Giustizia: ministro Cancellieri; i detenuti devono stare in cella non più di otto ore al giorno di Francesco Grignetti La Stampa, 4 settembre 2013 Il sovraffollamento delle carceri è un problema che angoscia il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri. Da qualche mese, da quando è divenuta Guardasigilli, il ministro ha cominciato a frequentare le carceri. Tanto più che ha trovato un’eredità terribile: entro maggio deve dare una risposta credibile alla Commissione europea sul trattamento dei detenuti e dimostrare che l’Italia è tornata sui binari della civiltà, evitando una maximulta già pronta. Ma la Cancellieri, dal palco della Festa nazionale del Pd di Genova, appare ottimista. “Entro il prossimo maggio spero di convincere l’Europa con un pacchetto di misure molto concrete”. Qualcosina è già stato fatto. Un decreto definito “sfolla carceri” è entrato in vigore alla fine di giugno. Risultati: in un mese, gli ingressi in carcere sono diminuiti del 40%. Se mediamente, fino a giugno, erano 750 persone al mese varcavano la soglia del carcere, a luglio sono stati 400. Un piccolo grande segnale. “Si può intervenire - dice - anche con misure amministrative. Ho appena firmato una circolare che chiama direttori dei carceri e provveditori regionali al rispetto rigoroso del regolamento carcerario. Faccio un solo esempio: il detenuto deve stare in cella 8 ore, non 20-22 come accade oggi troppo spesso e in troppi istituti. Il regolamento carcerario è buono, solo che non è applicato in tanti casi”. Nella circolare del ministro c’è un altro capitoletto che può sembrare secondario, ma non è affatto così. “Ho disposto che le finestre devono rispettare il regolamento. Ovvero che il sole deve entrare. Non è sempre così. Ma sole e luce non sono mica un piacere che facciamo ai detenuti. E’ un loro diritto”. La Cancellieri, nelle sue prime ispezioni, ha scoperto con imbarazzo che c’è un’altra norma che viene spesso dimenticata: il diritto dei detenuti di incontrare i familiari senza il vetro divisorio. Che invece spesso è lì a impedire ogni contatto umano. Un divieto di carezza che ci riporta a dimensioni borboniche. Ma tant’è. Queste sono le carceri italiane. Ore di cella e ore d’aria, finestre, metri quadri pro-capite in cella, lavoro in carcere (che era divenuto impossibile per mancanza di soldi sul capitolo di spesa), spazi per le mense comuni (troppo spesso il detenuto mangia in cella): il carcere secondo Annamaria Cancellieri potrebbe migliorare innanzitutto attraverso i piccoli passi. E si consideri che l’Europa ci ha messi in mora, ed è pronta a sanzionarci, proprio perché è clamorosa l’inapplicazione del regolamento carcerario. C’è poi il problema dei posti che sono drammaticamente pochi: a fronte di 43mila posti regolamentari, in carcere ci sono 66mila detenuti. Da anni va avanti un Piano carceri. Dice il ministro: “Sono in preparazione 10mila nuovi posti, la metà dei quali sarà ultimato tra pochi mesi. In Europa andremo con fatti concreti”. Sono attesi poi una provvedimento di legge sulla depenalizzazione dei reati minori, l’approvazione in Parlamento del ddl sulla messa alla prova e di quello sulle misure alternative. Questo il pacchetto Cancellieri su cui converge pienamente anche Donatella Ferranti, Pd, la presidente della commissione Giustizia della Camera. Il Pd, però, con Danilo Leva, responsabile Giustizia, è pronto anche a una battaglia poco popolare: l’abolizione dell’ergastolo. “Se crediamo davvero alla finalità rieducativa del carcere - dice, l’ergastolo è una contraddizione. E non mi si venga a dire che il carcere a vita è un deterrente contro la mafia”. L’abolizione dell’ergastolo è uno dei referendum radicali. “Ma questi sono temi su cui non si può dire: sì o no. La nostra proposta è in Parlamento. Se il Pdl è d’accordo, confrontiamoci. Noi siamo pronti”. Giustizia: Pannella incontra premier Letta; nelle carceri situazione di tortura è strutturale Agi, 4 settembre 2013 “Questa è una situazione tecnicamente nazista”. A ribadire la sua denuncia per la situazione della giustizia in Italia e in particolare le condizioni di vita nelle carceri, luoghi “strutturalmente di tortura”, è stato il leader dei Radicali Marco Pannella ricevuto dal premier a Palazzo Chigi. “Sono stato ricevuto dal presidente del consiglio Enrico Letta, lo ringrazio, come ho ringraziato qualche giorno fa il Presidente della Repubblica, per avermi concesso udienza in termini quasi immediati - ha affermato al termine dell’incontro dai microfoni di Radio Radicale. Ho parlato a loro esattamente della sintesi possibile di quello che da lustri, ma anche da 5 mesi, 5 settimane o 5 giorni, quotidianamente dico a Radio Radicale e siccome lo dico a Radio Radicale non deve essere ripreso o trasmesso perchè il popolo possa conoscere quello che dico e giudicarlo: questa è una situazione tecnicamente nazista”. “Noi abbiamo negli ultimi dieci anni almeno un milione di carcerati - ha spiegato Pannella - intendendo per carcerati i detenuti, la polizia penitenziaria, i direttori, i volontari, in quello che nessuno contesta essere i 206 luoghi (le carceri, ndr) strutturalmente di tortura. Ma come nei tempi nazisti e fascisti, e comunisti ancora di più, se le cose riguardano una persona può fare scandalo, mentre se riguardano una generazione o milioni di famiglie allora a quella cosa ci si abitua”. E dopo aver ricordato “La vicenda Cucchi” che “è andata male, contro la verità, ma questo accade tutti i giorni”, Pannella parlando dei “venti minuti insieme” trascorsi insieme al premier - “lui stava partendo ed ha ritardato la partenza”, ha auspicato che si esca dalle “chiacchiere e spero che nel viaggio che sta per affrontare ciò maturi”. “Adesso vado a fare le analisi del sangue e delle urine” ha concluso Pannella che dal 17 agosto sta portando avanti a più riprese una iniziativa non violenta di digiuno (della fame e della sete) per il ripristino della legalità in Italia. Giustizia: il reato di tortura deve riguardare i pubblici ufficiali di Luigi Manconi e Federica Resta Il Manifesto, 4 settembre 2013 Oggi in commissione giustizia del senato inizia la discussione degli emendamenti al disegno di legge sull’introduzione del reato di tortura. Carlo Alberto Dalla Chiesa, 1978: “L’Italia può sopravvivere alla perdita di Aldo Moro, ma non all’introduzione della tortura”. L’affermazione è tanto più significativa perché, a pronunciarla, non è un militante di un’organizzazione umanitaria o un dirigente di Amnesty International, bensì un generale dei Carabinieri, allora Coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo: e in quelle parole si trova l’enunciazione della più assoluta incompatibilità tra tortura e democrazia. Non a caso il divieto di tortura, oltre a fondare uno dei principi essenziali del diritto internazionale, rappresenta per il nostro ordinamento l’unico caso di incriminazione obbligatoria, cui il Parlamento dovrebbe finalmente (e pur tardivamente) adempiere. Quello delle violenze, fisiche o morali, su persone sottoposte a restrizioni della libertà, è infatti l’unico caso in cui il costituente, all’art. 13, comma quarto, prescrive al legislatore di ricorrere alla sanzione penale per proteggere la persona da violenze perpetrate abusando di un potere che dovrebbe esercitarsi in nome delle istituzioni democratiche e che invece tradisce proprio i principi dello stato di diritto. Il divieto di tortura è infatti il più forte limite intrinseco al monopolio della violenza legittima da parte dello stato: il potere punitivo e il potere di polizia sono legittimamente esercitati solo se e fino a quando non si risolvano nell’abuso della condizione di privazione della libertà in cui versa chi vi sia sottoposto. La tortura è il limite cui né la pena né l’interrogatorio da parte di pubblici ufficiali possono giungere, senza risolversi in pura violenza: è quell’”infame crogiuolo della verità”, “monumento ancora esistente - scriveva Cesare Beccaria nel 1764 - dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell’acqua bollente e l’incerta sorte dell’armi”. Lo stesso Thomas Hobbes - che pur sosteneva l’opportunità di una “regolamentazione” della tortura - ammetteva che “il male inflitto dall’autorità pubblica” in assenza di condanna degradasse a mero “atto ostile”, in quanto espressivo della violazione, da parte delle istituzioni statali, del dovere di salvaguardia della persona affidata alla custodia dell’autorità pubblica. Questa lunga premessa per meglio sottolineare la natura di reato proprio che la maggior parte delle convenzioni internazionali e degli ordinamenti attribuisce a questo delitto, configurandone l’autore come un pubblico ufficiale o chi eserciti pubbliche funzioni abusando dei propri poteri. La ragione risiede nella stessa genesi, storica e simbolica, della tortura, che si inquadra nel rapporto tra suddito e stato e che diventa intollerabile quando i soggetti di quel rapporto diventano un cittadino privato della libertà e lo Stato democratico di diritto che anche in suo nome - in nome del cittadino sovrano - persegue interessi pubblici. Connotato essenziale della tortura è dunque l’abuso di potere, che consente al pubblico ufficiale o a chi eserciti pubbliche funzioni di infliggere alla vittima un trattamento che ne viola la dignità, ovvero l’umanità stessa, e il diritto a non essere strumentalizzata per fini che la trascendano, secondo il noto principio kantiano. È significativa, d’altra parte, l’intima connessione - anche qui: storica e simbolica - tra tortura e dispotismo; regimi della paura in cui la coercizione del corpo e della volontà attraverso trattamenti inumani (e pene crudeli), oggetto di spettacolarizzazione, miravano ad esibire simbolicamente un potere assoluto e illimitato. Il reato di tortura, insomma, è una garanzia contro la più grave degenerazione dell’autorità in violenza, del potere in arbitrio, del diritto in mera forza. Ed è significativo che, nella tortura, la violazione della dignità passi attraverso l’umiliazione della persona e lo strazio del corpo, tanto più inaccettabile in un’età, come la nostra, che ha visto il progressivo sottrarsi del corpo (persino) alla pena legittima, trasformatasi - come scriveva Michel Foucault - da arte di “sensazioni insopportabili” in “economia di diritti sospesi”. Il corpo e l’inviolabilità della parte più profonda e intima della persona tornano dunque a essere, nella tortura, materia di sopraffazione e di vendetta: ambiti di esercizio di un potere illimitato e violento, che espropria la persona del diritto all’intangibilità fisica e morale, già sancito con la promessa dell’Habeas Corpus: “Non metteremo le mani su di te”. Perciò l’idea di una “tortura democratica” - cui si riferisce l’avvocato statunitense Alan Dershowitz, ammettendone la legittimazione mediante “regolamentazione” - non può che rappresentare un ossimoro. Ed è anche per questo che, se il nostro ordinamento riuscirà, come speriamo, ad assolvere agli obblighi internazionali (e costituzionali) cui è inadempiente da troppi anni, dovrà farlo qualificando la tortura come reato proprio: commesso cioè da chi lo stato democratico dovrebbe rappresentare, non tradire. Quanto finora emerso dalla commissione Giustizia del senato va in una direzione diversa, qualificando la tortura come reato comune. Si tratta, a nostro avviso, di un errore. Qualora si ritenga che il nostro ordinamento non contempli efficacemente comportamenti qualificabili come tortura, commessi da privati nei confronti di altri cittadini, si devono individuare forme adeguate di proibizione e di punizione. E ciò anche nel caso che, a commettere quelle violenze, siano gli affiliati a organizzazioni criminali che si arroghino un illegittimo potere di perseguire cittadini inermi: non sarà certo il Parlamento repubblicano a parificare poteri e responsabilità delle pubbliche autorità con quelli delle organizzazioni criminali. Per tutti questi motivi, speriamo che il testo che sarà approvato dalla commissione prima e dall’aula del senato, poi, qualifichi espressamente il reato di tortura come reato proprio dei pubblici ufficiali e di chi eserciti pubbliche funzioni. Giustizia Leva (Pd); voteremo decadenza Berlusconi; no amnistia, sì abolizione ergastolo Tm News, 4 settembre 2013 “Al di là degli espedienti del centrodestra, la Giunta per le autorizzazioni non è un quarto grado di giudizio. Noi voteremo la decadenza, non barattiamo la legalità con la stabilità politica. Ma il governo Letta ha ancora lavoro da fare. Se il Pdl lo fa cadere se ne assuma le responsabilità”. Danilo Leva, responsabile Giustizia del Pd, chiude ancora la porta agli appelli di Alfano, Schifani e da tutto il Pdl contro la dichiarazione di decadenza da senatore per Silvio Berlusconi. “A me sembra che si stia davvero esagerando. Il Pdl ogni giorno cerca un espediente, ogni giorno se ne inventa una. La sentenza su Berlusconi è definitiva, la politica può solo prendere atto. La Giunta non va strattonata e deve lavorare con autonomia rispetto alla documentazione che hanno a disposizione. Ma la linea del Pd è molto chiara: voteremo la decadenza di Berlusconi. La politica non può fare altro che prendere atto della sentenza di terzo grado passata in giudicato per fatti di una gravità inaudita. La legge Severino? Nessun dubbio sulla sua costituzionalità, ha ribadito anche oggi il responsabile giustizia di Largo del Nazareno, che parla anche di riforma della giustizia: “Non è un tabù, ma il clima deve cambiare”. Amnistia: “Non serve a nulla se non agli interessi di qualcuno”. E poi sull’ergastolo: “Siamo favorevoli all’abolizione”. Anche per reati legati a mafia ed eversione? “Non si può rinunciare a priori al reinserimento sociale di un detenuto”. Giustizia: sentenza Cucchi; “plausibilmente” Stefano fu pestato dai Carabinieri di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 settembre 2013 Stefano Cucchi sarebbe morto per denutrizione e per “trascuratezza e sciatteria “ dell’attività dei cinque medici dell’ospedale Pertini che il 5 giugno scorso vennero condannati per omicidio colposo. E non per le lesioni vertebrali, come sostenevano i consulenti di parte civile. Ma nelle motivazioni della sentenza depositate ieri dalla III Corte d’Assise di Roma i giudici mettono anche nero su bianco la convinzione che il pestaggio ai danni del giovane tossicodipendente romano rinchiuso a Regina Coeli la mattina del 16 ottobre 2009 e è morto sei giorni dopo nel reparto penitenziario del Pertini, sia plausibilmente avvenuto per mano dei carabinieri che lo avevano in custodia e non degli agenti della polizia penitenziaria, unici imputati, che vengono perciò prosciolti. Una “tipica sentenza italiana”, secondo Ilaria Cucchi che promette: “La impugneremo e andremo avanti”. Perché, spiega, “ipotizza che il pestaggio possa essere stato compiuto dai carabinieri senza però trasmettere gli atti ai pm per fare ulteriori indagini”. Un dispositivo di 188 pagine, quello della Corte d’Assise, che l’avvocato Alessandro Gamberini, legale della famiglia Cucchi, considera “eccessivamente elementare”, “schiacciato sull’ipotesi della morte per sindrome da inanizione senza alcuna considerazione della catena causale non interrotta dalla negligenza dei medici che ha influito fortemente sulla capacità vitale reattiva del giovane”. Tuttavia, prosegue Gamberini, “la sentenza critica di fatto il lavoro dell’ufficio dei pm perché assume che non siano state fatte indagini adeguate sui responsabili del pestaggio “. Le motivazioni della sentenza infatti, spiega ancora il legale dei Cucchi, “collocano plausibilmente il pestaggio tra l’1.30 e le 3 della notte, ossia nella fase successiva alla perquisizione dell’abitazione di Stefano, prima del suo trasferimento alla caserma di Tor Sapienza”. Eppure, ricorda l’avvocato Gamberini, “quando Stefano viene trasferito dalla caserma a Piazzale Clodio per la convalida dell’arresto non si lamenta come dovrebbe se avesse una frattura dell’osso sacro. Lo fa invece per la prima volta durante l’udienza”. Perciò, per Gamberini, “la motivazione del proscioglimento degli agenti di custodia è congetturale, fantasiosa e contraddittoria”. La Corte d’Assise, invece, oltre a rigettare la tesi dei consulenti di parte civile secondo cui la morte sarebbe stata provocata dalle lesioni vertebrali, non vede “perché gli agenti di custodia, avendo avuto l’opportunità di portare Cucchi in un luogo in cui non è noto cosa sia occorso, non lo abbiano pestato in quel luogo e in quel momento, attendendo invece di farlo nelle celle dove potevano essere sentiti da altri detenuti e/o da altri operanti in attesa delle convalide”. Per i giudici invece “in via del tutto congetturale potrebbe ipotizzarsi che Cucchi sia stato malmenato dai carabinieri al ritorno dalla perquisizione domiciliare, atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa”. Ilaria: banalissima colpa medica? siamo indignati e non molleremo, andremo avanti Proviamo in questi momenti tanta speranza quanta, altrettanta, amarezza. Speranza perché se avessimo voluto immaginari una sentenza debole e carente non avremmo potuto arrivare a tanto. La sentenza riconosce il pestaggio ma lo attribuisce ai carabinieri con tanto di movente. Quella mattina Stefano è stato oltre tre ore in attesa di essere giudicato. La Corte dice che si lamentava per la mancanza del rivotril, o del metadone. Ma non per la dolorosissima frattura al sacro o per le lesioni al viso, alla testa, e su tutto il corpo. La corte sostiene che le aveva già ma, stranamente, Stefano inizia a lamentarsi solo dolo l’udienza di convalida. Si vede che prima non si era accorto di avere la schiena rotta. La Corte omette di prendere in considerazione temi sui quali il processo si è a lungo soffermato e dice di fidarsi dei Periti senza usare un solo argomento scientifico per superare le numerose critiche loro rivolte da tutti i consulenti delle parti. È una dichiarazione di fede. Di principio. La Corte dice che lo hanno picchiato i carabinieri. Ma il sangue trovato sui pantaloni ha data certa, era fresco. Ma la Corte si dimentica comunque di restituire gli atti alla procura per procedere contro di loro. Così la prescrizione avanza. La Corte demolisce la Procura di Roma sul pestaggio affermandolo a dispetto di Arbarello e c. La corte demolisce la procura attribuendo il pestaggio ai CC e non agli agenti. La Corte demolisce la Procura smantellando ogni idea di complotto. La Corte demolisce la Procura affermando gravi carenze di indagini come per esempio il non aver consentito a Samura Yaya di effettuare una ricognizione formale davanti ai tre imputati. La Corte demolisce la Procura smantellando ogni idea di omicidio come conseguenza del grave reato di abbandono di incapace. Si è trattato, insomma di una banalissima colpa medica. Questa è la nostra grande amarezza. Tre anni di processo spesi per questo. Siamo indignati. Non molleremo andremo avanti. Giustizia: caso Cucchi; procura Roma non indagherà sui Carabinieri “non ci sono prove” Agi, 4 settembre 2013 Non ci sarà alcuna indagine sui carabinieri che hanno “gestito” Stefano Cucchi al momento del suo arresto, avvenuto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Non ci sarà perchè un’inchiesta, con tutti gli approfondimenti del caso, era già stata ampiamente svolta dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy che, all’indomani del decesso del geometra di 31 anni avvenuto il 22 ottobre presso la Struttura Protetta dell’ospedale Sandro Pertini, decisero di vederci chiaro. E se, alla fine, l’ipotesi di un pestaggio, di cui è stato vittima Cucchi prima della convalida dell’arresto, è stata attribuita a tre agenti della polizia penitenziaria è perchè sulla posizione dei carabinieri non erano mai emersi elementi convincenti e sufficienti. Il giorno dopo il deposito delle motivazioni della sentenza con cui la terza corte d’assise ha assolto tre poliziotti, tre infermieri e condannato sei medici del Pertini (cinque per omicidio colposo, rispetto all’originaria ipotesi di abbandono di persona incapace, e uno per falso ideologico), in procura si respira un’aria di forte irritazione. Ufficialmente le 208 pagine scritte dal presidente Evelina Canale devono essere ancora esaminate e valutate ma le argomentazioni della corte d’assise non sono affatto piaciute, tanto che il ricorso in appello dei pm, che non chiederanno di farsi applicare per il giudizio di secondo grado, è dato per scontato. Chi ha letto il documento parla di “motivazioni incongruenti e contraddittorie”, “piene di congetture” che lasciano il tempo che trovano perchè “una corte d’assise dovrebbe basarsi esclusivamente su quanto rappresentato nell’istruttoria dibattimentale senza lasciarsi andare a considerazioni fantasiose o non suffragate da prove”. L’ipotesi del pestaggio di Cucchi da parte dei carabinieri è soltanto un esempio: non a caso, si fa notare in procura, la corte non ha neppure trasmesso gli atti all’ufficio del pubblico ministero, come pure avrebbe potuto. “In linea teorica - ragiona chi ha seguito la vicenda Cucchi - si potrebbe pure ipotizzare un pestaggio dei carabinieri al momento dell’arresto e poi un altro che Cucchi avrebbe subito dalla penitenziaria quando è stato portato in tribunale. Se vogliamo stare sul piano delle congetture, ogni ipotesi è valida”. A piazzale Clodio non hanno digerito come la corte d’assise abbia spazzato via la testimonianza di Samura Yaya, il detenuto di origine africana che riferì di aver sentito il pestaggio di Cucchi nelle celle sotterranee del tribunale. “Se gli agenti sono stati assolti per contraddittorietà della prova - si fa notare - perchè la corte d’assise non ha esaminato meglio gli elementi a carico dei tre poliziotti, preferendo invece ipotizzare un coinvolgimento dei carabinieri? E anche ad ammettere un pestaggio da parte dell’Arma, come si spiega il silenzio osservato con i pm, durante tutte le indagini preliminari, da quegli agenti penitenziari che presero in consegna Cucchi, con già evidenti i segni di violenza sul corpo?”. Ma c’è dell’altro: chi ha seguito il caso Cucchi è rimasto letteralmente stupefatto leggendo i motivi che hanno spinto la corte a bocciare l’accusa di abbandono di persona incapace, contestata dalla procura ai medici del Pertini, reato poi riqualificato come omicidio colposo. “Ci può anche stare il cambio di reato - si ammette - ma per abbandono di persona incapace non si intendeva affatto dire che Cucchi fosse privo di capacità di intendere e di volere o che fosse poco lucido durante il suo ricovero in ospedale. Si voleva sottolineare, invece, la posizione di un detenuto che non aveva alcuna possibilità di scegliersi l’ospedale, le cure e i medici e che, costretto a sottostare alla volontà altrui, è stato trascurato e lasciato morire”. E ancora: “La corte è stata tranchant con i medici, parlando di incapacità, trascuratezza, sciatteria, di presidi terapeutici inadeguati, ma poi ha inflitto loro pene veramente irrisorie, nonostante un fatto così grave. E ha sbagliato a parcellizzare le singole posizioni processuali, sganciandole dal contesto: così ad esempio, non si comprende il movente che avrebbe spinto la dottoressa Caponetti a certificare il falso quando fece l’esame obiettivo di Cucchi al suo ingresso al Pertini”. Giustizia: sentenza Cucchi; Sappe alla Cancellieri “quali accertamenti sono in corso?” Agi, 4 settembre 2013 Non si placano le polemiche dopo che sono state rese note, ieri, le motivazioni della sentenza con cui la Terza Corte d’Assise di Roma lo scorso 5 giugno ha condannato sei medici ed assolto i tre agenti di Polizia Penitenziaria per la morte di Stefano Cucchi. Non è piaciuto al Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe il commento del Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, che ha parlato di “indagini ancora in corso, attività ispettive del ministero che stanno verificando le situazioni”. “A noi risulta che una (peraltro rigorosa) inchiesta amministrativa venne immediatamente disposta dall’allora Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta, tesa ad accertare l’operato del personale in servizio nel Reparto detentivo dell’Ospedale Pertini e nelle celle detentive del Palazzo di Giustizia a Roma. L’inchiesta escluse responsabilità da parte del Personale di Polizia penitenziaria. A quali altre attività ispettive ministeriali si riferisce allora il Guardasigilli?”, si domanda Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria. “Quell’accertamento sulla “assenza di responsabilità” da parte di Personale della Polizia penitenziaria nel decesso di Stefano Cucchi fu una notizia importante, che confortò la nostra originaria convinzione che all’Ospedale Pertini ed al Palazzo di Giustizia di Piazzale Clodio la Polizia Penitenziaria ha lavorato e lavora come sempre nel pieno rispetto delle leggi, con professionalità e senso del dovere. Constato che il Ministro della Giustizia ha ricevuto al Ministero la sorella di Stefano Cucchi ma non i 3 agenti di Polizia Penitenziaria assolti. Mi auguro ora che dopo aver avuto conoscenza delle motivazioni della sentenza della Terza Corte d’Assise di Roma il Guardasigilli esprima vicinanza e solidarietà alla Polizia Penitenziaria rispetto a quanti hanno “sbattuto il mostro (ovvero i poliziotti penitenziari) al pubblico ludibrio ed hanno associato più o meno velatamente al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo.” Caltanissetta: detenuto egiziano 24 enne si è impiccato nella cella del carcere Malaspina Agi, 4 settembre 2013 Un detenuto egiziano di 24 anni, Mouhamed Ahmed Mokhar, si è impiccato nella sua cella del carcere Malaspina di Caltanissetta utilizzando i lacci delle scarpe. Era stato assegnato a metà agosto nella casa circondariale di via Messina. È stato soccorso dai poliziotti penitenziari, che lo hanno liberato dal cappio rudimentale. È poi intervenuto personale del 118 con un defibrillatore, e l’egiziano è stato trasportato all’ospedale Sant’Elia, dove i medici hanno tentato invano di salvarlo. Siracusa: detenuto brucia materasso, agenti sventano incendio Agi, 4 settembre 2013 Un detenuto del carcere di Siracusa ha dato fuoco al materasso della sua cella, e l’intervento immediato degli agenti di custodia ha impedito che si propagasse un incendio. Dell’episodio, avvenuto alcuni giorni fa nella sezione Accettazione della casa circondariale siracusana di Cavadonna, dà notizia oggi in un comunicato Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. Capece elogia “professionalità, sangue freddo e senso del dovere” del personale intervenuto e specifica che si è tratta o di agenti fuori servizio. Il sindacalista ricorda i recenti episodi analoghi nelle carceri di Genova Marassi, Vercelli e Torino, e sottolinea di aver da tempo chiesto all’amministrazione penitenziaria di verificare se gli addetti alla sicurezza abbiano una specifica formazione antincendio. Genova: ministro Cancellieri visita il carcere “Marassi è un inferno, 300 detenuti in più” Secolo XIX, 4 settembre 2013 “Il carcere di Genova è un inferno più inferno di Italia”. Il ministro della giustizia Annamaria Cancellieri lo sa bene, per essere stata a lungo prefetto della città. “È anche uno dei più belli: purtroppo sovraffollatissimo”, ha detto ieri sera il ministro a margine dell’incontro fissato alla Festa del Pd e alla vigilia della visita che effettuerà questa mattina alle Case Rosse di Marassi. “Quello delle carceri è un tema drammatico, sottovalutato nel passato. Le carceri scoppiano ma se ne parla poco”, ragiona Cancellieri. Che fare per riportare le carceri italiane a una condizione di vivibilità e civiltà? I punti, secondo il Guardasigilli, sono tre. “Primo, c’è molta gente che potrebbe non andarci in carcere, scontando pene alternative. Il governo si è già mosso in questo ambito con il cosiddetto “svuota carceri”, ma è ancora da sviluppare”. “Secondo, in Italia non si applica il regolamento carcerario: noi pretendiamo che il detenuto resti in cella non più di otto ore al giorno, mentre in molte realtà è costretto a restarvi per 22 ore. Parliamo della possibilità che il detenuto lavori cosa che accade purtroppo raramente”. “Infine - chiude - c’è la necessità di costruire nuove carceri”. Ma questa necessità non riguarda Genova che di carceri ne ha già due. Il ministro ha anche fatto riferimento a “soluzioni tampone” per la soppressione dei tribunali minori. Un tema caldo per la provincia di Genova che perde il Tribunale di Chiavari. E per cui il Tigullio aveva a lungo cercato una sponda nel ministro ben informato sulla nostra realtà. Niente da fare. Stando ai programmi, nonostante la disperata campagna delle istituzioni e degli avvocati chiavaresi per salvare il palazzo di giustizia costato 14 milioni e mezzo di euro e mai inaugurato, tutta l’attività del Tigullio confluirà sul Tribunale di Genova dal 16 settembre. Prima dell’incontro con i sindaci e i politici dei comuni, il ministro ha ribadito con fermezza “che non ci saranno ripensamenti o rinvii. È una riforma che deve andare avanti ed entro il 13 settembre la definiremo. Soluzioni tampone comprese: stiamo lavorando”. Ma secondo gli amministratori locali, c’è uno spiraglio per Chiavari. Intanto, dopo le dichiarazioni sulla situazione di Marassi, il Sappe ha anticipato le criticità genovesi che saranno esposte alla Cancellieri oggi. “A pagare lo scotto del costante e pesante sovraffollamento sono anche i poliziotti penitenziari - ha ricordato il segretario, Roberto Martinelli -nel 2012 a Marassi ci sono stati 28 atti di autolesionismo, 9 tentati suicidi di detenuti sventati dagli agenti e 12 ferimenti. Questi dati sono importanti per far conoscere il duro, difficile e delicato lavoro che donne e uomini della Penitenziaria di Marassi svolgono ogni giorno con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. Se la situazione non deflagra, insomma, è merito loro”. Critica la posizione del sindacato sul decreto svuota carceri: “Di fatto è una legge sbagliata e ingiusta, che darà la possibilità a chi si è reso responsabile di un reato di non entrare in carcere”. Marassi ben gestito, ma ci sono 300 detenuti in più Il carcere genovese di Marassi è gestito bene ma deve essere alleggerito di 300 unità. Lo ha detto il ministro di Grazia e Giustizia Anna Maria Cancellieri in una conferenza stampa tenuta nel carcere genovese di Marassi. “Ho trovato - ha detto - una gestione molto buona ed efficiente ma sicuramente il carcere deve essere alleggerito di almeno 300 unità. La percentuale di detenuti - ha precisato il ministro - è quasi doppia del dovuto, è un tema che dobbiamo affrontare con forza, il resto è molto avanzato e lungimirante. Ho trovato una gestione illuminata, una volontà di lavorare in modo rigoroso, anche la partecipazione della società civile, del volontariato, c’è molto avanzata”. Lavoriamo perchè stranieri scontino pena in paesi d’origine Fare scontare la pena nei paesi d’origine ai detenuti stranieri “non è cosa semplice, occorre la volontà del detenuto e occorrono accordi con paesi origine, stiamo lavorando con i paesi origine ma tranne che con la Tunisia non abbiamo ancora intese, ci stiamo lavorando”. Lo ha detto il ministro di Grazia e Giustizia Anna Maria Cancellieri in una conferenza stampa nel carcere genovese di Marassi. Genova: Martinelli (Sappe) dopo visita Cancellieri a Marassi aspettiamo fatti concreti Adnkronos, 4 settembre 2013 "Abbiamo apprezzato la visita odierna del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, nel carcere genovese di Marassi. Auspico che il Guardasigilli adotti ogni utile provvedimento per sfollare la struttura ed ogni altra iniziativa finalizzata a rendere davvero rieducativa la pena attraverso il lavoro dei detenuti". è quanto afferma Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe. "Stare chiuso in cella 20 ore al giorno senza far nulla, nell'ozio e nell'apatia - prosegue il sindacalista- alimenta una tensione detentiva nelle sovraffollate celle. E i detenuti che lavorano a Marassi, peraltro in servizi interni d'istituto e poche ore a settimana, sono davvero una percentuale irrisoria: forse il 10% dei piu' di mille presenti. Ora, dopo la visita del ministro, attendiamo fatti concreti". "Mi auguro che il ministero della Giustizia ed il doverno perseguano la strada con gli altri Paesi -conclude Martinelli- perchè i detenuti stranieri scontino la pena nelle carceri dei Paesi di provenienza. è necessario rimodulare il sistema dell'esecuzione della pena in Italia e far lavorare tutti i detenuti. Ad esempio impiegando quelli con pene brevi da scontare e con reati di minore allarme sociale in progetti per il recupero del patrimonio ambientale, occupandosi della manutenzione e della pulizia dei parchi e delle ville comunali della città e della pulizia dei greti dei torrenti". Avellino: Sarno (Uil-Pa); il carcere di Sant'Angelo dei Lombardi è un modello da seguire Adnkronos, 4 settembre 2013 "Sapevamo che dopo tante realtà degradate ed afflittive oggi avremmo visitato una struttura all'avanguardia. La visita odierna alla casa di reclusione di Sant'Angelo dei Lombardi ci ha consegnato un quadro di efficienza ogni oltre immaginazione". è quanto afferma il segretario generale della Uilpa Penitenziari, Eugenio Sarno, che oggi, nell'ambito del tour fotografico 'Lo scatto dentro', ha fatto tappa al penitenziario dell'Alta Irpinia. "Avevo visitato la struttura qualche anno fa -prosegue Sarno- e l'ho trovata notevolmente migliorata. Questo è un merito che va ascritto al direttore, al comandante e a tutto il personale. In un quadro complessivo desolante e preoccupante del sistema penitenziario italiano - rimarca il sindacalista - strutture come quelle di Contrada Selvatico concorrono ad alimentare la speranza che si possa lavorare in funzione del dettato costituzionale rispetto alla finalità rieducativa della pena". "Le tante attività scolastiche e formative - fa notare - le lavorazioni industriali ed agricole, il gran numero di detenuti impiegati in attività lavorative (circa il 41%) fanno della casa di reclusione di Sant'Angelo dei Lombardi un modello da seguire. Questa struttura è da considerarsi sul podio delle migliori realtà detentive italiane, nonostante l'atavico problema del sovraffollamento che anche qui fa sentire i suoi effetti. Infatti -conclude Sarno- la struttura, inaugurata nel 2004, dovrebbe ospitare 117 detenuti ma ad oggi ne sono presenti 209". Catania: 11 milioni per raddoppiare il carcere di Caltagirone, 200 nuovi posti nelle celle La Sicilia, 4 settembre 2013 Cominceranno fra la fine di settembre e i primi di ottobre i lavori per la costruzione di un nuovo padiglione nella casa circondariale di contrada Noce, a Caltagirone, destinati a raddoppiare l’attuale capienza dell’istituto. È quanto comunicato dal direttore del carcere Giuseppe Russo (nello scorso gennaio subentrato a Valerio Pappalardo) a margine dell’incontro svoltosi ieri pomeriggio, al primo piano del municipio, fra il sindaco Nicola Bonanno e lo stesso direttore. I lavori finalmente in dirittura d’arrivo (il finanziamento risale al 2011, ma nel frattempo è stato necessario lo snodarsi di una serie di passaggi burocratici), per i quali, nei mesi scorsi, fu sottoscritto in Prefettura un apposito protocollo di legalità, comporteranno un investimento di 11 milioni di euro e doteranno la struttura carceraria di altri 200 posti, che si aggiungeranno agli attuali 180. Adesso la casa circondariale calatina ospita 302 detenuti ed è, quindi, affollata ben oltre il margine di cosiddetta “tollerabilità”, che si aggira attorno alle 225 unità. E il fatto che si tratti di un mal comune (le carceri italiane versano, nella stragrande maggioranza dei casi, in queste difficili situazioni), non costituisce motivo di mezzo gaudio. “Il nuovo padiglione - ha detto il dott. Russo - a opere ultimate, potrà servire a fare fronte all’attuale sovraffollamento della struttura”. Si tenga conto, inoltre, che le difficoltà riguardano anche il numero, ritenuto insufficiente, di poliziotti penitenziari. Quanto alle carenze nell’organico degli agenti di polizia penitenziaria, il direttore del carcere calatino ha espresso “l’auspicio che esse vengano al più presto colmate”. Il sindaco Bonanno ha salutato l’ormai prossimo avvio dei lavori: “La costruzione di un nuovo padiglione, oltre a porre fine all’eccessivo affollamento della struttura, potrà contribuire a far tirare una boccata d’ossigeno al settore edile, con l’impiego di manodopera. Anche questo costituisce un aspetto da non sottovalutare in un quadro di crisi che, nel nostro territorio come nell’intera Sicilia, investe i diversi comparti”. Ribadito l’impegno reciproco a forme di collaborazione per rendere sempre più efficace l’integrazione della struttura carceraria col territorio attraverso la conferma e/o il potenziamento di attività culturali e socializzanti con lo scopo di fare del carcere un presidio di rieducazione del detenuto e del suo recupero alla società in maniera da ridurre l’impatto della criminalità sul tessuto sociale. Massa Carrara: progetto per una equipe di teatro permanente all’Ipm di Pontremoli Ansa, 4 settembre 2013 Il progetto di formazione di una equipe di teatro permanente all’Istituto Penale Minorile di Pontremoli, con il coinvolgimento attivo della comunità di Pontremoli, diverrà realtà: a comunicarlo è il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, che esprime la propria soddisfazione per l’impegno assunto dal Ministero. “Saran rose e fioriranno” è un progetto importante - spiega il sottosegretario riferendosi al nome del progetto - che potrà consentire di realizzare attività teatrali, culturali ed artistiche a Pontremoli con gli ospiti dell’istituto. Un progetto pilota in Italia, in cui il teatro si conferma attività educativa anche e soprattutto in uno dei luoghi di maggior disagio sociale, come è un carcere minorile”. Il progetto consentirà anche di acquisire professionalità e opportunità per il reinserimento nel mondo lavorativo - aggiunge Ferri - che è la vera sfida per realizzare politiche di inclusione e ridurre, così, i casi di recidiva; offrirà agli operatori delle agenzie che operano all’interno del carcere un panorama comune ove collocare le proprie attività per la costruzione di un evento pubblico che si potrà realizzare con il contributo di tutti i soggetti coinvolti. “Saran rose e fioriranno” si prefigge inoltre l’importante obbiettivo di costruire rapporti di interazione fra la comunità di Pontremoli, ovvero realtà culturali, associazioni, scuole e la comunità dell’Istituto Penale. “Desidero ringraziare il Ministero - conclude il sottosegretario Ferri – per il finanziamento del progetto che coprirà i costi dei laboratori, dei materiali e del coordinamento delle attività, ma anche le docenze e l’organizzazione, gli operatori qualificati che saranno impegnati settimanalmente a Pontremoli e l’evento finale”. Fondamentale il contributo degli operatori e della Direzione del carcere minorile: “Il percorso educativo nell’Istituto Penale Minorile e di rete territoriale ha visto la fattiva operatività del direttore dell’Istituto Don Calabria, Alessandro Padovani e del Direttore del carcere minorile di Pontremoli, Daniela Giustiniani”. Immigrazione: i Referendum Radicali su reato di clandestinità e permesso di soggiorno Oggi, 4 settembre 2013 Due dei 12 quesiti radicali mirano all’abrogazione delle norme che pesano sul futuro degli immigrati. Il susseguirsi di sbarchi di migranti sulle nostre coste rende più che mai attuale la proposta di abrogazione della norma che sancisce il reato di clandestinità e di quella che lega la possibilità di rimanere nel nostro Paese (anche per stranieri da anni in Italia) all’esistenza di un contratto di lavoro. La normativa sull’immigrazione è da modificare o è meglio lasciare tutto come adesso? “Sì”, risponde Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto d’asilo e statuto costituzionale dello straniero Il primo quesito referendario riguarda l’abolizione del reato (contravvenzionale) di clandestinità, l’art. 10 bis del Testo Unico 286 del 1998 come modificato in questa parte nel 2009, allo scopo dichiarato da Maroni, allora ministro dell’Interno, di evitare l’applicazione delle garanzie previste dalla normativa comunitaria (Direttiva rimpatri 2008/115/ CE) in materia di rimpatri forzati. Si tratta di un reato dal forte carattere simbolico, che comporta soltanto una pena pecuniaria e che sancisce soprattutto lo status di clandestinità, precludendo a chi viene condannato per questa ragione qualunque possibilità di successiva regolarizzazione. Un reato criminogeno. Di certo il reato di immigrazione clandestina risulta ormai privo di una giustificazione razionale, come quella evocata nel 2010 dalla Corte Costituzionale nella sentenza che lo aveva “salvato”, in quanto non prevedeva la detenzione del condannato. Oggi questo reato risulta privo di effetto deterrente e non agevola per nulla le procedure di riammissione in patria, favorite semmai dagli accordi bilaterali che hanno semplificato le operazioni di identificazione e di attribuzione della (mera) nazionalità. Un reato che ingolfo il lavoro degli uffici giudiziari più esposti, e che talora è stato contestato persino a minori non accompagnati e a richiedenti asilo. Un reato da abrogare per fondare su questa abrogazione una svolta nella politica dell’immigrazione in Italia. Il secondo quesito referendario in materia di immigrazione riguarda l’abolizione degli articoli 4 bis e 5 bis del Testo Unico 286 del 1998 come successivamente modificato dalla legge Bossi Fini e dai pacchetti sicurezza voluti dalla Lega. In base a questa norma la presenza in Italia di un lavoratore straniero rimane legata all’esistenza di un contratto di lavoro subordinato, alla garanzia fornita dal datore di lavoro sulla disponibilità di un alloggio e sul pagamento delle spese di rientro nel Paese di origine. Ciò rende poco praticabile per un datore di lavoro italiano l’assunzione “a distanza” di un lavoratore straniero e favorisce il caporalato e lo sfruttamento dei “clandestini” che tutti, a parole, sostengono di volere contrastare, salvo poi fare arricchire ulteriormente le organizzazioni criminali con le politiche proibizioniste e con procedure burocratiche sempre più costose. “No”, risponde Roberto Maroni, della Lega Nord, presidente Regione Lombardia Il reato di immigrazione clandestina ha contribuito, con altre norme del Pacchetto sicurezza, a ridurre quasi a zero il numero degli sbarchi nel periodo precedente l’emergenza Nord Africa. Oggi, invece, una politica lassista e i continui annunci di abrogazione di leggi in tema di immigrazione clandestina rappresentano un incentivo per l’industria delle associazioni criminali che trafficano in esseri umani. Nel nostro Paese, il reato di immigrazione clandestina punisce l’ingresso e la permanenza illegale nello Stato, non prevedendo l’arresto, ma una pena pecuniaria. Di conseguenza, se le carceri sono piene di cittadini extracomunitari questo significa che hanno commesso reati più gravi, al contrario di ciò che accade invece in altri Paesi europei come Francia, Germania e Regno Unito, dove questo tipo di reato è punito con la reclusione. Resto convinto che per combattere lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e sostenere quella regolare, sia assolutamente necessario tenere vincolato il permesso di soggiorno al contratto di lavoro. In un momento di crisi occupazionale, come quello che stiamo vivendo, e che colpisce lavoratori italiani e stranieri, a mio parere sarebbe un gravissimo errore tornare al sistema precedente. Immigrazione: il recluso e lo scrittore, una storia di amicizia dal carcere al Cie di Raffaella Cosentino Redattore Sociale, 4 settembre 2013 Collins Igbinoba e Salvatore Bandinu si sono conosciuti nel carcere di Isili e il primo ha scelto l’autore sardo per raccontare la sua vita. Poi è finito nel Cie di Bari e ora il suo amico italiano lancia un appello: “liberatelo, non è un delinquente”. “Senza respiro”. Si sente così Collins Osaro Igbinoba, un nigeriano rinchiuso nel Centro di identificazione e di espulsione di Bari Palese. “Questo è un carcere duro, sto molto male qui”, dice. Dal Cie di Bari ha chiesto aiuto. E il suo appello è stato raccolto da uno scrittore sardo, Salvatore Bandinu, che aveva già raccontato la storia di Collins in un libro intitolato “La cella di Gaudì”, edizioni Arkadia. “Un ragazzo d’oro”. Salvatore e Collins si sono conosciuti un anno fa nella colonia penale di Isili, vicino a Nuoro. Partecipavano al progetto “Adotta una storia”, un’iniziativa dell’associazione Il Colle Verde e del ministero della Giustizia in cui 12 scrittori sardi hanno incontrato altrettanti detenuti per raccontarne la storia in un libro. “Collins è un ragazzo d’oro, gli è crollato il mondo addosso - racconta Salvatore - è molto emotivo, non è un delinquente, ha compiuto un reato per necessità”. Collins Osaro Igbinoba, nato a Benin City 38 anni fa, è arrivato in Italia nel 2009 con un volo dalla Nigeria e un contratto di lavoro in tasca come badante. Il contratto l’aveva comprato, in realtà, ma con un permesso di soggiorno di due anni pensava di trovare facilmente lavoro in Europa, nella terra promessa. Le sue speranze si sono infrante contro un muro. “Avrei fatto qualunque mestiere per sopravvivere, l’agricoltore, l’idraulico - racconta Collins al telefono dal Cie pugliese - ma nessuno ha voluto assumermi, non so perché, forse perché sono nigeriano. Mi sono ritrovato a chiedere l’elemosina per la strada”. In carcere con 100 maialini. Ma a casa in Nigeria aveva lasciato la moglie, una figlia che oggi ha 8 anni e il padre ammalato di cuore con la necessità di una costosa operazione per salvarsi la vita. “Ero in una situazione disperata - continua il nigeriano - così a maggio del 2010 ho accettato di trasportare droga su un treno da Monaco a Verona, era la prima volta che lo facevo e sono stato subito arrestato”. Una piccola quantità di stupefacenti, dice il suo avvocato Loredana Liso. Tre anni, tre mesi e tre giorni di carcere, la sentenza in primo grado era di 5 anni poi ridotti in appello. Prima il penitenziario di Verona, poi il trasferimento nella colonia penale di Isili e un percorso di riabilitazione che sembrava essere andato a buon fine. Nel carcere di Isili Collins ha conseguito la licenza media e ha lavorato nella cura del bestiame. Si occupava di 100 maialini e con i proventi del lavoro ha pagato i viaggi per partecipare alle presentazioni del libro con la sua storia. I prodotti agricoli dei detenuti della colonia penale sarda sono venduti e sponsorizzati anche sul sito del ministero della Giustizia con il marchio “Il Galeghiotto”. Ricotte, pecorino e formaggio fuso. Peggio che in carcere. Lavorando nei campi del carcere sardo, Collins poteva restare all’aria aperta tutto il giorno e rientrare in cella solo la sera per dormire. Vedeva nel suo percorso una rinascita, completata con il progetto del libro, quando aveva scelto Salvatore Bandinu per raccontare la sua storia. Il progetto letterario prevedeva infatti che gli autori si presentassero ai reclusi di Isili, lasciando in dono i loro libri. Dopo avere letto le opere, sono stati i reclusi a scegliere ognuno il proprio autore. Dopo aver letto le storie di Salvatore, Collins ha deciso di affidare a lui le memorie della sua vita perché dice “ho visto in quelle parole la realtà dei suoi sentimenti”. Ora nel Cie di Bari, chiuso tutto il giorno nelle camerate separate dal mondo da una porta blindata che ha solo una piccola feritoia centrale, il nigeriano si ritrova in una condizione peggiore del carcere. Lui che era abituato a lavorare tutto il giorno, deve vivere nell’ozio forzato, in attesa del rimpatrio in Nigeria. “In Nigeria sarei in pericolo”. “A volte le persone sbagliano, io mi vergogno di quello che ho fatto - continua Collins - ma esiste la possibilità di cambiare. Non posso tornare in Nigeria, la mia vita lì è a rischio, perché sono cristiano e in questo momento ci sono scontri e bombe tra musulmani e cristiani”. Nel frattempo, anche il padre è morto, perché i soldi per l’operazione al cuore non sono mai arrivati. “La prefettura di Nuoro che ha emesso il decreto di espulsione dopo la fine della pena in carcere, non ha valutato il caso specifico della persona - spiega l’avvocato Loredana Liso - il trattenimento nel Cie per Collins è esagerato, servivano misure alternative”. Il passaggio automatico dal carcere al Cie per gli immigrati è da tempo denunciato dai giuristi e dalla campagna LasciateCIEntrare. Nei Cie si viene trattenuti per un altro anno e mezzo a spese della collettività per essere identificati ed espulsi. Il caso di Collins dimostra che uno straniero in carcere per anni, nel momento in cui viene scarcerato deve essere ancora identificato, con un notevole sperpero di soldi pubblici. “Non credevo che i Cie fossero così…”. “Non sapevo nemmeno dell’esistenza dei Cie, io credevo ci fossero solo i centri di accoglienza, non queste prigioni - commenta Salvatore Bandinu - finché non conosci una persona che ci è finita dentro, non puoi capire cosa sono e quanto si soffre”. Lo scrittore conosce molte realtà detentive in cui fa l’educatore, dalle colonie penali alle carceri minorili, ma il mondo dei Cie gli si è aperto davanti solo quando il suo amico Collins gli ha chiesto aiuto. “Per liberarlo abbiamo fatto una raccolta firme con gli altri autori da spedire al suo avvocato, già prima volevamo aiutarlo con una colletta. Poi mi ha chiamato da Bari disperato, piangendo”. A quel punto, Salvatore ha promesso di dargli una mano. Ha pubblicato la loro foto su Facebook, ha chiesto solidarietà, informazioni. E Ci ha contattati. Droghe: la Napoli d’innovazione sociale… di Stefano Vecchio (Comitato Scientifico Forum Droghe) Il Manifesto, 4 settembre 2013 I dati sui consumi di sostanze psicoattive tra la popolazione europea dell’Osservatorio di Lisbona, al contrario delle letture allarmistiche della relazione governativa al Parlamento italiano, esigono un cambio radicale politico-culturale sui consumi di droghe. Si tratta di prendere atto che i consumi di sostanze psicoattive legali e illegali fanno parte della nostra vita quotidiana, della nostra cultura. Fino ad oggi i paesi europei, anche se con diverse e sostanziali differenze, hanno adottato politiche proibizionistiche e, in particolare, l’Italia con la legge Fini-Giovanardi, ha scelto la logica della repressione dei consumatori, della stigmatizzazione dei loro comportamenti e della medicalizzazione istituzionalizzante. Questa politica ha fallito tutti gli obiettivi che si era data e nello stesso tempo ha creato e moltiplicato i rischi e i danni per i consumatori di droghe. L’illegalità, infatti, spinge i consumatori verso comportamenti rischiosi e dannosi sia per la salute che per la socialità e ostacola l’apprendimento di comportamenti di consumo responsabili. Ma vi sono segnali di una critica pragmatica a questa pesante realtà che provengono dalle città: da Milano a Torino, da Roma a Napoli e altre ancora, dove, da tempo, si realizzano politiche sociali e socio-sanitarie di riduzione del danno che aprono contraddizioni importanti nella politica nazionale. Parallelamente movimenti metropolitani diversi, insieme ad aggregazioni di consumatori, autonomamente praticano e diffondono forme di autoregolazione responsabile dei consumi. Napoli, pur nelle sue contraddizioni di città meridionale, è un laboratorio di sperimentazioni e di innovazioni, che ha visto protagonisti i servizi e gli enti pubblici, in stretta connessione con il terzo settore e in dialogo costante con la società civile. In particolare, si è tentato di superare il “modello unico” di servizio (basato su Sert e comunità terapeutiche) attraverso una differenziazione dei modelli di intervento e delle azioni socio-sanitarie e sociali, adeguate alla pluralità dei contesti nei quali si realizzano i variegati stili consumo: dai Sert, alle strutture intermedie e ai drop in, alle unità di strada, ai servizi per i nuovi consumatori socialmente integrati, alle equipe che operano nei contesti del divertimento, fino agli interventi in carcere. Si seguono i principi della riduzione del danno intesa come politica pragmatica, prospettiva culturale, scelta organizzativa. L’obiettivo comune è la costruzione di un sistema a rete interistituzionale cittadino, flessibile e articolato che consenta un governo dei processi aperto alle innovazioni: capace, cioè, di riadeguare i servizi e le politiche, venendo incontro alle esigenze di salute e di convivenza dei consumatori, invece di andarvi contro. Napoli, come le altre città, cioè, prova ad attenuare gli effetti negativi sulla salute e sulla socialità della legge antidroga nell’ambito di un ripensamento generale di una città più sicura in quanto più “ospitale”, impegnata non a reprimere ma a regolare i fenomeni sociali. Ma a Napoli, come nelle altre città, vi è stato un allentamento della tensione da parte delle istituzioni, anche per effetto della crisi del welfare, dei tagli ai comuni e della crisi finanziaria delle Asl. Di queste contraddizioni discuterà l’appuntamento annuale di “Summer school” promosso da Forum Droghe e dal Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, a Firenze (5-7 settembre). È necessario un rilancio. Dalle città parta la ripresa di un welfare del “comune” e la sfida al governo per un cambio di rotta radicale delle politiche sulle droghe. Libia: Amnesty denuncia; autorità non garantiscono sicurezza detenuti Ansa, 4 settembre 2013 Il caso del sequestro di Onoud Senussi, figlia dell’ex capo dell’intelligence del regime di Gheddafi, indica l’incapacità delle autorità libiche di garantire la sicurezza delle persone detenute in relazione al conflitto del 2011, che ha portato alla fine della dittatura del Colonnello. È il monito di Amnesty International in risposta al rapimento di Senussi, avvenuto lunedì sera immediatamente dopo il suo rilascio a pochi metri dalla prigione dove era stata detenuta per 10 mesi. Uomini armati avrebbero aperto il fuoco sul convoglio della polizia giudiziaria che stava scortando la ragazza all’aeroporto di Tripoli, dove avrebbe preso un volo per raggiungere la famiglia a Sebha, nel sud del Paese. La ragazza era stata arrestata nel mese di ottobre 2012 per essere entrata con un passaporto falso in Libia dall’Algeria per visitare suo padre in carcere. Abdullah Senussi è detenuto a Tripoli, dove dovrebbe essere processato con il primogenito del colonnello, Seif Al Islam, il 19 settembre. È inoltre ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità durante la rivolta del febbraio 2011. “Le autorità libiche devono mostrarsi capaci di far fronte agli abusi perpetrati dalle milizie altrimenti il sistema giudiziario libico rimarrà disfunzionale”, si legge in un comunicato di Hassiba Hadj Sahraoui, Vice Direttrice per il Medio oriente e Nord Africa di Amnesty International . “Come possono essere in grado di applicare la legge se non riescono neanche a garantire la minima sicurezza ai detenuti?” Secondo l’organizzazione per i diritti umani sarebbero più di 8.000 le persone finite in carcere dopo il conflitto del 2011, alcuni dei quali sarebbero stati sequestrati, torturati e in alcuni casi uccisi. I sequestri avvengono solitamente quando un detenuto viene trasferito in tribunale o rilasciato; in alcuni casi vengono rapiti all’interno delle prigioni. Amnesty sottolinea inoltre la sua preoccupazione per i processi in corso dove gravano dubbi sulla correttezza delle procedure e per le detenzioni arbitrarie, all’ordine del giorno. A ciò si aggiungono gli attacchi e le minacce alle autorità giudiziarie. L’organizzazione denuncia anche la possibilità di centinaia di condanne a morte per gli ex sostenitori del colonnello. Accusato di incitamento alla discordia e alla guerra civile l’ex Ministro dell’Istruzione, Ahmed Ibrahim, è stato già condannato a morte lo scorso 31 luglio insieme ad altre 5 persone Stati Uniti: Ariel Castro, il “mostro di Cleveland”, si è impiccato in carcere Ansa, 4 settembre 2013 Ariel Castro, il “mostro di Cleveland” che per dieci anni ha tenuto segregate tre ragazze nella sua casa trasformandole in schiave del sesso, si è impiccato in carcere. Lo riporta la stampa americana, citando il Correctional Reception Center di Orient, nell’Ohio. Castro, 53 anni, è stato trovato esanime nella sua cella verso le 21,20 di ieri ora locale (le 3,20 di oggi in Italia). I medici del carcere hanno tentato la rianimazione, ma senza risultato: l’uomo è stato trasportato quindi all’Ohio State University Wexner Medical Center, dove è stato dichiarato morto alle 22:52. Il portavoce del dipartimento di Riabilitazione e correzione dell’Ohio ha affermato che Castro è deceduto per apparente suicidio. L’uomo, condannato ad inizio agosto ad oltre 1.000 anni di prigione per rapimento, stupro e sequestro di persona, aveva scontato solo un mese di carcere ed era detenuto in un’unità di isolamento per la sua stessa incolumità.