Una storia d’amore "nonostante la galera" Il Mattino di Padova, 25 agosto 2014 La storia di T. inizia con una famiglia dove una bambina vede la madre picchiata dal padre e assorbe da subito quella violenza, e diventa a sua volta violenta e insofferente delle regole. Crescendo, trova "riparo" dalla sofferenza nella droga, e finisce per distruggersi del tutto la vita. E inevitabilmente per lei arriva la galera, perché questo è l’epilogo delle storie che hanno a che fare con la droga: dalla galera non si salva nessuno, anche se tutti continuano a dire che per i tossicodipendenti il carcere non serve, non è la soluzione di nulla. E quella di T. però è una storia anche di speranza, perché T. in carcere durante le ore d’aria è riuscita a conoscere un ragazzo, e lei che viveva "di odio e rabbia" è tornata a sperare in una vita diversa. Ma il carcere di possibilità di aver cura dei propri affetti ne concede ben poche: ecco perché dalla Casa di reclusione di Padova abbiamo lanciato una campagna per "un po’ di amore in più": più telefonate e possibilità di colloqui intimi con i propri cari per le persone detenute, come avviene nelle carceri dei Paesi che davvero possono dirsi civili. E abbiamo chiesto a uomini e donne reclusi di raccontare che cosa significa per loro cercare di "salvare gli affetti" nonostante la galera. Cominciamo allora con la testimonianza di T. Scelte che rovinano, scelte che ridanno la voglia di vivere, di T. S. Sangue. Ognuno penso abbia il suo primo ricordo dell’infanzia. Il sangue è il mio. Ricordo solo tanto fracasso, oggetti che andavano ad infrangersi contro i muri, poi il silenzio. Mia madre teneva le mani premute contro la bocca, mio padre aveva lo sguardo perso ma consapevole di chi l’aveva fatta grossa, la pozza rossa si allargava ai piedi della "donna ferita", ma si notava qualcosa di bianco sparso qua e la, gli occhi di una bambina spaventata non avevano capito che a causa dell’ultimo colpo che aveva subito la madre non aveva più i denti davanti. Io sono scappata nel letto ad abbracciare il mio fedele orsacchiotto, ero troppo piccola per poter intervenire, per fare qualcosa. Mia madre mi è venuta dietro sicuramente, era più preoccupata per me che per la sua bocca, si è buttata tra le mie braccia, vedevo il sangue scorrermi addosso e mi ricordo che pensai che ormai anche le sue lacrime fossero diventate di sangue. Arrivò anche mio padre, piangeva anche lui e in ginocchio abbracciò le "sue donne"… Proprio un bel quadretto di una famiglia distrutta. Quello che succede dentro le mura domestiche, la violenza che i bambini sono costretti a "mangiare" e le donne a subire rimane quasi sempre lì, i panni sporchi si lavano in casa a meno che non scappi il morto o meglio la morta. La mia è una storia come tante, anzi sicuramente c’è chi ne ha passate peggio di me, ma io voglio raccontare di me e spero di non annoiare ma soprattutto di non subire giudizi per la scelta sbagliata che quella bambina ha fatto tanti anni fa. La violenza avrebbe dovuto spaventarmi, contrariarmi, avrei dovuto capire bene il grosso sbaglio di mio padre, ma non andò così. Lui ripeteva sempre che a lavare la testa all’asino si perde acqua e sapone, che in parole povere per me significava che se le persone non capiscono è inutile perdere tempo, mazzate e basta. A scuola un putiferio, quella povera donna di mia madre veniva convocata di continuo, per me le regole le dettavo io ed era all’ordine del giorno aspettare qualcuno fuori per mandarlo a casa fracassato di botte. In quartiere non era diverso, risse, sempre risse, anzi i più piccoli venivano picchiati spesso dai "vecchi", dovevano farsi le ossa. Alla faccia della spina dorsale, siamo arrivati quasi tutti a finire di fracassarci nell’eroina. I miei quando avevo diciott’anni si sono lasciati, altro che trauma, per me è stata una liberazione, la guerra era finita e così sembrava, ma nessuno ne è uscito vincitore, per tutti e tre è rimasto il sapore amaro della sconfitta, perché nessuno è stato in grado di avere un briciolo di obiettività, nessuno è riuscito a prendere le redini in mano. Mia madre era piena di rancore, mio padre pensava per sé e io, io che ero l’unica che poteva cambiare e cercare di cambiare le cose, mi sono caricata solo di rabbia e frustrazione che ho riversato contro me stessa, contro il mio corpo. Pastiglie, ecstasy, cocaina e discoteca, poi anoressia e bulimia. Una sera ero in giro per il quartiere e non si trovava niente di niente, ho incontrato un tossico, uno "sbusino" come chiamavo io quei reietti che si bucavano. Non sputare in cielo che in faccia ti torna, ho cominciato anche a bucarmi, sono diventata una "sbusina" anch’io. Per raccontare tutto quello che è successo in 14 anni di tossicodipendenza dovrei scrivere un libro, potrei far "sbregare" dal ridere ma sono sicura anche commuovere, noi drogati siamo vittime ma anche carnefici. Adesso sono in carcere a scontare i miei errori e oggi, visto che sono anche in isolamento, visto che le regole le schifo anche qua, mi sono messa a riflettere con la mia amica penna. Ho parlato del mio passato forse per non pensare a quanto mi spaventava il futuro. In questo posto dimenticato da Dio, ma anche dalla Giustizia, perché chi non si piega se la deve fare da solo, è successo un miracolo. Io che vivevo di odio e rabbia sono crollata davanti all’uomo che ho sempre sognato, che non pensavo mai e poi mai di poter incontrare, e invece mi sono, ci siamo innamorati davvero. Viviamo allo stesso numero civico, ci possiamo vedere e parlare poche ore all’aria e nella mia vita non ho mai sentito così vivo dentro di me il bisogno di un piccolo contatto. Siamo esseri umani e ci viene negata la possibilità di scambiarci una carezza, di appoggiare le labbra sulla bocca della persona che ami e che sarà il tuo sposo, per vederci dovremo mettere una firma qua, dicono che è squallido ma io me ne frego e penso solo al giorno che dirò: "Si, lo voglio!" davanti a nostro Signore. Stavo precipitando, Dio mi ha dato gli occhi per scovare una rosa nel deserto. Però ogni giorno ci troviamo davanti sempre ostacoli. Sembra che il destino stia facendo di tutto pur di dividerci. Renzo e Lucia delle Patrie Galere! Ma come per loro, anche dopo mille peripezie, la storia avrà un lieto fine. Per me lui è come se fosse già mio marito e nessuno in terra può dividere chi è unito in cielo. La vita mi ha insegnato che non succede un male che non ci sia anche del bene, basta avere la pazienza e il coraggio, anche mentre pensi che sia finita, di aprire il tuo cuore. Dopo una vita di scelte sbagliate di droga e galera, adesso sto facendo la scelta giusta. Bambini già ce ne sono e magari ce ne saranno altri che vivranno l’avventura che è crescere nell’amore, nella dolcezza e nella sicurezza che due genitori che si amano possono infondere. Ornella, che è mia amica, mi ha sempre detto di smettere di essere dura con me stessa, di darmi una possibilità. Spero sia felice per me. Giustizia: un milione e 200mila cause da Inps e Poste ingolfano i tribunali civili del Paese di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 agosto 2014 L’Italia spende per il funzionamento dei tribunali 25 euro pro capite in meno della Germania, che ha un terzo delle liti. Tutti a ripetere che è indispensabile colmare con la Germania lo spread dei tempi dei processi, e non soltanto lo spread economico tra Bund e Bot: sacrosanto, salvo l’amnesia che la Germania, pur con un carico di liti tre volte e mezzo inferiore all’Italia, spende per il funzionamento di tribunali e procure l’enormità di 25 euro pro capite più dell’Italia. O che alla mancanza in organico di ben 8.000 cancellieri (meno 18% di media, con punte reali del 30% in molti uffici operativi del Centro e Nord Italia), la riforma ministeriale in cantiere per il 29 agosto può promettere al massimo il reclutamento da altre amministrazioni di 150 unità. O che l’obbligo di fatturazione elettronica dal primo luglio è stato un grande progresso, ma da allora (e pare almeno sino a metà settembre) sta paradossalmente bloccando nei tribunali tutte le liquidazioni perché, in un rimpallo tra ministero della Giustizia e dell’Economia, tarda a essere rilasciato agli uffici giudiziari l’apposito aggiornamento software. Sono amnesie comprensibili, retaggi e riflessi condizionati speculari ai vecchi tempi in cui per la giustizia si spendeva male e senza nemmeno sapere quanto, a piè di lista, tanto prima anticipavano tutto le Poste Italiane e poi passava lo Stato-Pantalone a saldare i conti fuori bilancio ordinario (823 milioni integrati nel 2004, 375 nel 2005, 403 nel 2006 e ancora 490 nel 2009 per debiti pregressi). Del resto, ancora fino a dieci anni fa passava per profeta dello sbarco dei marziani chi mostrava come le rate di un mutuo in Italia costassero sensibilmente più che in Germania perché le banche italiane incorporavano nel tasso il maggior tempo (triplo) e costo (8% in più) per recuperare in giudizio l’eventuale debito inadempiuto. Oggi invece è ormai patrimonio comune quanto l’inefficienza della giustizia civile zavorri l’economia, azzoppi le imprese sui mercati, penalizzi i consumatori. Ma il patrimonio comune può confinare pericolosamente anche con il luogo comune, specie quello propagandistico che oggi rovina sul nascere qualunque embrione di riforma: la fallace dittatura del "a costo zero", l’illusione che riforme davvero incisive si possano fare gratis, a saldi invariati. Eppure a schivare la trappola di questa nuova forma di pigro conformismo basterebbe constatare come le nuove cause (circa 2,6 milioni) che ogni anno si abbattono sui tribunali - tamponate sulla linea di galleggiamento solo dalla produttività di magistrati e cancellieri che smaltiscono 120/130 cause per 100 che entrano - in un triennio siano diminuite solo del 6% nonostante si sia tentato di risparmiare quasi tutto il risparmiabile: al punto che, dopo le vacche grasse e sprecate, proprio negli anni del massimo sforzo per lanciare il processo civile telematico i fondi per l’informatica giudiziaria di tutta Italia sono gli stessi dell’informatica del solo Comune di Roma, 79,5 milioni, in sensibile discesa dai 92 milioni del 2013, dai 100 del 2012 e dai 124 del 2011, e in picchiata dai 200 milioni del 2001. Per sfoltire la domanda patologica e drogata di giustizia - quella con la quale chi ha torto usa la resistenza in tribunale per allontanare il momento dell’obbligazione e così in sostanza farsi finanziare da chi ha ragione a tassi legali molto più favorevoli che se prendesse in prestito i soldi in banca a condizioni di mercato - si è già reso molto caro il costo d’accesso alla giustizia, settore dove le tasse, a dispetto dei proclami dei vari governi, sono aumentate eccome: il contributo unificato, che si paga per avviare una causa civile, è stato alzato 8 volte in 10 anni, l’ultima in giugno dal decreto legge 69/2014, rispetto al 2004 con incrementi complessivi ad esempio dell’ 80% per gli incidenti stradali seri o per le esecuzioni immobiliari, del 50% per gli sfratti, del 25% per le procedure fallimentari, del 400% per le cause di condominio. Si è già cercato di arginare molto dell’arginabile: la legge 69/2009 ha previsto un "filtro" in Cassazione, la legge 83/2012 qualcosa di analogo in Appello; e prima la legge del 2011 e poi il "decreto del fare" del 2013 hanno introdotto l’obbligo, per chi avvia una causa civile in molte materie, di passare prima da un tentativo di mediazione. La legge 27/2012 ha fatto nascere a livello regionale i "Tribunali delle imprese" per le cause di proprietà intellettuale-concorrenza sleale-antitrust; il decreto legislativo 155/2012 ha razionalizzato gli sprechi di una superata geografia giudiziaria, sopprimendo 30 tribunali e altrettante procure, 220 sedi distaccate e 381 uffici dei giudici di pace; e dal 30 giugno scorso il deposito telematico degli atti in tribunale è diventato obbligatorio per le nuove cause civili, con risparmi stimati di 40 milioni l’anno. Tutte cose utili, e foriere di risultati maggiori in futuro, ma che per definizione non possono fare il miracolo della sparizione dell’arretrato di 5,2 milioni di cause civili fin tanto che non si guarderà dentro alla sua composizione: scoprendo che in parte occorre chiedersi non più soltanto che cosa la giustizia può fare per l’economia, ma anche cosa economia e politica possono fare per la giustizia, in un Paese dove c’è voluto il diktat europeo perché lo Stato facesse una legge per dire che doveva rispettare un’altra legge e pagare in tempi accettabili le imprese che lo riforniscono di beni e servizi. Il caso dell’Inps, quando ha messo il naso nelle proprie cause, è da manuale. Si è accorto di possedere da solo un quinto dell’intero arretrato italiano, 1 milione di cause (e altre 200.000 le hanno le Poste), metà delle quali concentrate in 6 città e il 15% nella sola Foggia: è bastato cominciare a seguirle nel merito perché 17.000 su 140.000 evaporassero da sole, con annesse le loro aspettative di spese legali in misura (incredibilmente) 10 volte superiore alle prestazioni previdenziali in teoria richieste. A ingrossare la settimana scorsa il carico milanese, invece, è arrivato il nugolo di procedimenti e sospensive scaturito dall’erronea cartella esattoriale con la quale Equitalia, dando giustamente ragione a un ente pubblico contro una società morosa, accollava però al subentrato liquidatore della società un debito fiscale di ben 1,6 milioni di euro, che non era suo ma ovviamente dell’azienda. E se a Lecce le liti tributarie sono schizzate in un anno da mille a 8.400 è perché sulla revisione delle rendite catastali il Comune prima ha preso una linea mandando 60.000 avvisi, e poi però dopo l’introduzione dell’Imu ci ha ripensato e ha fatto dietrofront in un ingorgo di ricorsi e controricorsi dei cittadini. Pasti gratis, insomma, non ci saranno neanche per i riformatori dei tribunali. Tribunali che anzi, nella insufficienza del budget statale gestito dal ministero, hanno ormai anche una pressoché sconosciuta peculiarità tutta italiana. Sono infatti gli unici in Europa dove non magari qualche stagista (come avviene pure in altri Paesi), ma proprio il funzionamento quotidiano è stabilmente finanziato dall’esterno: Ordini degli Avvocati che hanno messo mano al portafoglio in maniera decisiva per il processo civile telematico, enti locali che prestano personale agli uffici giudiziari in debito di cancellieri, banche che regalano risme di carta e cartucce di toner, Camere di Commercio e Fondazioni e Università che si fanno partner di progetti mirati, eventi internazionali che come Expo 2015 vengono sfruttati per dirottare in qualche modo soldi (ad esempio 16 milioni in 4 anni a Milano) sui servizi giudiziari. Eppure la giustizia sarebbe seduta su un tesoro con il quale potrebbe autofinanziarsi: 500 milioni di pene o sanzioni pecuniarie l’anno e 140 milioni di condanne al pagamento di spese processuali, calcolò la "Commissione Greco" nel 2007, come dire 6/7 miliardi in un decennio. Ma più del 10% si continua a non riuscire a riscuotere, e anche il Fondo unico giustizia, nato apposta per far fruttare il mare di sequestri e depositi altrimenti parcheggiati inutilmente, alla giustizia ha distribuito molto meno del previsto (79 milioni nel 2010 e 112 nel 2012) perché lo Stato ha in più occasioni preferito usare il Fug come un bancomat per altre necessità di bilancio: tutte serie (dai progetti di assistenza alle vittime di violenza sessuale al fondo di solidarietà per le vittime di reati in occasione di eventi sportivi) ma non direttamente attinenti al miglioramento dell’efficienza degli uffici giudiziari. Giustizia: Cicchitto (Ncd): affrontare i "nodi" di intercettazioni e custodia cautelare La Presse, 25 agosto 2014 "Riteniamo che, ferme rimanendo le intese raggiunte sulla giustizia civile, per quello che riguarda la giustizia penale, se si vuol parlare di riforma e non di provvedimenti cosi minimalistici o addirittura peggiorativi della legislazione attuale, devono essere prese di petto due questioni: quella che riguarda la custodia cautelare e quella che attiene alle intercettazioni". Così il deputato Ncd Fabrizio Cicchitto. "Se la prossima riforma non si misurerà con questi due nodi e magari punterà a misure peggiorative per ciò riguarda la prescrizione e il falso in bilancio - aggiunge - ci troveremo di fronte o a un provvedimento del tutto formale o addirittura a una controriforma". Cicchitto fa riferimento all’intervista a "Il Mattino" rilasciata in carcere da Nicola Cosentino: "È molto inquietante e solleva problemi di grande rilievo - spiega - In primo luogo quello del ruolo di pentiti che o cadono in contraddizione o "aggiustano" le loro deposizione sulla base di quello che pensano possa essere più gradito ai magistrati inquirenti da cui essi dipendono in tutto e per tutto; in secondo luogo per quello che riguarda l’estensione in termini francamente inaccettabili che ha assunto l’istituto della custodia cautelare; in terzo luogo la connessione tra quest’ultima e la valutazione del tutto soggettiva ed arbitraria della qualità di uomo politico tuttora titolare di grande influenza". "Siamo come è evidente - conclude - sul terreno della arbitrarietà più assoluta. Al di là di tutto ciò, per molti aspetti il ricorso alla custodia cautelare realizzato al di là delle suoi tre requisiti specifici, ha nel caso di Cosentino ma anche di molti altri casi il senso di marcare comunque una sentenza anticipata". Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la chiusura che non arriva mai di Giacomo Galeazzi La Stampa, 25 agosto 2014 Dovevano sparire nel 2013,ma l’ennesimo rinvio li tiene aperti fino al 2015. In Italia non c’è nulla di più duraturo dell’interim", sosteneva il senatore a vita Giulio Andreotti. A dargli tragicamente ragione sulla reiterazione italiana del provvisorio è la proroga continua nella chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Dovevano scomparire nel 2013, poi da un rinvio all’altro, il termine è slittato al 2015. E così, malgrado un’inchiesta parlamentare-choc e i fulmini scagliati dal Quirinale sugli ultimi sei manicomi criminali, per gli "ergastolani bianchi" le porte dell’internamento restano sbarrate. Non sono ancora pronte le strutture "sostitutive" per i 1.051 "ospiti". Quand’era al Senato, da presidente della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, l’attuale sindaco di Roma, Ignazio Marino ha visto l’inferno dietro quelle sbarre. La mappa dell’orrore include Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Aversa, Secondigliano. Un’inchiesta che prima dell’orrore degli Opg ha portato alla luce anche scandali come quello di alcune cliniche psichiatriche in Abruzzo dove i degenti venivano lasciati a vivere in condizioni disumane: nei giorni scorsi il gip di Chieti, Antonella Redaelli, ne ha rinviato a giudizio i responsabili. Ogni ispezione per Marino è stata una ferita. "Nel caso dell’inchiesta a Chieti, ricordo la prima volta che ho messo piede in una di quelle strutture: le suole delle scarpe si appiccicavano al pavimento coperto di urina – racconta. Quando si parla di Opg, invece, dobbiamo tener presente che la legge Basaglia ha eliminato i manicomi nel 1978. Ma le regioni non sono ancora in grado di far funzionare delle strutture sanitarie degne di questo nome che sostituiscano i manicomi criminali". E ciò malgrado le regioni abbiano a disposizione, grazie a una legge approvata nel 2012, un fondo da 180milioni di euro per le opere strutturali e 55milioni all’anno per la spesa corrente. Per questo rimangono in funzione strutture fatiscenti che, come Barcellona Pozzo di Gotto, dipendono dal ministero di Giustizia, e nelle quali sono recluse persone incapaci di intendere e di volere che hanno compiuto reati per cui non vengono mandati in carcere, bensì in centri che dovrebbero essere riabilitativi ma in realtà sono veri e propri lager fetidi e degradati. Gli internati non ricevono cure adeguate e non hanno accesso a un ambiente ospedaliero: non guariscono e si trasformano lentamente in prigionieri a vita. "Nel reparto di contenzione a Barcellona Pozzo di Gotto in una stanza angusta c’erano tre letti di contenzione, di cui uno di ferro arrugginito con un buco al centro per il passaggio di feci e urine - spiega Marino. Lì ho visto un paziente legato mani e piedi con le garze, immobilizzato a letto da cinque giorni". Ad Aversa "gli internati tenevano dentro i bagni alla turca le bottiglie d’acqua per raffreddarle d’estate non avendo i frigoriferi". Sempre ad Aversa materassi intrisi di feci e ambienti maleodoranti dove un ospite imprigionato in un bugigattolo senza luce domanda a Marino: "Per i cavalli c’è una legge che punisce chi li rinchiude in pochi metri, perché non c’è per gli uomini?". Di proroga in proroga i "dimenticati dal mondo" stanno lì anche 30-35 anni, in ex caserme inaugurate negli anni Trenta dal Guardasigilli del regime, Alfredo Rocco. Ogni sei mesi con il "copia e incolla" nei loro documenti vengono confermate le ragioni giuridiche per trattenerli negli ospedali psichiatrici giudiziari. "Ho letto centinaia di motivazioni, sono tutte uguali", assicura Marino. E così a Barcellona Pozzo di Gotto un incensurato di Catania è recluso dal 1992 per aver rubato 7mila lire in un bar: "Attraverso la giacca ho fatto il gesto della rapina, come se avessi in mano la pistola, i miei amici li hanno lasciati uscire con la condizionale, a me hanno dato l’infermità mentale e sono qui da 22 anni". Un "autentico orrore indegno di un paese appena civile": così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, definiva queste strutture nel discorso di fine anno del 2012.Lo scorso aprile, il capo dello Stato ha espresso nuovamente "rammarico" per aver dovuto firmare il decreto che prevede lo slittamento della chiusura dei sei Opg attivi a livello nazionale dal 2014, come previsto dalla legge, al 2015.Eanche due sentenze della Consulta hanno stabilito che è "necessario" superare gli Opg. Per sempre. Giustizia: ex internato Opg "ci ho passato 2 anni infernali, mi ha salvato il giardinaggio" di Caterina Clerici La Stampa, 25 agosto 2014 Gaetano, ex rinchiuso ad Aversa: "Ai più "inguacchiati" fanno le punture". "Il giorno in cui ci sono entrato ero spaventato, non sapevo che cosa aspettarmi. Ero passato davanti al manicomio tante volte, quando ancora lavoravo per un’impresa di pulizie della zona. Ma non avrei mai immaginato che tra i pazzi ci sarei finito anche io". Gaetano P. parla in modo concitato, ansioso di raccontare la propria storia. È la storia di una vita vissuta in modo "normale" fino ai quarant’anni, nonostante quel disturbo bipolare che gli era stato diagnosticato, fatta di un lavoro più o meno costante, una moglie e due figli piccoli. Poi con la fine di un amore è precipitato tutto: la malattia di Gaetano si è aggravata, lui ha smesso di seguire regolarmente la terapia e spesso nei momenti più bui i servizi non erano lì ad ascoltarlo. Ed è così che dai litigi in famiglia culminati in piccoli reati e denunce si è ritrovato sulla soglia dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa. "Era l’inferno dantesco. Gente che urlava, piangeva.. Lì sapete cosa ci facevano a quelli più "inguacchiati" - chiede, usando un termine napoletano per indicare così gli internati più agitati. Se non stavano bene gli infermieri prendevano una siringa, facevano loro una puntura e poi li ributtavano dentro. Altro che "casa di cura e custodia", come la chiamano". I due anni e quattro mesi che Gaetano ha passato all’Opg di Aversa, dal febbraio 2010 al giugno 2012, sono pochi rispetto ai decenni che alcuni suoi compagni di cella hanno dovuto scontare per crimini ancora minori di quelli commessi da lui. Per anni infatti la norma è stata che sentenze di un paio d’anni si tramutassero in quegli "ergastoli bianchi" che, per chi soffre di un disturbo mentale ed è stato prosciolto - ovvero dichiarato incapace di intendere e di volere al momento del reato e di conseguenza non destinato al carcere - non possono che rendere ancora più pesante il fardello della malattia. "Io facevo teatro e giardinaggio e queste attività mi hanno salvato, erano gli unici momenti in cui riuscivo a pensare ad altro e a svuotare la mente. Se non sai prendere le misure e capire come fare per sopravvivere, in Opg rischi di restarci per sempre", racconta. E aggiunge: "Io andavo sempre in tribunale quando il magistrato di sorveglianza mi chiamava per il riesame del mio caso, ma tanta gente lo saltava senza saperlo, prendendo proroghe di anno in anno". Pur essendo uscito da Aversa, anche per Gaetano la libertà è ancora lontana. "Abbiamo cominciato a progettare il suo ritorno a casa, ma è necessario attivare una rete di servizi sul territorio che sia pronta ad accoglierlo al suo rientro", spiega Valentina De Filpo, psicologa della comunità alloggio "Si può fare", una struttura protetta situata in provincia di Salerno dove ora Gaetano risiede, insieme a una decina di altri ex-internati seguiti con la collaborazione della Asl di Salerno. "Questi sono pazienti che possono riacquistare le loro capacità di funzionamento ma avranno bisogno di sostegno e dei servizi locali. Bisogna far sì che abbiano dei punti di riferimento saldi, come un lavoro e un rapporto con i centri di igiene mentale, oltre che ristabilire i legami con le famiglie". E aggiunge: "Finché questo non succederà gli Opg non chiuderanno mai veramente". Lettere: il carcere Due Palazzi ha anche eccellenze dal Gruppo Operatori Carcerari Volontari Il Mattino di Padova, 25 agosto 2014 Il gruppo operatori carcerari volontari, quotidianamente presente nelle carceri cittadine per fare opera di ascolto e di sostegno morale e materiale alle persone detenute, esprime piena solidarietà a tutti coloro che a diverso titolo spendono la loro professionalità e il loro impegno per il buon funzionamento e l`umanizzazione di una istituzione complessa, oggi turbata dai recenti lutti e gravissimi atti di corruzione, all’emergere dei quali la polizia penitenziaria ha dato un importante contributo. Quanto è successo in questo ultimo periodo deve aprire spazi di riflessione ma non di affrettato e disinformato giudizio sull’istituzione e sulle persone che vi operano. Il nostro carcere cittadino vanta comunque alcune eccellenze come il Polo universitario, la cooperativa Giotto, lo sportello giuridico, laboratori di informazione e di creatività, ed è su queste realtà frutto di un importante lavoro di rete e di solidarietà sociale e civile che dobbiamo concentrare la nostra attenzione e il nostro impegno per contribuire a favorire il recupero di chi ha commesso degli errori. Sardegna: nei nuovi penitenziari… tra speranze e tensioni di Pier Giorgio Pinna La Nuova Sardegna, 25 agosto 2014 Successione di chiusure e aperture: tanti ostacoli e qualche aspetto positivo. I sindacati: "Organici e mezzi carenti, guidiamo una Ferrari senza benzina". Dove sono ripiegate le ali della libertà restano aperte tante speranze e mille tensioni. È quel che succede in Sardegna nel pianeta carceri. Un mondo in trasformazione accelerata. Tre case di reclusione destinate alle chiusura: Buoncammino, Iglesias, Macomer (ma per le ultime due si tratta ancora in extremis). Altre, nuovissime, quasi pronte. Come Uta, alle porte di Cagliari. Che seguirà a ruota Bancali (a Sassari) e Nuchis, vicino a Tempio, da oltre un anno già operative. Le prime accoglieranno da settembre- ottobre 184 mafiosi e camorristi. La terza ospita detenuti "ad alta sicurezza". Is Arenas, Mamone, Isili rimarranno colonie penali. E ovunque non mancheranno novità alla luce della mini-riforma nazionale alle porte. Nel frattempo non mancano le proteste. Clamorosa quella culminata con un sit-in l’11 agosto a Macomer. Tutto il Marghine in campo contro la chiusura del suo carcere. Mobilitati i sindaci di dieci paese, da Sindia a Bolotana. Consigli comunali convocati in piazza a Bonu Trau, proprio di fronte all’istituto in dismissione. "Ma le operazioni verranno per il momento rallentate, così come a Iglesias", assicura la giunta Regionale. Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ricevuto una delegazione guidata da Francesco Pigliaru e formata dai deputati Francesco Sanna, Roberto Capelli, oltre che dai senatori Luigi Manconi, Silvio Lai e Giuseppe Cucca. Il Guardasigilli si sarebbe impegnato a riconoscere la decisione, "tenendo conto delle nuove informazioni ricevute, ma anche dell’importanza di mantenere in quei due centri la presenza dello Stato". Col ministro è stato inoltre avviato un confronto su temi più generali del sistema carcerario nell’isola. Un quadro sempre più in rapida evoluzione, dunque. Dimenticati per sempre San Sebastiano e l’Asinara, la Sardegna spalanca le porte a una rivoluzione. Rivoluzione che suscita attese, certo. Ma che fa sorgere interrogativi. Spinge a riflettere su disagi, ostacoli, imprevisti. E per quel che riguarda l’edilizia s’incrocia soltanto sul fronte dei tempi col recente piano straordinario varato a Roma. Nell’isola gli interventi programmati affondano infatti le radici in misure antecedenti: le stesse che hanno visto in campo imprenditori come Diego Anemone, coinvolto nello scandalo G8, e protagonisti del tutto diversi all’interno del Dap (nella capitale il dipartimento è attraversato da un’inchiesta giudiziaria circoscritta ad altre zone d’Italia). Dice il vicesegretario regionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Libero Russo: "I nostri organici sono insufficienti rispetto alle esigenze. Nei vecchi istituti si aggiungono i problemi di manutenzione, nei nuovi quelli del mancato avvio d’infrastrutture chiave. In questo modo non ci si può chiedere di sopperire a ogni situazione di oggettiva difficoltà solamente con la "vigilanza dinamica", come la chiamano adesso. Occorrono più uomini. E più mezzi". Negli ultimi mesi si sono succeduti tanti episodi di autolesionismo, soprattutto fra i tossicodipendenti. Seguiti da suicidi sventati proprio dalla polizia penitenziaria. E aggressioni di agenti. O risse tra reclusi. Ancora manca l’accesso a statistiche pubbliche che segnalino un possibile aggravarsi del quadro nell’isola. Ma non è detto che sia così: forse questi fenomeni sono persino in calo. Ma - come ricorda in modo indiretto Marco Pannella con le sue clamorose proteste su scala nazionale - nel complesso non c’è da stare sereni. "In favore di chi è in cella ci sono di certo buone iniziative in atto: un caso per tutti è quello di Badu e Carros - ricorda l’avvocato Gabriele Satta, della Camera penale Enzo Tortora di Sassari. Ma spesso i detenuti, oltre che di condizioni migliori, hanno necessità di attività istruttive o ricreative: e non sempre trovano risposte". "Emblematica - continua il legale - la faccenda del campo sportivo a Bancali: dopo un primo finanziamento di cui non si è più saputo nulla, pare che adesso siano stati trovati i soldi per finirlo, ma i lavori non sono neanche cominciati". "Ovunque, poi, la carenza di organico tra gli educatori causa blocchi istruttori nello smaltimento delle pratiche: nessuna cattiva volontà da parte di chicchessia, però alla fine ne pagano le conseguenze le persone in attesa delle "relazioni di sintesi" per il lavoro all’esterno o per un permesso", afferma in definitiva l’avvocato Gabriele Satta. Francesco Piras, segretario per la Sardegna della Uil Penitenziari, avverte: "Le tecnologie nelle nuove carceri rimangono il frutto di logiche dipartimentali slegate dalla realtà concreta. Non si possono tenere in piedi simili strutture con carenze di personale a tutti i livelli. Mancano agenti. E mancano anche direttori, educatori, assistenti sociali. Per non parlare dei mezzi. Si fatica a reperire risorse addirittura per le cose più elementari. E così ci troviamo a guidare una Ferrari senza benzina". Chi vive il mondo del carcere ne conosce a fondo le criticità. "Criticità nascoste - sottolinea Piras - col presentare all’opinione pubblica l’immagine di un sistema all’avanguardia, che al contrario stenta invece a decollare. Nessuno ha affrontato in maniera seria quest’argomento, analizzando tutto ciò che ruota attorno ai diversi istituti. E la classe politica non si è mai interessata alle opportunità e alle ricadute che queste presenze comportano". Costituito da stranieri il 30 per cento dei reclusi Da chi è formata l’attuale popolazione carceraria? Al contrario di ciò che si pensa - dicono gli esperti - "il numero dei sardi che delinque è inferiore alle medie nazionali". Quindi la gran parte può scontare - e di fatto sconta - la pena vicino a casa. La capienza offre però quasi il doppio dei posti. Ed è perciò che si fa spazio di alter zone d’Italia, a tantissimi immigrati che magari chiedono di lavorare a Mamone o a Is Arenas e, un domani, ai 184 pericolosi criminali al 41 bis che saranno divisi tra Uta e Bancali. Gli stranieri rappresentano quasi il 30 per cento del totale. Mentre sono all’incirca 300 su poco meno di 2000 i detenuti in attesa di giudizio. Tra i reati prevalgono quelli collegabili al mondo della droga. in prevalenza, si parla di crimini "contro il patrimonio, la persona e la famiglia". A tutt’oggi solo un caso interessa l’economia pubblica: in definitiva, se cercate colletti bianchi in cella non li troverete neppure nell’isola. Sardegna: il magistrato Lo Curto "rischio infiltrazioni con lo sbarco dei mafiosi al 41 bis" di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 25 agosto 2014 "Lo sbarco in Sardegna di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario ripropone il pericolo d’infiltrazioni mafiose". Il magistrato Claudio Lo Curto è preoccupato. Da avvocato generale della Repubblica ha il compito di vigilare sulle carceri nel centro-nord dell’isola. Così l’imminente sbarco di questi reclusi ad alto rischio, quasi 200 da distribuire tra Bancali e Uta forse già dal prossimo autunno, lo spinge a sollecitare contromisure. Perché questi timori? "Con i trasferimenti ci sarà un pellegrinaggio, inevitabile e costante, di parenti, affini e accompagnatori per visitare i detenuti. Con la necessità di reperire alloggi in insediamenti abitativi vicini alle carceri. Situazione che verrà usata in modo strumentale per obiettivi antitetici a finalità di carattere umanitario: e cioè il perseguimento d’interessi criminali attraverso il controllo di vaste aree del territorio secondo collaudate metodiche delinquenziali". Da che cosa trae questa convinzione? "Dall’esperienza professionale. In passato ho fatto il giudice istruttore in Sicilia. Mi sono così occupato di processi nei confronti di organizzazioni mafiose. E tutto questo oggi mi porta a ritenere che si assisterà a un fenomeno analogo a quello parallelo venuto alla luce quando esponenti di grosso spessore criminale venivano mandati in soggiorno obbligato". Dove? "Per esempio, in Lombardia: là posso citare, per tutti, le famiglie Carollo, Gaetano Fidanzati e Bono. Mentre in Toscana è stato il caso dei Milazzo e dei Melodia. Ma si potrebbe continuare. Accadeva che i familiari del sorvegliato lo raggiungevano nel luogo assegnato e vi si stabilivano, finendo per condizionare l’ambiente secondo fini criminali". Per la presenza di reclusi sottoposti al 41 bis che cosa potrebbe invece succedere in Sardegna? "Soprattutto i personaggi che accompagnano i congiunti dei detenuti si dedicheranno al riciclaggio di denaro e ad altre attività illecite. Infatti, una volta terminato il colloquio, potranno trattenersi per svariati giorni - e così a ogni visita - per monitorare il territorio". In che senso? "Potranno magari mascherare i trasferimenti dietro fini turistici: il nord Sardegna si presta bene. E si tratterranno con lo scopo di sondare la permeabilità criminale del territorio, stringere rapporti, pronti a intensificarli con chi ha disponibilità economiche o potere nel settore politico-amministrativo". Quali altri pericoli preoccupanti sono ipotizzabili? "Quegli stessi personaggi, nel medesimo tempo, potranno attivare contatti con titolari di imprese o esercizi in difficoltà. E prospettare non solo un aiuto ingannevole, ma anche la loro protezione. Aiuti di solito rappresentati da ingenti prestiti di capitale con tassi elevatissimi. Che, nonostante possano apparire vantaggiosi nell’immediato, a lungo termine e senza che l’imprenditore ne abbia chiara consapevolezza, proprio a causa della impossibilità di fare fronte alla restituzione, si trasformano in un sistema che porta al trasferimento dell’amministrazione dell’azienda nelle mani della cosca". E poi? "L’azione criminale può estendersi alla pubblica amministrazione nella gestione degli appalti, alla sistematica imposizione di pagamenti di somme di denaro ai commercianti, al controllo del traffico degli stupefacenti". Insomma: prospettive impressionanti… "Che mi fanno venire in mente le parole di Beppe Pisanu, già presidente della commissione parlamentare antimafia". A che proposito? "Come relatore, con me e altri studiosi, in un convegno sulla normativa contro il riciclaggio ha detto: "Anche la Sardegna è a rischio. Peraltro la nostra isola ha già subito intrusioni mafiose, italiane e straniere, sulle quali occorre tenere gli occhi quanto più aperti possibile. La nostra isola è sana, ma non è inviolabile. Guai a noi se sottovalutassimo questi pericoli perché l’insediamento stabile della criminalità organizzata costituirebbe una minaccia permanente alla convivenza civile e un ostacolo enorme al nostro progresso". Che fare, allora? "Queste stesse preoccupazioni sono state evidenziate dal precedente titolare del dicastero di via Arenula. Da ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri ha infatti condiviso come urgente rimedio quello dell’istituzione nel nord della Sardegna di una Procura distrettuale antimafia: conseguenza di diritto della trasformazione a costo zero - e anzi accompagnata da sostanziosi risparmi - della sezione distaccata di Corte a Sassari in autonoma Corte d’appello". Per quale ragione una contromisura del genere potrebbe produrre effetti positivi? "S’impongono interventi di polizia giudiziaria sul territorio: immediati e diretti. È inderogabile che il livello di attenzione investigativa venga innalzato in modo esponenziale. Sono gli unici mezzi in grado di far perdere "a questa gente" ogni speranza di contaminare o compromettere l’equilibrio sociale". Sardegna: il deputato Mauro Pili chiede di bloccare l’arrivo dei boss nel carcere di Uta di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 25 agosto 2014 "Il rischio infiltrazioni mafiose in Sardegna è altissimo. La direzione distrettuale antimafia sta mettendo sotto torchio la Sassari- Olbia con blitz ripetuti sui cantieri, controlli a persone, mezzi e imprese". Ad enunciarlo è il deputato di Unidos, Mauro Pili, che ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, allegando la relazione della Dda sulla Sassari-Olbia e le affermazioni rese dal magistrato Claudio Lo Curto "che ha parlato di rischio altissimo per le infiltrazioni mafiose in Sardegna". "Operazioni interforze - spiega Pili - con cantieri circondati e messi al setaccio in ogni singolo dettaglio. Il primo è avvenuto il 10 ottobre 2013, il secondo a luglio 2014. La relazione semestrale della Dda riporta il primo blitz, con 22 persone controllate, 14 imprese e 27 mezzi sotto torchio. E ora che alti magistrati confermano il gravissimo rischio infiltrazioni mafiose occorre bloccare in tutti i modi lo scellerato piano di fare della Sardegna una cayenna mafiosa con l’arrivo dei più importanti capicosca. Il piano del Dap viene clamorosamente smentito nei suoi effetti da chi conosce bene la situazione. Affermare come hanno fatto i massimi dirigenti del Dap che non c’era nessun pericolo significava coprire la realtà e dichiarare il falso pur di andare avanti con il piano. Il ministro deve imporre un stop immediato a quel piano". Domani Pili farà un sopralluogo nel nuovo carcere di Uta, dove si annunciano lavori - spiega il parlamentare - per ospitare boss di primo livello in precarie condizioni di salute. "La Sassari-Olbia rischia di essere il trampolino di lancio per la presenza della malavita organizzata in Sardegna". Cagliari: 8 anni di lavori per il realizzare nuovo carcere di Uta, forse si apre a settembre di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 25 agosto 2014 Otto anni di lavori e ancora non c’è certezza sull’apertura del nuovo carcere di Uta che dovrà rimpiazzare lo storico Buoncammino di Cagliari. Manca sempre qualcosa per essere un’opera compiuta e quindi utilizzabile. Di rinvio in rinvio, con i lavoratori dell’Ati appaltante lasciati senza stipendio per mesi e infine licenziati, l’imponente struttura vede la sua apertura procrastinata: avrebbe dovuto essere pronta nel 2009, poi nel 2010 e via a seguire fino a giungere al febbraio del 2013 quando era stata data per sicura l’inaugurazione. Mentre si avvicinava il taglio del nastro e i pullman stavano scaldando i motori per il trasferimento dei detenuti, altro rinvio, al febbraio del 2014. Manco a dirlo non se ne è fatto niente e l’appuntamento è adesso per settembre. Ma non sono pochi a storcere il naso, la possibilità che l’inaugurazione slitti è sempre in agguato. Nell’edificio, già nella disponibilità del ministero, sono emerse diverse pecche strutturali. Come i sotterranei allagati per infiltrazioni d’acqua, i muri costruiti per primi già scrostati e con macchie di umidità, i locali per gli uffici e gli educatori non confacenti alle esigenze. Perfino la cappella senza banchi e sedie, ma solo una gradinata in pietra. Adesso tutto sarebbe finalmente a posto, compresa la sezione riservata ai detenuti 41 bis e il centro medico interno. Da Buoncammino, che contestualmente chiuderà in maniera definitiva i battenti per essere poi riqualificato, saranno trasferiti i circa 360 detenuti. L’istituto di Uta è già stato definito il fiore all’occhiello dell’amministrazione carceraria. Quattro piani più quello terra, è costato oltre 80 milioni. Può ospitare 466detenuti nelle sue 13 sezioni, con celle a biposto munite di bagno e doccia e tv a colori. Nelle premesse, un carcere degno di un paese civile. Sassari: la direttrice del nuovo carcere di Bancali "ora ci sono spazi più a misura d’uomo" di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 25 agosto 2014 Le differenze con San Sebastiano, celle aperte dalle 9 alle 19. Il direttore fa il bilancio di un anno e parla delle prospettive. All’ingresso un giovane senegalese pulisce con cura la block-house, punto d’arrivo dei visitatori. Altri due reclusi più anziani, all’interno, tagliano le siepi vicino a oleandri in fiore. Ma i giardini della palazzina che accoglie direzione e uffici attenuano in parte l’effetto choc più generale: altissime mura di cemento che si sviluppano per un’estensione impressionante: 15 ettari sorvegliati da grandi garitte di vetro antiproiettile e acciaio scuro. Il nuovo carcere, a sofisticata tecnologia, si staglia nel verde di Bancali con paurosa imponenza. E segna con le sue mastodontiche strutture questa parte della Nurra, una decina di km a ovest dal centro di Sassari e da San Sebastiano. "Certo, da noi, ci sono spazi più a dimensione umana rispetto all’istituto di via Roma", spiega il direttore, Patrizia Incollu, che fa un bilancio a un anno dal trasferimento. A iniziare, dice, dai sistemi moderni "che attenuano compiti e fatiche del personale", dalle ampie celle da 2-3 posti con bagno e doccia interna e dal "prossimo appalto" per completare il campo di calcio "con 100mila euro appena reperiti". "Nella gran parte delle sezioni le celle restano aperte dalle 9 alle 19 e tutti sono liberi di muoversi da una all’altra o in spazi comuni, anche all’aperto", prosegue Incollu, facendo capire come siano finiti per sempre i tempi dell’ora d’aria. "Non penso ci saranno difficoltà neppure quando arriveranno le persone sottoposte al 41 bis, che un domani saranno sistemate da sole in un’altra ala e gestite dal Gruppo operativo mobile", aggiunge. E per quel che riguarda il lavoro? Quali le possibilità? "Ci sono i detenuti addetti alle pulizie e ai magazzini, abbiamo stipulato un protocollo con l’Ente foreste per innestare piante mediterranee, mentre altri operano nello stagno di Platamona", chiarisce il direttore. Che poi si sofferma sulle prospettive più generali. Per la sezione femminile, che in questa fase conta 13 presenze, progetti per creare altre aree verdi, laboratori artigianali e interventi per partecipare a idee Unicef, servizi per parrucchiere, attività ricreative "Per le sezioni maschili, oltre all’archiviazione dati nello storico istituto di Tramariglio, sempre a Platamona prevediamo l’allargamento del piano per il turismo di passaggio, finora l’unico per detenuti finanziato in Sardegna dalla Fondazione per il Sud - continua Incollu. Ma non vanno dimenticati i corsi per la prima formazione alla sicurezza sul lavoro, quelli per il teatro, le attività motorie e gli altri protocolli con università e Inps". Bari: addio sovraffollamento, il numero dei detenuti calato da 800 a 322 di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 25 agosto 2014 Dal sovraffollamento ad una situazione di assoluta legalità. Perché il sovraffollamento, dopo anni di proteste di detenuti e sindacati, non caratterizza più il carcere di Bari. Almeno per ora. Da un numero di detenuti che nell’estate 2012 toccava la cifra spaventosa di quasi 800 persone a fronte di una capienza di 360 circa, si è passati a 322; in questo modo Bari potrebbe diventare un modello per le altre case circondariali della Puglia. Questo è almeno l’auspicio del direttore Lidia De Leonardis (dal dicembre 2011 alla guida del carcere) che nonostante i disagi e le difficoltà a reperire i fondi per apportare modifiche necessarie all’interno della struttura è riuscita a far "quadrare i conti", grazie anche all’aiuto di Tommaso Minervini, responsabile dell’area educativa. Le condizioni disumane in cui vivevano i carcerati appartengono ormai al passato: non più costretti in nove in una cella e a dormire su letti a castello che sfioravano il soffitto, ma due persone al massimo tre per vano e con uno spazio dignitoso in cui potersi muovere. In un nuovo reportage all’interno della struttura carceraria il Corriere del Mezzogiorno ha verificato i cambiamenti apportati negli ultimi due anni e mezzo. Il miglioramento, in termini di sovraffollamento, è stato possibile grazie anche all’apertura della seconda sezione del penitenziario rimasta chiusa per lavori quasi tre anni. Allo stato attuale è occupata da circa 67 detenuti, ma ne potrebbe contenere molti di più. Varcando il grande cancello che introduce nella seconda sezione si apre un lungo e largo corridoio ai cui lati ci sono grandi stanze che fungono da laboratori, scuole e aule per seminari. In fondo c’è un’area molto ampia dove un gruppo di detenuti, quelli già impegnati in attività lavorative, hanno la possibilità di stare insieme in uno spazio comune. Quando oltrepassiamo quel cancello sono intenti a preparare la cena: riso, patate e cozze. Ognuno ha qualcosa da fare e fino al momento di rientrare in cella possono star insieme a chiacchierare. "Precedentemente quell’area era occupata dalle stanze di isolamento - spiega il direttore De Leonardis - ora invece è diventata un’area comune". Continuando il nostro giro nella seconda sezione e poi anche delle altre abbiamo modo di accertare che nelle celle dove due anni e mezzo fa c’erano fino a dieci detenuti ora ce ne sono due o al massimo tre. A seconda della grandezza delle stanze. Lo spazio dove muoversi è sufficientemente ampio e, in questo caldo pomeriggio di agosto, i detenuti passano il loro tempo a giocare a carte. Altri, coloro che hanno il permesso, sono impegnati nei lavori in un piccolo orticello di pomodori e cetrioli. Il surplus del raccolto viene poi donato alla Caritas. La novità più importante introdotta nel carcere di Bari è lo sportello di mediazione penale. "Mentre la giustizia riparativa fa sì che il detenuto accetti dopo un percorso di reinserimento di prestare il suo tempo in lavori socialmente utili - spiega ancora il direttore - la mediazione penale è invece un passo ulteriore e ancora più evoluto. Prevede che si possa fare un processo di rivisitazione critica del detenuto e della vittima del reato o anche dei parenti di questa facendo in modo che queste due volontà si incontrino". Può capitare dunque che un killer incontri un parente della vittima e che insieme, con l’aiuto degli operatori, possano percorrere lo stesso cammino. Lo sportello a Bari è al momento l’unico in Puglia e lavora con la magistratura di sorveglianza, con il territorio e le istituzioni. Poi, ancora tra i progetti, ci sono le ore dedicate alla scuola, ai laboratori, ai seminari, al cineforum e all’attività sportiva. C’è un corso per arbitri e allenatori di calcio e la direzione del carcere sta portando avanti un progetto (col Garante) per creare una squadra di calcetto professionistica. Nonostante l’impegno del direttore però le criticità non mancano. In alcuni circuiti (i carcerati sono divisi per media e alta sicurezza, per clan e protetti) ci sono ancora piccoli intasamenti. Perché i detenuti di diversi circuiti non devono mai entrare in contatto tra di loro. La vera emergenza è la sezione femminile, unica rimasta allo stato originario dell’edificio di inizio secolo scorso. Tutte le celle hanno il bagno a vista, privo di doccia e di bidet. Situazione umana inaccettabile alla quale va ad aggiungersi la mancanza di acqua calda (laddove nelle quattro sezioni maschili il problema non sussiste); la mancanza di un ascensore per il superamento delle barriere architettoniche e la presenza di pericolosi ballatoi. Qui, in due anni e mezzo, non è cambiato nulla. Avellino: il carcere di Bellizzi Irpino è ancora tra i più affollati d’Italia www.ottopagine.net, 25 agosto 2014 Ieri a Salerno il report con i dati è stato illustrato durante la conferenza stampa del segretario provinciale dei radicali. Avellino - Il carcere di Avellino è uno dei più affollati d’Italia. A denunciarlo a gran voce è stato ieri mattina, nel corso di una conferenza stampa, svoltasi a Salerno, il segretario provinciale dei Radicali Donato Salzano, che ha spiegato nei dettagli lo stato in cui vivono i detenuti rinchiusi nel carcere di Fuorni. Accanto a lui il consigliere regionale Dario Barbirotti e Florinda Mirabile, segretaria dell’associazione Nessuno tocchi caino". La conferenza dei Radicali è servita per presentare il report delle visite ispettive alla Casa Circondariale di Salerno ed Avellino. Dal report percentuali allarmanti di sovraffollamento per il carcere irpino al 125% mentre per quello salernitano si raggiungono numeri serbi con oltre il 140%. I dati nazionali del Ministero della Giustizia in pratica parlano di un tasso di sovraffollamento di circa il 120% che vuol dire che 120 detenuti devono spartirsi lo spazio di 100 posti, dati che vedono l’Italia tra i paesi europei secondi soltanto alla Serbia con il suo 145%. Padova: dal panettone alla cocaina, il doppio volto del carcere "Due Palazzi" di Giuseppe Pietrobelli Il Gazzettino, 25 agosto 2014 Adesso se lo chiedono in tanti, ma senza riuscire a trovare una risposta. Possibile che il carcere di Padova, quello dei panettoni preparati dai detenuti, delle attività di recupero sociale, di tassi elevatissimi di lavoro per i reclusi, sia finito a questo punto? Ovvero, si stia rivelando come una delle strutture italiane più compromesse, dopo che a luglio sei agenti sono stati arrestati (due in carcere, quattro ai domiciliari) per traffici di droga e telefonini? Il Due Palazzi appare come un altro mondo, un paradosso in cemento armato, vetri antiproiettile e sbarre di ferro, un sistema - completamente rovesciato - di massima insicurezza. Perché da quando le prigioni esistono, il problema è che da quelle quattro mura non si possa uscire. Qui, invece, pare che il problema non sia quello di impedire che qualcuno fugga, bensì di evitare che qualcosa entri. La struttura progettata e realizzata per vanificare le evasioni, appare impotente di fronte alle importazioni illegali. Per non essere generici: droga sotto forma di hashish, eroina, cocaina e metadone, strumenti elettronici di comunicazione come telefonini, carte sim, chiavette usb, palmari, nonché video a "luci rosse" per passare piacevolmente il tempo che, dietro le sbarre, scorre più lentamente che altrove. "Non mi ero accorto di nulla, altrimenti sarei intervenuto" è quello che ripete il direttore Salvatore Pirruccio, che ha messo a verbale le stesse parole, quando è stato interrogato come persona informata dei fatti dal pubblico ministero Sergio Dini. E ha tirato in ballo la mancanza di personale, visto che i reclusi sono circa 800 (al sesto posto in Italia per sovraffollamento, con un indice del 188 per cento rispetto ai posti previsti). Le guardie sono 300. Il Due Palazzi è come una piccola città in continua mutazione, dove può avvenire di tutto. Il direttore preferisce concentrarsi sul presente: "È passato un mese e mezzo dagli arresti, poi ci sono stati i due suicidi... adesso ci stiamo riprendendo dallo sconforto". "Questa è una polveriera che esplode ogni giorno. Ma le istituzioni non se ne vogliono rendere conto. Il clima è teso, il personale è allo sbando, bisogna recuperare tranquillità nel lavoro" accusa Gianpietro Pegoraro, responsabile del sindacato Funzione Pubblica della Cgil. E punta il dito contro l’amministrazione. "Il Nordest ha un provveditore pro-tempore, che viene dal Piemonte per pochi giorni alla settimana, manca così una figura di controllo a livello regionale. Anche per questo non si è capito quello che stava accadendo". Parla di un "clima di sospetto", di "un lavoro che è come un inferno", anche alla luce dei due suicidi recenti e legati all’inchiesta. A fine luglio il detenuto Giovanni Pucci che voleva uscire dal "giro" di rifornimento interno era stato minacciato e picchiato, ma dopo averlo raccontato al magistrato tirando in ballo un paio di agenti, si è impiccato con i lacci delle scarpe. Dieci giorni fa la guardia Paolo Giordano, ai domiciliari nell’appartamento di servizio, si è tagliato la gola con una lametta da barba. "Noi poliziotti penitenziari ci rendiamo conto di essere i più esposti in quanto catalizzatori di tutti i problemi dei detenuti. Siamo il primo soccorso quando accade qualcosa. È per questo che abbiamo chiesto di avere gruppi di ascolto, l’aiuto al personale da parte di specialisti" continua Pegoraro. E adesso il sindacato cerca anche di coinvolgere i parlamentari. "Abbiamo scritto loro dicendo che vengano a trovarci, a rassicurare il personale sano. E adesso scriveremo anche al ministro della Giustizia perché venga a Padova e renda merito a chi lavora onestamente. Se ci sono le mele malate vanno scoperte e punite, ma non si criminalizzi il corpo degli agenti". I segnali di malessere interno, per la verità, erano emersi qualche mese fa. "Dopo averli incontrati a Mestre a maggio, mi sono fatto portatore al Senato di un incontro tra i rappresentanti delle carceri del Triveneto e il reggente della Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria, partendo dai problemi della casa di reclusione di Padova" spiega il senatore Felice Casson del Pd. "C’era anche il sottosegretario Cosimo Ferri e dagli agenti è venuta la richiesta di poter contare su assistenti sociali e psicologi, che sono in numero assolutamente irrilevante, considerate anche le tensioni interne". "Ma Padova per certi aspetti è anche un’isola felice, se pensiamo alle molte possibilità di lavoro interno al Due Palazzi. Il carcere è anche un sistema sociale, e a Padova la rete sociale esiste - fanno sapere dalla sede del Dipartimento, in piazza Castello a Padova. E siamo molto impegnati nell’attuazione della riforma, con le porte delle celle che restano aperte per otto ore al giorno, per garantire lo spazio vitale ai detenuti, che prima restavano chiusi tutto il giorno". Eppure la Procura ha acceso un faro per capire quanta droga sia circolata negli ultimi anni in carcere, chiedendo copia di tutte le denunce inoltrate dall’amministrazione. Saranno anche riesumate le cartelle cliniche relative ai casi di overdose. Dovevano essere tutti segnali d’allarme che evidentemente sono stati sottovalutati. Se una popolazione carceraria è composta dal 30 per cento di tossicomani, a cui si aggiungono gli spacciatori, è evidente che il mercato della droga esiste, anche dietro le sbarre. Il sospetto (come in parte sta dimostrando l’inchiesta) è che siano parecchi gli agenti dediti agli stupefacenti. E questo li rende potenziali fornitori ai detenuti che chiedono droga. Difficile capire quanti sono. "Il fenomeno è diffuso in tutti i corpi di Polizia" avverte il sindacalista Pegoraro. Perché a Padova sono stati scoperti dopo che trafficavano da tempo? "Facevano tutto in sordina, erano molto accorti, formavano sempre la solita squadretta, si coprivano a vicenda" risponde un agente che vuole mantenere l’anonimato. Capire se una guardia si droga è quasi impossibile, se non si fa pizzicare all’esterno mentre compera la "roba". In carcere i medici si occupano solo dei detenuti, non degli agenti. È l’unico Corpo di Polizia sprovvisto del servizio. E così, dopo la prima visita che precede l’arruolamento, non vengono più controllati. Un vuoto normativo molto grave, perché gli agenti di custodia sono a contatto con una popolazione pronta a tutto e perché ognuno di loro porta la pistola d’ordinanza. Da poche settimane sulla poltrona di sindaco, il leghista Massimo Bitonci non vuole guardare al carcere come a una realtà separata. "A parte il fatto che anche qui come in tutte le carceri del Nord l’incidenza dei detenuti extracomunitari è altissima, il Due Palazzi si è sempre distinto per la capacità di far arrivare lavoro all’interno, grazie all’impegno di tanta brava gente". Un modello in crisi? "La possibilità di lavorare, di trovare un’attività, di acquisire una professionalità vera per quando si esce, va estesa a tutte le prigioni italiane. E il Comune di Padova non è contrario a forme di collaborazione, anche lavorativa, che punti allo rieducazione". Lecce: "Made in Carcere", studentesse universitarie della Luiss e detenute fanno impresa di Antonio Sgobba Corriere della Sera, 25 agosto 2014 "Sa perché il nostro simbolo è una lavatrice? Perché quando esci di qui non sei più lo stesso di prima. Vale per le detenute che lavorano con noi e vale per le ragazze che dall’università vengono qui a fare volontariato". Luciana Delle Donne, 52 anni, è la fondatrice di Made in Carcere, impresa sociale che dal 2007 lavora con le detenute dei carceri di Lecce e Trani realizzando borse e accessori fatti con materiali di scarto. "L’idea al centro di tutto - continua Delle Donne - è quella della seconda opportunità. Vale per i tessuti che riutilizziamo ma vale soprattutto per le donne a cui diamo la possibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro". Quest’estate per Made in Carcere c’è una novità. Dagli inizi di luglio alle quindici detenute della Casa circondariale di Lecce si affiancano quattro studentesse della Luiss. Quattro ragazze tra i 21 e i 24 anni che per un mese passano dagli studi di diritto, economia e scienze politiche al lavoro sui tessuti con le detenute. "Noi siamo una non profit ma siamo organizzati come un’impresa profit. Le ragazze si occupano dei diversi settori della nostra attività: logistica, marketing, produzione, commerciale", spiega la fondatrice, manager esperta, con alle spalle una carriera di dirigente in banca abbandonata nel 2004. "Seguo Lucia come un’ombra per tutta la giornata lavorativa, ora mi occupo della logistica", racconta Enrica Massari, 21 anni, una delle quattro volontarie. "Dopo l’università vorrei fare l’avvocato penalista, per questo ho scelto di venire a vedere da vicino la vita in un carcere", dice Enrica, originaria di Ragusa, al terzo anno di giurisprudenza. "Tutti dovrebbero vedere com’è fatta davvero una cella, quanto è piccola, sono appena tre passi per due. Qui ciascuno ha la sua storia, ciascuno ha commesso degli errori, tutti hanno diritto a una seconda possibilità". L’iniziativa fa parte di un progetto dell’università romana chiamato "VolontariaMente". L’idea da cui si parte è una: "Non ci si laurea più senza aver fatto volontariato", come dice il prorettore alla didattica Roberto Pessi. Così quest’estate 150 studenti della Luiss saranno impegnati anche in Sicilia e Calabria, al fianco di Libera, nelle terre confiscate alla mafia, e nella periferia di Roma, a Casal Bruciato, nel villaggio gestito da Save the Children. "Diciamo che per un mese si rinuncia alle vacanze - continua Enrica - però lo si fa volentieri, stiamo imparando tanto. E poi, con la scusa del lavoro, stiamo girando tutta la Puglia". Lecce: l’arcivescovo D’Ambrosio; in carcere situazione che mortifica dignità dei detenuti Ansa, 25 agosto 2014 "Negli scorsi anni era un saluto per gli ospiti che sono stati i primi ad accogliermi cinque anni fa venendo a Lecce come vostro vescovo. Quest’anno non è un semplice saluto: è denunzia di una situazione che mortifica e lede la dignità di questi nostri fratelli detenuti". Lo ha detto stasera al termine della processione dei Santi Patroni per le vie della città l’arcivescovo di Lecce, Domenico Umberto D’Ambrosio. che ha posto l’accento su due "periferie esistenziali": quella situata in Borgo San Nicola, il carcere di Lecce, e quella dei poveri. "Vengo a dirvi - ha detto l’arcivescovo - che il carcere è veramente una periferia esistenziale oltre che reale, in cui sono tanti i problemi e le povertà che si vivono: sovraffollamento, carenza di prospettive educative, ozio obbligato, talvolta carenza della sicurezza del diritto e della pena. È un luogo di sofferenza non sempre di redenzione, ma carico di aspettative e di esperienze di solidarietà e di attenzione alla dignità umana". L’arcivescovo ha ringraziato le associazioni di volontariato facendo un appello: "alle istituzioni chiamate a farsi carico ad esempio degli ex detenuti in difficoltà e che raramente riescono ad assolvere il loro compito per mancanza di fondi" e ai credenti "perché l’esercizio della giustizia metta sempre al centro la persona umana e che sul discorso pena ‘arrivi sempre più forte la luce della misericordia e dell’amore". Anche per quanto riguarda la seconda periferia esistenziale, i poveri, l’arcivescovo ha ringraziato i volontari e la Caritas "ma tutto questo - ha detto citando le numerose iniziative della Caritas - non basta, non può bastare". Di qui un appello a tutti: "non lasciateci soli sui tanti fronti della povertà e dell’emarginazione. Siate certi - ha detto l’arcivescovo - che i poveri non li manderemo a voi. Ma vi prego di non mandarli con troppa facilità a noi. A volte - ha sottolineato - avvertiamo un peso eccessivo e una gravosa impotenza a evadere attese e richieste". Verona: stop a "Progetto carcere 663", le esperienze sono state raccolte in un libro di Ilaria Noro L’Arena, 25 agosto 2014 Ora si trasloca forse a Vicenza, dove però non c’è la sezione femminile. Maurizio Ruzzenenti traccia con amarezza il bilancio di una iniziativa che non prosegue. "L’attenzione viene attirata subito dai volti: facce segnate dalle difficoltà, rughe profonde che raccontano rabbia, umiliazione, violenza". "Sono quelle che, fuori di qui, chiameremo facce losche: ti aspetti chissà che reazioni, magari qualche gesto inconsulto...poi, ci giochi insieme e ti accorgi che, in fondo, si com-portano come noi". Emozioni, empatia, paure e pregiudizi: questi sono solo alcuni dei sentimenti che si leggono tra le righe del libro Studenti in carcere 4, del Progetto Carcere 663 dell’associazione Acta non verba, che raccoglie i racconti e i lavori degli studenti che hanno partecipato al progetto durante l’anno scolastico 2012/2013: la ventiquattresima edizione. L’ultima, almeno per come nell’88 i fonda-tori hanno strutturato il progetto: una giornata in carcere che culminava con partite di pallone tra studenti e detenuti. "Un momento importante perchè lo sport mette tutti sullo stesso piano, abbatte le barriere e va oltre le sbarre. Ma che purtroppo non potremo più ripetere: l’edizione di quest’anno è stata dunque modificata e riplasmata per esplicita volontà della direttrice del carcere che ha preferito far entrare un esiguo numero di scuole per effettuare una sorta di visita guidata, edulcorando di fatto e facendo venire meno l’empatia sprigionata durante lo sport", riporta non senza amarezza Maurizio Ruzzenenti, presidente di Acta non verba. Il volume, redatto alla fine dell’anno scolastico scorso sulle esperienze del precedente, ha scritte lilla su sfondo viola Un colore simbolo di lutto scelto proprio testimoniare il rammarico degli organizzatori per la fine di un’epoca. Quella, durata 24 anni, in cui il progetto proiettava gli studenti proprio dentro il sistema carcere. "Ho inventato Carcere e scuola per trasmettere ai giovani, oltre che un percorso di legalità la quotidianità dei detenuti, entrando in sintonia tra loro attraverso la pratica sportiva. In un campo di calcio o di pallavolo si è tutti sullo stesso piano e ciò è estremamente educativo: un modello di approccio che ci è stato copiato in tutta Italia", prosegue Ruzzenenti. E che ora, dato che nella casa circondariale di Montorio sembra non poter proseguire, potrebbe traslocare nella casa circondariale di Vicenza; un realtà circa un terzo più piccola di quella veronese e sprovvista della sezione femminile. Venuto meno lo sport, tuttavia, il progetto durante lo scorso anno scolastico è intanto proseguito ugualmente. E "Carcere e scuola 2014" è comunque da ricordare per l’opera di formazione nelle e per le scuole. E i numeri degli studenti coinvolti, dai 6 ai 18 anni, testimoniano l’attenzione che insegnati ed educatori rivolgono alla questione legalità e detenzione. Al progetto hanno infatti aderito complessivamente 18 scuole di città, provincia e anche da fuori Verona, per un totale di 20 corsi - di cui uno alle elementari, quattro alle medie e quindici alle superiori - organizzati in 78 incontri che si sono svolti durante 65 giornate interessando 1.155 ragazzi: 60 alle elementari, 251 alle medie e 844 alle superiori. A questi numeri, si aggiungono due incontri in due classi del Centro di formazione professionale delle Canossiane. In cinque scuole superiori, inoltre, gli incontri hanno visto la partecipazione anche di alcuni detenuti in permesso premio e di una persona, oggi in libertà, che ha passato più di un anno in carcere, che hanno raccontato la propria esperienza e il proprio vissuto. "L’auspicio è che questo corso abbiano influenzato l’atteggiamento dei ragazzi e la loro prassi quotidiana in relazione al rispetto della legalità", chiude Ruzzenenti". Roma: Sap-Sappe-Sapaf-Conapo organizzano flash mob dei poliziotti in Piazza del Popolo Agenparl, 25 agosto 2014 Sicurezza, flash mob poliziotti, penitenziari, forestali e vigili del fuoco in piazza del Popolo a Roma. La protesta, con donazione sangue, dei sindacati autonomi Sap, Sappe, Sapaf e Conapo. Un flash mob con centinaia e centinaia di poliziotti, penitenziari, forestali e vigili del fuoco mercoledì 27 agosto, alle ore 11.30, in piazza del Popolo a Roma. Musicisti e trampolieri in strada, un’autoemoteca per donare il sangue, la Fondazione Franco Sensi in prima linea con la presidente Rosella Sensi e il testimonial Enzo Salvi. La presenza dell’Associazione Donatori Volontari Personale Polizia di Stato. È la mobilitazione organizzata dalla Consulta Sicurezza, con i sindacati autonomi Sap, Sappe, Sapaf e Conapo, in rappresentanza di circa 43.000 operatori iscritti tra Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale e Vigili del Fuoco, per protestare contro i nuovi tagli alla sicurezza del Governo pari a circa un miliardo e mezzo euro, contro il turn over al 55 per cento che dimezza le assunzioni, contro qualsiasi ipotesi di ulteriore blocco stipendiale visto che le divise da 5 anni sono già state massacrate dal mancato rinnovo contrattuale e dal tetto salariale, con un danno netto mensile in busta paga di 300/400 euro per le qualifiche intermedie. I servitori dello Stato, insomma, hanno dato il sangue in tutti sensi e ora, in maniera simbolica e clamorosa, hanno deciso di regalare tutto quello che è rimasto loro in vena ai cittadini, attraverso una giornata di donazione che partirà alle 8 del 27 agosto, in piazza del Popolo a Roma, per proseguire poi tutta la mattina, con un flash mob di protesta previsto alle ore 11.30. Gran Bretagna: pena di morte; il popolo inglese dovrebbe leggere le riflessioni di Camus di Rosario Scognamiglio Notizie Radicali, 25 agosto 2014 Nella consueta Newsletter dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, associazione della galassia Radicale che si batte per la moratoria della pena di morte nel mondo, viene lanciato un preoccupante allarme sulle percentuali di Britannici che vorrebbero reintrodurre la pena capitale, nel sistema di giustizia Anglosassone. Il 45% dei sudditi di sua Maestà è favorevole alla pena di morte secondo l’agenzia di sondaggi YouGov, neanche a dirlo, gli elettori dello Ukip (partito nazionalista ed euroscettico di destra) con una base elettorale di circa 4.352.000 elettori (dato delle scorse europee), si sono mostrati entusiasti, esternando tutta la loro approvazione per la reintroduzione di tale pena come unico elemento di reale sicurezza per i cittadini e unico strumento deterrente per i "criminali". I nazionalisti di destra inglesi non sono i soli a riempire le folti schiere di chi vuol dare di nuovo lavoro al boia, ma anche altri cittadini di diverse estrazioni politiche e sociali, tant’è che il 45% degli intervistati, ha identificato la pena capitale, come unico elemento di dissuasione dal commettere azioni criminogene. Se continuiamo a sfogliare le percentuali, il dato macabro è rappresentato dalla scelta del metodo di esecuzione: il 51% è favorevole all’iniezione letale, il 25% preferisce la sedia elettrica, il 23% e il 9% sono dei nostalgici dell’Inghilterra medievale, quella dei Plantageneti, infatti sono rispettivamente favorevoli per l’impiccagione e la decapitazione, il 19% è favorevole alla camera a gas e il 17% preferisce assistere all’esecuzione, in maniera romantico-decadente, guardando il condannato trivellato dai colpi di un plotone di esecuzione. Di sicuro stiamo parlando di un paese civilizzato e democratico, almeno in teoria, ma alcune tappe dell’evoluzione della giustizia inglese devono essere ricordate. Nel XVI secolo vengono introdotti 7 reati capitali: omicidio, tradimento, rapina piccolo tradimento (aggravante dell’omicidio per uccisione del marito), stupro, incendio e furto. L’Inghilterra ha dovuto aspettare fino al 1933 per impedire l’uccisione di minori di 18 anni e l’ultima esecuzione per la legge sul tradimento si è avuta nel 1946, nel 1964 ci fu l’ultima esecuzione per omicidio e l’anno successivo venne abolita la pena di morte per reati di omicidio, ma restavano puniti ancora, sempre con la stessa pena, reati come: incendio del palazzo reale, alto tradimento e pirateria con violenza; solo nel luglio del 1998 nel Regno Unito viene definitivamente abolita la pena di morte. Questi dati dimostrano come l’Inghilterra sia stata uno degli ultimi paesi dell’Europa occidentale e "Democratica" ad abolire la pena capitale. Senza fare lezioni accademiche di puro diritto, un sommesso invito al popolo inglese andrebbe fatto, non scomodiamo i Britannici con le teorie di Beccaria, troppo dottrinale per i loro gusti, ma nel 1957 Albert Camus inizia le sue riflessioni sulla pena di morte raccontando di come il padre, spinto da un forte senso giustizia, partecipò con entusiasmo all’esecuzione capitale di un omicida, che sterminò un intera famiglia di coloni ad Algeri, ritornato a casa dopo l’esecuzione, l’entusiasmo era svanito, fagocitato dall’ansia e dallo sbigottimento della vista di un omicidio di stato. Il filosofo francese, partendo da questo episodio, pone l’accento non tanto sul lato giuridico ma analizza le reazioni dell’animo umano alla pena di morte. Camus, strappa con forza il velo moraleggiane che maschera di perbenismo la sostanziale differenza tra idea e reazione della società. L’argomento principale portato avanti "dai partigiani della pena capitale" è l’esemplarità della condanna, le teste non rotolano, le vene non si gonfiano di veleno, i corpi non si bruciano solo per punire ma principalmente per intimidire chi vorrebbe imitare le stesse azione del condannato, si vuol prevenire per rendere sicura la società. Peccato che dati già acclarati, dimostrano che la pena capitale non ha mai funzionato da deterrente per i reati, ma viceversa ha sempre esercitato un effetto fascinoso aumentando il numero dei reati, l’esemplarità che si vuol dare alla società ha degli effetti perversi che non possono essere previsti. Quindi chi inneggia all’esemplarità della pena, non crede intimamente a quello che dice. Se la pena di morte dovesse funzionare effettivamente da esempio, allora dovrebbe essere tutto estremamente pubblico e pubblicizzato, lo stato dovrebbe richiamare ad ogni esecuzione il popolo e mostrare ogni volta le mani insanguinate del boia, mostrando senza censura quella che è una pena superiore a qualsiasi legge del contrappasso, infatti la pena capitale uccide due volte, uccide prima l’anima, l’esistenza del condannato e poi il corpo. Ora se gli inglesi ripristinassero la pena capitale, quale sarebbe la loro reazione ad un pubblica e pubblicizzata esecuzione, che faccia farebbero i Britannici, dotati di un invidiabile aplomb, assistendo, magari alle due del pomeriggio, in massa, a Trafalgar Square, ad un corpo penzolante dalla forca o ad un corpo trivellato di colpi o ad un uomo annientato da una scarica elettrica? Forse la reazione sarebbe la stessa del padre di Camus, sottolineando tutto il perbenismo moraleggiante che c’è attorno a tale strumento di pena, identificando ancora l’abissale spacco tra idea e reazione della società. Intorno al Big Ben ci sono sempre copiose nuvole e impenetrabili banchi di nebbia, le riflessioni del filosofo francese potrebbero dissolverle… magari evitando che gli isolani del nord, tra qualche anno chiedano la reintroduzione dello Ius Primae Noctis. Brasile: rivolta nel carcere di Cascavel, 3 detenuti morti e 2 guardie prese in ostaggio La Presse, 25 agosto 2014 Tre persone sono morte a Cascavel, nel sud del Brasile, nel corso di una violenta rivolta in carcere. Secondo le autorità locali, due delle vittime sono state decapitate, mentre la terza è morta dopo essere stata lanciata giù da un tetto dell’istituto carcerario. Nessuna delle tre persone uccise è stata ancora identificata. Il capitano della polizia militare Ricardo Pinto riporta inoltre che i detenuti hanno preso in ostaggio almeno due guardie e che i negoziati per liberarle sono ancora in corso. La rivolta, ha aggiunto Pinto, è iniziata prima dell’alba locale di ieri, quando i detenuti hanno preso in ostaggio una guardia durante l’ora di colazione. Dopo lo scoppio della rivolta, decine di prigionieri con il volto coperto sono saliti sul tetto del carcere e, come si vede nelle immagini trasmesse dai media locali, hanno picchiato alcune persone che tenevano legate con delle corde intorno al collo e ai polsi. I detenuti hanno inoltre mostrato delle bandiere con le iniziali Pcc, che identificano la gang Primeiro comando da Capital, formata negli anni 90 da alcuni prigionieri e che architetta evasioni e rivolte. Afghanistan: sventata evasione da carcere nel sud, 3 morti, uno è bimbo La Presse, 25 agosto 2014 È di tre morti, di cui due detenuti e un bambino, il bilancio di una tentata evasione da un carcere nel sud dell’Afghanistan. Lo riferisce la polizia locale. Il fatto è avvenuto nella provincia di Zabul. Qui sono stati piazzati degli esplosivi vicino al muro di una prigione e la detonazione è stata avviata da un bambino, non è chiaro se intenzionalmente o meno. Dopo lo scoppio due prigionieri talebani all’interno del penitenziario hanno provato ad afferrare le armi ai poliziotti di guardia, ma la polizia ha sparato uccidendoli e sventando l’evasione. Ucraina: a Donetsk i prigionieri esibiti come trofei di Paolo G. Brera La Repubblica a Cascavel, 25 agosto 2014 Persino la festa per i ventitré anni di indipendenza del Paese diventa una farsa nell’Ucraina sconvolta dalla guerra con l’Est ribelle: mentre ieri alla parata militare in centro a Kiev il ministro della Difesa sventolava le mani in segno di saluto a bordo di una limousine decappottabile, celebrando in perfetto stile sovietico la libertà conquistata alla fine dell’era sovietica, a Donetsk i ribelli hanno messo in scena una terribile contro-parata con la "marcia degli sconfitti", costringendo una sessantina di soldati ucraini prigionieri di guerra a marciare con le mani legate dietro la schiena tra gli sberleffi e i lanci di spazzatura della gente, infuriata per tutti quei morti civili che imputano all’avanzata di Kiev. Umiliati come nella "parata dei vinti" organizzata da Stalin il 17 luglio 1944, quando fece sfilare cinquantamila prigionieri nel centro di Mosca, i poveri soldati hanno dovuto marciare a occhi bassi sotto la grande statua di Lenin nel viale più grande di Donetsk: "Appendeteli a un albero!", urlano decine di passanti ai "fascisti" di Kiev. "Ecco i soldati delle forze armate ucraine che marciano nelle strade principali di Donetsk, esattamente come voleva Poroshenko", sfotte uno dei massimi comandanti ribelli, Alexander Zakharchenko. Intanto, a Kiev sfilano mezzi militari nuovi e sofisticati, cose "che al fronte non abbiamo mai visto", dice al Guardian un "indignato" volontario del battaglione "Aidar", i reduci del Maidan che il governo non ha voluto lasciar sfilare. Ma il presidente Poroshenko, che poi è volato a Odessa per passare in rassegna la marina, arringa la folla promettendo che molti di quegli orgogliosi soldati e di quei potenti mezzi blindati partiranno direttamente per combattere nell’Est del Paese; e a un esercito demoralizzato dalle perdite, dalle sconfitte e dall’inadeguatezza di rifornimenti e dotazioni promette 2,2 miliardi di euro per il riarmo nei prossimi due anni. Nel frattempo, i cannoni non si fermano: stavolta sotto i colpi ciechi dei Grad, i terribili e imprecisi lanciagranate in batteria, a Donetsk sono caduti due ricoverati in un ospedale civile, e tre fedeli in una chiesa "completamente distrutta". Ucraina: la gogna in piazza, un rito antico e feroce per umiliare il nemico sconfitto di Guido Crainz La Repubblica, 25 agosto 2014 Hanno sapore arcaico e al tempo stesso modernissimo le immagini dei prigionieri ucraini fatti sfilare a Donetsk dai separatisti filorussi fra le urla e gli insulti della folla. Con le mani legate dietro la schiena e con il capo chino, controllati da soldati armati e da cani, in una giornata assolata. Accanto a carri armati distrutti e mostrati come trofei. Nelle stesse ore in cui Kiev festeggiava l’indipendenza dalla Russia e papa Francesco invitava a pregare per "l’amata terra ucraina". All’indomani della visita a Kiev di Angela Merkel, e in un conflitto che è ben lontano dagli estremi di ferocia di altre guerre (o da quelli conosciuti dai conflitti fra ucraini e polacchi nello scenario della seconda guerra mondiale, all’ombra delle stragi e delle devastazioni naziste e sovietiche). È questa sensazione di straniamento a colpire, in questo involontario rovesciamento delle parate trionfali sulla piazza Rossa. In questo riproporsi del rito del dominio: e della partecipazione popolare a quel rito, a quel "diritto all’umiliazione". In questo riproporre la più antica delle barbarie nel mondo della moderna potenza mediatica, dalle televisioni al web. Non sono certo le immagini più feroci che abbiamo visto, anche in tempi recentissimi: anzi, al confronto di alcune di esse quelle di ieri sembrano quasi "pacifiche". Due mesi prima della decapitazione del reporter americano James Foley, ad esempio, vedemmo con orrore la preparazione di un esecuzione di massa di soldati iracheni catturati dai combattenti dell’Is. Un’altra guerra, certo, con traumi e fondamentalismi estremi, ma è drammatico che l’evocazione venga comunque spontanea. E che la mente si affolli disordinatamente di altre immagini, di diversa efferatezza e con differenti esiti: si pensi, risalendo a dieci anni fa, agli ostaggi giapponesi in mano alle Brigate dei mujaheddin islamici, con i mitra puntati alla testa e un coltello alla gola. O, per altri versi, alle umiliazioni inflitte ai prigionieri iracheni da soldatesse e da soldati americani nel carcere di Abu Ghraib: con quei cappucci, quei cani, quelle oscene simulazioni e - soprattutto - con quel salto di quotidiana ferocia che quelle immagini "private", realizzate ad uso privato, segnalavano. Una vergogna simbolicamente funesta che l’America impose in primo luogo a se stessa, un elettroshock di cattiva coscienza, per usare le parole di allora di Jean Baudrillard. E si pensi anche all’immagine di Saddam Hussein vinto, catturato e umiliato. Oppure, per evocare la nostra storia, alle foto diffuse dalle Brigate rosse: iniziarono nel 1972 con le immagini di un dirigente d’azienda sequestrato e poi liberato, Idalgo Macchiarini, e culminarono nel 1978 con quelle di Aldo Moro. Eppure, tutto all’opposto, la denuncia della disumanità è stata spesso la cifra di immagini che disvelavano invece sopraffazioni e ferocie. Esponevano all’indignazione collettiva un infierire sugli inermi sin lì occultato. Vengono in mente le immagini scattate alla fine degli anni sessanta da Don Luce che proponevano come un pugno nello stomaco i prigionieri nordvietnamiti agonizzanti nelle "gabbie di tigre". O quelle che valsero il premio Pulitzer ad Eddie Adams, nel corso di quella stessa guerra: mostravano il colonnello sudvietnamita Loan che nel centro di Saigon assassinava a freddo un prigioniero vietcong, pantaloni corti e mani legate dietro alla schiena. Le immagini di Don Luce e di Eddie Adams risvegliarono la coscienza dell’America, erano la denuncia di un crimine della propria parte compiuta da giornalisti coraggiosi: tutto al contrario nella Donetsk di ieri vi è stato l’antico bisogno della ostentazione, la rivendicazione delle più antiche pulsioni di disumanità. Con un "consenso di popolo". Una affermazione del proprio dominio che si sostituisce alla prima e più immediata arma di propaganda, la denuncia della ferocia altrui. Del resto la tensione fra i due poli corre attraverso i secoli: si pensi a quell’infierire sul corpo del nemico ucciso cui Giovanni De Luna ha dedicato qualche anno fa un libro intenso, inquietante e bellissimo. E di cui sono simbolo nella nostra storia i corpi dei partigiani appesi agli alberi o esposti nelle piazze dai nazisti e dai fascisti di Salò (e di cui costituirono il terribile "rovesciamento" i corpi di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi appesi per i piedi a piazzale Loreto). Si pensi anche a quell’occultare, invece, il corpo del nemico ucciso, negando ai parenti sin un luogo del dolore, che è stata la tremenda cifra delle foibe istriane. Eventi lontanissimi, certo. Traumi di altre guerre e talora di altri secoli, ma è quasi un obbligo evocarli di fronte alle pur incruente immagini di una assolata e furente domenica ucraina. Immagini di un conflitto quasi "ai margini", rispetto ad altri scenari, e nel cuore della nostra Europa. Ancor più inquietanti, dunque.