Giustizia: "amnistia", non "amnesia"... e poi tre norme carcerogene da abrogare di Franco Corleone e Patrizio Gonnella Il Manifesto, 6 settembre 2013 Tra poco più di otto mesi l’Italia dovrà rispondere alle autorità giurisdizionali europee sulla condizione di vita nelle sue carceri. Dovrà in sintesi fornire risposte adeguate e convincenti su come si è avviata ad assicurare i diritti fondamentali ai detenuti, oggi inverosimilmente e tragicamente stipati in luoghi fatiscenti. Va ricordato che ci sono circa 30 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. E una parte significativa della popolazione detenuta è costretta all’ozio in cella per 20 - 22 ore al giorno in condizioni degradanti. In questo scenario è stato riproposto il tema dell’amnistia. Dopo la riforma costituzionale che ha reso quasi impossibile la sua approvazione con l’introduzione di un quorum assurdamente spropositato, si pone come un tema a tutto tondo politico. Un tema che è venuto periodicamente a galla per fronteggiare il surplus di detenuti. L’amnistia e l’indulto, nella tradizione della Repubblica ad egemonia democristiana, sono state le vie per governare giustizia e carcere. Sono stati usati alla stregua di due rubinetti di scarico per liberare le scrivanie dei tribunali e sfoltire le presenze in galera. Le decine di provvedimenti di clemenza non suscitavano polemiche perché costituivano la valvola di sfogo per reggere un sistema che aveva scelto di non abrogare il Codice Rocco e di mantenersi fedele al processo inquisitorio. Strumenti penali tipici di uno stato paternalistico - autoritario che in alternativa alle riforme mancate elargiva manciate di benefici a prezzo di saldo. Così è accaduto fino all’approvazione del nuovo codice di procedura penale e all’ultima amnistia del ministro Vassalli. Purtroppo non solo quella riforma tanto attesa venne rapidamente ridimensionata dalla legislazione d’emergenza dei primi anni 90 ma non fu accompagnata da un nuovo Codice penale (si continuarono però a elaborare progetti da parte di Commissioni ad hoc come le ultime elaborate da Federico Grosso, Carlo Nordio e Giuliano Pisapia). Peggio, nuove questioni sociali come l’immigrazione o l’uso di stupefacenti furono utilizzate per alimentare campagne securitarie e paure. Così in quegli anni si elaborò il diritto autoctono penale del nemico, dove il nemico era il tossicodipendente o l’immigrato. Due tipologie di detenuti che oggi complessivamente riempiono per due terzi le nostre prigioni. In questo scenario è assolutamente necessario abrogare quelle leggi, a partire dalla Fini - Giovanardi sulle droghe che come abbiamo dimostrato anche con l’ultimo Libro Bianco, è responsabile in modo massiccio del sovraffollamento carcerario. Eppure il dibattito parlamentare avvenuto a fine luglio in sede di conversione del decreto Cancellieri sull’esecuzione delle pene, che aveva misure di buon senso seppur non risolutive, è stato ancora una volta desolante tanto da temere la riviviscenza di una paccottiglia demagogica. In questo contesto ci preme sottolineare che si è rischiato un nuovo asse della sicurezza con pezzi del Pdl, Fratelli d’Italia, Lega eM5S. Il tema della clemenza non può prescindere quindi da quello delle riforme sistemiche: amnistia e riforme devono essere contestualizzate, dando così al provvedimento di clemenza quella connotazione di ricostruzione sociale che tale istituto dovrebbe avere (proprio su queste pagine Livio Pepino ha ricordato una delle rarissime amnistie con tale profilo, quella della fine degli anni Sessanta dopo la repressione dei movimenti sociali di quegli anni). Da mesi siamo impegnati insieme a molte organizzazioni di società civile, a sindacati come la Cgil, alle Camere Penali, in una campagna che abbiamo chiamato simbolicamente “tre leggi per la giustizia”. Siamo al traguardo delle 50 mila firme e in questo mese le presenteremo alla presidente della Camera Boldrini chiedendo una sessione parlamentare per affrontare in maniera organica un pacchetto di misure incisive. Le nostre tre leggi riguardano l’introduzione del delitto di tortura nel codice penale, il radicale cambiamento della legge sulle droghe, l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, l’istituzione del garante nazionale delle persone private della libertà, modifiche in senso meno repressivo delle norme in materia di custodia cautelare e recidiva, le liste di attesa. A questo complessivo processo crediamo debba essere legata con urgenza l’amnistia per ripristinare un trattamento penale ordinario verso quelle categorie sociali deboli contro cui è stata brandita l’arma della repressione penale e per accompagnare la stabile cancellazione dall’area del penale di quei reati privi di offensività e che tali non dovrebbero essere. Si tratta quindi di introdurre una diversa agenda sui temi della giustizia. Lo stesso recente attacco a Magistratura Democratica, la componente garantista dei giudici, ci suggerisce di organizzare con rapidità un confronto serrato sui contenuti per tale cambiamento del funzionamento della macchina che amministra la giustizia: un cambiamento radicale anche perché il riformismo senza riforme porta alla condanna definitiva dell’Italia e la radicalità assoluta e senza compromessi è in realtà la via del buon senso e della ragione. In questo contesto si pone quanto chiaramente evidenziato dalla sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia: la condizione di vita delle carceri, definita come quotidiano trattamento disumano e degradante, accostata alla tortura dallo stesso ministro di Giustizia Annamaria Cancellieri, rende indilazionabile un provvedimento a efficacia immediata che riporti il sistema nella legalità penitenziaria e contabile. Nelle carceri non vi deve essere un detenuto in più rispetto ai posti letto regolamentari. Il provvedimento di clemenza mirato può servire a questo, se insieme però si cambia la filosofia della pena. In questo senso sarebbe cosa buona e giusta che le indicazioni che stanno emergendo dalla Commissione presieduta da Mauro Palma vengano messe subito in atto, visto che esse vanno verso l’obiettivo di tenere insieme la riduzione dell’impatto carcerario e una migliore qualità della vita nelle carceri. Giustizia: solo l’amnistia può ristabilire i principi eguaglianza e pari trattamento per tutti di Francesco Romeo (Avvocato) Il Manifesto, 6 settembre 2013 In quest’ultimo scorcio d’estate i palazzi della politica istituzionale sono attraversati da un lavorio incessante, un fervore votato al tentativo di salvare Silvio Berlusconi dalla decadenza del proprio mandato parlamentare dopo la condanna passata in giudicato. L’intero discorso pubblico ruota attorno alla contesa tra chi vorrebbe salvarlo a qualunque costo e chi è disposto a tutto pur di vederlo rotolare nella polvere. In mezzo stanno quelli in cerca di un cavillo che possa salvare capra (Governo) e cavoli (Silvio). Sulle pagine del manifesto si è sviluppata una discussione sull’amnistia che, salvo un paio di eccezioni, non è sfuggita - come ha rilevato Marco Bascetta - a questa dannazione berlusconicentrica. Eppure, dal giugno scorso è in campo una campagna per l’amnistia sociale (il cui “manifesto” è stato pubblicato su queste pagine). Iniziativa nata fuori dal circuito della politica istituzionale e che ha raccolto una larga adesione nei movimenti sociali. Sorprende che questa proposta sia rimasta fuori da un dibattito che non ha ritenuto di estendere l’amnistia anche agli effetti repressivi che si abbattono sulle lotte politiche e sociali, in un momento storico che vede l’emergenza giudiziaria colpire anche il semplice dissenso ricorrendo a teoremi e arsenali penali concepiti in altre epoche per rispondere a ben altro tipo di sfide. Sorprende, ma non stupisce, vista l’impostazione meramente politicista della discussione. La rimozione è tale che persino Manconi ed Anastasia hanno commesso l’errore di affermare che in Italia vi è stata una sola amnistia politica, quella firmata da Togliatti nel lontano 1946. Bene ha fatto Livio Pepino a ricordare i provvedimenti di clemenza del 1968 e del 1970: amnistie “politiche” di particolare ampiezza estese anche ai reati di devastazione, blocco stradale o ferroviario e alla detenzione di armi da guerra etc. Amnistie votate mentre il 1968 e l’autunno caldo erano ancora in corso. Provvedimenti forti che grazie al loro nucleo politico specifico consentì l’adozione di una clemenza più generale rivolta ad una vasta gamma di reati comuni che favorì lo sfollamento delle carceri. E se ancora non bastasse, durante gli anni ‘60 furono approvate altre tre amnistie-indulto per chiudere gli strascichi penali dell’epoca bellica e riequilibrare la repressione contro i moti cittadini e lotte agrarie. È sotto gli occhi di tutti che in questi anni i movimenti sociali, spesso da soli, hanno fatto opposizione nelle piazze d’Italia, pagando un prezzo molto alto in termini di violenza subita, di denunce per gli attivisti (più di 15.000) e di condanne riportate. Senza contare che denunce e condanne rappresentano un ostacolo non facilmente superabile per l’ingresso nel mondo del lavoro e costituiscono il presupposto per l’applicazione di misure odiose come l’avviso orale, il foglio di via, la sorveglianza speciale. La lunga stagione berlusconiana, una guerra dei vent’anni che ha visto affiorare giustizialismi di opposte fazioni, è stata condotta a senso unico: dall’alto verso il basso, contro i movimenti sociali di opposizione, i migranti e i ceti sociali più deboli che affollano le carceri. Per questo è fondamentale porre oggi all’ordine del giorno quella che è stata chiamata “amnistia sociale”, per distinguere la sua politicità non istituzionale dalla sfera del ceto politico che alberga nelle istituzioni, distinzione necessaria in un’epoca di populismi e legalitarismi che hanno inquinato il linguaggio politico della sinistra. Occorre ripristinare un principio di giustizia di fronte ad condanne come quelle per i fatti di Genova del 2001, che hanno visto applicare ai manifestanti pene fino a 15 anni di reclusione per devastazione, mentre oltre 300 appartenenti alla polizia di Stato che hanno partecipato al massacro della Diaz sono rimasti ignoti, e i procedimenti per 222 episodi di violenza in strada, compiuti da appartenenti alle forze dell’ordine, sono stati archiviati per l’impossibilità d’identificare i colpevoli. Bisogna metter fine all’ipertrofia emergenziale di magistrati e apparati che hanno in odio il dissenso, che adorano le democrazie senza popolo e le società silenziate. L’amnistia sociale è il primo passo per smantellare quell’arsenale giuridico speciale che ha permesso alla procura di Torino di ricorrere ad accuse abnormi, come il reato di attentato per finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico anche a chi lotta per la difesa dei propri territori, come il movimento No - Tav, ed al governo di arricchirlo con nuove disposizioni come quelle contenute nel cosiddetto decreto sul “femminicidio”. Norme che estendono l’impiego di contingenti dell’esercito, a disposizione dei prefetti, non più solo a servizi di perlustrazione e pattuglia ma “anche”, ad esempio, come forza di ordine pubblico contro i manifestanti. Una dichiarazione di guerra dello Stato verso un nemico interno individuato nei movimenti sociali di protesta. Oltre a tentare di arginare tutto ciò, la campagna per l’amnistia sociale può servire a ridare forza ad alcuni principi sanciti nella Costituzione: se l’occupazione di case abbandonate è reato per il codice penale, il diritto all’abitazione è un diritto costituzionale. Ancora, la Costituzione stabilisce che la proprietà privata non può contrastare l’utilità sociale o la dignità umana e può essere indirizzata a fini sociali. La forte spinta verso la giustizia e l’eguaglianza contenuta nello spirito di questa campagna permette anche di contestare alla radice quel “principio di ostatività” contenuto nelle norme carcerarie (4 bis e 41 bis) che è alla base della differenziazione dei trattamenti recepita ormai in tutte le misure di clemenza (indulto del 2006 e indultini vari) e agli pseudo sfollamenti carcerari varati negli ultimi anni e acriticamente assorbiti negli stessi progetti di amnistia - indulto (Manconi) depositati in parlamento. Solo un’amnistia politica generale può ristabilire il principio di uguaglianza. Giustizia: l’ergastolo delle idee… a proposito di referendum, logiche partigiane ed amnesie da Giunta dell’Unione Camere Penali Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2013 L’Unione replica a Marini, presidente di Md, il quale, in una lettera al Corriere, pur di seppellire i referendum, dimentica che, da sempre, Md è favorevole alla abolizione dell’ergastolo. No, non siamo profeti. Se abbiamo risposto ieri al Presidente di Magistratura Democratica - che oggi ha sentenziato contro la firma di Berlusconi sotto i referendum - trattando Pannella come un sacerdote del credo pecunia non olet - non è per doti di preveggenza e neanche grazie ad una spia dentro il Corsera. No, molto più banalmente era nell’ordine delle cose che la magistratura associata avrebbe cercato di indirizzare le forze politiche, così come avviene da sempre e come ha fatto nel caso di specie, mirando a serrare i ranghi di quegli schieramenti che, come avevamo scritto, orientano la propria linea non in base al merito delle questioni ma per logiche preconcette di contrapposizione. Se - dunque - la risposta del Presidente Marini ad un articolo di Ostellino non stupisce, rimane però da chiedersi quale sia ora il suo pensiero sui temi referendari. Per fare un esempio, avendo adesso Berlusconi firmato il referendum per abolire l’ergastolo, Magistratura Democratica continua ad essere contro l’ergastolo o no? L’Unione è stata tra i primi promotori dei referendum sulla giustizia, e l’ha fatto anche per sopperire alla paralisi politica indotta dai diktat della magistratura associata che rifiuta la mera ipotesi di discutere di separazione delle carriere, responsabilità civile, fuori ruolo. La lettera in questione ribadisce il diktat e noi, nell’incontro che si terrà giovedì 19 alla Residenza di Ripetta a margine dell’astensione dalle udienze che durerà tutta la settimana, di questo vorremo discutere anche con il Presidente di M.D., se vorrà onorarci, dell’ergastolo e di tutto il resto. “Magistratura Democratica: l’attività”, di Luigi Marini (Presidente Md) Sul Corriere del 31 agosto Piero Ostellino, in “Salvate il soldato Montesquieu” scriveva tra le altre cose: “Oggi l’ordine giudiziario è, da noi, identificato con la magistratura... se non, addirittura, con un sindacato (Magistratura democratica) che, peraltro, assomiglia più a un partito politico che a un organo dell’amministrazione della giustizia”. E prosegue che “la parte della magistratura di ispirazione neo giacobina, collettivista e dirigista, si sente in dovere non solo di esercitare una funzione di supplenza del legislativo e dell’esecutivo, ma addirittura di intervenire... con le proprie sentenze sugli equilibri interni della classe politica in favore di quelle forze che interpretano più rigorosamente il dettato costituzionale”. Il tutto per dire che quella magistratura a rigore ha ragione, ma che è sbagliata la Costituzione e soprattutto l’art. 3, che non è stato attuato “per evidente impraticabilità materiale e formale”. Se non sorprende che una cultura di destra, rimasta al Settecento, dipinga i magistrati progressisti nei termini usati da alcuni mezzi d’informazione dopo la sentenza delia Cassazione del 30 luglio scorso, non possiamo accettare che dalle pagine del Corriere si parli di Md come di una struttura che agisce come un partito politico e che intenzionalmente interviene sugli equilibri interni alla classe politica favorendo un partito piuttosto che l’altro. La storia di questi 50 anni sta Ti a dimostrare che Md ha certamente dialogato in prevalenza con le associazioni e i partiti progressisti, i più attenti alla tutela dei diritti e alla attuazione dei principi costituzionali; ma è sempre stato un dialogo tra diversi, spesso attraversato da conflitti legati a quelle esigenze di mediazione che sono proprie della politica e che i magistrati hanno rifiutato perché estranee al ruolo, all’agire e alla cultura che li connotano. E, poi, quali sarebbero le sentenze emanate per intervenire sugli equilibri politici? Ostellino non lo dice, ma non è un caso che lo scriva a pochi giorni dal deposito della sentenza della Cassazione nel processo sui diritti televisivi. Va qui detto con chiarezza, ancora una volta, che l’intero processo e la decisione della Corte non hanno niente a che vedere con Md e la sua storia, e che si è trattato di un normale processo per evasione fiscale, reso eccezionale solo dalle qualità personali e dalle condotte di uno degli imputati. A pensarci meglio, quella decisione una cosa in comune con Md ce l’ha: l’idea di indipendenza della giurisdizione come momento essenziale per l’attuazione della democrazia. Gli stereotipi culturali che troppi commentatori continuano a seguire quando parlano dei magistrati e di Md costituiscono terreno fertile per le battaglie di coloro che intendono solo riportare la magistratura “sotto il trono” della politica. Assistere all’intesa soddisfatta di Pannella e Berlusconi al momento della firma del secondo sotto i referendum radicali nel nome di un’idea falsa di libertà e di giustizia mi ricorda la soddisfazione con cui molti uomini di Chiesa hanno fino a ieri accolto finanziamenti e sostegno incuranti della provenienza del denaro e delle qualità dei donatori. A questa falsa idea di libertà senza uguaglianza noi opponiamo una idea della cosa pubblica che chiede equilibrio fra democrazia e regole e in cui il più forte e il più furbo non sono destinati a una vittoria ineluttabile. Il nostro compito è tutelare i diritti e risolvere i conflitti secondo le indicazioni che vengono dalla legge e dalla Costituzione. Una Carta che, per dirla con Benigni, è ancora bellissima e per questo non piace a chi vuole difendere privilegi e strumentalizzare il consenso fino a farne un assoluto che si può comprare e rivendere a piacimento. Giustizia: Fleres; subito l’amnistia e la revisione delle leggi su immigrazione e spaccio di Maria Teresa Camarda www.si24.it, 6 settembre 2013 “Più la società si nasconde dietro forme assurde di giustizialismo, più il crimine dilaga. Più il carcere è segregazione, piuttosto che rieducazione, più esso produrrà recidiva”. Si tratta di un dato di fatto “inconfutabile” per il garante dei Diritti dei detenuti, Salvo Fleres, che ha presentato oggi a Palermo una mostra dei lavori realizzati dai carcerati siciliani in occasione della Giornata per il reinserimento dei detenuti. “I dati parlano chiaro - spiega Fleres - l’80 per cento circa dei detenuti che vengono sottoposti a un’esecuzione penale regolare e a forme corrette ed efficaci di trattamento rieducativo una volta usciti non reiterano i reati e non tornano in carcere; mentre l’80 per cento, il dato è emblematicamente speculare, dei carcerati che scontano la pena in strutture sovraffollate, prive di trattamento, di istruzione e formazione professionale, ma soprattutto prive di lavoro e di assistenza sociale e psicologica, reiterano i reati e tornano in carcere più volte”. In Sicilia, statistiche del 2012 alla mano, gli istituti penitenziari si trovano in una gravissima situazione di sovraffollamento: sulla base di una capienza regolamentare di circa 5.555 mila posti, le carceri siciliane ospitano attualmente più di 7 mila detenuti. L’Isola, in una classifica nazionale sul sovraffollamento, è terza dietro a Lombardia e Campania. Una condizione difficile da gestire per la polizia penitenziaria che, in carenza di organico, si ritrova troppo spesso ad affrontare emergenze e criticità. L’anno scorso sono stati 6 i detenuti che si sono suicidati dietro le sbarre e già nel 2013 altre tre persone si sono tolte la vita a Palermo, Noto e Caltanissetta. “Le statistiche ci dicono - prosegue Fleres - che il 30 per cento circa della popolazione reclusa è innocente. Ed è bene ricordare che non si deve confondere il criminale con il carcerato, perché è come confondere la malattia con il dolore. Il comportamento dell’uomo del delitto va stigmatizzato; l’uomo della pena, invece, deve essere rieducato nel rispetto della legge”. In cella, in tutta Italia, si trovano circa 30 mila extracomunitari, condannati soprattutto in applicazione della legge Bossi-Fini sui clandestini, e circa 27 mila piccoli spacciatori e tossicodipendenti, in galera per la legge Fini-Giovanardi. Altissimo il numero di detenuti che hanno commesso reati riconducibili alla loro condizione di disoccupazione (2.216). “Si tratta di persone che hanno commesso reati di scarso allarme sociale - dice il garante per i diritti dei detenuti - che potrebbero scontare pene alternative al carcere, meno invasive, più efficaci e meno costose”. Il carcere, infatti, costituisce un costo niente affatto secondario. Un giorno di detenzione comporta spese variabili tra i 130 e i 250 euro a persona, per un importo complessivo annuo di quasi 3 miliardi di euro. “Spendere questa cifra per non ottenere il risultato della rieducazione e del corretto reinserimento sociale - dice Fleres - previsto tra l’altro dall’articolo 27 della Costituzione rappresenta un grosso spreco in tempi di spending review”. “Serve immediatamente - conclude Fleres - una legge per l’amnistia e per l’abrogazione delle due leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi. Primi passi per rendere più vivibili i nostri istituti penitenziari e reinserire i detenuti nel tessuto sociale sano”. Giustizia: stalking, una legge necessaria ma non sufficiente di Antonio Bevere Il Manifesto, 6 settembre 2013 Il crescente fenomeno della violenza maschile e lo spazio che i reati di genere occupano nella cronaca giudiziaria, rendono necessario un ulteriore esame della natura del delitto e dei rimedi che le istituzioni predispongono e realizzano, dinanzi al suo pericoloso diffondersi. Il reato di atti persecutori (più noto come stalking) rientra nella figura del reato abituale in quanto consiste nella ripetizione di condotte identiche o omogenee non tutte in sé punibili, ma che si presentano come espressione di un habitus di vita, di un’inclinazione delittuosa. La norma dell’articolo 612bis è stata inserita nel nostro ordinamento a tutela della libertà morale della persona da intrusioni moleste e assillanti e ha ad oggetto condotte reiterate che, costituendo un sistema di comportamenti lesivi della serenità e dell’equilibrio psichico della preda, determinano alternativamente o congiuntamente una serie di offese: un perdurante e grave stato di ansia o paura, un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persona comunque affettivamente legata, la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita. Di qui la razionale scelta del legislatore di dare rilevanza penale anche a ripetute condotte in sé non punibili (per esempio, presenza continua dinanzi all’abitazione della vittima), nonché specifica rilevanza a ripetute condotte tipiche di altri reati (ingiuria, minaccia, lesioni, violenza privata, molestia e simili), in quanto proiettate alla creazione e/o al rafforzamento di uno stato di costante ed ossessiva ingerenza nella vita della vittima (quasi sempre una donna), con reiterati sconfinamenti molesti, violenti, intimidatori. Secondo la dottrina, l’autore è da ritenere guidato da coscienza e volontà che ogni sua nuova azione si aggiunge alle precedenti, realizzando il sistema di comportamenti offensivi, che sono forieri della progressiva alterazione del sistema di vita della vittima, spinta anche alla sudditanza psicologica. A questo progressivo e spesso crescente atteggiamento di persecuzione corrisponde nella vittima - attraverso fasi intermedie di timori, di ripensamenti, di speranze, di delusioni, di rinnovate e rafforzate paure - il passaggio da un iniziale atteggiamento di sentimenti affettivi allo stato di paura, alla sensazione di stravolgimento materiale e psicologico del modo di sentire e di vivere. Il tutto sfocia, spesso, non solo nell’evento tipico di questo reato (un regime di vita ossessivo, tale da causare nella donna un grave stato di ansia e di paura; fondati timori per l’incolumità fisica propria e dei propri cari; la modifica delle proprie abitudini di vita), ma anche in eventi più dolorosi e drammatici (lesioni gravi e gravissime, omicidio). Proprio alla luce di questa duplice progressione criminosa (all’interno dell’ipotesi dello stalking, fino a irreversibili approdi distruttivi della vittima, costituenti altri e più gravi delitti), il legislatore, con il decreto legge n.93/2013, intende integrare la normativa per assicurare maggior effettività alle misure adottate negli ultimi anni. Tale esigenza è stata sentita in coerenza con la recente ratifica da parte del Parlamento della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (l. 27 giugno 2013, n. 77). È stato precisato che il decreto legge non costituisce formalmente l’atto normativo finalizzato a darvi attuazione - in quanto la Convenzione non è ancora in vigore non essendo stata finora ratificata da un numero sufficiente di Stati - ma alcune nuove disposizioni, ispirandosi ad essa, anticipano di fatto l’adeguamento dell’ordinamento interno ad una parte dei suoi contenuti. La più rilevante novità in materia di atti persecutori riguarda la procedibilità del reato, con la previsione della irrevocabilità della querela, che è sostanzialmente la richiesta di punizione, avanzata dalla persona offesa. Il legislatore (d.l. 38 del 2009) aveva disposto che lo stesso fosse procedibile a querela (salvi i casi di connessione con reati procedibili d’ufficio o di persona offesa minorenne o disabile), estendendo il termine ordinario per la sua presentazione da tre a sei mesi, così come previsto per i reati sessuali. Tuttavia la previsione della irrevocabilità della querela non pare sufficiente in assenza di altri interventi sistematici a sostegno della persona offesa, sottoposta ad assillante assedio. Lasciata sola, priva della consapevolezza che le istituzioni sono oggettivamente e soggettivamente disposte a proteggerla, la donna - preso atto dei reali rapporti di forze - può essere portata ad abbandonare sostanzialmente la richiesta di punizione, con rinunciatari comportamenti, prima e durante il processo. Al di là di pur commendevoli iniziative riformatrici, appare quindi di immediata e prevalente importanza una disciplina - formale e pragmatica - che conduca, con pieno coordinamento e con rapido scambio di conoscenze, operatori di polizia e di magistratura inquirente a dare - all’aggressore e alla vittima - la fondata percezione che lo Stato è in grado di infrangere la persecuzione e di prevenire sviluppi di violenza e atti di irreversibile offesa. Proprio la connotazione frazionata, progressiva ,abituale dell’ azione persecutoria rende estremamente agevole conoscerne lo spessore criminoso, prevederne modi e tempi di ripetizione, anticiparne e frenarne eventuali incrementi di pericolosità. I segni premonitori di un’esplosione dell’inclinazione delittuosa dovrebbero essere percepibili nell’ambito di un immediato programma di protezione della vittima, al primo segnale di allarme da questa lanciato, in modo da trasformare in obiettivo di legittima indagine e di giusta sanzione chi abbia mostrato di voler braccare la preda. È di estrema importanza quindi l’obbligo del questore, previsto dall’art.1 del decreto legge, di provvedere sulle armi di chi sia soggetto alla già vigente procedura di ammonimento. Proprio nella prospettiva di un maggior tempismo, di incremento ad un maggior protagonismo delle forze di polizia, può inquadrarsi la disposizione (art.2 co.1 lett. c) del decreto, che ha reso obbligatorio l’arresto in flagranza per il delitto di atti persecutori. Va comunque ribadita, anche in questo caso, l’esigenza che, a monte dell’intervento coercitivo da parte della polizia, vi sia stata un’azione di indagine, di controllo, di pedinamento, senza la quale un singolo atto persecutorio (che può essere penalmente irrilevante o costituire reato minore incompatibile con l’arresto in flagranza) difficilmente potrebbe apparire ad un disinformato ed estemporaneo operatore come flagranza del ben più grave reato di stalking. Sempre nel quadro di questa lotta contro il tempo, la nuova normativa interviene sui criteri di priorità nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, attribuendo una posizione primaria al delitto di atti persecutori, unitamente al delitto di maltrattamenti e ai delitti contro la libertà sessuale. Ho già rilevato, in un precedente articolo, che la violenza maschile - in un nuovo spessore di antagonismo e di resistenza all’evoluzione civile - sta aumentando in stretta correlazione alla crescente emancipazione femminile all’interno della coppia, della famiglia, dell’ambiente di lavoro, della vita politica. I fatti confermano continuamente questa amara realtà, che deve spingere tutti, e principalmente le pubbliche istituzioni, ad un corrispettivo aumento di impegno. Giustizia: referendum; il Pdl chiama alla firma, cinquecento tra gazebo e banchetti di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 6 settembre 2013 L’obiettivo? “La Lombardia stabilisca un record nella raccolta delle firme a favore dei referendum sulla giustizia promossi dai radicali”. E così, scatta la mobilitazione del Pdl per portare cittadini ai quasi 500 tra gazebo e banchetti: per il fine settimana ne saranno attivi 9 a Milano, uno per zona, e uno in ogni Comune della provincia e della regione e sarà aperta la sede di viale Monza. Il coordinatore lombardo Mario Mantovani dà la linea: “La riforma della giustizia è indispensabile perché siamo uno tra i paesi peggio organizzati. L’Ocse spiega che un processo civile dura in media 788 giorni, contro gli 8 anni di quelli celebrati in Italia: è una situazione accettabile”. Durissima anche la responsabile organizzativa del partito, Daniela Santanché: “La nostra giustizia è malata e i cittadini ne hanno l’esatta percezione. Dobbiamo avere il coraggio di denunciare che non si sia fatta finora la riforma perché le forze politiche sono ossessionate da Silvio Berlusconi”. A lanciare l’iniziativa, insieme ai vertici nazionale e lombardi, si vedono tanti parlamentari milanesi, assessori e consiglieri comunali e regionali. Le parole d’ordine suono le stesse: “Una firma giusta per la giustizia giusta”; “La giustizia è malata”; “Berlusconi è vittima di un complotto della magistratura”; “Il Pd è braccio armato della magistratura”. A lanciare l’iniziativa a Milano è il coordinatore cittadino Giulio Gallera, che ha indirizzato una lettera a iscritti e simpatizzanti riassumendo i punti di incontro. “Il Coordinamento Cittadino di Milano - scrive - è fortemente mobilitato per riuscire nelle prossime due settimane a raccogliere almeno 10.000 firme. I 5 referendum sulla giustizia possono essere sottoscritti presso la sede del Pdl di Viale Monza, 137 (dalle 09.30 alle 19.00 dal lunedì al venerdì) e presso gli uffici del gruppo Pdl di Palazzo Marino (segreteria del capogruppo dalle 10.00 alle 18.00). Nel fine settimana ci saranno banchetti e gazebo in tutte le zone della città”. Già ieri nel gazebo di piazza Cordusio l’europarlamentare Licia Ronzulli ha accolto i cittadini che hanno firmato: “Abbiamo avuto code continue e, siccome l’autorizzazione del gazebo finiva alle 18, purtroppo abbiamo dovuto rimandare a casa alcune persone che erano arrivate appositamente. In quattro ore abbiamo raccolto quasi 500 firme e siamo molto soddisfatti perché i cittadini hanno capito il nostro messaggio”. Intanto, il leader radicale Marco Cappato twitta la provocazione: “Il Pdl lombardo segua l’esempio di Berlusconi e firmi tutti i nostri referendum”. Ma su questo, i big del partito tergiversano. Mantovani spiega che voterà solo i quesiti sul tema della giustizia (escluso quello sull’ergastolo), così come la Santanché, che in aggiunta sta “riflettendo anche su quello per il divorzio breve”. Giustizia: referendum; partono i gazebo, ma nel centro destra distinguo sulla droga di Desiree Ragazzi Secolo d’Italia, 6 settembre 2013 “Mentre sulla riforma della giustizia le tesi dei radicali sono condivisibili, sulla droga, sull’immigrazione, sulla famiglia, i referendum sono sbagliati e portatori di pericolosa illegalità”. Sui referendum proposti dal partito di Marco Pannella arrivano i primi distinguo all’interno del centrodestra. Un secco “no” alla droga libera arriva da Maurizio Gasparri: “Sul referendum dei radicali che liberalizza lo spaccio della droga condivido le tesi del collega Giovanardi e promuoverò insieme a lui il comitato per il “no”. Giovanardi ha infatti costituito, insieme ad alcune comunità di recupero, un comitato contrario alla liberalizzazione dello spaccio di droga. In un appello sottoscritto da tre comunità si afferma che “se passasse il quesito referendario proposto dai radicali non sarebbero più sanzionabili con il carcere le condotte di spaccio di lieve entità di qualsiasi tipo di droga, non solo la cannabis ma anche la cocaina, eroina, ecstasy”. Non solo, secondo Giovanardi, le forze dell’ordine non potrebbero più arrestare gli spacciatori. E su questo punto la posizione di Gasparri è netta: “Ho più volte detto che alcuni quesiti referendari sono pericolosi e uno di questi è quello che di fatto non consentirebbe più alle forze dell’ordine di arrestare gli spacciatori, con prevedibile aumento della diffusione e del consumo di stupefacenti”. Gianni Alemanno annuncia che firmerà “i cinque referendum relativi alla giustizia, gli altri mi auguro che non giungano al voto. Certamente non firmerò quelli sulla droga o altre “pannellate” del genere che non mi appartengono”. A Milano, intanto, il Pdl aderisce ai quesiti referendari sulla giustizia. E nel prossimo fine settimana si mobiliterà lanciando una raccolta firme attraverso gazebo che spunteranno “in tutti i comuni d’Italia”. L’iniziativa è stata illustrata a Milano da Mario Mantovani e Daniela Santanché. In cima alla scaletta delle priorità, spiega il coordinatore lombardo del Pdl presentando contenuti e obiettivi della mobilitazione, la realizzazione di una riforma complessiva della giustizia, a questo punto “è indispensabile”, per rimettere in sesto la macchina giudiziaria che attualmente “in Italia non funziona”. Più nel dettaglio, Mantovani chiarisce di condividere, tra i quesiti referendari proposti dai radicali, in particolare quello sulla separazione della carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, ma anche quello che introduce la responsabilità civile dei giudici. Inoltre, evidenzia, “bisognerebbe mettere mano a una riforma dell’autorizzazione a procedere e dell’immunità parlamentare”. Giustizia: Pisapia; Berlusconi è colpevole… ma la sinistra ha sbagliato ad affidarsi ai pm Intervista di Marco Damilano a Giuliano Pisapia L’Espresso, 6 settembre 2013 Da via Fontana a Palazzo Marino a Milano la distanza è un chilometro e mezzo, molto più lunga la strada che Giuliano Pisapia ha attraversato in questi venti anni, dal prestigioso studio legale (che fu del padre Gian Domenico Pisapia) come di tensore di inquisiti eccellenti negli anni di Tangentopoli alla stanza di sindaco eletto nel 2011 nel pieno del caso Ruby-Berlusconi, con i candidati del Pdl che paragonavano le toghe alle Brigate rosse. In mezzo Pisapia è stato deputato di Rifondazione comunista, presidente della Commissione Giustizia della Camera, presidente della Commissione per la riforma del codice penale. Ha osservato da protagonista il lungo scontro tra politica e giustizia in tutti i ruoli: penalista, legislatore, sindaco della città di Mani Pulite culla del berlusconismo, controparte dei legali di Arcore (avvocato di parte civile della Cir di Carlo De Benedetti nel processo Sme). La condanna di Silvio Berlusconi in Cassazione e la seduta della Giunta del Senato in calendario per il 9 settembre che dovrà esprimersi sulla decadenza dell’ex premier da parlamentare potrebbero provocare una crisi di governo, la fine della legislatura, un nuovo scontro elettorale. Di certo chiudono una lunga stagione. Anche per la sinistra. “Il giustizialismo ha fatto del male alla sinistra perché non si è reso sostanziale il principio della divisione dei poteri”, sottolinea il sindaco di Milano. “Su ogni proposta sulla giustizia la domanda era la stessa: avvantaggia o no Berlusconi? Legittimo, negli anni delle leggi ad personam. Ora si può pensare a una riforma complessiva, anche se non mi faccio illusioni: la giustizia resterà terreno di scontro politico, nel programma del governo Letta non è spesa una parola”. Davvero esiste lo scontro politica-giustizia o è stata un’invenzione propagandistica del Cavaliere? E quando è cominciato? “Lo scontro c’è stato, ma non quello di cui parla Berlusconi. Non è stato tra politica e magistratura, ma tra alcune parti bene individuate della politica e alcuni appartenenti alla magistratura. Nella mia esperienza c’è stato un momento in cui ho sperato che fosse possibile riformare la giustizia tra il 1996 e il 1998, con il governo Prodi. C’era un progetto organico, per la prima e ultima volta, che nasceva da una proposta del ministro Flick e dal confronto nella commissione Giustizia della Camera da me presieduta. La discussione era aspra, ma alla fine i disegni di legge venivano approvati con un consenso più ampio del centrosinistra: il diritto di difesa, i diritti delle vittime di reato, la semplificazione del processo penale, la celerità dei tempi, l’eliminazione delle preture, una depenalizzazione dei reati minori. Si è introdotto nella Costituzione il giusto processo, si è tentato di ridurre il numero eccessivo di prescrizioni, che permettono l’impunità dei colpevoli e sono una macchia per gli innocenti. La tensione politica era spostata tutta sulla Bicamerale, in Parlamento si lavorava bene. Terminato quel periodo, è ripreso uno scontro che era partito da Mani Pulite. Quando governava il centrosinistra si sono affrontati piccoli problemi, quando governava il centrodestra si sono limitati alle leggi ad personam”. Berlusconi si lamenta di non aver mal potuto fare la riforma della giustizia: bloccato dai magistrati e dai suoi alleati. “Con il centrodestra al governo ho visto che in Parlamento si partiva da leggi che avevano a volte un obiettivo condivisibile cui però si aggiungeva una ciliegina, un tocco di veleno, una norma finalizzata in modo specifico a determinati processi, a favorire alcuni imputati, stravolgendo il principio di uguaglianza. La legge Cirielli, che pur non condividevo, riguardava la recidiva, poi un emendamento introdusse un taglio dei tempi della prescrizione azzerando molti processi importanti. Di qui è tornato lo scontro, non delle toghe contro la politica. La magistratura si difendeva dall’attacco di una parte politica che usava la forza dei numeri in Parlamento per stravolgere le regole. Aggiungo per sincerità che quando ci fu un progetto organico, come nel 1996 - 98, una parte della magistratura lo contrastò con decisione, non capirono che poteva esserci una svolta positiva. Molti magistrati poi espressero, anche pubblicamente, il loro rammarico per la mancata realizzazione di quel progetto di riforma”. Berlusconi accusa la magistratura di aver cominciato a fare politica negli anni di Tangentopoli, quando furono falcidiati i partiti di governo. Furono processi politici? C’era un progetto politico del pool Mani Pulite? “Nel 1992-93 l’avvocatura difendeva i diritti degli imputati nel processo, senza mai difendersi dal processo. Ci furono anche molti patteggiamenti. C’era una diversità tra le procure in prima fila che si sentivano sotto attacco e la serenità della magistratura giudicante che è sempre stata attenta ai diritti della difesa. Ottimi magistrati che stimo, soprattutto pm, pensarono di poter moralizzare il Paese attraverso l’intervento penale. L’azione della magistratura, in presenza di notizie di reati, è doverosa, ma la moralizzazione è un problema culturale che riguarda tutti, in primo luogo i politici che devono dare l’esempio”. I magistrati di Mani Pulite ebbero un occhio di riguardo per gli ex comunisti, come sostiene Berlusconi? “Posso testimoniare che le indagini furono profonde, in tutte le direzioni. Le prove sono state cercate dappertutto, quando non furono trovate non si andò a giudizio, come prevede il Codice. Colpisce che chi adesso attacca i giudici allora difendeva l’operazione Mani Pulite che era sostenuta da una destra forcaiola e giustizialista. Le indagini furono politicamente strumentalizzate dalle tv di Berlusconi e dalla Lega che agitava il cappio, finché i magistrati non toccarono i loro”. C’è chi sostiene che lo sbilanciamento tra politica e giustizia a favore dei pm è stato provocato dall’eliminazione nel 1993 dell’immunità parlamentare prevista dalla Costituzione del 1948: condivide? “Non era sbagliata la norma della Costituzione, per decenni è stata interpretata correttamente, le autorizzazioni a procedere venivano negate solo quando c’era il fumus persecutionis. Poi si è abusato di quello strumento, è diventato sempre di più una scelta politica e non una scelta di coscienza, la difesa degli amici e l’abbandono degli avversari. Quando si discusse di cambiare l’articolo 68 proposi di introdurre una maggioranza qualificata per le autorizzazioni, per evitare una coincidenza con la maggioranza politica. Ma oggi tornare indietro sarebbe sbagliato, l’immunità sarebbe vista come un privilegio”. Che cosa ha pensato dei suoi colleghi che negli anni successivi si sono arruolati nel partito degli avvocati di Berlusconi? “Io ho fatto di tutto, anche quando ero parte civile nei processi contro Berlusconi, per tenere distinte le due attività. Quando poi in Parlamento sono iniziate ad arrivare le direttive dall’alto, come nel caso dei legali di Berlusconi, è diventato impossibile serenamente discutere di giustizia”. Perché non ha fatto il ministro della Giustizia nel 2006? “Ho capito che non c’erano le condizioni per fare una riforma complessiva. C’erano resistenze notevoli, da più parti”. Lei ha sempre avvertito la sinistra: molti italiani pensano che Berlusconi sia un perseguitato, tanto è vero che a Milano, la città delle inchieste, a lungo è stata la roccaforte del berlusconismo. “L’ho detto e lo ripeto oggi. E stato un grave errore per la sinistra pensare di poter delegare alla magistratura il compito della politica, il cambiamento. Le ha tolto consenso, perché ha indotto in molti la convinzione che Berlusconi fosse un perseguitato”. Lo era davvero? Berlusconi ripete che II primo avviso di garanzia gli arrivò a Napoli, dopo la sua discesa in campo? “Non è vero che i suoi processi sono cominciati dopo il suo ingresso in politica, nel 1994. E nei processi che gli sono stati intentati c’erano elementi concreti per andare a giudizio. Berlusconi è stato assolto in alcuni casi, in altri prescritto, in altri è stato ritenuto non giudicabile come nel lodo Mondadori, anche grazie alle attenuanti generiche che ottenne, e questo colpisce, per il suo ruolo istituzionale”. La norma retroattiva sull’incandidabilità prevista dalla legge Severino è costituzionale? Oppure pensa anche lei, come alcuni costituzionalisti, che bisogna chiamare la Consulta a pronunciarsi? “È una norma proposta da tempo, meditata e poi approvata dal Parlamento a larghissima maggioranza. E il Parlamento ha sempre la possibilità di modificarla, cambiarla, migliorarla. A me sembra strumentale chiedere l’intervento della Consulta. Non credo che ci siano i presupposti di incostituzionalità, ma deciderà il Senato. Voglio ricordare che Berlusconi già usufruisce di tre anni di condono e non farà un giorno di carcere. Altri ex premier o ex ministri non hanno avuto alternative. Per loro c’era solo il carcere o i servizi sociali o il carcere. E si può fare politica benissimo fuori dal Parlamento, anche senza scomodare Nelson Mandela”. Luciano Violante obietta che il Pd deve riconoscere a Berlusconi il diritto di difesa. È diventato più garantista di lei? “Chiaramente condivido che vada garantito il diritto di difesa a tutti, anche all’avversario politico. Berlusconi può parlare, presentare tutte le memorie difensive che crede, ma a un certo punto una decisione va presa. 11 diritto di difesa non può impedire il diritto-dovere di decisione del Senato. Siamo in presenza di una sentenza passata in giudicato per un reato che ha creato danni ingenti allo Stato. Se si pensa che la sentenza sia ingiusta, si faccia richiesta di revisione del processo. Ma non mi pare di averne sentito parlare”. Il presidente Napolitano ha scritto che “ora”, cioè dopo la condanna di Berlusconi, si può fare la riforma della giustizia: ci sono le condizioni? “La celerità dei processi, la tutela delle vittime, le pene alternative al carcere, bisogna coniugare celerità, efficienza e garantismo e quindi riportare la prescrizione a un livello accettabile. Eliminare reati come quello dell’immigrazione clandestina che penalizzano uno status sociale e ingolfano i tribunali di processi inutili. Intanto, si possono applicare le norme che già ci sono. Dallo scontro bisogna passare al confronto per fare un passo avanti. Il luogo giusto è il Parlamento”. Sulla giustizia i radicali stanno raccogliendo le firme per i referendum. Li sottoscriverà? “Sulla giustizia e su altre questioni condivido l’impegno dei radicali, ma ancora una volta manca il progetto complessivo di riforma”. Lo farà, ora che la questione giustizia potrebbe essere sottratta allo schema berlusconiani - antiberlusconiani? “C’è un salto culturale da fare. Il giustizialismo ha fatto male alla sinistra che non è riuscita a rendere sostanziale la divisione dei poteri: appena c’era una norma, sia pur giusta, ma che poteva eventualmente favorire un solo avversario politico, ci si bloccava. Garantismo significa limitare gli errori giudiziari. Ora il Paese ha assoluto bisogno di una riforma. Ma non credo che questo Parlamento abbia molti margini di manovra. La giustizia resterà un terreno di scontro, non è un caso che il governo Letta non abbia la giustizia nel suo programma. Forse bisogna trovare il modo per avere pronto un progetto complessivo quando comincerà una nuova fase politica”. Chi ha vinto in questi venti anni di scontro? “Berlusconi è stato favorito dal suo ruolo politico. A lui ha giovato sul piano personale, ma ha impedito che si potesse toccare il fondo”. Avellino: detenuto di 64 anni si uccide nella sua cella a Sant’Angelo dei Lombardi di Giulio D’Andrea Il Mattino, 6 settembre 2013 La morte in carcere a Sant’Angelo dei Lombardi, proprio mentre ad Avellino si parla della struttura altirpina come una delle migliori d’Italia. Un’incredibile coincidenza. La Uil-Pa Penitenziari è in conferenza stampa nel capoluogo. Negli stessi minuti un detenuto di 64 anni si toglie la vita a Sant’Angelo. Si è impiccato con i lacci delle scarpe, legandosi alla sponda di un letto a due piani, nella sua cella. Poi si è lasciato andare. Immediati ma inutili i soccorsi. L’uomo si chiamava Gennaro Panariello. È morto per la frattura di una vertebra cervicale. Era originario di Scafati. L’episodio si è verificato intorno alle 9.30 di ieri mattina. Il decesso a mezzogiorno. “La notizia del suicidio presso la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi ci turba e ci addolora ma nulla toglie ai giudizi positivi che abbiamo espresso sulla struttura penitenziaria di Contrada Selvatico”, commenta il segretario nazionale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno. “La persona deceduta era molto seguita dagli operatori. Si sottoponeva a visite quotidiane per emicrania - aggiunge. Si tratta del primo suicidio in sei anni. Penso che questa morte non possa essere correlata con le condizioni della Casa di Reclusione”. Condizioni più che dignitose nonostante il sovraffollamento. Così la delegazione Uil al Circolo della Stampa di Avellino. L’occasione è stata la presentazione di una delle tappe del tour fotografico “Lo scatto dentro”, che il sindacato ha organizzato per documentare lo stato delle prigioni italiane. “Volendo ricorrere ad una metafora direi che il nostro sistema penitenziario si compone di tantissimi inferni, pochi purgatori e rari paradisi. Sant’Angelo dei Lombardi può rivendicare a pieno titolo di essere collocato sul podio delle eccellenze - sostiene Sarno. Purtroppo nemmeno una delle strutture più all’avanguardia è esente dall’atavico problema del sovraffollamento. I posti disponibili a Sant’Angelo sarebbero 117 ma ieri erano presenti 209 detenuti, di cui 176 italiani. I detenuti con sentenza definitiva sono 186, tre sono quelli in attesa di primo giudizio, dodici gli appellanti, otto i ricorrenti in Cassazione. L’organico della polizia penitenziaria non è stato ancora ufficialmente decretato ma una commissione dipartimentale individuò in 135 unità il contingente necessario rispetto alle 107 unità attualmente in servizio”. Poi il segretario nazionale precisa: “L’elevata automazione e la salubrità dei posti di servizio rendono giustizia all’elevata professionalità della polizia penitenziaria. Così come le tante attività scolastiche e formative si coniugano ad una intensa attività di lavorazioni che ha portato all’occupazione lavorativa a vario titolo di 81 detenuti, con una media del 41 per cento rispetto alla media nazionale che vede solo l’8 per cento dei detenuti impiegate in attività di lavoro”. La Uilpa Penitenziari ha inoltre comunicato che proporrà al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di riconoscere lo stato di “sede disagiata” della casa di reclusione alla stregua del riconoscimento già ottenuto dal locale Tribunale e che in vista del decennale dell’inaugurazione maggio 2014 solleciterà il Dap ad intitolare la struttura ai tre agenti di custodia periti nel crollo del vecchio carcere durante il sisma del 1980. Inoltre, per arrivare all’attualità delle vertenze irpine, Eugenio Sarno si è detto fermamente contrario alla riforma della geografia giudiziaria. “Quando si toglie un presidio di giustizia - ha dichiarato - è una sconfitta per lo Stato”. Un detenuto di Scafati si impicca in carcere, Alfonso T. Guerritore (La Città di Salerno) Angelo Panariello era rinchiuso nel penitenziario di S. Angelo dei Lombardi. Stava scontando una condanna per truffa. Restano ignoti i motivi del gesto. È stato ritrovato morto ieri nella sua cella presso la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, Angelo Panariello, sessantaquattrenne di Scafati. Stando alle ricostruzioni dei Carabinieri, l’uomo si sarebbe impiccato al letto servendosi dei lacci delle scarpe, che avrebbe legato alla struttura di ferro. In cella non sarebbero stati ritrovati messaggi dell’uomo, né indizi tali da consentire di risalire alle motivazioni che lo hanno spinto al gesto ultimo e irrimediabile. Sulla questione incombe il massimo riserbo da parte dell’autorità giudiziaria, che nella mattinata di ieri ha disposto il sequestro della salma per l’esame autoptico, e ha affidato le procedure di accertamento alla locale Compagnia dei Carabinieri. Trasferita presso l’obitorio del presidio ospedaliero “G. Criscuoli” di Sant’Angelo dei Lombardi, la salma è stata presidiata dalle forze dell’ordine, in attesa di verdetto ufficiale. Panariello era stato trasferito nella struttura da circa un anno, dove avrebbe dovuto scontare una condanna per truffa. “La notizia del suicidio di un detenuto 64enne presso la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, avvenuto nella mattinata odierna, ci turba e ci addolora ma nulla toglie ai giudizi positivi che abbiamo espresso sulla struttura penitenziaria di Contrada Selvatico”. Così Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, si esprime sulla notizia che giunge dal penitenziario che proprio ieri aveva ospitato una delle tappe del tour fotografico “Lo scatto dentro” che la Uil-Pa Penitenziari ha organizzato per documentare lo stato delle prigioni italiane. “Volendo ricorrere ad una metafora direi che il sistema penitenziario italiano si compone di tantissimi inferni, pochi purgatori e rari paradisi. Sant’Angelo dei Lombardi può rivendicare a pieno titolo di essere collocato sul podio delle eccellenze penitenziarie italiane. Purtroppo nemmeno una delle strutture più all’avanguardia è esente dall’atavico problema del sovraffollamento. I posti disponibili sarebbero 117 ma ieri erano presenti 209 detenuti, di cui 176 italiani. I detenuti con sentenza definitiva sono 186, 3 quelli in attesa di primo giudizio, 12 gli appellanti, 8 i ricorrenti in Cassazione”. Ancora: “L’organico della polizia penitenziaria non è stato ancora ufficialmente decretato ma una commissione dipartimentale individuò in 135 unità il contingente necessario rispetto alle 107 unità attualmente in servizio”. Sappe: situazione carceri insostenibile È un detenuto definitivo di 64, A.P., l’ennesimo detenuto suicida in un carcere italiano. Si è tolto la vita, mediante impiccamento, nella sua cella del carcere di S. Angelo dei Lombardi. A darne notizia è la Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa di Categoria, che ha sottolineato come “anche questo carcere, come altri, non è purtroppo immune da tragedie e criticità”. Un evento che per il Sappe è “sintomatico di come purtroppo ci sia ancora molto, moltissimo da fare per il sistema carcere. A cominciare proprio dal carcere di S. Angelo dei Lombardi, rispetto al quale vi sono molte incertezze ed approssimazioni”. “Le contraddizioni dell’Amministrazione Penitenziaria retta da Giovanni Tamburino sono talmente evidenti che non sappiamo cosa aspetti la Ministro Guardasigilli ad avvicendarlo dalla guida del Dap” aggiunge Donato Capece, segretario generale Sappe, che sottolinea come “per l’apertura ed il funzionamento del carcere di S. Angelo dei Lombardi sono state depauperate le carceri calabresi da decine di poliziotti mandati a fare lì servizio. E questo nonostante i penitenziari calabri soffrono di una grave carenza organica di Baschi Azzurri ed è in atto un piano di mobilità a domanda del Personale che aspira ad essere trasferito in quella sede. Così facendo il Dap di Tamburino scontenta coloro che, da anni in servizio in carceri del Nord, aspirano ad essere trasferiti a S. Angelo dei Lombardi e contestualmente aggrava la già precaria situazione penitenziaria calabrese. Servono urgenti determinazioni, che auspichiamo verranno adottate con sollecitudine dal Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri”. Catanzaro: Sappe riapre Casa di Reclusione a custodia attenuata di Laureana di Borrello Ansa, 6 settembre 2013 È ufficiale: riapre la casa di reclusione “Luigi Daga” di Laureana di Borrello. Ad affermarlo sono il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, e il segretario nazionale, Damiano Bellucci, che fanno riferimento ad una nota ufficiale inviata alle organizzazioni sindacali dal Provveditore regionale. “Nella stessa nota - aggiungono Durante e Bellucci - il provveditore ha comunicato che all’istituto saranno destinati detenuti a basso indice di pericolosità, ripristinando, quindi, l’originaria destinazione di istituto a custodia attenuata. Attualmente a Laureana prestano ancora servizio cinque agenti della polizia penitenziaria e a questi, sempre secondo quanto riferito dal provveditore, dovrebbero aggiungersene altri 10”. “Prendiamo favorevolmente atto - dicono ancora Durante e Bellucci - dell’iniziativa. La battaglia condotta dal Sappe al momento della chiusura è stata quanto mai utile ed efficace”. La casa di reclusione a custodia attenuata di Laureana di Borrello, istituita nel 2004 e diventata una struttura modello, era stata chiusa nell’ottobre dello scorso anno per decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La decisione aveva provocato proteste da parte degli enti locali, delle istituzioni locali e regionali ma anche prese di posizione di ex detenuti. Sassari: domani all’Asinara presentazione protocollo promozione biblioteche in carcere Ansa, 6 settembre 2013 Una biblioteca può salvare una vita. Sabato 7 settembre, alle 19, nell’ex supercarcere di Fornelli all’Asinara, si terrà la presentazione del Protocollo per la promozione e gestione dei servizi bibliotecari negli istituti penitenziari italiani, sottoscritto dal dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, dall’Unione delle Province, dall’Anci e dall’Associazione Italiana Biblioteche (Aib). La presentazione dell’importante accordo, che sottolinea come la lettura sia un diritto universale anche per i detenuti nelle carceri di tutto il mondo, avverrà in occasione dell’appuntamento conclusivo del progetto “Libera Storie”, promosso dall’ Assessorato regionale della Pubblica istruzione, in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e con l’Aib e realizzato in collaborazione con il Festival “Pensieri & parole. Libri e cinema all’Asinara”. Il Protocollo per la promozione e gestione dei servizi bibliotecari negli istituti penitenziari italiani richiama la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (7 dicembre 2000); la Dichiarazione delle nazioni Unite sull’Educazione e la formazione dei diritti umani (23 marzo 2011); il rapporto “Education in prison” approvato dal Consiglio d’Europa (Strasburgo, 1990); il Manifesto Unesco per le biblioteche pubbliche del 1994; la Carta del lettore formulata dal’International Book Committee e dalla International Publishers Associations e pubblicata dall’Unesco; infine, le linee guida dell’International Federation of Libraries Associations and Institutions per le Biblioteche in carcere del 2005. Asse principale del protocollo È la promozione e lo sviluppo del servizio di biblioteca all’interno degli Istituti penitenziari italiani, per rendere più che mai valido il principio della “lettura come diritto universale di ogni cittadino” e ribadire il valore delle biblioteche e della lettura per chi deve trascorrere parte della propria esistenza in carcere. Napoli: Beneduce (Pdl) visita il Centro sanitario del carcere di Secondigliano Ansa, 6 settembre 2013 Un tour nella struttura sanitaria del centro penitenziario di Secondigliano. È l’iniziativa di Così Flora Beneduce, consigliere regionale del Pdl, componente della Commissione Sanità. “Manca il personale medico e paramedico e le strumentazioni sono inadeguate o assenti - spiega Beneduce. Non è garantita l’assistenza specialistica per ortopedia, urologia, diabetologia, neurologia, gastroenterologia e chirurgia vascolare. Le ore affidate al cardiologo sono insufficienti e le attrezzature ecocardiografiche ed ecografiche sono obsolete. Del tutto assente, poi, la diagnostica per immagini. Infine, gli esami di laboratorio non possono essere effettuati in sede e bisogna far ricorso ad altri centri clinici, esclusivamente due volte a settimana. Questa situazione È insostenibile”. “L’attenzione alle fasce deboli è prioritaria - dice ancora Beneduce. Come primario, sono sempre stata interessata al miglioramento delle condizioni fisiche e psicologiche dei pazienti nei presidi ospedalieri. Avrei voluto da tempo far visita ad un centro clinico in una struttura penitenziaria e oggi posso mettere a disposizione delle carceri non solo le mie competenze di medico, ma la mia disponibilità in qualità di rappresentante istituzionale”. Per quanto riguarda la condizione degli ospedali in Campania, Beneduce illustra la capacità di alcuni ospedali di crescere ed essere “cantieri di progresso” nonostante i tagli dovuti alla spending review. “Mi auguro, dopo i tagli imposti dal piano di rientro, che molti nosocomi, che dispongono di eccellenti professionalità, possano ottenere anche attrezzature all’avanguardia - continua il consigliere Beneduce. Inoltre, è auspicabile che nuove risorse umane possano essere impiegate per apportare il loro contributo in termini di energia, entusiasmo e specializzazione”. Chieti: Referendum; domani i Radicali in carcere per raccogliere le firme dei detenuti Notizie Radicali, 6 settembre 2013 Sabato prossimo, 7 settembre, a partire dalle 8,30, una delegazione dei radicali abruzzesi - composta da Pina De Gregorio, Alessio Di Carlo, Roberto Di Masci e dal consigliere regionale Pdl Riccardo Chiavaroli, iscritto con doppia tessera al Partito Radicale Transnazionale - si recherà presso il carcere teatino di Madonna del Freddo, accompagnata dal consigliere comunale autenticatore Raffaele Di Felice, per raccogliere le firme dei detenuti sulle dodici proposte referendarie promosse in materia di giustizia e diritti civili. Inoltre, nel fine settimana sarà possibile firmare i referendum radicali e la proposta di abrogazione parziale della legge Merlin a Montesilvano, Piazza Diaz (sabato 7 dalle 9 alle 13) e in Viale Europa, angolo Via Aldo Moro (sia sabato 7 che domenica 8, dalle 9 alle 13 e dalle 16,30 alle 20,30). Importante appuntamento infine quello previsto a Sulmona, in occasione della notte bianca in programma per sabato. I radicali provvederanno alla raccolta delle firme in collaborazione con gli esponenti locali del Pdl, guidati dalla Senatrice Paola Pelino e con Liana Moca, responsabile provinciale dell’Uaar di L’Aquila. Data e orario di quest’ultimo appuntamento verranno comunicati domani e saranno comunque reperibili sul gruppo Facebook e sul sito regionale dei radicali abruzzesi www.radicali.abruzzo.it. Perugia: Referendum Radicali in carcere “firmo per Marco, per l’amnistia e l’indulto…” Notizie Radicali, 6 settembre 2013 Per quattro ore io e Pierfrancesco Pellegrino oggi abbiamo raccolto 88 sottoscrizioni nel carcere di Perugia di detenuti e agenti penitenziari tutti muniti di documenti d’identità validi. Altri 300, 320 detenuti sono stranieri oppure non muniti di documentazione. “Firmo per Marco, per l’amnistia e l’indulto” è stato il leit motiv con il quale i detenuti hanno sottoscritto i referendum. Tutti. Firmati tutti i 12 referendum senza tanti “se” e “ma”, come spesso ci capita di assistere ai tavoli tra i cittadini non detenuti, i cosiddetti “liberi”. I detenuti firmano convinti che i quesiti referendari possano rispondere alle loro speranze e tutti ci hanno incitato ad andare avanti. Oggi abbiamo avuto una lezione di umanità. Trieste: per il Coroneo un direttore full-time, lo chiede il senatore Pd Francesco Russo Il Piccolo, 6 settembre 2013 La Casa Circondariale di Trieste è un punto di riferimento per tutta la regione e merita una guida a tempo pieno. Benché l’impegno del dottor Casarano sia encomiabile, il direttore del Coroneo deve poter occuparsi in modo continuativo della struttura, sviluppando una progettualità chiara e a lungo termine”. Lo afferma Francesco Russo, senatore Pd, che a riguardo ha presentato ieri un’interrogazione a risposta scritta al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. “Dal trasferimento del dott. Sbriglia si sono avvicendati tre dirigenti, e l’attuale direttore, in servizio anche presso l’istituto di Padova, è presente a Trieste per soli due giorni alla settimana”, spiega Russo. “Durante la mia recente visita alla struttura ho avuto modo di constatare personalmente le difficoltà che quotidianamente vivono polizia penitenziaria, operatori e detenuti: quasi cento persone recluse in più rispetto alla capienza prevista e, in proporzione, il personale è notevolmente sotto organico - continua il senatore democratico - nonostante ciò, grazie allo straordinario impegno e alla volontà del personale, ho comunque riscontrato un ambiente sereno, in cui i detenuti hanno la possibilità di impegnarsi in numerose attività trattamentali e formative che garantiscono loro una significativa occasione di lavoro e recupero”. “Il senso di responsabilità di questa comunità penitenziaria va aiutato e supportato in ogni modo. Per questo, come avevo preannunciato un mese fa, oggi ho presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro Cancellieri per sottolineare e ribadire la necessità e l’urgenza per il Coroneo di avere un direttore stabile”. Sulmona (Aq): dopo la legionella, la tubercolosi in carcere, avviata profilassi Il Tempo, 6 settembre 2013 Dopo il caso di legionella di qualche settimana fa, scoppia un caso di tubercolosi in carcere. Nel denunciare il fatto, le segreterie sindacali di Uil e Ugl, muovono comunque un sentito apprezzamento per quanto questa volta fatto dalla direzione del carcere circa la profilassi adottata. “A dimostrazione di quanto fatto - scrivono Nardella della Uil e Picini dell’Ugl - la direzione del carcere ci ha inviato una nota dove ha elencato tutte le strategie adottate per evitare qualsiasi tipo di contagio e tra queste anche la sottoposizione al previsto screening delle persone che in modo o nell’altro sono venute a contatto con il detenuto affetto dalla patologia. Il tutto in attesa di ricevere indicazioni dall’autorità sanitaria circa il caso di estendere i controlli”. Intanto, nel complesso carcerario, a novembre prossimo, cominceranno i lavori per la realizzazione del nuovo padiglione carcerario che dovrà ospitare 200 detenuti. Nei giorni scorsi i primi sopralluoghi da parte dei tecnici: geometri ingegneri e personale tecnico della ditta appaltatrice deputata alla costruzione del nuovo complesso che hanno precisato che per novembre prossimo si comincerà. Roma: i detenuti attori di Rebibbia sul palcoscenico del Teatro Argentina Il Velino, 6 settembre 2013 I detenuti attori di Rebibbia varcano le soglie del Carcere per debuttare sul prestigioso palcoscenico del Teatro Argentina venerdì 13 settembre ore 21. Per la terza edizione del Festival dell’arte reclusa va in scena “La Festa”, ideazione e regia Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito. Drammaturgia Valentina Esposito. Con la Compagnia del Reparto G8 del Carcere di Rebibbia N.C. E con venti giovani allievi dell’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica. La Festa. Primi Novecento. Nelle cucine di un grande transatlantico in rotta verso le Americhe, si svolge una vicenda d’amore paterno, filiale, una storia di nostalgia e rimpianto tra passato e presente. L’immensa nave addobbata a festa ripercorre il viaggio inaugurale di diciotto anni prima. A quel tempo l’equipaggio viaggiava verso l’illusione di una nuova vita intorno al mondo. Tanti anni dopo, invecchiati, quasi “reclusi”, i cuochi di bordo attendono ansiosi che la giovane Miriam ricompaia nelle loro vite. Miriam: la figlia dell’armatore, la bambina che aveva trascorso in navigazione i primi sei anni della sua vita condividendo con l’equipaggio un’infanzia serena sull’oceano perennemente in bonaccia. Miriam: che a sei anni lascia la nave per affrontare la vita a terra, la scuola, l’adolescenza, l’esperienza del mondo “normale”, lasciando dietro di sé l’affetto di altrettanti padri quanti erano i cuochi della nave. Loro la ricorderanno per sempre, unico affetto filiale fra il rude cameratismo della ciurma, il clangore della sala macchine e il caos organizzato dei fornelli. Siamo alla vigilia del ballo per il suo diciottesimo compleanno, la festa sarà grandiosa, 800 sono gli invitati ma solo a lei è dedicata la sublime raffinatezza delle portate. Lei, Miriam, tornata sulla nave per festeggiare il proprio diciottesimo compleanno, si ricorderà di quei cuochi ragazzi divenuti ora maturi chef ? Di uomini che non sono mai davvero riusciti a salire le scale che da sottocoperta conducono ai grandi saloni di prima classe? Nelle cucine del transatlantico si vive la frenetica laboriosa attesa di un ritorno che restituisca un attimo di gioia dopo i lunghi anni della solitudine affettiva. Ma Miriam non si fa viva. I piatti che le vengono espressamente preparati ed inviati in cabina, ritornano intatti alle cucine. Fra i saloni e i ballatoi, inservienti riportano voci inquiete. Forse Miriam è triste, forse è vittima di un dispiacere a tutti sconosciuto. L’enigma diventa motivo ispiratore per parlare dei sogni infranti, dell’età della giovinezza, di quello che è stato e che poteva essere, dei sogni ancora da realizzare, speranze e desideri. Dell’amore. Amore paterno, amore filiale. La pièce prova a scandagliare l’anima di uomini che dalla loro reclusione si commuovono al pensiero degli affetti lontani, dei figli distanti, degli amori perduti. E scandaglia l’animo dei giovani, di quel difficile rapporto figlio-padre, fatto di incomprensioni e ribellioni. La reclusione diventa così metafora dell’infinito lavorio dell’anima alla ricerca del significato universale dell’essere padri e dell’essere figli. Per la prima volta, al cast dei detenuti-attori di Rebibbia N.C., si affiancano venti giovani allievi attori dell’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica. Insieme rendono possibile la ricostruzione emotiva di una vicenda sospesa tra il passato e il presente, tra l’ingenua gioventù e la dura maturità, tra la vita libera e la vita reclusa nel ventre del leviatano, la grande nave che non approda mai. Teatro Argentina - Largo di Torre Argentina, 52 Roma - 13 settembre, ore 21,00. Ingresso libero con obbligo di prenotazione. Tempio Pausania: dentro il carcere vanno in scena le opere dei detenuti La Nuova Sardegna, 6 settembre 2013 È stata una grande sorpresa per tutti. Anche per la direttrice dell’istituto penitenziario, Carla Ciavarella, che ha osservato con i propri occhi i progressi di un’idea che ora non si può ritenere solo accattivante: un carcere sempre più integrato con la realtà di cui almeno geograficamente è parte. Tutto merito, questa volta, di uno spettacolo emozionante. Un reading letterario, ideato da Carta Dannata, con la formazione in acustico dei Riptiders (Marco Serra, Thomas Gordon, Mauro Pes), ottimamente condotto da Alessandro Achenza, con attori e autori detenuti. Tutti, esibendo un talento autentico, hanno proposto poesie o testi anche propri, davanti ad un pubblico costituito da altri detenuti. C’è stato chi, come Giuseppe Bottone, ha letto una propria poesia (la stessa con la quale si è piazzato secondo in un concorso) e chi ha interpretato con consumata abilità scenica testi di altri. Pietro Nicolosi, Franco Toscano, Vincenzo Gallo (autore di un’esilarante gag con Vincenzo Monreale), Angelo Scalia, Fabio Tortorella, Francesco Maccarrone e Salvatore Catti hanno dimostrato quanto arte e teatro possano essere felicemente di casa anche in un supercarcere. Immigrazione: Cie, un libro svela l’inganno delle “gabbie per stranieri” di Luigi Manconi, Valentina Calderone e Valentina Brinis L’Unità, 6 settembre 2013 Negli ultimi due mesi si sono verificate rivolte all’interno di alcuni Centri di identificazione ed espulsione (Cie) in Italia. In una delle più accese, quella di Gradisca d’Isonzo del 13 agosto, una persona trattenuta è caduta dal tetto sul quale era salita in segno di protesta, dovendo poi subire un serio intervento chirurgico. Le sue condizioni cliniche e fisiche rimangono, ancora oggi, gravi. A scatenare quella reazione era stata la risposta negativa alla richiesta, da parte degli “ospiti”, di poter avere un’ora d’aria in più per i festeggiamenti della fine del Ramadan. Un rifiuto la cui motivazione, qualunque fosse, appare futile rispetto al dramma accaduto. E ciò che preoccupa è che l’incidente del Cie di Gradisca rischia di non essere un caso isolato. Sempre più spesso, infatti, quei luoghi rivelano la propria natura, ovvero quella di essere prigioni nelle quali gli effetti della privazione della libertà risultano insopportabili. Una “prigione per stranieri”, come efficacemente recita il titolo di un libro scritto da Caterina Mazza per le edizioni Ediesse, uscito proprio ieri in libreria. Qui vengono messe bene in evidenza le caratteristiche proprie di questi tipi di centri, di come dovrebbero essere gestiti e di qual è il loro stato reale, oltre che la loro origine e la loro evoluzione. Si legge che i Cie sono stati realizzati per provvedere al trattenimento della persona migrante priva di documenti regolari per il soggiorno in Italia affinché la stessa venisse identificata ed espulsa, tanto che il periodo previsto per lo svolgimento di tale pratica era di trenta giorni, prorogabili al massimo di altri trenta. Un provvedimento del 2011 ha, però, prolungato questo tempo fino ad arrivare a 18 mesi. È in quel passaggio che si riassume la crudeltà del trattenimento, complicato dalla conduzione spesso precaria e non sufficientemente monitorata. I centri vengono presi in gestione tramite gare di appalto al ribasso vinte riducendo al minimo il costo pro-capite e pro-die: a Crotone, per esempio, esso ammontava a 21 euro. Cifre talvolta ridicole, che non rendono possibile un’organizzazione in grado di rispettare i diritti fondamentali della persona; e non consentono nemmeno di osservare le indicazioni previste dal capitolato del ministero dell’Interno, ovvero le linee guida predisposte per quelle strutture. Accade così che, qui, l’uno accanto all’altro, si trovi sia chi ha già svolto all’esterno percorsi di integrazione andati a buon fine, sia chi da poco arrivato in Italia, avrebbe bisogno di essere accolto in strutture capaci di fornirgli strumenti utili per orientarsi nella prima fase di permanenza. All’interno di questi centri quasi mai vengono organizzate attività utili alla persona trattenuta, con il risultato che il tempo passa e la frustrazione aumenta. Un tempo vuoto, da trascorrere all’interno di vere e proprie gabbie, dove domina l’incertezza: perché sono qui, quanto rimarrò qui, dove andrò dopo? Immigrazione: algerino pestato in cella di sicurezza, un video incastra due finanzieri Agi, 6 settembre 2013 Il pestaggio di un algerino, avvenuto il 21 agosto nella cella di sicurezza dell’ufficio di polizia di frontiera dell’aeroporto di Fiumicino, ha messo nei guai due finanzieri, Giorgio Colasanti e Luigi Ferrelli, che sono stati sospesi dal servizio per due mesi su decisione del gip. A incastrare i due militari è stato il filmato effettuato dalla telecamera posta sul soffitto della camera di sicurezza. Almeno un minuto di gratuita e inaudita violenza che la procura di Civitavecchia avrebbe voluto sanzionare sollecitando una misura restrittiva piu’ severa se non ci fosse stata la legge ‘svuota carceri’ che prevede la custodia cautelare solo i reati puniti con una pena superiore (nel massimo) a cinque anni di reclusione. Vittima del pestaggio è stato il clandestino Abdelhak Halilat, arrestato dalla Polaria per aver cercato di entrare nel territorio italiano senza avere i permessi necessari. Secondo quanto ricostruito dalla procura, Colasanti, appena entrato nella cella e senza dire una parola, si è scagliato contro lo straniero colpendolo con schiaffi, pugni e calci fino a provocargli una frattura delle ossa nasali ed ecchimosi vari sul corpo. Ferrelli, invece, ha assistito alla scena impassibile, senza muovere un dito. Come se nulla fosse, poi, i due sono usciti dalla camera di sicurezza. Colasanti e Ferrelli sono cosi’ accusati di concorso nel reato di abuso di autorità contro chi è arrestato e detenuto e in quello di lesioni personali aggravate dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai motivi abietti e futili da ricondursi alla frustrazione per non essere riusciti a bloccare l’algerino sulla pista dell’aeroporto, “impresa” poi riuscita, invece, al personale della Polaria. Per il gip che ha applicato la misura interdittiva della sospensione, “i fatti in esame risultano di rilevante gravità e danno conto di personalità violente e prevaricatorie”. Al di là della loro incensuratezza e dei loro curriculum, i due finanzieri, mostrando “spregio per la divisa che indossavano”, hanno approfittato vilmente “della sproporzionata differenza della loro condizione rispetto alla vittima, assolutamente indifferenti al loro ruolo di tutori dell’ordine pubblico rivestito”. Stati Uniti: terminato dopo due mesi sciopero della fame dei detenuti contro l'isolamento 9Colonne, 6 settembre 2013 Dopo due mesi, ieri è terminato lo sciopero della fame portato avanti da oltre 12mila detenuti delle carceri californiana, come ha confermato la California Department of Corrections and Rehabilitation. I reclusi di diversi istituti della California, guidati da quelli del carcere di Pelican Bay, vicino al confine con l'Oregon, avevano indetto la protesta per porre fine ai lunghi periodi d'isolamento ai quali venivano spesso confinati in caso di mancata collaborazione nel fornire informazioni sensibili sulle gang interne. Come scrive la Cnn, il Department ha annunciato un'accelerazione nel programma di riforme invocato dai detenuti, che hanno inoltre richiesto abbigliamento più pesante, materassi più comodi e cibo migliore.