Giustizia: il premier Renzi come Berlusconi… una riforma solo annunciata di Rita Bernardini (Segretaria di Radicali Italiani) Il Garantista, 31 agosto 2014 Il modo di fare del premier Renzi assomiglia davvero molto al comportamento di Silvio Berlusconi quando per tanti anni ha assunto la veste di Presidente del Consiglio. Proprio sulla giustizia, nella passata legislatura (ne avevo fatto una gustosa raccolta), non si contavano le volte in cui Berlusconi annunciava "riforme epocali" imminenti. All’inizio del 2009 aveva avuto anche il conforto dell’approvazione bipartisan di una risoluzione parlamentare presentata dalla delegazione radicale che, in 15 punti precisi, chiedeva al governo di presentare "una riforma strutturale e organica del sistema della giustizia". Con il governo Renzi, che venerdì ha presentato la sua cosiddetta riforma dopo la riunione del Consiglio dei ministri, mi sembra che siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Non c’è niente di strutturale né per la giustizia penale né per quella civile, sul cui fronte autorevoli civilisti sostengono che alcune misure proposte possono anche essere buone, ma che sono destinate a produrre i loro effetti nel futuro a patto che ci siano incentivi per i cittadini i quali, dopo avere atteso l’inarrivabile giustizia dello Stato, decideranno di affidarsi alla giustizia privata di arbitri solo nel caso in cui non rischino di perdere tutto ciò che hanno investito nel corso degli anni. Di riforma organica neanche l’ombra: niente unificazione degli oltre 30 riti e, in prospettiva, della giurisdizione. Renzi, nella conferenza stampa, servendosi delle solite slide, ha ripetuto più volte l’elenco dei provvedimenti che in realtà, sulla giustizia, prendono la forma di 5 disegni di legge, molti dei quali "delega", che avranno tutti a che fare con i lunghi tempi dell’iter parlamentare. C’è un solo decreto, strumento che il premier non ha pensato di utilizzare per la responsabilità civile dei magistrati anche se sull’argomento lo Stato italiano è fuorilegge per le condanne che ci ha comminato l’Europa. Ricordo che la prima condanna (la cosiddetta sentenza "traghetti del Mediterraneo") risale al 2006: il diritto comunitario censurò la legge Vassalli -quella del tradimento del referendum Tortora - perché limitava i casi responsabilità solo al dolo e alla colpa grave, senza prevedere la "violazione manifesta del diritto vigente". Sono passati 8 anni, sono seguite altro condanne, ma i governi che si sono susseguiti non hanno fatto altro che rimandare: altro che "cambiare verso", per dirla alla Renzi. A proposito di rinvii, ieri il ministro Andrea Orlando ha spiegato che occorreva rimandare la riforma del Csm perché era necessario aspettare le nuove nomine che il Parlamento disattende da così tanto tempo perché ancora non si sono messi d’accordo sulla "spartizione" correntizia. Eppure tutti sappiamo che, sempre a proposito del civile, in Italia ci sono uffici che lavorano decentemente smaltendo l’arretrato perché a capo di quegli uffici è "capitato" qualcuno capace mentre di norma le nomine del Csm non sono fatte per capacità e merito ma esclusivamente per appartenenza a questa o quella corrente. Cosa si aspetta a riformare il sistema d’elezione del Csm per far fuori le correnti? Che i tacchini collaborino a farsi tirare il collo? Questa è la situazione e noi radicali, se Renzi non avesse avuto l’arroganza che dimostrò l’estate scorsa rifiutandosi di firmare i referendum, avremmo già risolto per voto popolare molti dei nodi che oggi strozzano il paese e, da almeno mi paio di mesi, avremmo avuto 12 leggi belle e fatte, altro che slide, twitt, post e gelati crema/limone. Nel momento in cui le condizioni del Paese sono sempre più drammatiche e parlamento e governo non sembrano comprendere che il tempo è già scaduto perché la nostra giustizia è agonizzante e incapace eh garantire i cittadini e le imprese sul fronte del rispetto delle leggi, compito dei radicali è quello di insistere con la proposta di "amnistia per la Repubblica", con il nostro Satyagraha, con l’attivazione delle giurisdizioni europee attraverso i nostri ricorsi, le nostre memorie, le nostre denunce, alla ricerca di una sede dove ci sia ascolto per affermare i diritti violati dei cittadini perché stiamo parlando - e vorremmo che anche Renzi lo comprendesse - della carne viva delle persone. Giustizia: restiamo in attesa della (vera) riforma da Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane www.camerepenali.it, 31 agosto 2014 Siamo, come tutti, in attesa di conoscere i testi degli articolati approvati venerdì dal Consiglio dei Ministri, ma anche ansiosi di capire se all’interno dello stesso vi sia stato un effettivo confronto sui temi sollevati dall’Unione Camere Penali, rispetto alle anticipazioni diffuse nei giorni scorsi. Se fosse vero , però, che i limiti al ricorso per cassazione sono stati circoscritti alla sola "doppia conforme" di assoluzione, conclusione cui d’altronde si era meditatamente giunti all’interno della Commissione Canzio, non potremmo che rallegrarcene. E lo stesso per il divieto di documentazione delle conversazioni tra imputato e suo difensore casualmente intercettate, che è un passo avanti, sebbene non ancora il pieno recupero della garanzia diritto del cittadino di poter confidare nell’assoluta segretezza e, quindi, nella piena espressione del diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto, obiettivo che si raggiungerà soltanto con il divieto di ascolto vero e proprio. Così come segnerebbe un recupero del diritto di difesa l’abolizione dell’ingiurioso divieto di colloquio con il difensore, che adesso può essere frapposto con la custodia cautelare in carcere. Bene, ancora, se ci sarà il ripristino del cosiddetto patteggiamento in appello. Va poi dato atto al governo di aver messo mano alla responsabilità civile dei magistrati con un provvedimento che, al di là dell’incognita rappresentata dal futuro passaggio parlamentare, dove bisognerà vigilare perché lo stesso sia perfezionato anziché affossato, rappresentava comunque un banco di prova ostico - per la martellante campagna mediatica che automaticamente viene allestita dai corifei dell’Anm quando solo si prova a parlarne - che i predecessori non si sono arrischiati ad affrontare. Ancora, l’impulso che sarebbe stato dato alle forme di estinzione dei processi per inoffensività delle condotte, ovvero di estinzione per condotte riparative, è un altro fatto significativo, al di là delle prime formulazioni. È deve essere riconosciuto il definitivo abbandono di scorciatoie pericolose, come l’abrogazione del divieto di reformatio in pejus in caso di appello del solo imputato, che pure nei mesi scorsi era spuntato nella discussione. Tutte questioni che è stata proprio l’Unione delle Camere Penali a segnalare in questi ultimi anni, spesso in perfetta solitudine, e nell’ultimo periodo in maniera pressante, che finalmente vengono alla ribalta della politica legislativa. Ma questo giudizio non mitigherebbe la conclusione, certa, che non altrettanta forza ha avuto il governo su diversi temi, come quello della prescrizione . Pur dando atto di una retromarcia rispetto all’iniziale progetto di aumentare i termini ordinari per tutti i delitti, che l’Unione aveva immediatamente contrastato, si è comunque ceduto al facile rimedio della sospensione del suo corso. Una soluzione non compensata, per lo meno non ancora, da criteri di controllo dell’esercizio dell’azione penale, di decadenza dall’azione, di durata massima del processo, così come si era suggerito all’esito dei lavori della commissioni ministeriali incaricate di studiare il problema. Dovrà inoltre essere corretto l’approccio verso il giudizio di appello, acciocché la modifica in termini di formalità espositive degli atti di impugnazione non nasconda - così come nasconde, ne siamo certi - il retro pensiero di consentire la falcidia dei giudizi senza fissare udienza. Bene, invece, se ci sarà il ripristino del cosiddetto patteggiamento in appello, uno dei pochi istituti che avevano dato prova di funzionare. Non condivisibile, viceversa, il patteggiamento "allargato" ad 8 anni che dovesse presupporre una confessione "al buio", ossia senza la certezza dell’accoglimento: sarebbe, in pratica, una specie di istigazione alla truffa processuale, sempre - guarda caso - a scapito del pieno diritto del cittadino di difendersi. Nel novero delle cose che non vanno rientra la formulazione dei, tanto reclamati dalla vulgata, reati di falso in bilancio ed auto-riciclaggio, i cui guasti, specie del secondo, non tarderanno a farsi vedere, cosa che succede ogniqualvolta si varano sanzioni scollegate da una precisa analisi del disvalore del fatto. Non convince, inoltre, l’approccio al problema divulgazione delle intercettazioni, dove anziché sanzionare coloro che le pubblicano (contro i quali si omette sistematicamente di procedere per il reato già esistente), si è scelto di estendere il segreto anche ai difensori, i quali dovrebbero andare ad ascoltarsi negli uffici di procura centinaia di ore di registrazioni nei tempi ristretti dettati dalla carcerazione preventiva: in pratica sarebbe ostacolato il diritto di reperire le conversazioni utili alla difesa. Infine, pur avendo scongiurato, come pare dalle anticipazioni, la "indiscriminata estensione" ai reati contro la Pa delle brutture indigeribili del "doppio binario", resta la doglianza che lo stesso invece di essere rimosso, perché è uno schiaffo alla civiltà giuridica del Paese, uscirebbe ancor più rafforzato dalla "riforma", con l’allargamento dei casi di processo a distanza ed ulteriori inasprimenti delle già draconiane e medievali misure di prevenzione, oltre che il progetto di applicarlo, secondo la "ricetta Cantone", comunque ad alcune fattispecie di medesimi reati contro la Pa. Alla fine dei conti , avere arginato gli straripamenti o le franche involuzioni autoritarie, come la deprivazione del diritto al controllo della motivazione in Cassazione, e raggiunto obiettivi significativi come la responsabilità civile, non impedisce di registrare un saldo passivo per la salute del nostro cosiddetto stato di diritto. Uno stato di salute, lo ripetiamo per l’ennesima volta, che avrebbe bisogno di una riforma di struttura complessiva: costituzionale, ordinamentale e codicistica, non di quel che si discute. Per raggiungere gli obiettivi della terzietà del giudice con la separazione delle carriere; della effettiva indipendenza tra i Poteri dello Stato sulla conformazione del Csm; della effettiva eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge in tema di obbligatorietà dell’azione penale; della concreta razionalità del sistema con la riserva di codice. La politica deve essere capace di discutere di questi temi, senza farsi bloccare dal triviale argomento della "divisività". Tutto quel che è fondamentale in un sistema complesso può essere "divisivo", ma non ci si deve arrestare a questa conclusione, se si vuole il primato della politica, cioè l’affermazione della democrazia. Del resto, l’abbiamo appena visto con le modifiche costituzionali. Ma siamo solo all’inizio. In questi ultimi mesi, e di ciò bisogna dare atto al Ministro Orlando e al viceministro Costa in particolar modo, l’Unione ha costantemente interloquito con gli uffici ministeriali. E la medesima interlocuzione si è avuta, e si deve oggi mantenere aperta, anche con tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, perché le proposte che saranno dettagliate nelle prossime ora siano oggetto di un dibattito rigoroso, sia per i disegni di legge ordinari, che per le deleghe. Dal Ncd, che in questa fase ha svolto un ruolo attento ai diritti dei cittadini, ai partiti di opposizione come Sel e Fi, che pure dichiarano, da sponde opposte, sensibilità per un attenzione alle garanzie, fino a quei settori sempre più ampi del Pd che vogliono sbarazzarsi di un giogo culturale che ha visto per troppo tempo la sinistra portatrice di un modello autoritario di giustizia, la platea dei partiti può aprirsi ad un dibattito serio oppure cedere alla tentazione della demagogia giudiziaria, che pure ha altri diffusi referenti in politica, negli organi di informazione ed in larghi strati della magistratura. Si deve discutere con tutti, pure con chi, come l’associazione dei magistrati, è oggi arroccata su posizioni arretrate in ordine ai modelli processuali ed ordinamentali, e corporative quanto alla responsabilità civile dei magistrati; ma senza riconoscere ad alcuno una primazia ed un diritto di veto, come preteso dall’ ordine giudiziario negli ultimi venti anni, cosa che in uno Stato democratico è del tutto inammissibile. Noi saremo protagonisti di buona volontà, per costruire, come sempre, ma anche per denunciare immediatamente, fin da domani all’esito della lettura dei testi, gli attentati ai diritti dei cittadini, pronti a protestare con determinazione nel loro esclusivo interesse. Giustizia: Sabelli (Anm); magistrati lumache? Renzi ci offende, riforma non aiuta efficienza Asca, 31 agosto 2014 "Magistrati lumache? Il premier ci offende", tranchant il commento del Presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli sulla riforma della giustizia varata venerdì del Consiglio dei ministri, e - assicura - "questo progetto non aiuta l’efficienza". In un’intervista di Sabelli al quotidiano La Repubblica i magistrati fanno quindi arrivare e ribadiscono le loro critiche, anche sullo strumento scelto: "Mi auguro soprattutto che il ricorso alla legge-delega sia giustificato da ragioni di complessità e non dalla difficoltà di trovare un accordo. In tal caso si rischia il rinvio sine die" Sulla responsabilità civile dire come Renzi "il giudice che sbaglia paghi", è "soprattutto una semplificazione. Il problema è che su questa materia spesso i luoghi comuni sono diventati delle verità nell’immaginario collettivo" e riguadro alal nuova legge "È affrettato togliere il filtro, senza fare prima una reale verifica di come ha funzionato al di là delle chiacchiere". La prescrizione bloccata comunque per i magistrati è "un miglioramento", ma "debole,", che non tocca la struttura dell’ex-Cirielli. Quello che però proprio non va giù ai magistrati è l’idea dei "giudici lumaca": "La magistratura italiana è in Europa tra le più produttive e sono i dati indipendenti del Consiglio d’Europa a dimostrarlo", ha sottolineato Sabelli nell’intervista al quotidiano, aggiungendo: "Spetta al legislatore trovare delle soluzioni al carico abnorme. E per questo ci saremmo aspettati degli interventi immediati anche sulle impugnazioni. E comunque gli strumenti disciplinari già esistono". D’accordo invece sul limite alla pubblicazione delle intercettazioni "se si tratta di conversazioni irrilevanti" perché "la riservatezza va tutelata sino a quando non c’è una necessità di prova". Riduzione dei "termini feriali"?... ma i tribunali non chiudono mai "Quando si discute di giustizia, c’è il rischio di un approccio superficiale. La sospensione feriale non sono le ferie e non comporta la chiusura di Procure e Tribunali, che non chiudono mai. Inefficienze e ritardi della giustizia non dipendono da questo, ma dall’adeguatezza della normativa processuale e da un problema di risorse. Certo, è più facile ridurre i termini feriali che aumentare le risorse". Così il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, sull’ipotesi di ridurre i termini feriali prevista dalla riforma della giustizia. La riforma messa in cantiere dal governo prevede il dimezzamento dei termini di sospensione feriale, che passa da quello a attuale, cioè 1 agosto - 15 settembre, ad un periodo comprese tra il 6 e il 31 agosto. Una misura demagogica o punitiva? "Aspettiamo di vedere i testi - risponde Sabelli -. Ma attenzione agli approcci di facciata - aggiunge. Si sentono spesso dichiarazioni offensive, si parla di giudici che non lavorano. Chi lavora nei tribunali, i magistrati, i cancellieri, gli avvocati, e chi ha un approccio sereno alla questione giustizia, sa che il numero e la durata delle udienze sono condizionati dalla carenza di risorse e di personale amministrativo". Il presidente dell’Anm tiene a chiarire un altro aspetto: "La sospensione feriale va distinta dalle ferie dei magistrati. E tribunali e procure non chiudono mai per ferie. Quello che accade è la sospensione di alcune udienze ordinarie. Ma tutto ciò che è urgente, che è detenuti, che è criminalità organizzata, si tratta. E non si sospende il deposito dei provvedimenti dovuti da parte dei magistrati. La sospensione feriale, inoltre, risponde anche all’esigenza di una pausa per gli studi legali individuali". Quanto al periodo di ferie previsto da contratto per i magistrati, che arriva a 45 giorni l’anno, "è in linea con quello previsto per molte altre categorie nell’ambito della dirigenza della pubblica amministrazione". Giustizia: Spigarelli (Ucpi); riforma? non servono nuove leggi, ma solo applicarle davvero Giornale di Sicilia, 31 agosto 2014 La maggior parte delle leggi ci sono già, si tratta di applicarle e di far funzionare la macchina amministrativa della giustizia, anche investendo le dovute risorse economiche". Il presidente nazionale dell’Unione delle Camere penali, Valerio Spigarelli, fornisce dei dati che sfatano una serie di "balle" in materia di giustizia, sulla prescrizione, sull’obbligatorietà dell’azione penale, sulle intercettazioni. "Se la giustizia non funziona, non è certo - dice - per colpa di presunte tattiche delatorie degli avvocati. Il 70 per cento dei procedimenti si prescrive durante le indagini preliminari, quando tutto dipende solo dalla Procura". Lo convince l’intenzione di eliminare il filtro dell’ammissibilità per i ricorsi legati alla responsabilità civile dei magistrati: "È la strada giusta - spiega - perché i procedimenti si arenano tutti in questo punto. In 26 anni ne sono stati compiuti solo 400, di cui 7 hanno riconosciuto l’effettiva colpa del magistrato. O abbiamo i migliori magistrati del mondo o la legge va cambiata". In molti sostengono che l’intervento del governo sulla giustizia non sia in realtà una vera riforma, articolata e organica, ma piuttosto il tentativo di mettere delle toppe. Cosa ne pensa? "Condivido l’idea che una vera riforma della giustizia non può non prendere in considerazione il titolo quarto della Costituzione e affrontare il nodo della terzietà del giudice e della separazione delle carriere, il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale, che esiste solo a parole, e dell’uso patologico della prescrizione, ma anche della conformazione del Csm per i pubblici ministeri e per i giudici. Ecco se non si affrontano questi nodi, non si può parlare di una riforma e si finisce in realtà per non riformare proprio nulla, ma solo correre dietro a delle cose che spesso non sono neanche vere. E la cartina di tornasole è proprio il tema della prescrizione". E veniamoci alla prescrizione, lei prima parlava di un "uso patologico", cosa intende? "Per risolvere i problemi, bisogna partire dai dati. Secondo quelli forniti dal ministero della Giustizia, il 70 per cento dei procedimenti si prescrive durante le indagini preliminari, dunque è qui che bisogna intervenire. L’uso patologico di cui parlo è legato al fatto che le Procure usano arbitrariamente e volontariamente la prescrizione per chiudere determinati procedimenti, e questo senza alcun intervento da parte degli avvocati, visto che siamo nella fase delle indagini preliminari. La storia che siano le tattiche dilatorie dei legali ad allungare i tempi della giustizia è una balla, perché esistono già delle leggi, che vengono applicate, per cui i tempi di prescrizione vengono interrotti quando i rinvii sono legati ad esigenze degli avvocati. Abbiamo fatto una ricerca con l’Eurispes negli anni scorsi, prima a Roma e poi in tutta Italia, ed è emerso che oltre il 90 per cento dei rinvii riguarda problemi che nulla hanno a che vedere con l’avvocatura: citazioni errate, giudici spostati, testimoni che non si presentano e via discorrendo. In molti, poi, parlano della necessità di riformare l’appello e, anche in questo caso si sostengono cose non vere: nel 2013, i processi andati prescritti sono stati 120 mila e soltanto 18 mila in appello, tutto il resto durante le indagini preliminari o in primo grado. Dunque altro che tattiche dilatorie. Qui siamo di fronte ad un deficit organizzativo dello Stato. Pensi che si rinviano il triplo dei processi perché l’amministrazione giudiziaria sbaglia a citare testimoni o imputati. Bisogna dunque far marciare questa macchina amministrativa, investendo anche dei soldi perché questo avvenga. E non sostenere ossimori come quello secondo il quale, come si sente dire in questi giorni, per avere una durata ragionevole del processo bisogna allungare i termini di prescrizione". Non crede che per alcuni reati i tempi di prescrizione siano comunque troppo brevi? "I reati gravi non si prescrivono sostanzialmente, quelli legati alla mafia, quelli fiscali e neppure quelli attribuibili ai così detti colletti bianchi. Sono le contravvenzione per abuso edilizio, che si prescrivono. I tempi della prescizione non sono affatto brevi". Spesso però, proprio per via della prescrizione, si resta senza giustizia. Penso ad esempio a tanti processi legati a casi di malasanità, che difficilmente arrivano all’appello... "Ma questo sarà per colpa di qualcuno che non ha fatto bene il suo lavoro...". Ecco, arriviamo alla responsabilità civile dei magistrati. Le sembra che le idee trapelate in questi giorni siano corrette? "Incredibilmente sembra che finalmente la questione venga affrontata in modo corretto. La legge attuale ha prodotto dal 1988 ad oggi 400 procedimenti, di cui soltanto 7 si sono conclusi con l’affermazione della responsabilità del magistrato. O abbiamo i magistrati più bravi del mondo o la legge è sbagliata. Propendo per la seconda: per questi procedimenti esistono un filtro di ammissibilità e poi tre gradi di giudizio. La maggior parte di questi ricorsi si arena sulla questione dell’ammissibilità. E, correttamente, il ministro della Giustizia parla di eliminare questo filtro e di ampliare le responsabilità dei magistrati, quando ci sono gravi negligenze". In che senso intende la revisione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? "L’obbligatorietà dell’azione penale è un lusso che non ci possiamo permettere, perché non ce la facciamo a fare tutti i processi per quante sono le notizie di reato, non ci riesce nessun Paese civile, è impossibile ovunque. Tanto è vero, come dicevo prima, che la maggior parte dei procedimenti muore durante le indagini preliminari ed in maniera arbitraria". Ma non è perché "non ce la facciamo" che dobbiamo far finta di non vedere i reati... "Non dico questo. Di fatto, molti procedimenti muoiono con la prescrizione proprio perché non si può stare dietro a migliaia di contravvenzioni o reati minori. Quindi, anziché lasciare la scelta alle Procure, almeno ci sia un controllo democratico, attraverso il Parlamento, per stabilire quale tipo di processo debba avere la precedenza". E sul fronte delle intercettazioni, anche se il tema è rimasto per ora piuttosto vago? "Infatti, non è chiaro ciò che si intende fare. Anche in questo caso, però, le norme già ci sono, ma non vengono applicate correttamente. Nel 1973 la Corte Costituzionale ha stabilito, tra l’altro, che le intercettazioni debbano essere di breve durata, legate al provvedimento di un giudice e con delle proroghe motivate. Di fatto, le motivazioni sono sparite, si procede quasi in automatico e da strumento eccezionale le intercettazioni sono diventate ordinarie. Devono essere, poi, uno strumento di ricerca delle prove penali, non delle notizie di reato. Sul fronte della pubblicazione delle intercettazioni, infine, sembra si voglia allargare ulteriormente la segretezza, penalizzando anche gli avvocati. In realtà esiste già una legge, ma senza sanzione, che vieta la pubblicazione integrale in fase di indagini. Al posto di complicarci la vita, basterebbe prevedere una sanzione per chi viola questa norma". A sentire lei sembra che la giustizia non funzioni per colpa di tutto e di tutti, tranne che degli avvocati, però... "Non sostengo questo. Il problema dell’avvocatura non ha nulla a che vedere con la durata dei processi. Il punto è che siamo 250 mila, che spesso mancano la specializzazione, la competenza e il rigore deontologico. Siamo dell’idea che l’avvocatura vada senz’altro riformata, come siamo i primi a dire che coloro che imbrogliano debbano essere puniti, ma non ci raccontino che la giustizia non funziona per colpa delle nostre presunte tattiche dilatorie". Giustizia: in Italia l’economia criminale vale 170 miliardi… e non conosce crisi di Gabriele Dossena Corriere della Sera, 31 agosto 2014 Solo negli ultimi cinque anni l’economia criminale ha fatto registrare un’impennata del 212%. Tanto da far stimare - per difetto - un "giro d’affari" che ha raggiunto i 170 miliardi di euro l’anno. C’è anche un’economia che non va mai in crisi. Anzi, è in continua crescita. Solo negli ultimi cinque anni ha fatto registrare un’impennata del 212%. Tanto da far stimare - per difetto - un "giro d’affari" che ha raggiunto i 170 miliardi di euro l’anno. Questo il valore dell’economia criminale: una sorta di "Pil" malavitoso, che deriva da attività illegali, i cui proventi illeciti si riversano poi - come reinvestimento - nell’economia legale, con il risultato di inquinare e stravolgere il mercato. L’escalation delle attività che fanno capo alle organizzazioni criminali, emerge dal crescente numero di segnalazioni che sono pervenute all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia. Si tratta in pratica di tutte quelle operazioni sospette "denunciate" alla Uif da parte di intermediari finanziari: da banche nell’80% dei casi, ma anche uffici postali, società finanziarie o compagnie di assicurazione. Se nel 2009 le segnalazioni pervenute all’istituto di via Nazionale sono state 20.660, lo scorso anno si è registrato un exploit a 64.415 (anche se la punta record è stata raggiunta nel 2012, con 66.855 segnalazioni). L’ufficio studi della Cgia di Mestre ha rielaborato a livello regionale il numero delle segnalazioni di riciclaggio avvenute nel 2013: la Lombardia risulta la regione più colpita (11.575), seguita da Lazio (9.188), Campania (7.174), Veneto (4.959) ed Emilia Romagna (4.947). Quasi il 60% delle segnalazioni di attività criminali registrate a livello nazionale è concentrata in queste cinque regioni. Va comunque precisato che i dati prodotti dalla Uif non includono i reati violenti, come furti, rapine, usura ed estorsioni, ma solo le transazioni illecite concordate tra il venditore e l’acquirente, come il contrabbando, traffico d’armi, smaltimento illegale di rifiuti, gioco d’azzardo, ricettazione, prostituzione e traffico di stupefacenti. Solo una parte, quindi. Che però vale, da sola, 170 miliardi di euro l’anno. E che è pari al Pil di una ragione come il Lazio. Giustizia: per il Tribunale del Riesame Francantonio Genovese deve tornare in carcere Ansa, 31 agosto 2014 Francantonio Genovese deve tornare in carcere. La sua abitazione, dove è detenuto ai domiciliari dal 21 maggio, secondo i giudici del Riesame di Messina sarebbe una sorta di "località protetta", col parlamentare che potrebbe "continuare a mantenere in vita rapporti e illecite attività", grazie a una fitta rete di prestanome. I giudici hanno annullato l’ordinanza del gip che scarcerava il parlamentare indagato per associazione per delinquere, truffa e frode fiscale sulla formazione professionale in Sicilia disponendone gli arresti domiciliari. L’ordinanza non è esecutiva fino al momento in cui lo diventerà per termini o sentenza della Cassazione. Genovese si era costituito nel carcere di Messina subito dopo che la Camera dei deputati aveva votato l’autorizzazione al suo arresto. Dopo l’interrogatorio di garanzia il gip aveva ritenuto che "permane il concreto pericolo di reiterazione di analoghe condotte criminose", ma allo stesso tempo erano "attenuate le esigenze cautelari" tenuto conto anche dell’atteggiamento dell’indagato il quale, "pur avendo la concreta possibilità di sottrarsi all’esecuzione della misura, durante l’esame dinanzi alla Camera dei deputati, si è spontaneamente costituito". Una decisione che adesso il Tribunale del Riesame, accogliendo il ricorso presentato dalla Procura di Messina, ha ribaltato. Il Collegio ritiene che le condotte illecite perpetrate dall’ indagato in modo sistematico rendano oltremodo concreto il pericolo di reiterazione delittuosa e siano sintomatiche di un sofisticato sistema illecito ben collaudato e consolidato nel tempo, che l’indagato ha avviato e perfezionato in modo professionale". Per i giudici da ciò traspare una "spregiudicatezza e una non comune inclinazione a delinquere dell’indagato" che "possono essere contenute soltanto con la misura di massimo rigore, tenuto conto - scrivono nell’ordinanza - della natura , della gravità degli illeciti contestati e dell’ ingente quantitativo di denaro pubblico di cui Genovese si è appropriato nel tempo, usufruendo, per finalità privatistiche e personali, della carica pubblica rivestita". Per il Tribunale, gli arresti domiciliari sarebbero per Genovese una "località protetta" visto che con le "guarentigie" l’abitazione diventa "invalicabile", un privilegio che, scrivono i giudici, avrebbe usato per trasferire documenti contabili nel limite posto nell’effettuazione di perquisizioni. E ritiene che il parlamentare abbia "mantenuto il controllo della Caleservice, società attraverso la quale ha riciclato denaro" e ha commesso "plurime e ingenti evasioni fiscali". La revoca degli accreditamenti di alcuni enti di formazione per i giudici "non scongiura il pericolo di reiterazione delittuosa" visto che Genovese può "usufruire di una fitta rete di prestanome". Per Nino Favazzo, legale di Genovese, l’ordinanza del Riesame è "debole e inconsistente". "Si sostiene, in sintesi, che Genovese controllasse la Formazione da casa, e che l’unico posto dove non possa farlo è il carcere - afferma - Mi sembra che la decisione sia più legata ad altre decisioni prese dal Tribunale che hanno avuto un effetto trascinamento sul mio assistito". L’avvocato annuncia ricorso in Cassazione. Sardegna: a Oristano 150 boss di mafia e camorra, la denuncia del deputato Mauro Pili L’Unione Sarda, 31 agosto 2014 "A Oristano anche i mafiosi che scioglievano le persone nell’acido e controllavano le più criminali organizzazioni mafiose in Italia e non solo. Per diversi giorni anche un detenuto in regime di 41 bis è stato ospite del carcere di Massama. In pochi mesi il carcere di Oristano è stato trasformato in una vera e propria cayenna mafiosa". Nuova denuncia del deputato di Unidos Mauro Pili, questa volta sulla situazione carceraria nell’Isola. Nell’istituto di Oristano - spiega Pili, che annuncia una sua prossima visita ispettiva nel carcere di Massama e una interrogazione parlamentare - sono rinchiusi oltre 160 detenuti in regime di alta sicurezza legati a mafia, camorra e ‘ndrangheta. "In silenzio - accusa -, cinque alla volta, lo Stato ha scaricato in Sardegna i più pericolosi criminali delle organizzazioni mafiose". E questo crea "allarme tra gli agenti penitenziari e tra i cittadini. In aumento esponenziale la presenza dei familiari dei detenuti mafiosi. Ora più che mai il rischio infiltrazioni è gravissimo". A Massama - continua - è anche richiuso "il criminale dei criminali, Vincenzo Sinagra, detto ‘u Tempesta, colui che accompagnava le persone nella camera della morte per scioglierle nell’acido e viene considerato da tutti il più efferato assassino della cosca dei Marchese. Tra loro c’è Alfonso Caruana ritenuto il vice di Buscetta, Pietro Calvo il braccio destro di Provenzano, Francesco De Vita il capo di una delle cosche di Matteo Messina Denaro. Dentro il carcere di Oristano anche un 41 bis, Silvio Farao, allontanato di tutta fretta nei giorni scorsi. Tutti tacciono e nessuno parla". Il deputato afferma che c’è un "clima pesantissimo in carcere. Tra i detenuti anche uno che ha ammazzato un agente penitenziario. Separate le visite dei familiari detenuti comuni con quelle dei mafiosi. Tutto questo non può essere nascosto. È evidente che siamo in pieno pericolo di infiltrazioni mafiose". Pavia: visita in carcere di Pd e Radicali "spazi ok per i detenuti, ma serve più personale" di Arianna Filippini La Provincia Pavese, 31 agosto 2014 "Il lavoro è il nostro pensiero fisso". I detenuti della casa circondariale hanno ripetuto continuamente questa frase alla delegazione del Pd e dei Radicali che ieri mattina ha effettuato una visita ispettiva a Torre del Gallo. "Mi ha colpito la frequenza con cui la parola "lavoro" torna nei discorsi dei detenuti - ha detto Daniele Viotti, europarlamentare Pd - chi è in carcere impara presto che il lavoro è la più importante forma di reinserimento". Al termine dell’ispezione, il sindaco Massimo Depaoli ha raggiunto la delegazione, formata anche da Silvia Grossi (Pd) e Alessia Minieri (Radicali), ed è tornato a parlare dei progetti di recupero e reinserimento che il Comune sta attivando in collaborazione con l’Uepe, l’ufficio esecuzione penale esterna. "Dobbiamo creare un ponte tra il carcere e la città - ha detto Depaoli - e a questo scopo stiamo lavorando per attuare la convenzione sottoscritta con l’Uepe dalla precedente amministrazione. La convenzione permetterà al Comune di offrire alcuni posti per lavori socialmente utili a detenuti a fine pena o ai domiciliari, purché non abbiamo compiuto reati violenti o contro le persone". L’assessore alle politiche sociali Alice Moggi ha precisato che l’incontro con l’Uepe, per mettere a punto il progetto, si terrà già la prossima settimana e potrebbe coinvolgere un centinaio di persone. "Dopo la battaglia per le condizioni delle carceri il passo successivo è lottare per il corretto reinserimento dei detenuti - ha detto Grossi, responsabile regionale Pd dei diritti civili -. L’ispezione di oggi è stata a sorpresa, ma devo ammettere che, a un anno dall’apertura del nuovo padiglione, la situazione a Torre del Gallo è sensibilmente migliorata". "Nell’ala vecchia i detenuti non sono mai più di due per cella - ha spiegato Minieri - e in quella nuova i posti occupati variano dai 260 ai 270, a fronte di una capienza di 300". "Abbiamo trovato un personale preparato e sensibile - ha concluso Viotti - ma eccessivamente sottodimensionato. Bisogna risolvere il problema dell’organico, perché la qualità del regime carcerario influisce profondamente sul reinserimento dei detenuti". Napoli: detenuto in carrozzina fa sciopero della fame "chiedo solo di essere operato…" www.fanpage.it, 31 agosto 2014 Detenuto nel carcere di Secondigliano (Napoli) è sulla sedia a rotelle, ha uno spazio vitale ridotto e per muoversi si affida ad altri detenuti, a causa delle numerose barriere architettoniche. Da 6 mesi chiede di essere operato, è in sciopero della fame da 10 giorni. Fabio Ferrara è in sciopero della fame da oltre dieci giorni. Reclama il suo diritto a essere curato e operato. È sulla sedia a rotelle da diversi anni: è rimasto ferito gravemente al momento dell’arresto per concorso in tentata rapina, e dopo sei giorni di coma si è risvegliato, ma è rimasto immobilizzato. Al momento è detenuto nel carcere di Secondigliano, in infermeria: nella sua stanza, adatta a una sola persona, ci sono lui in carrozzina e un altro detenuto, che gli fa da piantone, lo aiuta a lavarsi, a muoversi. Ma non è il piantone, nonostante Fabio, 35 anni, abbia il pannolone e non sia autonomo: "È una condizione disumana - denuncia Luigi Mazzotta, dell’associazione Radicali Per La Grande Napoli - che gli ha riservato lo Stato italiano, condizioni disumane per le quali l’Europa ci ha condannato e che continuano. Questo detenuto deve essere operato alla vescica, ma si trova in una cella piccolissima dove a malapena entra la carrozzella e attende questo ricovero da oltre sei mesi". L’esponente dell’associazione radicale "Per La Grande Napoli" ha visitato il carcere di Secondigliano qualche giorno fa, insieme al senatore Ncd Luigi Compagna. Per Fabio Ferrara è difficilissima ogni azione quotidiana, anche essere lavato è un’impresa, poiché bisogna salire e scendere le scale, e perché non è in grado di uscire dalla cella autonomamente: deve essere continuamente trasportato in braccio poiché ci sono molte scale: anche per accedere ai colloqui e andare in bagno. Lo aiutano altri detenuti, racconta la moglie Anna Belladonna ai microfoni di Fanpage.it: se non fosse così, "non potrebbe fare nulla, ma resterebbe imprigionato in uno spazio che è quanto la metà di un tavolo da pranzo". A stento 3 metri quadri. Sono state presentate due istanze per il differimento della pena: "Il motivo è che vorremmo che fosse operato presto e potesse fare un po’ di fisioterapia, visto che a nostro avviso lì non viene curato né assistito". Il magistrato di sorveglianza, però, ha rigettato l’istanza in quanto non sussisterebbe "un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose", ma si riserva di verificare la necessità di altre terapie adeguate. Il detenuto, insomma, può essere curato in carcere. Intanto, però, il ricovero non arriva, la fisioterapia di cui avrebbe bisogno neanche: "Mio marito piange sempre, ormai ai colloqui non parliamo più - si sfoga la moglie - Non si contano più le infezioni e le sofferenze che sta patendo. Dice che questo trattamento è disumano, vuole essere operato, solo questo, ed è per questo che è in sciopero della fame da oltre dieci giorni. Hanno rigettato le nostre istanze, allora provvedano alla salute di mio marito, ma non a chiacchiere. Nei fatti". Pistoia: il Garante annuncia l’attivazione di uno sportello informativo per i detenuti www.gonews.it, 31 agosto 2014 Gli ultimi provvedimenti legislativi sul tema carcere prevedono dei rimedi risarcitori a favore di detenuti ed ex detenuti che sono stati reclusi in condizioni di detenzione in violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (condizioni inumane e degradanti). La nuova disposizione aggiunge alle competenze del Magistrato di Sorveglianza l’adozione di provvedimenti compensativi stabilendo, su istanza del detenuto (o del difensore munito di procura speciale), di "compensare" il detenuto con l’abbuono di un giorno di pena residua per ogni 10 giorni durante i quali vi è stata la violazione. Il magistrato di sorveglianza liquida il richiedente con una somma di 8 euro per ogni giorno trascorso in carcere in "condizioni inumane e degradanti" nei seguenti casi: quando il residuo di pena da espiare non permette l’attuazione della citata detrazione percentuale (perché, ad esempio, sono più numerosi i giorni da "abbuonare" a titolo di risarcimento che quelli effettivi residui da scontare); quando il periodo detentivo trascorso in violazione dell’art. 3 Cedu sia stato inferiore a 15 giorni. Per coloro che hanno già espiato la pena carceraria (ex detenuti), l’istanza risarcitoria può essere avanzata, entro 6 mesi dalla fine della custodia o della detenzione, davanti al tribunale del distretto nel cui territorio hanno la residenza. Anche in tal caso, il quantum del risarcimento è di 8 euro per ogni giorno in cui si è subita la detenzione in condizioni inumane e degradanti. Il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Pistoia comunica per quanto sopra l’attivazione di uno sportello informativo rivolto: - a tutti i detenuti della Casa Circondariale di Pistoia che potranno rivolgersi direttamente al Garante, tramite richiesta di un colloquio, autorizzato dalla Direzione; - a tutti gli ex detenuti residenti nel Comune di Pistoia che potranno richiedere un appuntamento con il Garante chiamando il seguente numero di telefono 0573.371252 o scrivendo una email all’indirizzo: garantedetenuti@comune.pistoia.it. Antonio Sammartino Garante delle persone private della libertà personale Comune di Pistoia Brescia: sette detenuti impiegati in lavori "socialmente utili", un modello da esportare Brescia Oggi, 31 agosto 2014 Il sindaco Del Bono: "Orgogliosi di fare scuola a livello nazionale". Il progetto per ora coinvolge solo 7 detenuti, ma sarà sviluppato. Hanno verniciato ringhiere, pulito i giochi nei parchi e imbiancato la staccionata della Pinacoteca senza che nessuno sospettasse chi fossero: detenuti impegnati in lavori socialmente utili. Il progetto che prevede l’impiego dei carcerati bresciani in piccoli lavori di pubblica utilità procede a gonfie vele, tanto da diventare già un modello nazionale, cui sarà dedicata anche una puntata di "Report", la trasmissione d’inchiesta di Rai 3. "Siamo orgogliosi che Brescia faccia scuola", ha dichiarato ieri mattina il sindaco Emilio Del Bono, stilando il primo, positivo bilancio del progetto, assieme all’assessore Valter Muchetti, alle direttrici di Canton Mombello e Verziano e al criminologo Carlo Alberto Romano, membro del Comitato per la legalità di Palazzo Loggia. Otto le manutenzioni realizzate finora in città dai detenuti: la verniciatura delle ringhiere della scuola Carducci, dell’asilo Sole e del sottopasso in viale Piave, la pulizia dei giochi dei parchi Zorat in via Lunardi e dei Poeti a Villaggio Badia, il riordino dell’area ricreativa del medesimo quartiere, la sistemazione dei giardini di Canton Mombello e di via Spalti San Marco, sia per la manutenzione del verde sia per la pulitura dei primi due metri delle mura venete, oltre al riassetto della zona antistante la Pinacoteca in piazza Moretto, ora circondata da un giardino più curato e da una staccionata trasformata in murales dai writers "legali" dell’associazione True Quality. "Per realizzare tutto ciò abbiamo selezionato sette detenuti che avessero le caratteristiche adatte e che nei prossimi mesi si turneranno con altri reclusi", ha spiegato la direttrice del carcere di Verziano, Francesca Lucrezi. Altri tre detenuti sono stati destinati a lavori fuori città, grazie ad altrettanti accordi con i Comuni della provincia. A Canton Mombello, per ora, è considerato idoneo un solo carcerato, da giugno presenza fissa al cimitero Vantiniano come supporto per le attività di routine. "Da noi le condizioni per permettere a un recluso di uscire e lavorare sono più complesse, ma appena si presenta l’occasione siamo lieti di sfruttarla - ha garantito la direttrice Francesca Gioieni: il rischio è che qualcuno punti il dito contro queste persone, ma la sfida è far capire all’opinione pubblica che tutti, se sbagliano, devono avere la possibilità di riscattarsi". Del valore pedagogico del progetto è convinto anche il presidente dell’associazione Carcere e Territorio Carlo Alberto Romano: "Questa attività rappresenta un’innovazione ormai imprescindibile per il sistema penitenziale, che deve contare anche su una giustizia preventiva, non più esclusivamente repressiva", ha detto. La collaborazione con il Comune durerà 24 mesi, durante i quali le direttrici di Canton Mombello e Verziano individueranno via via detenuti o detenute idonei in base a mansioni, competenze e posizione giuridica. Il lavoro non è remunerato, ma il Comune ha messo a budget i costi per la formazione, le attrezzature (abbigliamento antinfortunistico, vernici, detersivi, utensili...), i titoli di viaggio per i trasporti tramite Brescia Mobilità, il rimborso pasti e voucher di 10 euro ogni 8 ore lavorate come contributo motivazionale. Cagliari: detenuto aggredisce direttore nel carcere Buoncammino, fermato da un agente L’Unione Sarda, 31 agosto 2014 Solo l’intervento degli agenti della Polizia penitenziaria ha impedito che il direttore venisse ferito. L’aggressione, denunciata dalla Uil-Pa Penitenziari, è scattata durante i controlli ordinari all’interno delle celle. Un detenuto ha cercato di colpire il direttore del carcere con un coltellino realizzato in maniera artigianale. L’uomo è stato fermato da un agente che ha riportato alcune lesioni. È stato giudicato guaribile in cinque giorni. L’episodio ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica la situazione di disagio che vive chi lavora all’interno delle strutture carcerarie. "A fronte del sovraffollamento - sottolinea la Uil in un comunicato - dobbiamo fare i conti con carenza di personale. A Buoncammino solo la professionalità del personale in servizio ha evitato che l’aggressione potesse avere conseguenze più gravi". Genova: il Sappe incontra Viceprefetto denuncia "lancio di cellulari e droga in zona aria" Ansa, 31 agosto 2014 I detenuti del carcere di Genova Marassi ricevono cellulari e droga che vengono lanciati dai palazzi vicini all’istituto di pena dai congiunti o dai complici che li tirano nel cortile durante l’ora d’aria. Una consuetudine "che sta diventando emergenza" ha detto il sindacato di polizia Sappe che sulla questione ha interessato la prefettura. Il prefetto pro tempore Paolo d’Attilio ha convocato il direttore del carcere Mazzeo per concordare linee di prevenzione. Il Sappe incontra il Prefetto Vicario "Interessante e costruttivo - così commenta la segreteria regionale del Sappe, il maggiore sindacato di categoria - l’incontro chiesto ed ottenuto con il Dr. Paolo D’Attilio Prefetto Vicario di Genova" "Il Vicario del Prefetto ha reso noto che a seguito della richiesta del Sappe ha convocato il Direttore dell’Istituto Dott. Salvatore Mazzeo concordando alcune linee di prevenzione. La problematica è stata anche già trattata dal Comitato per l’ Ordine e la Sicurezza convenendo che quel tratto di strada sarà maggiormente controllata anche delle altre forze di Polizia". Il Vice segretario del Sappe - Migliorelli commenta: "Abbiamo chiesto l’interessamento del Prefetto per coinvolgere anche il territorio in quello che stava diventando una vera emergenza alla quale ha ben risposto il personale di Marassi intercettando e sequestrando non solo telefonini ma anche considerevoli quantità di sostante stupefacenti. In questo modo, cioè aumentando i controlli in quel tratto di strada che costeggia il muro del carcere, sicuramente si eviteranno lanci di oggetti vietati". Cinema: "Comandante", un documentario di Enrico Maisto che tratta anche di carcere di Alice Arecco www.milanofilmfestival.it, 31 agosto 2014 Francesco Maisto, padre del regista, è stato per dieci anni giudice di sorveglianza a San Vittore negli anni di piombo, quando in carcere c’erano moltissimi detenuti politici. Felice faceva il meccanico ed è da sempre un comunista, ex-militante di Lotta Continua, ancora impegnato politicamente per il suo quartiere, la Barona, a Milano. A Mulino Doppio, oggi parte del Parco delle Groane, negli anni Settanta si ritrovavano tutti, anche Francesco e Felice, perché all’epoca era uno spazio pubblico di discussione: la consapevolezza che quella società era ingiusta e andava cambiata in qualche modo cambiata era qualcosa di vivo, un sentimento condiviso anche da Francesco e Felice, da allora grandi amici. L’umanità è il filo conduttore di questo documentario intimo e sincero, il cui senso è nella ricerca del giovane regista: la necessità di un incessante interrogarsi sulle due figure chiave della sua infanzia, sul senso dell’amicizia, sull’immagine che un figlio ha del proprio padre. Enrico Maisto, appena ventiduenne quando ha iniziato a scrivere il film, si inoltra con pudore e delicatezza, ma anche con grande determinazione e senso di urgenza, in una storia di famiglia e in un pezzo di Storia d’Italia, restituendone durezze e speranze con un occhio cinematografico degno di attenzione. Note di regia "Il film nasce dalla mia esigenza di filmare Felice, di ritrovare questo personaggio della mia infanzia attraverso le immagini. Nella prima stesura non era previsto che entrasse in gioco mio padre: è stato Felice a portarmi verso di lui, verso la loro amicizia, nata durante il terrorismo. Due uomini distantissimi per ruolo e posizioni, come soldati di stanza su avamposti di frontiera nemici che abbiano imparato a conoscersi e volersi bene. Ho cercato di capire di più di mio padre, passando anche attraverso Felice, nella convinzione che qualcosa di profondo li unisse, una sorta di co-appartenenza. L’intrecciarsi dei loro percorsi talvolta ha prodotto assonanze, talvolta contrasti, portando alla luce il bisogno di fare i conti con quello che filmare questi due personaggi ha significato per me". Enrico Maisto Nato a Milano nel 1988, ha cominciato a interessarsi alla regia durante gli anni del liceo. Nel 2006 al Laura film festival di Levanto ha conosciuto Marco Bellocchio per il quale ha realizzato il backstage di Vincere, suo primo incontro con una forma documentaria. Laureatosi in Filosofia presso l’Università degli studi di Milano, nel 2009 ha realizzato il cortometraggio Kino, che ha ottenuto il riconoscimento degli organizzatori al Premio Arti Visive San Fedele. Dal 2010 si è dedicato alla realizzazione del suo primo lungometraggio documentario Comandante, la cui lavorazione è durata quasi quattro anni. Droghe: perché allo Stato converrebbe Legalizzare (e tassare) la marijuana di Benedetto Della Vedova (Sottosegretario agli Esteri) La Stampa, 31 agosto 2014 Quello 0,1% in meno nel rapporto deficit/Pil che deriverà dai nuovi criteri Eurostat nel calcolo della ricchezza prodotta annualmente, comprensiva dei proventi di alcune attività illecite, beneficerà l’Italia meno della media Ue. Saranno compresi solo scambi illeciti fondati su transazioni volontarie, come nel caso della droga e della prostituzione, e non sulla coercizione, come l’estorsione. Questo ci ricorda che il consumo di cannabis è un pezzo della nostra economia. Si tratta di un mercato particolare, in cui l’economia legale (i redditi consumati in marijuana sono di norma dichiarati e tassati) trasferisce risorse a quella illegale. Immagino le critiche e specifico: nessun giudizio positivo sul consumo di cannabis. Il punto è questo: per altri consumi nocivi come alcol e tabacco si è intrapreso da tempo un percorso diverso, quello dell’informazione, della dissuasione e della tassazione. Alcol e tabacco fanno bene? No. Provocano danni sociali e sanitari? Sì. Eppure nessuno propone di consegnarne al mercato illegale la produzione e il commercio; cosa che avrebbe anche l’effetto di accrescere il prezzo e di privare l’erario di entrate ingenti. La domanda: ha ancora senso lasciare che sia la criminalità organizzata a rifornire i quattro milioni e mezzo di italiani consumatori di spinelli? Recentemente l’Uruguay e gli Stati del Colorado e di Washington negli Usa hanno legalizzato la produzione e la vendita della marijuana per uso ricreativo oltre che terapeutico. Si è aperta una prima breccia nell’ordine proibizionista ed è possibile iniziare a misurare gli effetti. In Colorado a giugno 2014, dopo 6 mesi dalla legalizzazione della vendita al dettaglio e 18 mesi dalla decriminalizzazione, gli incidenti d’auto non sono aumentati e i reati sono persino diminuiti, secondo la polizia di Denver (non è stata necessariamente la legalizzazione a ridurre il crimine, ma di certo non ne ha prodotto un aumento). L’eliminazione delle pene detentive per i piccoli reati connessi alla marijuana fa risparmiare al Colorado tra i 12 e i 40 milioni di dollari all’anno, mentre il gettito fiscale della legalizzazione nei primi 6 mesi del 2014 è stato superiore ai 30 milioni di dollari (comprendendo la marijuana per uso medico). Per volontà referendaria, le entrate fiscali saranno destinate al sistema scolastico e alla sensibilizzazione contro l’abuso di stupefacenti. Per il piccolo Colorado (5 milioni di abitanti) la legalizzazione della marijuana ha rappresentato un business di quasi 1 miliardo di dollari sottratto all’economia criminale, con un potenziale di nuovi occupati di circa 10.000 unità (2000 dei quali già realizzatisi, secondo il Marijuana Industry Group statunitense). Per l’Italia, grande dodici volte il Centennial State, parleremmo di numeri molto maggiori, significativamente positivi per i conti pubblici. Il libro bianco "Il mercato delle droghe: dimensione, protagonisti, politiche", a cura Guido M. Rey, Carla Rossi, Alberto Zuliani ha stimato il fatturato nel 2010 del narcotraffico in Italia in circa 24 miliardi di euro. Le analisi più recenti sul mercato dei soli derivati della cannabis portano a una stima di oltre 7 miliardi di euro annui. Oggi è possibile, più o meno approssimativamente, stimare il costo del proibizionismo sulla cannabis, dato dalla somma della spesa pubblica destinata alle attività di repressione e del mancato introito fiscale sulla produzione e sulla vendita. Legalizzando questo mercato - che è il più vasto in termini di consumatori e il meno problematico in termini sociali e sanitari - e imponendo una tassazione sufficientemente alta da non promuovere il consumo, ma non troppo da incentivare il ricorso al mercato illegale (in ipotesi, la stessa tassazione dei tabacchi: circa i tre quarti del prezzo di vendita) lo stato risparmierebbe sul fronte della repressione e riscuoterebbe entrate oggi interamente assorbite dai profitti criminali. Si tratterebbe di grandezze molto importanti dal punto di vista economico e fiscale. È ovvio che questa "ricchezza" non verrebbe creata dal nulla - dal prossimo mese la troveremo contabilizzata nel Pil - ma sarebbe strappata alla criminalità e ricondotta a un regime legale, più compatibile e gestibile in termini politici e sociali. Tanto più che la repressione proibizionista - comunque la si voglia considerare in termini morali o di principio - non dà risultati positivi né sul lato dell’offerta, né su quello della domanda delle sostanze proibite. E non impedisce, ma favorisce l’inquinamento criminale dell’economia legale, attraverso l’utilizzo dei profitti illeciti e dell’enorme potere di controllo politico-territoriale delle narcomafie. La mia opinione è che di questo non solo si possa, ma si debba discutere senza pregiudizi. Cuba: ragazzo italiano rinchiuso in carcere, rischia la vita per 3,5 grammi di marijuana di Nicola Imberti Il Tempo, 31 agosto 2014 Da cinque mesi in galera con l’accusa di "traffico di droga", ma aveva solo 3,5 grammi di marijuana. I genitori: "Aiutateci prima che sia troppo tardi". Cinque mesi possono essere un calvario. Soprattutto quando si è costretti a muoversi nello spazio angusto di una cella. Circondati da persone che parlano una lingua straniera. Con gli affetti lontani. Affamati e senza riuscire a dormire. È la storia di tanti italiani che da colpevoli, ma spesso da innocenti, si trovano detenuti all’estero. Un numero impressionante: oltre 3.200. È la storia di Giulio Brusadelli, un ragazzo romano di 34 anni che per l’appunto da 5 mesi si trova in carcere a Cuba. Venerdì l’Huffington Post ha pubblicato la lettera indirizzata dai genitori al senatore Luigi Manconi (presidente della Onlus A Buon Diritto). Una lettera che riassume in poche righe tutto il dramma di un padre e di una madre che, proprio in questi giorni, sono volati a Cuba per verificare di persona le condizioni del figlio. La storia di Giulio comincia il 4 marzo di quest’anno con quello che anche i genitori definiscono un "errore". A Santiago de Cuba viene trovato in possesso di 3,5 grammi di marijuana. Una quantità modica, ma l’accusa è pesantissima: traffico di droga. Il ragazzo viene arrestato. Dopo due mesi viene trasferito presso il carcere di Aguadores, sempre a Santiago, e lì resta in attesa del processo. Che si svolge il 14 luglio. Giulio, particolare tutt’altro che irrilevante, soffre da circa 20 anni di una sindrome bipolare maniaco depressiva. Viene riconosciuto dalla commissione medico-legale come "tossicodipendente". Secondo i testimoni presentati dalla difesa è incompatibile con il regime carcerario. L’accusa, tra l’altro, non riesce in alcun modo a dimostrare la sua natura di "trafficante di droga". Anche per questo, dagli iniziali 8 anni di reclusione, si passa ad una richiesta di 3-5 anni. Il 22 luglio la sentenza: condanna a 4 anni di detenzione, da scontare dopo essere stato ricoverato presso un centro di disintossicazione. Gli avvocati del ragazzo preparano il ricorso in appello. Chiedono al ministero degli Interni cubano di concedergli la possibilità di scontare la pena in Italia. Un trattato tra il nostro Paese e L’Avana, ratificato nel 2000, offre questa possibilità anche se fissa alcune condizioni (ad esempio il fatto che la sentenza sia "passata in giudicato"). Ed è a questo punto che quella che a prima vista potrebbe sembrare una disavventura come tante si trasforma in un dramma. Giulio resta in cella, il ricovero nel centro di disintossicazione non avviene, la sua depressione si acuisce fino a quando non viene trasferito nel reparto psichiatrico dell’ospedale "Juan Bruno Zayas" vicino a Santiago. È lì che il 28 agosto lo hanno incontrato i suoi genitori. Ed ecco la loro descrizione: "Giulio era in stato catatonico, visibilmente prostrato e depresso, dimagrito in maniera impressionante (...), incapace di pronunciare parola e di riconoscere i propri genitori (...)". Per questo Paolo e Patrizia Brusadelli hanno deciso di rivolgere il loro disperato appello a Manconi. Che oggi racconta: "Ormai siamo in presenza di un caso che non è più giudiziario, si tratta di una vicenda umanitaria. Purtroppo nell’ultimo anno mi sono occupato di altre storie come quella di Giulio. Compresa quella di Roberto Berardi (l’imprenditore detenuto da gennaio 2013 nella galera di Bata, una piccola città della Guinea Equatoriale, dove subisce quotidianamente maltrattamenti e pestaggi ndr )". Manconi ci tiene a sottolineare che sia il ministero degli Esteri italiano che l’Ambasciata italiana a Cuba stanno lavorando per arrivare ad una soluzione. "Ma soprattutto - aggiunge - ho trovato molta sensibilità da parte dell’Ambasciata cubana a Roma". Purtroppo è difficile fare previsioni su cosa succederà. Ma il grido dei genitori di Giulio ci dice che non c’è tempo da perdere: "Aiutateci prima che sia troppo tardi". La lettera dei genitori di Giulio Gentile Senatore Manconi, siamo i genitori di Giulio Brusadelli e le scriviamo da Cuba. Ieri, 28 agosto, abbiamo incontrato nostro figlio nel reparto psichiatrico dell’ospedale "Juan Bruno Zayas" vicino a Santiago, dove si trova recluso e piantonato. Giulio era in stato catatonico, visibilmente prostrato e depresso, dimagrito in maniera impressionante (...), incapace di pronunciare parola e di riconoscere i propri genitori (...). Nostro figlio soffre da vent’anni di una sindrome bipolare, maniaco-depressiva, ma mai c’era accaduto di vederlo in una simile condizione. Fino a qualche giorno fa, si trovava detenuto nel carcere della città di Santiago, dopo essere stato arrestato perché trovato in possesso di 3,5 grammi di marijuana; e dopo essere stato condannato a quattro anni per un "traffico" del quale non risulta alcuna prova. Giulio ha commesso un errore ma non può certo, per questo motivo, rischiare di morire (...). Il nostro è un grido di aiuto (...). Prima che sia troppo tardi. Paolo e Patrizia Brusadelli Cuba: il regime che riempie le prigioni di dissidenti… e nelle celle si rischia la vita Il Tempo, 31 agosto 2014 L’ultimo a morire è stato, nel 2003, Wilmar Villar, 31 anni arrestato per aver partecipato a una marcia di protesta. Portato nel carcere di Santiago, aveva iniziato uno sciopero della fame che lo ha ucciso. Anche se resta il timore che dietro la sua morte possa nascondersi altro. Perché nella "democratica" Cuba le cose stanno cambiando, ma molto lentamente. La pena di morte, ad esempio, è sospesa ma non abolita (nel 2013 sono stati superati i 10 anni senza esecuzioni). Mentre non molto si sa sulle effettive condizioni dei detenuti. Spesso a finire dietro le sbarre sono dissidenti. Altre volte, come nel caso di Giulio Brusadelli, turisti che vengono puniti con pene esemplari forse nella speranza che si pieghino a ricatti. Lo ricorda bene la signora Maria. Nel 1998 suo fratello finì in carcere. Partecipava ad una festa in cui era presente una minore, gli chiesero di pagare 1.000 dollari, non lo fece e iniziò il calvario. Condannato a 8 anni ne trascorse due a Cuba. Poi, nel 2000, la ratifica del trattato Italia-Cuba e la possibilità di scontare il resto della pena nel nostro Paese. "Feci 3 viaggi di 15 giorni ciascuno - racconta Maria -. La prima volta lo trovai in condizioni disumane. Dimagrito di oltre 20 chili. Quando c’erano i tornado li abbandonavano a se stessi. Senza luce, senza mangiare, chiusi in cella con l’acqua alle ginocchia". Erano gli anni dell’embargo, completamente inesistenti antibiotici e vitamine. Anche disinfettare qualcosa era impossibile. "Mio fratello era odontotecnico - aggiunge. Vista la mancanza di strutture mediche all’altezza iniziarono a farlo lavorare. Ma non gli tolsero mai un giorno di pena. Era una sentenza esemplare, bisognava punirlo. E lui ha scontato tutto, fino alla fine". Nei suoi viaggi Maria scoprì che sull’isola c’erano 33 italiani detenuti. Insieme agli altri famigliari cominciò la sua battaglia per riportare a casa i nostri connazionali. Una battaglia lunga che alla fine diede i suoi frutti. Ora sono trascorsi 16 anni. Forse qualcosa è cambiato. Ma dal racconto della famiglia Brusadelli sembra sia cambiato molto poco. A Cuba, in prigione, si rischia ancora la vita. Medio Oriente: nel mese di agosto arrestati da Israele circa 600 palestinesi Asca, 31 agosto 2014 Numero detenuti palestinesi salito a più di 7.000. Le forze israeliane hanno incarcerato ad agosto 597 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est, portando a più di 7.000 il numero di palestinesi detenuti nelle prigioni dello Stato ebraico. Lo ha annunciato oggi il Club dei prigionieri palestinesi. La maggior parte di questi arresti hanno avuto luogo a Gerusalemme est e nella città di Hebron, sud della Cisgiordania, ha precisato il Club, che ha sede a Ramallah, in un comunicato. Numerosi palestinesi sono finiti in manette a margine delle diverse manifestazioni di solidarietà con gli abitanti di Gaza, appena usciti da 50 giorni di una sanguinosa offensiva israeliana per distruggere l’arsenale di Hamas. Da metà giugno, con il lancio di una vasta campagna di arresti dopo il rapimento e l’omicidio di tre ragazzi israeliani, più di 2.000 palestinesi sono stati fermati e incarcerati, ha aggiunto il Club. Burundi: in gravi condizioni attivista dei diritti umani arrestato per un’intervista radio di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 31 agosto 2014 Dopo più di tre mesi di detenzione, Pierre Claver Mbonimpa, figura di spicco nella lotta alle discriminazioni, è ora in ospedale. Il suo arresto è solo l’ultima presa di posizione di un governo sempre meno democratico che deve fare i conti con la povertà dei suoi cittadini e con le prossime elezioni. "I giovani burundesi sono armati e addestrati dalla Repubblica democratica del Congo". Questa dichiarazione rilasciata durante un programma radio è costata la libertà a Pierre Claver Mbonimpa, 66 anni, storico attivista per i diritti umani e presidente dell’Association pour la protection des droits humains et des personnes détenues, una delle Ong più importanti del Burundi. L’arresto di Mbonimpa è stato aspramente contestato da molti burundesi e da alcune associazioni come Human Rights Watch, che ha pubblicato un video con cui chiede il rilascio immediato dell’attivista. Democrazia allo specchio. Mbonimpa è accusato di mettere in pericolo la sicurezza dello stato per aver denunciato la presenza di una formazione paramilitare nella vicina Rdc costituita da alcuni membri della Lega giovanile del Cndd-Fdd, il primo partito del Burundi cui appartiene anche l’attuale presidente Pierre Nkurunziza. La presenza di gruppi armati, già denunciata da altre organizzazioni, è solo uno dei sintomi della disgregazione politica e sociale di uno stato che deve ancora fare i conti con i fantasmi del passato. A dodici anni dalla fine della guerra civile, il Burundi non è quell’oasi di pace e prosperità che in molti sognavano. Ad esasperare la popolazione contribuiscono due fattori: la corruzione dilagante nella classe politica e il costo esagerato di cibo, acqua e servizi. Amato dai cittadini. In questo scenario è emersa la figura di Mbonimpa, che da anni lotta per la parità di diritti e per migliorare la vita dei detenuti ed è diventato un simbolo di speranza per il paese. Per far pressione sul governo i suoi sostenitori ogni venerdì indossano vestiti verdi, il colore delle divise penitenziarie. Il Green Friday è solo una delle iniziative portate avanti dalla popolazione, iniziative che le istituzioni cercano di ostacolare vietando per esempio manifestazioni pacifiche. Elezioni alle porte. L’arresto dell’attivista è solo l’ultimo atto coercitivo da parte del governo di Bujumbura. A marzo 2014 infatti settanta membri del partito d’opposizione hanno subito un processo di massa durato un solo giorno e senza assistenza legale. Ventuno sono stati condannati all’ergastolo e altri 27 a dieci anni di reclusione. L’ondata di repressione precede l’appuntamento elettorale del 2015, quando il partito al potere vedrà messa in discussione la propria leadership dopo dieci anni di consensi. Ma non è la prima volta che accade. Già nel 2010, in occasione delle elezioni, si sono registrate violenze sfociate anche in omicidi politici e arresti sommari. Ad alimentare le tensioni c’è anche la mancata giustizia per i crimini del passato, infatti molti membri delle forze di sicurezza e della guerriglia che hanno commesso atrocità durante la guerra civile non sono stati ancora chiamati a rispondere delle loro azioni. "Pierre Claver Mbonimpa - afferma Daniel Bekel direttore della sezione Africa di Human Rights Watch - dovrebbe essere considerato una risorsa per il Burundi, non una minaccia. Le autorità burundesi dovrebbero far cadere tutte le accuse contro di lui e liberarlo subito". È questo l’appello di Hrw che si sta battendo per riportare l’attivista in libertà. Secondo l’ong infatti Mbonimpa non è colpevole dei reati di cui è accusato e dovrebbe godere, per l’età e le cagionevoli condizioni di salute, di libertà vigilata: richiesta respinta dal tribunale di Bujumbura. Ucraina: scambio parà russi con prigionieri ucraini, 10 paracadutisti per 63 soldati Ansa, 31 agosto 2014 Dieci paracadutisti per 63 soldati di Kiev fuggiti in Russia. Dieci paracadutisti russi catturati una settimana fa dai militari di Kiev in Ucraina sono rientrati in Russia dopo uno scambio con 63 prigionieri ucraini detenuti da Mosca. Lo scambio, riportano i media russi, è avvenuto oggi all'alba al posto di frontiera di Nekhoteievka. I 63 militari ucraini erano stati fatti prigionieri quando mercoledì sono entrati in territorio russo per sfuggire ai combattimenti nell'est dell'Ucraina fra l'esercito e i ribelli filorussi.