni. Tutti noi giudici siamo assicurati e paghiamo anche tanto queste assicurazioni. Ecco perché la pena pecuniaria non è un deterrente per i nostri errori… meglio sanzionare in termini di carriera. È molto semplice. Anche con la sospensione dal servizio. Oppure, nei casi più gravi, arrivando alla destituzione. Questa si che funzionerebbe come deterrente". Per inciso: Nordio fornisce un esempio rivelatore di come questo Governo sia composto da Paperoga che fanno e improvvisano, il beau geste che vorrebbe meravigliare e invece, ti fa scuotere la testa preoccupati: "Nella riforma della Pubblica Amministrazione c’è una parte che riguarda la giustizia in maniera importante e secondo me non se ne sono nemmeno accorti di cosa stanno approvando: lì dove si dice che i giudici andranno in pensione a 70 anni invece che a 75. In un solo colpo decapitano almeno 550 posti apicali di giudici presidenti di tribunali, giudici di Cassazione, di Corti d’Appello, procuratori capi… Significa la paralisi del Consiglio Superiore della Magistratura: in media ci mette sei mesi a nominare un procuratore capo di posti come Roma o Palermo. Come faranno a nominarne 550 tutti insieme? Sarà un effetto tsunami". Questa la situazione, questi i fatti. Giustizia: trattativa in salita sul progetto di riforma di Orlando, è scontro con i 5 Stelle di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 8 agosto 2014 Quello del ministro Andrea Orlando con il Movimento 5 stelle ieri mattina è stato uno scontro più che un incontro. Perché i pentastellati non soltanto non apprezzano le linee guida della riforma della giustizia, ma contro Orlando hanno puntato il dito: "C’è la giustizia all’interno del patto del Nazareno", ha detto il deputato Andrea Colletti, uno dei quattro parlamentari di M5s che ieri mattina hanno passato più di due ore in via Arenula, faccia a faccia con il ministro, insieme con Enrico Cappelletti, Alfonso Bonafede e Maurizio Buccarella. E quando sono usciti dal ministero hanno accusato Andrea Orlando di essere stato "evasivo" rispetto all’accusa del patto del Nazareno. Ma è stato alla fine dell’incontro che il ministro della Giustizia ha voluto replicare con chiarezza e molta decisione: "La riforma della giustizia è frutto di un’elaborazione che nasce nell’ambito della maggioranza di governo, non da altri patti", riferendosi al cosiddetto patto del Nazareno, l’accordo sulle riforme fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, stipulato nella sede del Pd a Roma, il Nazareno, appunto. Di punti che riguardano la giustizia all’interno di quel patto anche Francesco Nitto Palma ieri ha detto chiaramente di non saperne nulla. Presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama, il senatore di Forza Italia ieri ha voluto convocare una conferenza stampa per chiarire che nei confronti della riforma di Orlando ha dubbi e molte delusioni, ma che ha stima del ministro e non è arrivato a nessuno scontro frontale. Dichiarazioni in punta di diplomazia, dopo l’incontro di mercoledì con il ministro che aveva lasciato adito a molte interpretazioni, e che coincidono con quelle di Andrea Orlando: "Ci sono differenze con Forza Italia, per esempio in tema di intercettazioni, ma non c’è nulla di ultimativo, siamo in fase interlocutoria. Non ho mai pensato che questa riforma potesse essere una passeggiata". E inaspettatamente, invece, una passeggiata gliel’hanno fatta fare i parlamentari di Sel. È stato Daniele Farina, deputato della commissione giustizia, che ha incontrato Orlando insieme al capogruppo Nicola Fratoianni. E che ha dichiarato: "La riforma della giustizia ci appare corretta ed equilibrata, segnata solo dal patto del governo con Ncd, dove può emergere qualche elemento di divergenza. Ma in generale si conferma il fatto che quello della giustizia è il tema su cui Sel ha in assoluto i minori attriti con il governo". Sereno anche l’incontro fra il ministro Orlando con Giorgia Meloni, presidente dei Fratelli d’Italia, e con il deputato Edmondo Cirielli: dai due soltanto parole di apprezzamento "in particolare - è scritto in una nota di Fratelli d’Italia - è stata valutata positivamente l’intenzione del ministro Andrea Orlando di fare disegni di legge e non decreti legge, consentendo in tal modo un approfondito esame parlamentare". La Lega (Orlando ha visto Molteni e Stefani) ha dato un ok sul civile, ma sul penale ha lamentato di aver visto "solo titoli". La strada della riforma della giustizia è lunga e tortuosa. Ma il ministro è pronto ad andare dritto e spedito. "Abbiamo sottoposto alle opposizioni le proposte in ambito di giustizia civile", ha detto Orlando. E ha concluso: "Ora siamo pronti a passare al confronto sul penale e sul carattere ordinamentale". Giustizia: Palma (Fi); con Orlando no muro contro muro ma delusi proposte di riforma Agi, 8 agosto 2014 "Non c’è nessun muro contro muro" nei confronti del ministro Orlando e della riforma della Giustizia che il Governo intende mettere a punto. Lo sostiene il presidente della commissione Giustizia del Senato, Francesco Nitto Palma, che ieri ha incontrato, con la delegazione di Forza Italia, il Guardasigilli. Ma non nega la delusione dopo il confronto. Da Forza Italia arriva un sì agli interventi sulla Giustizia civile, la cui riforma è indispensabile per la crescita economica del Paese, "ma restano perplessità su come si vuole intervenire, visto che abbiamo riscontrato anche qualche errore di tipo tecnico" nelle schede che sono state sottoposte. Sul fronte penale, Palma lamenta che non venga esplicitato "come si vogliano raggiungere gli obiettivi". In ogni caso non una parola su intercettazioni, tempi della responsabilità civile dei magistrati, ma anche superamento del correntismo nella magistratura. "La riforma della giustizia non è un intervento di accelerazione su un singolo processo ma un intervento di sistema", nota Palma, ed aggiunge: "Non c’è un intervento di sistema, ad esempio, sulla custodia cautelare, ma sono stati estesi oltre misura alcuni istituti dell’esecuzione penale". Sulla responsabilità civile dei magistrati Palma nota che c’è un punto su cui centrodestra e centrosinistra non riusciranno mai a mettersi d’accordo: "L’entità della rivalsa sul magistrato" che ha commesso l’errore. Ed aggiunge: "Non riusciamo a trovare una sola norma che giustifichi il trattamento differenziato per i magistrati rispetto agli altri dipendenti dello Stato". Ed ancora: "Sull’ingresso e l’uscita dei magistrati dalla politica", questione su cui è stato licenziato un testo dal Senato, "abbiamo chiesto al governo di farci capire cosa pensa". Quindi, sul falso in bilancio, si chiede che cosa intenda fare il governo sulle norme che, ricorda, hanno superato il vaglio della Cassazione e che sono in linea con la normativa europea: "Se si intende dare apprezzabilità a condotte marginali e formali, prive di danno, noi non siamo d’accordo", sottolinea Palma. E sulle polemiche che hanno investito il ddl anticorruzione, che si è bloccato in attesa del testo annunciato dal governo, osserva: "Io non minaccio nessuno, cerco di applicare il regolamento del Senato", che in questi casi prevede uno stop di soli trenta giorni. "Non sono il despota della commissione Giustizia, devo sentire il parere dei singoli partiti e se mi richiamano al rispetto del regolamento io devo rispettarlo". Quindi, ad un anno dal suo insediamento alla presidenza della commissione di palazzo Madama, Palma traccia un bilancio: "Ai ddl di iniziativa governativa che la commissione ha licenziato se ne devono affiancare altri dieci di iniziativa parlamentare, cinque dei quali all’attenzione della Camera". Altri sono al vaglio dei commissari. Ferranti: dl p.a. migliorato in norme sulla giustizia Il testo definitivo del decreto sulla semplificazione della pubblica amministrazione "dà pieno riconoscimento al contributo apportato dalla commissione Giustizia, recependone numerosi emendamenti. Emendamenti che hanno decisamente migliorato la consistente parte del provvedimento riservata alla Giustizia". Lo ha sottolineato la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, dopo il voto finale della Camera sul provvedimento. Ferranti ha ricordato "le norme che rafforzano ulteriormente i poteri dell’Autorità anticorruzione, l’attuazione concreta del principio di sinteticità degli atti nel processo amministrativo, un passo decisivo - ha spiegato - per arrivare a processi celeri e soprattutto un importante precedente che può aprire a un analogo modello anche il processo civile, e poi l’eliminazione delle criticità nel processo telematico segnalate dagli operatori". Ferranti, in particolare, ha richiamato l’attenzione sulla costituzione dell’ufficio del processo nell’ambito del quale - ha sottolineato l’esponente del Pd - "è stato finalmente dato il giusto riconoscimento a quei giovani laureati scelti tra i più meritevoli che concludono positivamente il tirocinio formativo di 18 mesi presso gli uffici giudiziari. Il decreto, non solo assicura una piccola borsa di studio, ma soprattutto considera lo stage titolo per accedere direttamente al concorso in magistratura". Una novità tuttavia, a giudizio della presidente della commissione Giustizia, "non ancora sufficiente: se si vuole davvero incentivare anche nella magistratura il ricambio generazionale, l’obiettivo deve essere quello di consentire che per il concorso basti la laurea in giurisprudenza. E sul punto, tenendo anche conto che il governo ha accolto un ordine del giorno del Pd in tal senso, presenterò già nei prossimi giorni, insieme a Walter Verini, una apposita proposta di legge". Giustizia: non vi piace la prescrizione? basta evitare gli abusi dei Pm di Vincenzo Vitale Il Garantista, 8 agosto 2014 Il governo mette mano alla prescrizione, questo istituto tanto misconosciuto ed oggi bistrattato, anche perché pochi mostrano di comprenderne le ragioni profonde e giuridicamente inoppugnabili. Il governo pensa che la prescrizione si possa allungare, accorciare, perfino congelare o sospendere come nulla fosse, trattandosi soltanto di mettersi d’accordo, a seconda di come spiri il vento del giustizialismo. Nel frattempo i diritti naturali di ogni essere umano sono dimenticati, giacciono, come una volta ebbe a notare Leonardo Sciascia, "nella valle del sonno". E così il governo mette mano alla prescrizione, questo istituto tanto misconosciuto ed oggi bistrattato, anche perché pochi mostrano di comprenderne le ragioni profonde e giuridicamente inoppugnabili. Si propone ora di allungarne la durata o addirittura di congelarla per uno o due anni dopo la sentenza di primo o di secondo grado. È appena il caso di notare come questa disinvoltura che il legislatore usa nel trattare un tema delicato -sia dal punto di vista giuridico che strettamente umano - come la prescrizione, sia il segno più chiaro di una grave sindrome che sembra averlo colpito in modo evidente: la sindrome dell’onnipotenza. Una volta si diceva che il Parlamento inglese, depositario della democrazia rappresentativa per antonomasia, poteva fare di tutto, tranne che cambiare un uomo in donna: oggi invece sembrano non esserci più limiti. Per questo la prescrizione si può allungare, accorciare, perfino congelare o sospendere come nulla fosse, trattandosi soltanto di mettersi d’accordo, ma ben sapendo che tale accordo nascerà già morto, pronto cioè ad essere sostituito da un altro e poi da un altro ancora, a seconda di come spiri il vento del giustizialismo (più o meno intenso, e da quale parte). Nel frattempo i diritti naturali di ogni essere umano sono dimenticati, giacciono, come una volta ebbe a notare Leonardo Sciascia, "nella valle del sonno". Ecco la cornice di fondo dentro la quale bisogna almeno comprendere un elemento che sfugge ai più e che invece è determinante per intendere davvero quale sia una delle cause - certo la più sconosciuta - della caduta in prescrizione di molti presunti reati: il comportamento di alcuni (non so esattamente quanti siano, ma non pochissimi) pubblici ministeri. Infatti, come è noto, il nuovo codice di procedura penale - ispirato al modello accusatorio - ha stabilito giustamente che il pubblico ministero possa fare indagini per non più di sei mesi, prorogabili per non più di due volte, dal giudice, e solo per ragioni particolari: si giunge così ad un termine massimo di un anno e mezzo. Inoltre la legge stabilisce che le indagini svolte dopo la scadenza di tale termine sono inutilizzabili, altrimenti quel termine resterebbe soltanto uno scherzo. Ma da quando il termine comincia a decorrere? Da quando il pubblico ministero viene a conoscenza del nome della persona alla quale è attribuibile il reato: infatti, da tale momento egli ha l’obbligo - l’obbligo, non la facoltà - di iscrivere il nome dell’indagato sull’apposito registro: da questo preciso momento comincia a decorrere il termine. Ma che c’entra questo bel discorso con la prescrizione? Più di quanto possa sembrare. Infatti si dà il caso che alcuni pubblici ministeri abbiano il vezzo di non iscrivere il nome della persona indagata nel registro, al preciso scopo di non far decorrere quel termine, per loro tanto fastidioso e di cui vorrebbero liberarsi. Sicché, aspetta oggi, aspetta pure domani, il tempo passa inesorabile (almeno sul tempo naturale il legislatore non può aver potere) e quando si decidono ad effettuare quella benedetta iscrizione a volte son trascorsi pure tre o quattro anni. Ciò vuol dire che ne restano due o tre per celebrare l’intero processo fino in Cassazione: la prescrizione così incombe ed ha la strada spianata. L’effetto che ne deriva è duplice ed in entrambi i casi deteriore. O non si fa in tempo ed allora il reato addebitato va prescritto. Oppure, per evitare appunto la prescrizione, si corre da forsennati al punto da conculcare i diritti della difesa (e ti pareva). In entrambi i casi, la responsabilità è dei pubblici ministeri, ai quali sembra importare più delle proprie indagini (cioè del segmento processuale sul quale esercitano la propria signoria) che dell’esito conclusivo del processo (in un senso o nell’altro). E il bello è che, omettendo consapevolmente l’iscrizione del nome dell’indagato nel registro - pur conoscendolo benissimo - questi pubblici ministeri commettono non solo un illecito disciplinare (per aver trascurato l’osservanza di una precisa norma processuale), ma anche un reato: omissione di atti d’ufficio. Ma non importa. La Cassazione, investita della questione che mi pare di puro spessore teatrale - un teatro tratto da una pagina di Hugo o di Balzac (il pubblico ministero che, per far osservare la legge, la trasgredisce lui per primo) - ha affermato più volte che va bene così: le indagini svolte in tal modo, cioè commettendo due illeciti, sono perfettamente utilizzabili, perché il pubblico ministero è "sovrano" circa gli atti da lui compiuti, circa cioè quella iscrizione. Ma allora perché meravigliarsi se poi i reati si prescrivono? Carceri: Ugl-Intesa; bene il Governo sull'ampliamento dei ruoli tecnici penitenziari Ansa, 8 agosto 2014 "Viva soddisfazione" per l’attenzione del Governo sull’opportunità, nell’ambito del decreto Carceri di ampliare i ruoli tecnici della Polizia Penitenziaria recentemente istituiti per poche unità all’interno della banca dati Dna, viene espressa dalla Ugl-Intesa. "L’iniziativa è in sintonia con le posizioni assunte nel passato dalla Ugl-Intesa - sottolinea il responsabile nazionale della Ugl-Intesa Penitenziari, Quirino Catalano - nell’ambito di una riforma dell’intero personale civile penitenziario costituito da oltre seimila unità di svariate professionalità indispensabili alla gestione quotidiana di oltre 200 Carceri che ad oggi registrano la presenza di oltre 54 mila detenuti". Giustizia: "il diritto all’oblio contro la storia", Vallanzasca fa litigare Google e Wikipedia di Luca De Vito La Repubblica, 8 agosto 2014 La richiesta: il mio nome non sia legato alle pagine sul bandito. E Mountain View la accontenta. L’enciclopedia: immorale. Il diritto all’oblio contro il diritto all’informazione. A sollevare l’ultima polemica nella diatriba tra chi desidera vedere cancellato il proprio nome dai motori di ricerca e chi, invece, ricostruisce sul web la biografia di personaggi della storia e della cronaca, sono stati quelli di Wikipedia. Sul sito della Wikimedia Foundation, che gestisce l’enciclopedia online, sono state pubblicate le notifiche con cui Google ha fatto sapere di avere oscurato alcuni link a Wikipedia su determinate ricerche. Senza svelare il nome dei richiedenti, il colosso di Mountain View ha spiegato come per rispetto alla sentenza della Corte di giustizia europea che garantisce il diritto all’oblio (a seguito della quale Google ha ricevuto oltre 90mila domande di rimozione), almeno cinquanta pagine dell’enciclopedia hanno già subito questo trattamento. Quarantasei appartengono alla Wikipedia olandese: tra queste compare più volte il nome del giocatore di scacchi Guido den Broeder, una riguarda la voce in inglese su Gerry Hutch, irlandese incarcerato negli anni 80, mentre una pagina rimanda a una fotografia del musicista Tom Carstairs che suona la chitarra. Due segnalazioni riguardano anche pagine italiane: quella del gangster milanese Renato Vallanzasca e quella della sua banda, la banda della Comasina. Come spiegato nelle notifiche, la decisione di Google non ha comportato la scomparsa di queste pagine dal motore di ricerca: i cinquanta link sono "oscurati" solo quando l’utente inserisce il nome della persona che ha chiesto la rimozione. Le voci wikipediane, infatti, rimangono vive e vegete oltre ad essere ancora raggiungibili tramite il motore di ricerca, ad esempio utilizzando altre parole chiave che non contengano il nome di chi non vuole più essere associato alla storia, nella fattispecie, del bandito. Nel caso italiano, a inviare la richiesta non è stato Vallanzasca (così hanno spiegato i suoi avvocati, e in effetti digitando il nome del gangster il primo risultato è proprio quello di Wikipedia), ma più probabilmente qualcuno che non vuole essere associato alle vicende di quegli anni. Sul nome, però, da Google mantengono il più stretto riserbo, anche perché altrimenti sarebbe violato il diritti alla privacy dell’individuo secondo la decisione della Corte. Dalla Wikimedia Foundation lanciano un allarme per la difesa della libertà della rete. "I risultati di ricerca accurati stanno scomparendo dall’Europa - ha dichiarato Lila Tretikov, informatica di origini russe e direttore esecutivo della fondazione - senza nessuna spiegazione pubblica, nessuna prova reale, nessun controllo giurisdizionale e nessun processo d’appello. Il risultato è un luogo in cui le informazioni scomode semplicemente scompaiono". Parole a cui ha fatto eco Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia, durante la conferenza annuale Wikimania che si è svolta a Londra: "La storia è un diritto umano. Io sto sotto i riflettori da un bel po’ di tempo, alcune persone dicono di me cose belle e altre cose brutte. Ma questa è storia e non userei mai un procedimento legale come questo per cercare di nascondere la verità. Credo che ciò sia profondamente immorale". Anche Google aveva mostrato tutta la sua contrarietà alla decisione della Corte europea per bocca di David Drummond, chief legal officer dell’azienda californiana: "Non siamo d’accordo con la sentenza, è un po’ come dire che un libro può stare in una biblioteca, ma non può essere incluso nel suo catalogo. Ovviamente, però, rispettiamo l’autorità della Corte e facciamo del nostro meglio per attenerci alle sue decisioni". Giustizia: sospendere 41 bis a Provenzano? sì, se è contro la sua dignità di Davide Mattiello (Deputato Pd, già dirigente di Libera) Il Garantista, 8 agosto 2014 "Difendo la necessità del carcere duro contro i mafiosi, ma la lotta alla criminalità non si fa senza rispettare i diritti della persona". Il 41 bis è uno strumento fondamentale per il contrasto alla criminalità di stampo mafioso, che si fonda sul patto associativo. Con questo strumento viene impedito ai boss detenuti di continuare ad avere rapporti con il loro ambiente criminale. D’altra parte, se non ci sono più le condizioni per applicarlo con questa ratio, è meglio sospenderlo. Le condizioni di salute di Bernardo Provenzano impongono una nuova valutazione sulla compatibilità tra detenuto e regime del 41 bis. Se è vero che le sue condizioni di salute sono tali da impedire la comunicazione con l’esterno, mantenendo per lui questo strumento, si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Se il 41 bis venisse usato in maniera ingiustificata, si finirebbe col dare adito a quelli che lo attaccano in modo strumentale con l’intenzione di abolirlo. C’è chi parla di tortura riferendosi al 41 bis, ma io penso che la modalità di detenzione che è stata pensata nel 1992 sia adeguata al rigore necessario per questo tipo di reati. Anche la richiesta di chiarimenti mossa dall’Europa per possibili violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata evasa, e i dubbi sono decaduti. E stata riconosciuta la specialità della condizione italiana dovuta alla criminalità mafiosa. E chi conosce la mafia lo sa bene, mentre solo chi non la conosce può mettere tra parentesi il 41 bis. So che "Il Garantista" si pone la questione a partire dalle condizioni carcerarie dei detenuti in Italia. Ma, appunto, rispetto alla drammatica situazione del sovraffollamento nelle carceri ordinarie, non credo sarebbe un favore per i detenuti al 41 bis essere spostati negli altri istituti. Le condizioni dei carcerati devono essere assolutamente migliorate, ma questo non ha a che vedere con la messa in discussione dell’istituto del 41 bis. Non dimentichiamoci che l’abolizione del 41 bis era il primo punto indicato nel papello che Riina aveva mandato allo Stato per trattare. I mafiosi non lo vogliono il 41 bis, per questo è importante tenerlo. Ma invito il Ministro Orlando, che ha già dimostrato grande sensibilità, a verificare se il 41 bis venga applicato sempre correttamente, anche nel caso di Provenzano. Il carcere non deve essere mai uno strumento di vendetta, e sono convinto che l’antimafia, così come lo Stato, debba sempre partire dal rispetto della dignità e dei diritti della persona. Altrimenti non è credibile nella lotta alle mafie, strumenti di violenza e sopraffazione. Giustizia: Corona in carcere si pente e minaccia il suicidio… che cosa mi hanno fatto? di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2014 Cosa sono riusciti a farmi? Non è giusto, è allucinante, è incredibile, è schifoso. Sono quasi due settimane che non esco più dalla cella, che non dormo più, che non vado più all’aria, che non partecipo più a nessuna attività, che non parlo più con nessuno, a malapena mangio, ho lo sguardo fisso e perso nel vuoto". Con queste parole Fabrizio Corona inizia la sua lettera scritta dal carcere di Opera, dove è recluso da marzo 2013, dopo aver già scontato un anno in cella a Busto Arsizio (Varese), e letta per intero durante il programma "In Onda", ieri sera su La7. Il re dei paparazzi si pente degli errori commessi, di essere scappato in Portogallo dopo la condanna di quasi otto anni accusato di aver chiesto dei soldi a Trezeguet per non pubblicare le foto scattate da un collaboratore della sua agenzia fotografica in cui il calciatore era ritratto in compagnia di una donna che non era sua moglie. Ma poi chiede umanità. "Non sono uno stinco di santo è vero - si legge scorrendo le righe -, mi sono preso le mie responsabilità" e "mi sono fatto la galera ma non sono un criminale". Alla luce dell’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby (il 18 luglio scorso, l’ex premier è stato assolto dal reato di concussione e prostituzione minorile), il primo agosto il condirettore del Fatto quotidiano Marco Travaglio, nel suo editoriale, ha chiesto al Presidente della Repubblica la grazia per Corona. "Che ci fa Fabrizio Corona nel carcere milanese di massima sicurezza di Opera per scontarvi un cumulo di condanne a 13 anni e 8 mesi, poi ridotte con la continuazione a 9 anni? È normale che un quarantenne che non ha mai torto un capello a nessuno marcisca in prigione accanto ai boss mafiosi al 41bis, per giunta col divieto di curarsi e rieducarsi, fino al 50° compleanno?". Quindi, continua Travaglio: "Una grazia almeno parziale, che rimuova il macigno dei 5 anni ostativi, sarebbe il minimo di ‘umanità’ per ridare speranza a un ragazzo che ne ha combinate di tutti i colori, ma senza mai far male a nessuno. Se non a se stesso". Da quando è dietro le sbarre Corona ha fondato un giornale per i detenuti, "Liberamente" e scritto un libro dal titolo "Mea culpa", in cui prova a farsi un esame di coscienza. "Soltanto una settimana fa - scrive il fotografo - mi hanno aumentato la pena in appello da 3 anni e 4 mesi a 5 anni, e condannato con un’aggravante che si dà ai criminali pericolosi". E chiude la lettera minacciando di togliersi la vita. "La vita è una sola e non si può morire marcire dentro una cella costretto a non fare nulla solo perché sei antipatico o hai pestato i piedi a qualcuno troppo potente. Non mi possono anche vietare di rieducarmi. Non è giusto. E io ora dico basta. Voglio giustizia e sono pronto a sacrificare tutto. Anche la mia vita". Lettere: nel carcere di Parma vietato comprare più copie dello stesso libro di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 8 agosto 2014 In carcere può accadere veramente di tutto. E spesso accade l’immaginabile. La Casa Editrice "Stampa Alternativa" ha dato voce e luce alle lettere che mi sono scritto con il professore di filosofia Giuseppe Ferraro (docente di Filosofia della Morale all’Università Federico II di Napoli) pubblicando con la collana Millelire un libricino con il titolo: "L’Assassino dei Sogni" (in questo modo i detenuti chiamano il carcere) "Lettere fra un filosofo e un ergastolano", pag. 64, anno 2014, prezzo 1,00 Isbn 978862224178. Curato dalla brava giornalista Francesca De Carolis. Ed io ero particolarmente contento che l’editore lo avesse pubblicato in edizione economica (solo 1,00 euro) così lo avrebbero potuto acquistare con più facilità anche i ragazzi delle scuole. Per avere più possibilità di fare conoscere che in Italia, Paese del Diritto Romano e della Cristianità, esiste la "Pena di Morte Viva", alcuni uomini ombra (così si chiamano fra loro gli ergastolani) sparsi nei carceri d’Italia mi avevano avvertito che ne avrebbero comprate diverse copie per donarle e sensibilizzare gli operatori penitenziari, le associazioni di volontariato e la società civile. L’altro giorno dal "famoso" carcere di Parma (dove non si può tenere più di tre libri in cella) Mimmo mi ha scritto: Io, Giovanni, Corrado e altri avevamo inoltrato subito l’acquisto di diversi libri del "L’Assassino dei Sogni". Dopo due giorni l’Ufficio spesa chiamò me, Giovanni e Corrado chiedendoci il perché dell’acquisto di tanti libri a testa. Gli spiegammo che tante copie le volevamo dare in regalo alla società civile, volontari, scuole e altri per sensibilizzare il nostro problema di ergastolo ostativo. Il giorno dopo venne di nuovo il responsabile dell’Ufficio spesa e ci riferì che l’ispettore responsabile ci aveva autorizzato all’acquisto di una sola copia a testa. Chiedemmo spiegazioni e lui rispose che dovevamo presentare una richiesta scritta con delle motivazioni. Giovanni l’ha fatto e l’ha intestata alla Direzione, per conoscenza al Magistrato di Sorveglianza e al Garante dei detenuti ed altri organi istituzionali. Adesso siamo in attesa di risposte da parte della Direzione (…). Gli ho risposto: Caro Mimmo, l’altro giorno ho letto che nel 1985 ad una domanda di uno studente che chiedeva quali consigli egli potesse dare ai giovani, Ludovico Geymonat rispose: "Contestate e create". Ecco, io penso che anche gli uomini ombra per migliorare se stessi e il luogo in cui vivono, devono fare la stessa cosa.Invece per anni e anni molti di noi hanno vissuto senza accorgersene, senza cercare di capire. Probabilmente questo accade anche a molte persone in libertà, ma è un peccato che dentro all’ "Assassino dei Sogni", dove si ha più tempo per pensare, pochi lo facciano. Lo so, il carcere così com’è ti vuole solo sottomettere, prima lo faceva con la forza fisica, ora lo fa con quella psicologica, perché qui nulla è lasciato al caso. Ormai il carcere non vuole prenderti solo il corpo, quello l’ha già. L’"Assassino dei Sogni" vuole di più, molto di più. L’ "Assassino dei Sogni" vuole prenderti anche il cuore e l’anima. Resistiamo. Se non vi fanno acquistare altri libricini perché sono pericolosi, farò come Silvio Pellico. Farò le copie delle pagine del libro. E poche per volta te le manderò per lettera. Un sorriso fra le sbarre. Lettere: il nuovo reato di "depistaggio"? è di una gravità inaudita di Massimo Bordin Il Foglio, 8 agosto 2014 Questa storia del nuovo reato di "depistaggio", per come viene spiegata dai supporter, è di una gravità inaudita. Non si tratta di una delle tante concessioni allo spirito del tempo, che pretende un codice "politicamente corretto" più che giuridicamente sensato. Non è come per il "femminicidio" o l’"omicidio stradale". Anche in questo caso si intesta un nuovo reato per comportamenti già sanzionati dal codice. Nel caso specifico c’è già la falsa testimonianza o le "false informazioni al pm" e poi a ben vedere anche dell’altro. Qui però non c’è solo un aumento di pena che viva non come un’aggravante ma di luce propria come un nuovo articolo. Ieri, naturalmente sul Fatto, si faceva il seguente esempio: per la strage di Bologna la cosiddetta pista palestinese è stata archiviata dai magistrati, dunque era un depistaggio, dunque chi l’ha proposta è un depistatore. Ora, premesso che chi scrive crede la pista suddetta ancora meno fondata della sentenza contro Mambro e Fioravanti, ma vi rendete conto? Chi ha sostenuto quell’ipotesi potrebbe essere accusato di un reato con un massimale di pena fino a dodici anni. Il depistaggio si applica a "manovre" anche fuori dal processo, e le manovre possono ben essere anche articoli. È un formidabile strumento per i pm, osservano giulivi i supporter. E lo credo. Se passa potranno ottenere il bavaglio su chi dissente dalle loro ipotesi cercando di documentare perché. Da "negazionista" e "disinformatore" a "depistatore" c’è un salto di qualità che comporta il carcere o almeno la sua minaccia. Non si era mai arrivati a tanto. Lettere: la miseria della politica e la nobiltà di Marco Pannella Fausto Bertinotti Il Garantista, 8 agosto 2014 Nel mondo del reggae c’è una formula con cui si manifesta la più alta stima nei confronti di chi si è distinto in quella storia musicale. La formula è: "massimo rispetto". È una formula che viene utile per rivolgersi a Marco Pannella e al suo impegno politico. I giornali hanno reso nota la sua condizione di malattia. Nonostante questo, Marco Pannella conferma la sua radicale forma di lotta non violenta. Non violenta ma non perciò non esposta a rischio per chi la pratica. Non bastasse lo sciopero della fame, vi ha aggiunto da tempo quello della sete. Per Marco, non c’è malattia che tenga. Viene così alla luce ancora una volta il profilo letteralmente eccezionale nella politica italiana di questo combattente. Insieme la sua originalità e la sua intransigenza. Un che di indomito. Di irriducibile. Che testimonia una presenza socratica. "Massimo rispetto", dicono quelli del reggae. "Massimo rispetto", ripetiamo noi. Solo per dire cosa mi può suggerire una presenza così capace di produrre dialogo, e di cambiare il corso ordinario delle cose. Valgano due piccole episodi che mi riguardano. Qualche giorno fa, venuto a conoscenza della malattia di Marco, mi sono informato sulla sua condizione con un amico comune, il direttore di "Radio Radicale". Non mi sembrava opportuno forzare una dimensione troppo personale: né l’amicizia nei confronti della persona né il ruolo pubblico del personaggio mi permettevano di valicarlo. Tempo fa, seppure l’idea non fosse originalissima, al Presidente della Repubblica proposi di nominare Marco Pannella senatore a vita. Più che su Pannella, il lustro sarebbe ricaduto sul Senato. Né mi sembrava di qualche impedimento il pur possibile rifiuto di Marco. La nomina a senatore a vita meritava di lasciare a Marco la libertà di accettare o rifiutare rimanendo intrinsecamente Pannella. Il rapporto tra la prosecuzione della lotta non violenta, la ragionevolezza della causa che l’ha originata da un lato e, dall’altro, una malattia che avrebbe indotto i più a desistervi senza pensarci molto, rivela un profilo politico e un carattere umano. Nel tempo della grande crisi della politica, in Europa tocca a uno come Marco Pannella mostrare con la propria personale testimonianza, una possibilità disponibile a tutte e a tutti. Quale che sia la miseria della politica che presiede le istituzioni e i partiti. Quale che sia la desertificazione generata da quella macchina totalitaria che è il capitalismo del nostro tempo. Il carattere indomito di una testimonianza è così propriamente un messaggio politico. Ho ricordato più volte il carattere interno alla grande tradizione delle famiglie politiche europee nate sul finire dell’Ottocento affermatisi in quel secolo grande e terribile che è stato il Novecento e giunte fino al secondo dopoguerra. Ieri alcune di queste famiglie in lotta - marxisti e liberali per esempio - si sfidavano sul destino dell’uomo e della polis. Oggi, dopo la grande sconfitta del movimento operaio, gli eredi di quelle tradizioni sono chiamati a drastici ripensamenti. E persino a mescolarsi. Tante volte mi è capitato di dissentire, sempre dialogando, con Marco Pannella, in ragione delle nostre rispettive tradizioni. E non solo. Oggi anche la presenza sulla scena del mondo di un Papa come Francesco, e insieme la sconcertante disfatta dell’autonomia della politica in Europa, ci apre a nuovi sentieri. Apre a nuovi sentieri la ricerca di chi non accetta l’ordine esistente delle cose. Ieri Marco Pannella, per un militante del movimento operaio, era "solo" un valente liberale di sinistra, poi un "radicale". La sua testimonianza di oggi sembra riecheggiare un orizzonte nei confronti del quale non possiamo sentirci stranieri: "la nostra patria è il mondo intero", la nostra legge è la libertà. Nella indomita risoluzione di Marco Pannella c’è indubbiamente tutto il carattere dell’uomo. Ma forse anche l’eco di qualche antica lettura, come "Il catechismo del rivoluzionario". Se ci avesse messo le mani o no Bakunin, poco importa. Auguri Marco. Lazio: nelle carceri della Regione 518 detenuti in più rispetto a capienza regolamentare Adnkronos, 8 agosto 2014 Gli Istituti Penitenziari del Lazio ospitano 518 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare che ne prevede 5.113 e 275 unità in più, in base a quelli che sono i posti disponibili. Un totale di 5.621 detenuti (di cui 398 donne) in 14 istituti Penitenziari della Regione per il quale la Fns Cisl Lazio, nel prendere atto dell’aumento della dotazione organica nazionale complessiva del Corpo da 44.406 a 44.610 (+ 204), auspica che tale incremento coinvolga anche la Regione Lazio. La Fns Cisl Lazio chiede inoltre investimenti per potenziare numericamente e professionalmente l’organico degli educatori, degli psicologi e di tutte quelle figure che operano anche nei servizi sociali dell’esecuzione penale esterna ed invita ad attuare un piano edilizio con moduli e criteri avanzati, oltre a considerare il riconoscimento della specificità del lavoro al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria tramite gli istituti retributivi, fermi da anni a causa del blocco contrattuale. Forlì: costruzione del nuovo carcere, il caso approda sul tavolo del ministro della giustizia Forlì Today, 8 agosto 2014 Il parlamentare forlivese di Scelta Civica, Bruno Molea ha portato all’attenzione del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando la questione del carcere di Forlì, che già nel 2009 l’allora Ministro Alfano assicurò sarebbe stato aperto nel dicembre 2012. "È necessario prendere misure urgenti per la ripresa e la conseguente accelerazione dei lavori per il nuovo penitenziario di Forlì nella zona del Quattro, in quanto sono stati eseguiti lavori solo sul primo dei due lotti in cui è divisa l’opera, quello con la sede degli uffici. Non c’è invece il muro esterno e il corpo vero della struttura è ancora da realizzare: le palazzine dei detenuti, l’edificio del personale, i servizi". Con queste parole il parlamentare forlivese, Bruno Molea ha portato all’attenzione del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando la questione del carcere di Forlì, che già nel 2009 l’allora Ministro Alfano assicurò sarebbe stato aperto nel dicembre 2012. Non solo: "Appena cinque mesi fa, su richiesta del Comune, dal ministero hanno garantito la fine dei lavori nel 2015, al massimo all’inizio del 2016. Ora si parla già del 2017". Sulla questione il vicepresidente del gruppo Scelta Civica alla Camera, Bruno Molea, ha presentato nelle scorse ore un’interpellanza urgente al ministro competente. "Quella del carcere di Forlì - prosegue Molea - sembra una storia infinita perché già la vecchia casa circondariale di via della Rocca versa in uno stato fatiscente, indegno di un Paese civile; nel 2009 una parte fu investita da un crollo che portò alla chiusura della sezione a custodia attenuata, tuttora ancora indisponibile; la struttura ospita circa 150 carcerati (contro una ridotta capienza ricettiva), mentre la polizia penitenziaria risulta essere pari a 90 agenti non totalmente operativi, a causa di limitazioni di vario genere, nei diversi ruoli. Tre anni fa furono i detenuti (che lamentano lunghi tempi di attesa per le risposte dei magistrati di sorveglianza, anche in relazione alle richieste di misure alternative e ai permessi) a scrivere una lettera al Presidente Napolitano, minacciando lo sciopero della fame, a causa delle pesantissime condizioni di vita in cui versavano. E da allora quasi nulla sembra sia cambiato". "C’è infine un altro punto che risulta oscuro, quello dei costi a carico dello Stato: inizialmente si era parlato di un progetto di 59 milioni, ma l’allungamento dei tempi è destinato a far lievitare le cifre. Dunque anche per questo chiediamo al governo un chiarimento", ha concluso Molea. Ora si aspetta la risposta del Governo su quello che, oramai da anni, è un altro dei nodi irrisolti del territorio. Venezia: catturato 19enne evaso da carcere minorile Treviso per fuggire con la fidanzata Adnkronos, 8 agosto 2014 Era scappato dal carcere minorile di Treviso, per rifugiarsi con la fidanzata a Venezia, dove è stato individuato e bloccato dagli agenti del commissariato di Marghera. Denunciato per evasione è stato ricondotto subito in carcere. È finita presto, quindi, la fuga di un ragazzo di 19 anni, detenuto presso l’Istituto minorile di Treviso, all’interno del quale deve scontare una pena di 2 anni e 7 mesi, per reati inerenti gli stupefacenti. Approfittando del programma riabilitativo denominato "Recomensamos", che lo aveva coinvolto in attività di giardinaggio esterna al penitenziario, ma monitorate da educatori, ha sfruttato un momento di distrazione degli addetti alla vigilanza e si era dileguato, facendo perdere le proprie tracce, fino al ritrovamento nella città lagunare. Castelfiorentino (Fi): teatro nel cortile dove i detenuti respiravano "l’ora d’aria" met.provincia.fi.it, 8 agosto 2014 Domenica 10 agosto comincia la rassegna di piccolo teatro che si svolge nel centro storico alto. Cinque spettacoli all’aperto, quasi tutti di mercoledì (inizio 21.30, replica 22.30 - ingresso libero). L’esordio della rassegna avverrà di domenica, in occasione della Fiera di San Lorenzo, ma il giorno da segnare nell’agenda è il mercoledì (come "Castello by night"), quando sono in programma tutti gli spettacoli successivi. Da Domenica 10 agosto prende il via la rassegna di piccolo teatro "L’Ora d’Aria", che prende il nome dal luogo dove un tempo i detenuti del carcere mandamentale di Castelfiorentino respiravano appunto un’"ora d’aria" all’aperto. Organizzata dall’associazione "All’Ombra di Membrino" con il patrocinio del Comune di Castelfiorentino, la rassegna contempla ben cinque spettacoli, con inizio alle 21.30 e replica alle 22.30, e sarà accompagnata da una serie di eventi collaterali. Il primo spettacolo in cartellone, a cura di "Gatteatro" (gruppo amici del Teatro di Castelnuovo d’Elsa) è intitolato "Galileo" ed è - come è facile immaginare - liberamente ispirato alle teorie di Galileo Galilei, in particolare l’assunto "eppur si muove". La serata sarà allietata anche da un "Atelier di pittura", organizzato dall’associazione "Giglio d’Arte", mentre alle 23.00 è prevista una visita alla Pieve, dove è in programma un’osservazione astronomica per ammirare lo spettacolo delle stelle cadenti. Per chi non avesse avuto la fortuna in quell’occasione di avvistarne qualcuna niente paura: mercoledì 13 agosto ci sarà prima uno spettacolo teatrale a tema, intitolato "lezioni di astronomia" (a cura di Teatro Castello) e a seguire una nuova osservazione astronomica. Contestualmente, in via Tilli, sono previsti un mercatino e dei laboratori artigianali. Mercoledì 20 agosto tornerà sulla scena "Gatteatro" con uno spettacolo dal titolo "Cinque minuti alle una", dal sapore vagamente introspettivo. La trama si sviluppa sulle vicissitudini di un’ospite di un albergo, che in piena notte, data l’insonnia che lo perseguita, finisce per incontrare un signore che a mano a mano gli rivela tutti gli "scheletri" depositati nel suo armadio personale (il finale è a sorpresa). mercoledì 27 agosto uno spettacolo che appare quasi una provocazione: "Transel e Gretel" è infatti il titolo che ripropone in modo irriverente e scanzonato la famosa fiaba dei fratelli Grimm, anche questa liberamente adattata al contesto della rassegna, mentre in via Tilli ci sarà ancora un mercatino e dei laboratori artigianali. Finale mercoledì 3 settembre con la compagnia "Passi di Luce" che presenta "Terino", performance con abiti di scena, mentre in via Tilli sono previste alcune comparse. La rassegna "L’Ora d’Aria" - giunta alla 7° edizione - è organizzata in collaborazione con le associazioni "Teatro Castello", "Gat" (gruppo amici del Teatro di Castelnuovo d’Elsa), "Giglio d’arte", "Passi di luce", "Gruppo fotografico Giglio Rosso", "Il tempo ritrovato" e il "Gruppo astronomico Castelfiorentino". La scheda storica - Il carcere mandamentale di Castelfiorentino è rimasto in funzione fino ad una cinquantina di anni fa, ed era utilizzato per reati minori. Vi furono reclusi per lo più antifascisti durante il "Ventennio" e dimostranti durante gli scioperi degli anni Cinquanta. Le stanze che un ospitavano i detenuti e l’appartamento della guardia carceraria sono state completamente ristrutturate una decina di anni fa per accogliere i locali del Centro per l’Impiego. Libri: "I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia" di Maurizio Tortorella Panorama, 8 agosto 2014 Mentre il guardasigilli Orlando prepara la sua riforma, un saggio spiega concretamente perché nei tribunali non c’è alcun equilibrio tra accusa e difesa. Ma non piacerà né al ministro, né ai magistrati sindacalizzati. Impegnato com’è nella sua fragile riforma della Giustizia, il Guardasigilli Andrea Orlando dovrebbe comunque trovare 2 ore per leggere un saggio. Il libro s’intitola "I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia" (Cedam, 224 pagine, 22 euro): l’ha curato il grande giurista bolognese Giuseppe Di Federico con il collega Michele Sapignoli, l’ha sponsorizzato l’Unione delle camere penali, e raccoglie le opinioni di un campione di 1.265 avvocati. Dalle loro risposte esce il plastico fallimento della giustizia italiana, a partire dalla riforma del codice penale del 1988-89, che ha concentrato poteri abnormi nelle mani dei pm. Nel 72,9 per cento dei casi gli avvocati sostengono che il giudice accoglie "sempre o quasi sempre" una richiesta d’intercettazione avanzata dal pm, e un altro 26 dice che accade "di frequente". Affermano che il giudice è "più sensibile alle sollecitazioni del pm rispetto a quelle del difensore" nel 58 per cento dei processi "ordinari" e la quota sale al 71 nei procedimenti "rilevanti", quelli più importanti e più seguiti dai mass media. Non basta. L’iscrizione ritardata nel registro degli indagati è una pratica lamentata dal 65,9 per cento degli avvocati. Si scopre che molti di loro denunciano di essere non soltanto intercettati mentre parlano con i loro clienti (e questo accade "sempre" o "di frequente" nel 28,9 per cento dei casi, e "a volte" nel 43,2 per cento), ma che l’intercettazione, pur se totalmente illegale, viene perfino trascritta e utilizzata negli atti. Si scopre anche che il 92,1 per cento degli intervistati sostiene che, nell’esame in aula dei testimoni, il giudice pone "domande suggestive": una pratica vietata dal codice di procedura a tutela del diritto dì difesa. "Il ministro e la magistratura sindacalizzata" dice Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle camere penali, "non vogliono nemmeno sentirne parlare. Ma la soluzione resta quella che proponiamo da tanti anni: separare le carriere tra pm e giudici. E separare anche il Csm: due Consigli che decidono sulle carriere in modo separato per giudici e magistrati inquirenti". Immigrazione: il Cie Ponte Galeria non chiude per ferie di Gabriella Guido (LasciateCIEntrare) www.corrieredellemigrazioni.it, 8 agosto 2014 Si preannuncia un agosto torrido, al di là delle temperature, anche quest’anno nel Cie di Ponte Galeria. A momenti di tregua si alternano fasi di tensione pesante che nessuno sembra in grado di volere o poter affrontare. Tra il 2 e il 3 agosto si è portata a compimento una fase particolarmente drammatica. Due trattenuti per 9 giorni si erano cuciti le labbra per protesta, ad oggi uno di loro è fuggito dopo essere stato portato in ospedale perché aveva anche ingoiato delle lamette: al secondo avevano garantito cure ed invece è stato tradotto con le labbra cucite in aeroporto per essere rimpatriato, senza neanche veder rispettati i propri diritti alla difesa. Ha rifiutato di farsi scucire le labbra ma poi, una volta saliti i passeggeri, è riuscito creare lo scompiglio necessario ad impedire che il rimpatrio venisse eseguito. Dopo un’altra notte a Ponte Galeria, mentre scriviamo è stato trasferito in Sicilia, nel frattempo ha accettato di porre fine alla dura e non violenta forma di protesta che si era autoinflitto. Il 2 agosto, in 15 nel frattempo avevano provato a fuggire, non è ancora dato sapere se siano stati tutti o meno ripresi. Queste giornate sono state durissime, sono entrata 4 volte, come campagna LasciateCIEntrare. Con regolare autorizzazione ricevuta dalla Prefettura e della Questura, "convalidata" dal Ministero dell’Interno. Cerco di ricostruire il percorso. Il 18 luglio eravamo una delegazione di giornalisti e società civile, abbiamo come sempre incontrato e parlato con gli "ospiti", dentro quelle che sono i loro "alloggi", gabbie nella gabbia. Faceva caldo ma il "clima" era tranquillo. Raccoglievamo storie, denunce, appelli, situazioni inaccettabili, storie di ingressi in carcere per 3 grammi di marjuana e da lì l’inizio dell’inferno, dal carcere al Cie, dal Cie ad un "nulla" possibile, storie di lavori a nero perché almeno così si mangia, storie di cittadini stranieri magari sposati o con figli italiani. Alcuni mi fanno vedere il contratto di affitto della loro casa italiana, altri addirittura i versamenti dei contributi, all’INps italiana, che preleva anche da loro, senza restituirgli nulla in cambio. Quel giorno abbiamo incontrato, già sdraiato nel suo letto, Mouhamed, nato nel 1986 in Algeria. Entrato in Italia circa tre anni fa dalla Spagna proveniente dal suo paese d’origine, dal quale scappava. Entrato e uscito dai Cie di Trapani e Roma, ora di nuovo a Ponte Galeria dal 3 di luglio. Quel giorno perdeva anche i contatti con sua madre, appena arrivata in Italia dalla Grecia, per raggiungerlo. Si erano incontrati alla moschea del Pigneto (quartiere popolare di Roma), appena il tempo per abbracciarsi. Quel giorno lui viene preso e portato al centro. Lì ha iniziato il "suo" sciopero della fame senza dire niente a nessuno, gli operatori della cooperativa se ne sono accorti perché non ritirava i pasti. Il buono sì, ma quello serve per telefonare, almeno. Lo abbiamo visto il 18 luglio sdraiato e serio e forte Mouhamed, nel suo letto. Ci disse che stava male. Stava male dentro. Non si può sopportare troppo, soprattutto se sei un ragazzo di neanche 28 anni, se sono anni che scappi cercando un paese che ti accolga, se trovi una giovane donna con la quale condividere una storia, un futuro. Se cerchi forse di proteggere anche tua madre. Se non hai mezzi e strumenti "contro" una legge che ti condanna. Che ti rifiuta, che ti emargina e che ti rende ufficialmente ed istituzionalmente "clandestino". Se sei uno dei tanti corpi estranei da "espellere". Come fa un organismo malato, che attiva le "sue" difese. Oltre allo sciopero della fame Mouhamed si è cucito la bocca, con due fili di ferro. Ed ha ingoiato qualcosa, forse delle lamette. È stato portato in ospedale, ho visto la cartella clinica, e l’esame radiografico. Ma Mouhmaed ha rifiutato il ricovero e l’intervento chirurgico. Sta troppo male, ma sta male dentro. Non vuole curarsi, perché crede di non avere più nessuna speranza di uscire, di tornare ad essere un uomo libero, libero come tutti gli uomini liberi. Ora, nella gabbia che contiene la sua vita ed il suo dolore, dorme vicino a Semeh, giovane tunisino, rientrato nel Cie di Ponte Galeria il 19 luglio. Semeh senza documenti, entrato e uscito nei Cie d’Italia per 8 volte. Come molti. Semeh si è cucito la bocca anche lui, con il filo di ferro. È giovane, ma magro, e lo sciopero della fame che porta avanti con Mouhamed da una settimana lo ha reso ancora più magro. Ha il volto scavato, ma i suoi occhi sono densi, e le sue ragioni anche. È arrabbiato. Quando è entrato, ed era Ramadam, è stato costretto a denudarsi, la Guardia di Finanza gli ha detto che era il regolamento, e chissenefrega del rispetto del Ramadam, della religione di un altro. Lui ha protestato, perché quello era un sopruso. Certo, Previsto dalla legge, ma in fondo sempre un sopruso, per un uomo che sa soprattutto di non aver commesso nessun reato. Lui continua a ripeterlo, nel nostro colloquio di ieri sera, durante un’ora, perché è difficile "parlare" con la bocca cucita. È arrabbiato Semeh perché dice di non averci fatto niente, a noi italiani. Anche lui è passato dal Cie di Trapani, anche lui è riuscito a scappare da lì. È passato anche dai centri di Torino e Milano. Mi chiede, come ci chiediamo tutti, a che serve tutto questo? Lui vuole farla finita. Non vuole tornare in Tunisia (e forse non è davvero neanche quello il suo paese), vorrebbe starsene tranquillo in Italia, ma a quanto pare non è possibile. Ci chiede non tanto se la Legge è giusta, piuttosto ci chiede perché è "diversa". Ovvero perché a volte succedono delle cose e a volte altre… si riferisce alle udienze, ai Giudici di Pace, non capisce perché in una città pensano e dicono una cosa, in un’altra una cosa diversa. Ma lui è lui, e la sua storia anche, sempre la stessa. Qualcuno gli ha passato nei giorni scorsi il mio telefono, mi ha chiamato, mi ha raccontato la sua storia. Gli prometto di andare a trovarlo per parlargli, perché non ha più fiducia in nessuno, ecco perché, anche lui, decide di passare ad un gesto estremo. Chiedo regolarmente l’autorizzazione all’ingresso, mi viene concessa per il giorno 30 luglio. In questa settimana i contatti con la Direttrice del Centro, che prima si occupava e seguiva i migranti sotto il profilo psicologico, sono continui. Anche lei capisce che una mediazione "esterna" può funzionare. Per fargli capire che non è del tutto abbandonato a se stesso. Entro alle 13.30, attendo che i funzionari della Questura svolgano le opportune verifiche. Mi viene detto che, per ragioni di sicurezza ed incolumità personale, non posso accedere nella zona maschile. Sono sola, e quindi, per la Questura, facile "preda" dei circa 80 detenuti uomini che possono compiere anche gesti imprevedibili. Non posso neanche entrare scortata da agenti di polizia, per evitare appunto che si "surriscaldino" gli animi. Alcuni migranti presenti nel corridoio durante la "trattativa" capiscono ed intervengono, dicendo che mi conoscono bene, che non mi farebbero mai del male. Ecco, il primo risultato dell’azione di sicurezza nei miei confronti è che i migranti si sentono presi per dei soggetti pericolosi, pronti a far del male ad una persona che è sempre entrata e che loro ben conoscono. Offro all’inappuntabile referente della Questura di scrivere e firmare una dichiarazione liberatoria nella quale mi assumo la responsabilità di quello che può accadermi, ma ovviamente non "passa". I due ragazzi sono deboli e non riescono ad alzarsi dal letto ed uscire dalla stanza. Non incontrarli potrebbe essere un motivo di ulteriore frustrazione e delusione, ma questo concetto, come la mia proposta di assunzione di responsabilità, non "passa". Vado via, non trovando nessuno altre soluzioni, anticipando che cercherò di tornare con un parlamentare, che grazie alla sua funzione pubblica ha senz’altro più poteri di me. Risponde all’appello Ileana Piazzoni. Andiamo venerdì tardo pomeriggio. Problemi anche oggi di tensione degli "ospiti". Stanno firmando una petizione per chiedere che le gabbie vengano chiuse più tardi ora che è caldo ed è finito il Ramadam. Avere qualche ora d’aria in più, che magari d’estate è un privilegio che in pochi riescono ad avere, uomini liberi e non. A Gradisca d’Isonzo la rivolta dell’8 agosto scoppiò proprio per questo, per riuscire ad avere le gabbie aperte qualche ora in più la sera. Ieri sera, venerdì 1 agosto, sempre per ragioni di ordine pubblico, ci viene comunicato che non potremo entrare nel settore maschile. Ci viene chiesto se possiamo tornare il giorno dopo, sabato. Insistiamo che vogliamo incontrarli, che andare via senza averci parlato neanche stavolta potrebbe essere un ulteriore motivo di tensione, anche per i restanti ospiti del centro. Cercano una squadra di poliziotti che possa venire da Roma, ma non ne trovano. Dobbiamo rinunciare. Ma parlo al telefono con Semeh e Mouhamed, che sono solo a qualche metro di distanza da noi, con qualche gabbia di separazione. Sono giorni che ci aspettano, che hanno bisogno di parlare e spiegare la loro storia. Li convinciamo ad uscire loro, gli operatori del centro si adoperano per metterli su una sedia a rotelle per portarli negli uffici. Prima uno, poi l’altro. La burocrazia non può nulla di fronte alla ferrea volontà degli uomini. Grazie a dio. Facciamo sera, usciamo alle 23.00, dopo aver ascoltato le loro storie, domani sentiremo gli avvocati, scriveremo di loro. Sabato 2 agosto verso le 3 mi chiama Semeh, che ha ancora le labbra cucite "Dottoressa (così mi continua a chiamare) mi portano via" "Dove Semeh, dove ??" mentre penso ad un trasferimento in ospedale o al massimo Cie di Trapani, dove è più operativo il Consolato Tunisino. "A casa, in Tunisia" "Non è possibile Semeh, stai così, hai l’udienza tra due settimane, fammi parlare con qualcuno". I poliziotti che lo stanno preparando non possono parlare con un’estranea, sebbene Semeh gli abbia detto che sono il suo avvocato. Chiamo la direttrice, che dopo una settimana d’inferno aveva deciso oggi di rimanere un po’ con la sua famiglia. Mi richiama il mediatore dal centro, sì è vero lo stanno portando a Fiumicino. Lo hanno portato in infermeria e lui si è rifiutato di farsi scucire la bocca. Questo potrebbe essere un problema per il suo viaggio, il suo viaggio di ritorno, un viaggio che gli viene pagato dallo Stato Italiano, un viaggio che lui non vuole fare, in tutta fretta un sabato pomeriggio. Avviso chi posso avvisare, persone che sanno che quando chiami al telefono c’è un’urgenza in corso, persone che rispondono sempre, che non mollano mai. Come Semeh, che prima di uscire dal centro ha detto ai suoi amici, "tanto torno". Guinea Equatoriale: caso Berardi, interrogazione parlamentare per imprenditore in carcere di Clemente Pistilli www.h24notizie.com, 8 agosto 2014 Tanti gli interrogativi sul futuro dell’imprenditore pontino Roberto Berardi, da un anno e mezzo detenuto in Guinea equatoriale e in condizioni di salute sempre più precarie. Tra tante promesse su una soluzione del caso, poche risposte ufficiali da parte del Governo e ancor meno fatti, l’unica certezza nella vicenda appare quella delle interrogazioni parlamentari. Si susseguono. E l’ultima, in ordine di tempo, è quella che hanno presentato i deputati di Sel, Gianni Melilla e Filiberto Zaratti, al ministro degli esteri Federica Mogherini. La richiesta? Sempre la stessa: portare Berardi a casa. I due parlamentari hanno ricordato che il pontino, "da quando è in carcere, ha perso metà del suo peso, ha contratto la malaria, è stato bastonato più volte, ha sviluppato una polmonite acuta e un enfisema polmonare. I familiari dubitano che possa resistere a lungo, essendo la detenzione particolarmente brutale e disumana". Melilla e Zaratti hanno poi evidenziato che Berardi è stato condannato a 2 anni e 4 mesi di detenzione per un reato fiscale, arrestato "quando chiese spiegazioni sugli ammanchi di cassa dell’azienda di cui è titolare insieme al figlio del Presidente Oblang, indagato dalla giustizia americana per transazioni fatte con proventi illeciti, mentre in Francia gli sono stati sequestrati oltre 100 milioni di euro in case, automobili e opere d’arte". Per i due esponenti di Sel si tratta di un "provvedimento restrittivo della libertà del tutto ingiustificato, ai danni di un cittadino italiano del tutto innocente che rischia la sua vita in un Paese che viola le convenzioni internazionali sui diritti umani". "Sinora - accusano - il Ministero degli affari esteri italiano ha prodotto a giudizio degli interroganti, solo inviti e preghiere, richieste rimaste inevase". I due deputati di Sel hanno chiesto così al ministro Mogherini cosa intenda fare per "ridare la libertà a un cittadino italiano ingiustamente detenuto in Guinea equatoriale e trattato in modo disumano". India: Vito (Fi) sul caso marò; sono detenuti da 900 giorni, governo passi ai fatti 9Colonne, 8 agosto 2014 "Da novecento giorni Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono detenuti in India, novecento giorni di ingiustizia, una vergogna della quale non si aveva memoria dai tempi delle prigionie dei nostri militari nelle Guerre mondiali. I nostri Marò, che si proclamano innocenti, erano impegnati in una missione internazionale antipirateria, hanno diritto ad essere giudicati in Italia ed a vedere loro riconosciuta l’immunità funzionale. Il Parlamento ha già votato alla unanimità affinché si adottino tutte le iniziative utili per la loro liberazione e per l’avvio dell’arbitrato internazionale: è venuto ora per il Governo il momento di passare dalle parole ai fatti!". Lo afferma il deputato di Forza Italia Elio Vito, presidente della Commissione Difesa della Camera. Pinotti: dialogo, o pronti a internazionalizzazione caso "Ribadisco che abbiamo bisogno e speriamo ci possa essere un’interlocuzione" con il governo indiano. "Altrimenti siamo pronti a internazionalizzare la vicenda". Lo ha detto il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, commentando il caso dei due marò detenuti in India, a margine di un incontro a Roma. Stati Uniti: dittatori e omofobi, ecco gli "impresentabili" accolti da Obama Tm News, 8 agosto 2014 Barack Obama, stilando la lista degli invitati per i tre giorni di summit Usa-Africa a Washington, ha tracciato una linea diplomatica precisa, non invitando il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, al potere dal 1987 con metodi dittatoriali che lo hanno allontanato dalla comunità internazionale, escluso dal Commonwealth e reso "persona non grata" nell’Unione europea e negli Stati Uniti. La lista dei leader africani presenti dal 4 al 6 agosto per il primo vertice tra Stati Uniti e Paesi africani, voluto fortemente dal presidente statunitense, comprende però "alcuni dei più malvagi dittatori e omofobi africani" - riprendendo il titolo del Daily Mail - segno che forse Obama ha chiuso un occhio, in diversi casi, sul rispetto dei diritti umani, in nome del tornaconto politico ed economico. Nel suo discorso di apertura del summit, ha evitato qualsiasi argomento delicato, come quello delle discriminazioni nei confronti degli omosessuali e delle torture, preferendo concentrarsi sulle opportunità di sviluppo nel continente (grazie alle aziende statunitensi) e sui suoi legami personali con l’Africa. Il tappeto rosso è stato srotolato per Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, che ha ucciso o incarcerato praticamente tutti i suoi oppositori politici nella Guinea Equatoriale: ha preso il potere con un colpo di Stato con cui ha destituito lo zio (e mentore) nel 1979 e da allora ha sempre vinto le elezioni, quasi sempre come candidato unico, con percentuali molto vicine al 100% e, in alcuni casi, anche superiori (lo Spiegel, nel 2006, raccontò che alle precedenti elezioni, in alcuni distretti, aveva ottenuto il 103 per cento). Nonostante guidi un Paese ricco di petrolio e abbia accumulato ricchezze per circa 600 milioni di dollari, il reddito medio dei suoi cittadini è di 2 dollari al giorno. Nel Paese non c’è libertà di stampa e la sola tv presente è ovviamente controllata dallo Stato (cioè da lui). Nel 2011, il dipartimento della Giustizia americano ha bloccato più di 70 milioni di dollari in asset al figlio del presidente, Teodorin Nguema Obiang Mangue, finito al centro di un’indagine per corruzione anche in Francia, che ha portato al sequestro di una residenza con 101 stanze a Parigi. Con Yahya Jammeh, il presidente Obama è stato fotografato sorridente e divertito. Meno lo saranno gli omosessuali in Gambia, visto che il loro presidente ha minacciato di "decapitarli". Preso il potere con un colpo di Stato nel 1994, è stato nel corso di questo ventennio accusato innumerevoli volte di non aver rispettato i diritti umani. Nel 2009, avrebbe arrestato fino a 1.000 persone con l’accusa di stregoneria, costringendole a bere veleno in carcere. Profilo tutt’altro che limpido per Paul Biya, presidente del Camerun dal 1982, inserito al diciannovesimo posto nella classifica dei venti peggiori dittatori viventi nella classifica di David Wallechinsky, storico e commentatore politico statunitense. Non bisogna poi dimenticare Blaise Compaoré, che nel Burkina Faso ha preso il potere nel 1987 con un colpo di Stato sanguinoso; Goodluck Jonathan, presidente della Nigeria, che ha firmato quest’anno una legge che vieta le relazioni tra persone dello stesso sesso, che rischiano fino a 14 anni di carcere; Jose Eduardo do Santos, che in Angola ha ucciso molti oppositori e sfruttato per il proprio tornaconto le risorse del Paese. Dopo l’esibizione, lo scorso anno, di Mariah Carey, pagata un milione di dollari dalle autorità dell’Angola, il presidente della Human Rights Foundation, Thor Halvorssen, commentò: "È il triste spettacolo di un’artista internazionale comprata per intrattenere, e per coprire la cleptocrazia di padre e figlia, che hanno messo da parte miliardi mentre la maggioranza delle persone vive in Angola con meno di due dollari al giorno". Cambogia: primo ergastolo per gli ultimi due leader dei Khmer rossi ancora in vita di Paolo Salom Corriere della Sera, 8 agosto 2014 Centinaia di testimoni hanno rievocato omicidi, stragi, torture. I giudici: "Colpevoli di crimini contro l’umanità". Condannati dopo 3 anni di processo gli ultimi alti esponenti ancora in vita del sanguinario regime di Pol Pot. A sua discolpa, Nuon Chea, ha spiegato e rispiegato ai giudici che le azioni e le politiche dei Khmer rossi erano state "necessarie allo sviluppo della rivoluzione democratica del popolo" cambogiano. Khieu Samphan ha invece mantenuto un decoroso contegno rispondendo "non sapevo nulla dei morti e delle esecuzioni di massa". Si è chiusa ieri la Norimberga d’Asia, primo esperimento di un tribunale speciale misto costituito a Phnom Penh, con giudici locali e internazionali, per provare a ricostruire i quattro anni - dal 1975 al 1979 - dell’utopia pauperistica che trasformò la Cambogia in un deserto dell’umanità. Nuon Chea, 88 anni, vice segretario del Partito comunista di Kampuchea (così era stato ribattezzato il Paese), secondo solo al leader Pol Pot, e Khieu Samphan, 83, dal 1976 capo di Stato e "faccia" di un regime spietato quanto sistematico (circa due milioni le vittime stimate), sono stati riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità e condannati all’ergastolo dopo un processo durato tre anni. I primi alti esponenti dei Khmer rossi, e gli unici ancora in vita, a pagare per i campi della morte, i "killing fields", che dovevano rigenerare nel sangue la società corrotta dagli influssi borghesi e occidentali. Centinaia di testimoni hanno sfilato davanti ai banchi dove sedevano i due uomini, oggi curvi e chiusi in una smorfia di indifferenza. Hanno raccontato quello che i Khmer rossi avevano fatto alla loro stessa gente. Hanno pianto per la lentezza di una giustizia umana che è arrivata tardi e si è mostrata parziale. Ma almeno è riuscita a scoperchiare l’indicibile. "Abbiamo atteso questo verdetto per 30 anni", ha detto Norng Chan Phal, imprigionato bambino nella famigerata prigione S-21, il cui comandante, Kaing Guek Eav, detto "Duch", 71 anni, è l’unico altro Khmer rosso (seppure di secondo piano) a essere stato condannato. Phal era entrato nel carcere con i genitori. Ne uscì orfano dopo aver visto torturare e uccidere suo padre e sua madre. "Io spero - ha detto - che Khieu e Nuon muoiano dietro le sbarre e che i loro corpi rimangano in cella, senza sepoltura". Non c’è spazio per la pietà nei ricordi. Oggi assistiamo a un processo contro due vecchi. Ma vecchi sono anche i cambogiani sfuggiti alle persecuzioni. E loro rammentano i fazzoletti a quadri che incorniciavano il collo dei "liberatori" arrivati con le armi spianate non soltanto contro gli esponenti del vecchio regime. Subito Pol Pot e i suoi accoliti, tutti con studi universitari parigini, avevano ordinato l’evacuazione delle città, l’abolizione del denaro e di ogni mestiere, l’instaurazione insomma di un regime comunista pauperistico con lo scopo di creare un "mondo nuovo". Non avevano esitato a uccidere intellettuali, professionisti, persone denunciate come "nemici del popolo" da vicini e parenti. Chiunque portasse gli occhiali o conoscesse una lingua straniera riceveva una pallottola nella nuca. Gli altri dovevano sopravvivere nelle campagne, lavorando come animali da soma sotto lo sguardo feroce dei bambini armati e trasformati in strumenti di morte. I giudici hanno faticato a aprire dossier e a trovare i responsabili. Pol Pot, mai catturato dopo la "liberazione" a opera dei vietnamiti, nel 1979, è scomparso nel 1998, pare per un semplice attacco cardiaco, nella giungla dove tutto era cominciato. Quando la macchina della giustizia ha cominciato a muoversi, la maggior parte dei protagonisti erano scomparsi. A parte Khieu Samphan e Nuon Chea, solo Ieng Sary, il "ministro degli Esteri" dei Khmer rossi, e la moglie Ieng Thirith hanno visto le sbarre. Ma Ieng è morto nel 2013, prima di una condanna, mentre la consorte, non meno feroce, è stata dichiarata "mentalmente incapace" e dunque non giudicabile. Egitto: "stretta" sulle molestie sessuali, due condanne a ergastolo per fatti piazza Tahrir Adnkronos, 8 agosto 2014 Un tribunale egiziano ha condannato all’ergastolo due uomini per aver molestato sessualmente due donne il 3 agosto scorso in piazza Tahrir, dove erano in corso le celebrazioni per l’elezione del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Un terzo uomo è stato condannato a 20 anni di carcere per il ruolo nell’assalto. Ai tre è stata comminata anche una pena pecuniaria di 100mila lire egiziane, circa 14mila dollari ciascuno. I tre sono stati riconosciuti colpevoli di aver terrorizzato una donna e sua figlia, e di averle poi portate in una zona isolata dove hanno abusato di loro sotto la minaccia di coltelli, ha detto il giudice Mohamed Moustafa. Gli abusi sessuali sono molto frequenti in Egitto, soprattutto durante le manifestazioni che coinvolgono un gran numero di persone. Le organizzazioni in difesa dei diritti delle donne stimano che oltre 250 casi di "stupri di massa e molestie sessuali di massa" si sono verificati dal novembre 2012 al gennaio 2014. A giugno in Egitto è stata approvata una legge che penalizza le molestie sessuali e prevede dai sei mesi ai cinque anni di carcere per chi viene riconosciuto colpevole.