Giustizia: l’amnistia non il primo passo… piuttosto l’ultimo di un percorso di riforme di Marco Tarquinio Avvenire, 3 settembre 2013 Il nodo giustizia va sciolto, e si scioglie solo con onestà. Nella sua serrata riflessione Paolo Borgna sviluppa da par suo lo ribadisce e non ha bisogno di chiose. Ma, intelligentemente, mi provoca a una postilla. Anche a mio avviso un eventuale provvedimento di amnistia, come quello evocato dal ministro Mario Mauro nell’intervista che Angelo Picariello ha realizzato qualche giorno fa, non potrebbe mai essere il “primo passo” di una fattiva riflessione sui mali della giustizia. Piuttosto “l’ultimo passo” di un finalmente efficace e condiviso percorso di riforma di istituzioni e sistema giudiziario. In quel caso, un eccezionale provvedimento di clemenza “erga omnes” avrebbe un senso di coronamento dell’opera di ricostruzione e di riequilibrio condotta nell’ordinamento della Repubblica, e non potrebbe essere interpretato come un’operazione “ad personam” che risulterebbe insopportabile per una enorme parte dell’opinione pubblica. L’Italia e gli italiani non hanno solo bisogno di mettere una pietra sul passato, hanno urgenza di un nuovo inizio. Il tema dell’amnistia e molto altro. Con postilla del direttore, di Paolo Borgna Un popolo non può vivere con convinzioni radicalmente opposte su un argomento così delicato: la fiducia verso i suoi giudici. E un’incomunicabilità fra poteri non è a lungo sopportabile in un sistema democratico. Ma siamo sicuri che un’amnistia sarebbe il primo passo per uscirne? Nell’intervista al ministro Mario Mauro che Avvenire ha pubblicato lo scorso 22 agosto c’è una frase centrale che è la spia della complessità degli argomenti che in questi giorni vengono utilizzati nella discussione sulla cosiddetta “agibilità politica” di Silvio Berlusconi. Nel chiedere un’amnistia che chiuda “quasi 20 anni di contrapposizioni”, il ministro si è chiesto se esista o no in Italia un “problema giustizia” che non riguarda solo Berlusconi. E risponde: “Esiste eccome, ce lo ricorda anche la Corte di Strasburgo”. Ebbene, è fuori discussione che da decenni esista in Italia un irrisolto “problema giustizia”. Come Avvenire ha più volte ripetuto, questo problema si chiama: lentezza dei processi; disomogenea effettività e grave ritardo della risposta giudiziaria; conseguente utilizzo della custodia cautelare come unica ed efficace risposta a fenomeni criminali allarmanti; conseguente inadeguatezza e sovraffollamento della carceri; diffusione indebita e non sanzionata delle intercettazioni telefoniche. Questi sono i motivi per cui l’Italia è troppo spesso condannata da Strasburgo. È chiaro però che nessuno di questi mali riguarda il processo conclusosi il 1° agosto nei confronti di Silvio Berlusconi. I suoi sostenitori non lamentano certo un’eccessiva lentezza del procedimento ma, casomai, una sua eccessiva speditezza dopo la lunga fase di primo grado. E Strasburgo non ci ha mai sanzionati per eccessiva speditezza. Né Strasburgo ha mai rimproverato al sistema giudiziario italiano una sua ventennale contrapposizione al sistema politico o a una parte di esso. Dunque, cominciamo a dire che l’amnistia che si invoca per raggiungere una pacificazione nella “guerra dei vent’anni” non ha nulla a che fare con le censure europee. E allora, i sostenitori di un provvedimento - generale o personale - che in qualche modo annulli le conseguenze della sentenza del 1° agosto dovrebbero riconoscere che, sottesa a questa proposta, c’è un’idea di fondo: che Silvio Berlusconi sia vittima di “persecuzione giudiziaria”; che il processo per frode fiscale contro di lui non sarebbe stato celebrato nei confronti di un qualunque altro imprenditore; che, se nel 1994 Silvio Berlusconi non avesse fondato il centrodestra italiano, egli non avrebbe subito tanti processi. Insomma, come si dice con linguaggio giornalistico: che nei suoi confronti ci sia stato “accanimento giudiziario”. Molti lo affermano apertamente e con forza da anni. Molti non lo dicono, ma a volte fanno intendere che, tutto sommato, anche loro lo pensino. Sulla base delle mie conoscenze, io ritengo che - al netto di alcuni personalismi e censurabilissime cadute di stile - non sia così. Ma sono, ahimè, altrettanto convinto che milioni di italiani ritengano invece che questo sia vero. Così come un’altra parte di italiani è convinta del contrario: e cioè che Berlusconi sia “sceso in campo” proprio per salvarsi dai processi e che se, sino a oggi, egli ha riportato soltanto una condanna definitiva ciò è dovuto all’ostruzionismo (leggi ad personam, ecc.) che ha attuato come presidente del Consiglio. Tutto questo, è gravissimo. Perché un popolo non può vivere per anni con convinzioni tanto radicalmente opposte su un argomento così delicato: la fiducia verso i suoi giudici. Come mi è capitato di scrivere tempo fa, un’incomunicabilità fra poteri è cosa non a lungo sopportabile in un sistema democratico. Perché il magistrato ha bisogno che il popolo - nel cui nome amministra la giustizia - veda la sua indipendenza come un patrimonio comune di tutti i cittadini. Ma un simile consenso, in un sistema in cui la legittimazione del magistrato non deriva dal voto, non può ottenersi in presenza di un contrasto perenne e radicale tra magistratura e potere politico. Questo è il paradosso di tutti i sistemi democratici in cui la magistratura è indipendente ma ha una selezione e formazione di tradizione burocratica. Tale paradosso può essere sanato soltanto da un continuo e delicato gioco di bilanciamento e autolimitazione dei poteri. Ma è evidente che un simile bilanciamento presuppone una “consonanza di fondo” tra magistratura e altri poteri. Quello che i francesi chiamano lo “spirito repubblicano”. Che non deve essere asservimento al potere politico, ma non può neppure permettersi di essere costante contrapposizione a esso. E dunque: come uscirne? Personalmente, non ho certezze, ma alcune idee accompagnate da tanti dubbi. Con un’unica radicata convinzione: per trovare una via d’uscita è necessaria quella che Vittorio Foa ci insegnava come la “mossa del cavallo”, capace di scompaginare il gioco, abbandonando il procedere per linee rette e contrapposte. Per chi, come me, crede nella sostanziale correttezza della stragrande maggioranza dei magistrati italiani, è indispensabile cercare di capire perché - nonostante gli attacchi all’indipendenza dei giudici siano quasi sempre evidentemente interessati - tali attacchi siano sostenuti o perlomeno tollerati da una larga parte dei cittadini. Rispondere a questa domanda significa aver già trovato buona parte della soluzione. Ma, tornando alla “proposta Mauro”, mi chiedo: siamo sicuri che un’amnistia sia il primo giusto passo nella direzione di questa necessaria riflessione comune? L’amnistia, come lo stesso ministro ricorda, è un provvedimento generale, che si fa per classi di reati e a beneficio di tutti i cittadini. E allora, il nostro Stato si può permettere, al fine di assicurare l’”agibilità politica” di Berlusconi e la “pacificazione” sociale e politica, di amnistiare tutti i reati di frode fiscale? Il nodo giustizia va sciolto, e si scioglie solo con onestà. La serrata riflessione che Paolo Borgna sviluppa da par suo lo ribadisce e non ha bisogno di chiose. Ma, intelligentemente, mi provoca a una postilla. Anche a mio avviso un eventuale provvedimento di amnistia, come quello evocato dal ministro Mario Mauro nell’intervista che Angelo Picariello ha realizzato qualche giorno fa, non potrebbe mai essere il “primo passo” di una fattiva riflessione sui mali della giustizia. Piuttosto l’”ultimo passo” di un finalmente efficace e condiviso percorso di riforma di istituzioni e sistema giudiziario. In quel caso, un eccezionale provvedimento di clemenza “erga omnes” avrebbe un senso di coronamento dell’opera di ricostruzione e di riequilibrio condotta nell’ordinamento della Repubblica, e non potrebbe essere interpretato come un’operazione “ad personam” che risulterebbe insopportabile per una enorme parte dell’opinione pubblica. L’Italia e gli italiani non hanno solo bisogno di mettere una pietra sul passato, hanno urgenza di un nuovo inizio. Giustizia: Cancellieri; nelle carceri 20-25mila detenuti in eccesso, ora dobbiamo ridurli Tm News, 3 settembre 2013 "Il tema delle carceri è un tema drammatico che deve essere affrontato e che per anni è stato sottovalutato". Lo ha detto il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, alla festa nazionale del Pd a Genova. "Il carcere non è solo sovraffollamento e vetusto, ci sono tanti altri temi da affrontare - ha proseguito: da una parte occorre garantire che chi ha sbagliato paghi il suo conto, dall'altro serve una risposta adeguata non una tortura, si deve cambiare atteggiamento". Per ridurre il sovraffollamento delle carceri il ministero della Giustizia promuove interventi "concreti", sotto il profilo giurico e del regolamento carcerario: "Non dimentichiamoci - ha detto il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, intervenendo a un convegno alla Festa del Pd a Genova - che a maggio dovremo andare in Europa a spiegare quello che stiamo facendo e altrimenti sarà dura, perché abbiamo un eccesso di detenuti rispetto ai posti carcere che al momento è tra le venti e le 25mila unità. Quindi prima di maggio dobbiamo affrontare in maniera molto concreta il problema, l'Europa ci bacchetta da molto tempo su questo". "Siamo a Genova - ha esordito il ministro - dove c'è una delle più belle carceri d'Italia e che però è talmente sovraffollata che diventa uno degli inferni più inferni d'Italia". La questione delle carceri va affrontata "sotto tanti profili. Sicuramente c'è un profilo giuridico. C'è chi potrebbe non entrare in carcere e pagare il suo conto con la giustizia con attività alternative - ha affermato - Con il decreto svuotacarceri, che in realtà non svuota niente, si è alleggerita un po' la pressione". Un tema questo che va affrontato, secondo Cancellieri, "in maniera molto più decisa e compatta: dobbiamo da una parte garantirci che chi sbaglia paghi il conto, e nello stesso tempo che la risposta sia adeguata alla colpa fatta e non una tortura". Detenuti in cella 8 ore al giorno, non 22 ore come adesso "Noi adesso pretendiamo con forza che i detenuti, nell'arco di qualche mese, i detenuti possano vivere all'interno del carcere stando in cella otto ore e non di più. è una conquista incredibile, perché all'atto pratico il detenuto sta in cella anche 22 ore. Una cella nella quale mangia, dorme e vive". Lo ha detto il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, intervenendo a un convegno alla Festa del Pd a Genova. Il problema delle carceri - ha aggiunto - va affrontato anche nell'aspetto del rapporto col detenuto. "Il regolamento carcerario, che è molto buono, non viene applicato, o almeno non è applicato all'80/90 per cento. Abbiamo delle situazione anche molto belle come il carcere di Bollate e di Padova, dove i detenuti lavorano e hanno una vita, ma la maggior parte dei detenuti rimane in cella 22 ore. E questo non è previsto dal regolamento", ha ripetuto il ministro, perché "Luce e aria non sono una ricchezza che si dona, ma un diritto. Il ministero della Giustizia ha messo in piedi provvedimenti amministrativi che renderanno sempre più aderente e rispettoso del regolamento tutte le carcere italiano. Sembra una cosa da poco ma è un cambio culturale importante". Scontare la pena non può essere una tortura "Il tema delle carceri è drammatico, e deve essere affrontato dopo che per anni è staro sottovalutato. Quando si parla di carceri si parla di carceri vetuste e sovraffollate. Ma il tema va affrontanto anche sotto altri profili, ad esempio con l'uso di pene alternative alla detenzione come previsto dal decreto svuota-carceri, ma il tema va affrontato in modo più deciso e compatto. Chi ha sbagliato paghi il conto, lo dobbiamo alle vittime dei reati, ma dobbiamo fare in modo che scontare la pena non sia una tortura". Così Annamaria Cancellieri, ministro della Giustizia, nel suo intervento alla festa del Pd a Genova, parlando ad un dibattito sulla giustizia in merito al problema delle carceri. "Lo stesso cosa vale per i contatti con i parenti - aggiunge Cancellieri - idem sulla finestre che vanno fatte a norma, aria e luce sono un diritto per i detenuti. E' un cambio culturale importante, basta applicare i decreti e regolamenti che già ci sono. Il primo termine era il 30 agosto, altre scadenze arriveranno, è un programma a lungo termine quello che stiamo portando avanti". Ma certo alla scadenza della Corte di Strasburgo qualcosa si dovrà dire all'Europa e qui la Cancellieri è realista: "Sarà dura spiegare in Europa a maggio, che il 20-25% di detenuti è di troppo rispetto alla capienza delle nostre carceri". Giustizia: ecco perché il Cavaliere ha perso… bilancio di vent’anni di guerra ai magistrati di Filippo Facci Libero, 3 settembre 2013 Dalla carcerazione preventiva al giusto processo: Silvio non è riuscito a vincere la sfida coi magistrati. Ecco perché ha deciso di firmare i Referendum Radicali. L’abbraccio Berlusconi-Pannella, purtroppo, rappresenta anche il totale e clamoroso fallimento di vent’anni di politica berlusconiana sulla giustizia, e - di passaggio - anche lustri di abbagli sui Radicali, per lustri regalati alla sinistra che nel frattempo ha sempre provveduto a narcotizzarli e disinnescarli a dovere. Il Berlusconi che firma referendum per strada con lo stesso potere di un qualsiasi altro cittadino, cioè, non riassume soltanto “la determinazione con cui persegue l’obiettivo”, come ha scritto Libero domenica, ma costringe a una presa di coscienza degli spaventosi errori che il centrodestra (cioè Berlusconi) ha compiuto di recente e nondimeno in vent’anni di politica sulla giustizia: una politica che a tratti è stata reazionaria, biforcuta, anche forcaiola, più spesso inefficace prima ancora che ad personam. Ecco perché coloro che sin dal 1994 avevano a cuore essenzialmente la giustizia - ancor prima di avere a cuore Berlusconi - oggi hanno diritto più di altri ad avercela con lui, e, soprattutto, ad avercela coi disgraziati che l’hanno consigliato, probabilmente incarnati da quella stessa “destra” un po’ troppo “destra” che di liberale non ha mai avuto nulla, e che è parsa, spesso, soltanto come l’altra faccia del forcaiolismo di sinistra. Sulla giustizia gli errori più recenti li conosciamo, anzi no, forse non li conosciamo abbastanza. In primis la Legge Severino, che - è l’opinione di chi scrive, come ovviamente tutto questo articolo - non ha il problema di essere anticostituzionale, ha il problema che è un orrore a prescindere; mettere le liste elettorali nelle mani della magistratura, prima che degli elettori, non è mai stata una buona idea. Ma per questo genere di dibattito non c’è più spazio, e tantomeno ce ne fu nel Natale 2012, quando sulla Riforma Severino fu apposto il timbro finale dopo il sì delle commissioni di Senato e Camera laddove il centrodestra aveva la maggioranza. Il Popolo della Libertà, falchi o colombe che fossero, fu uccellato da se stesso. Qualcuno si è divertito a elencare altri clamorosi autogol del Cavaliere: quando decise di non ricorrere al condono tombale offerto dal “suo” ministro Tremonti nel 2002 (il che l’avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale) e nondimeno con il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal “suo” ministro Carfagna nel 2008 (che avrebbe reso più serena qualsivoglia “festa elegante”). Però non ci sono solo gli autogol: sempre in tema di giustizia c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni (ciò che ora spinge da Pannella) ma poi ci sono altre categorie di disfatte: le leggi ad personam-personam; le leggi ad personam che partivano da Berlusconi ma potevano servire a tutti; le leggi buone e riuscite, col dettaglio che le ha fatte la sinistra; le leggi demagogiche e illiberali, col dettaglio che le ha fatte la destra. Vediamo nel dettaglio. 1) Tra il non fatto o non riuscito figura quasi tutto quello che ora compare nei referendum radicali, ma che pure compariva, con piccole differenze, nella riforma Alfano presentata nel 2011: separazione delle carriere tra giudici e pm, sdoppiamento del Csm, modifiche sull’obbligatorietà dell’azione penale, polizia giudiziaria autonoma, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, responsabilità civile dei giudici e limiti alle intercettazioni. Tutta roba di cui si parla vanamente da vent’anni. 2) Tra le leggi ad personam-personam rientrano quella sulle rogatorie (2001) e la Cirami (2002) e i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano (2003-2008) e l’illegittimo impedimento (2010) più altre di cui scegliamo volutamente di non occuparci, ascrivendole a un diritto supplementare di autodifesa di Berlusconi: tentativo comunque fallito, va detto. 3) Tra le leggi ad personam che potevano essere utili a tutti, sacrosante, osiamo infilare il famigerato Decreto Biondi (1994) che in origine si proponeva di limitare l’abuso della custodia cautelare, abuso che c’era in proporzioni insopportabili: ma il Decreto fu penosamente disconosciuto dal riflesso piazzaiolo di Lega, An e Scalfaro. Poi ci mettiamo anche la cosiddetta ex Cirielli (2005) che ha ridotto la prescrizione per gli incensurati e ha eliminato la galera per ultrasettantenni: tutto giusto, ma è una legge che ha fatto anche pasticci - utili a Berlusconi, in qualche caso - tanto che oggi appare come una legge da ricalibrare. La legge cosiddetta Pecorella (2006) invece aboliva il ricorso in Appello dei pm quando l’imputato era stato assolto, un provvedimento ineccepibile e che andrebbe riproposto: ma è stato cassato dalla Corte Costituzionale e qui niente da dire, ogni lagnanza berlusconiana sull’impotenza della politica e sullo strapotere dei giudici è pienamente giustificata. 4) Eccoci alle leggi riuscite. In sostanza è una sola, benché fondamentale per lo stato di diritto: la riforma dell’articolo 513 (“giusto processo”) che vietava e vieta di utilizzare a dibattimento, se non confermati in aula, i verbali d’interrogatorio ottenuti dal pm durante le indagini preliminari. È una riforma elementare e che ci ha messo in linea con tutti i paesi di cosiddetta common-law, ma che dovette scontrarsi con una bocciatura della Corte Costituzionale prima di essere perfezionata cambiando la Costituzione nel 1999. La lezione non fu imparata se non tardivamente: la giustizia, in Italia, si può cambiare solo mettendo le mani sulla Costituzione. Il dettaglio è che la riforma del 513 non fu una legge propriamente di centrodestra, che pure ne ha beneficiato: comparve dapprima nella cosiddetta “bozza Boato” della Bicamerale (1997) e fu approvata da tutto l’arco parlamentare sotto il governo D’Alema. Un altro provvedimento giusto e riuscito, benché impopolare, è l’indulto del 2006: decretava tre anni di pena (ora ne fruisce anche Berlusconi) e incideva sullo scandaloso e irrisolto sovraffollamento carcerario, ma fu fatto dal Parlamento sotto il governo Prodi (contrari Idv, An e Lega) e il successivo governo Berlusconi, nonostante gli sforzi personali di Alfano, non compensò il lavoro con un’adeguata riforma carceraria. Pare beffardo, oggi, che il Popolo delle libertà si allei con gli stessi radicali che vorrebbero abrogare le leggi sull’immigrazione e sulle droghe: proprio le leggi, cioè, che hanno riempito le galere, e che furono varate proprio dai governi berlusconiani. 5) Ed eccoci infine all’attività legislativa sulla giustizia ma su temi non berlusconiani: attività che è esistita ma che purtroppo in vent’anni ha trasformato i garantisti nella minoranza sputtanata che sono. Parliamo delle ridicole proposte di retate per i frequentatori di battone sui viali, dell’inasprimento propagandistico del 41bis in una chiave che gli organismi internazionali, spesso, equiparano alla tortura; del tentativo di legiferare sul nostro privato - il testamento biologico - dopo che per anni si aveva difeso il privato di un uomo solo, per quanto svilito a un problema di cubiste del giro dello spettacolo. Ma ci sono altre cosucce. A livello politico c’è l’aver svenduto la carcerazione di un parlamentare, Alfonso Papa, al malcontento popolare, mentre a livello civile c’è non aver approntato un vero piano carceri perché il costruirle non porta voti, e tantomeno porta voti il proporre misure alternative anche normali - ma poco virili - come gli arresti domiciliari per chi ha quasi finito di scontare la pena. Gli oppositori a queste misure sono sempre stati perlopiù di centrodestra. I governi berlusconiani hanno indubbiamente teso a sparpagliare più carcere per nuovi reati, così come hanno approvato la detenzione nei Cie (centri di identificazione ed espulsione) sino a 18 mesi, luoghi dove si può finire anche senza aver commesso illeciti. Ma l’emblema della demagogia securitaria, del garantismo trasformistico, resta l’obbligo di custodia cautelare per gli accusati di stupro, probabilmente il provvedimento meno garantista degli ultimi vent’anni: è la legge che prevedeva il carcere automatico per tutti i sospettati (solo sospettati) di violenza sessuale e pedofilia, un’ennesima norma ignorante e “Carfagna” che il governo varò frettolosamente quando sembrava che in giro ci fossero solo romeni che stupravano donne: e invece, parentesi, era la classica bufera mediatica, sia perché molti accusati erano innocenti, sia perché gli stupri risultavano inferiori agli anni precedenti. La Consulta per fortuna cassò tutto nel 2010. No, non stiamo parlando d’altro: perché tocca ripetere che il carcere obbligatorio, senza che un giudice possa valutare da caso a caso, dovrebbe esserci solo per i colpevoli accertati da un giudizio: si chiama presunzione di non colpevolezza, e il principio è di un’ovvietà tale - il carcere dev’essere obbligatorio per i colpevoli accertati, non per gli innocenti ancora da processare - che le proteste rivolte contro la Consulta da parte del centrodestra, in quell’occasione, restano una pagina nera del sedicente garantismo di questo Paese. Anche perché parliamo della stessa Consulta a cui il centrodestra vorrebbe ricorrere, ora, perché esamini una legge che lo stesso centrodestra ha votato poco tempo fa. Un’impotenza doppia. Come a dire: siamo inetti, non sappiamo fare le leggi, magistratura, provvedi tu, muoviti tu. Ma, a ben vedere, è proprio quello che accade da vent’anni. Giustizia: dove ha fallito la sinistra... forse potrà Pannella di Gilda Maussier Il Manifesto, 3 settembre 2013 I 12 referendum Radicali a cui Silvio Berlusconi si è abbarbicato come fosse il nuovo patto con gli italiani, rischiano di diventare il pomo della discordia nella santa alleanza Pd/Pdl che tiene in vita il governissimo. Ieri, mentre anche Renato Brunetta annunciava la sua apparizione, questa mattina alle 10,30 a Largo di Torre Argentina, a Roma, per accodarsi in pieno alla nouvelle vague pannelliana dei berluscones - al contrario di Maurizio Gasparri che di pelo sullo stomaco ne ha molto ma non fino al punto di firmare anche quei quesiti referendari che rischiano di far abrogare le leggi scellerate del centrodestra, e ad Arcore i consiglieri comunali del Pdl preparano un allegro weekend di raccolta firme, alla festa del Pd di Cortona si è consumata la rottura tra la militanza democratica e quella radicale. Espulsi dalla festa, per eccesso di berlusconite. “Il fatto che Berlusconi avesse posto la sua firma ai nostri referendum ha scatenato la rabbia dei militanti del Pd; con le buone e cattive maniere siamo stati costretti ad uscire”, ha spiegato il portavoce aretino dei pannelliani, Angelo Rossi. La dinamica non è così chiara, però. Il segretario del Pd cortonese, Andrea Bernardini, che pure si dice disponibile a firmare per i referendum, nega tutto: “Non è stato cacciato nessuno. A tanti nostri militanti non era piaciuta la presenza dei Radicali nella festa dopo l’appoggio avuto da Berlusconi”. Una presenza “inopportuna anche per la contemporanea presenza dell’onorevole Civati che stava tenendo un incontro pubblico”. Come se a parlare di “giustizia giusta”, tanto invocata dai Radicali perfino il neo candidato alla segreteria di partito avesse potuto rischiare di incartarsi. Liscio come l’olio invece il discorso dei consiglieri arcoresi del Pdl che sabato e domenica prossima invitano ai tavoli tutti i concittadini del Cav. Perché, arrivano a dire, “il referendum è una forma altissima di democrazia e oggi, a fronte delle divergenze politiche, è probabilmente anche l’unica via per arrivare ad una nuova giustizia in Italia”. Anche Gasparri in fondo trova la quadra: “Firmerò solo 5 referendum per la riforma deDa giustizia”. Contrario all’abolizione dell’ergastolo, il vicepresidente del Senato considera “portatori di pericolosa illegalità i referendum su droga e immigrazione che vanno avversati con energia. E mi auguro - aggiunge - che lo dicano tanti esponenti del centrodestra che mi hanno espresso opinioni analoghe a quelle che da tempo ho comunicato. Un conto è la spinta urgente per la riforma della giustizia. Un conto il resto. Non bisogna fare confusione”. Giustizia: i Referendum Radicali per fare quello che il centrodestra non ha fatto in 20 anni di Marcello de Angelis Il Secolo d’Italia, 3 settembre 2013 Silvio Berlusconi ha firmato con un certo clamore giornalistico i quesiti referendari proposti dai radicali in materia di giustizia. Li ha firmati tutti e 12. Non solo quelli sulla separazione delle carriere dei magistrati e sulla sacrosanta responsabilità dei giudici in caso di giudizio falso o sbagliato, ma anche quelli che chiedono l’abolizione del reato di immigrazione clandestina e quello che limita ancor di più il ricorso al carcere per detenzione di sostanze stupefacenti. Su questi due argomenti ovviamente le sensibilità di molti elettori di centrodestra forse non si incontrano con quelle dei radicali. I referendum sulla giustizia invece sono forse l’ultima occasione che abbiamo - noi tutti italiani - di riportare un minimo di “giustezza” in quella che oggi è più imposizione di leggi (quasi tutte fatte male), che amministrazione di giustizia. Sia chiaro, se le leggi sono fatte male, se l’arbitrio dei magistrati nell’applicarle è quasi assoluto e se i magistrati non pagano né in caso di dolo né di errore, è solo colpa della politica. E questo ci porta doverosamente a interrogarci sul perché, pur essendo la destra in “area di governo” se non al potere per un ventennio, sia stata incapace di cambiare le cose. Esatto, perché il ruolo della politica è non solo amministrare e gestire quello che c’è, ma anche cambiare quello che non va. Se così non fosse basterebbe un partito unico, senza ideologie e senza programma altro da quello di gestire l’esistente. E in fin dei conti mi sembra proprio che sia a questo che l’Italia stia tendendo, a partire dall’obbrobrio del governicchio dei professoricchi. Il centrodestra nacque invece con la promessa di un grande cambiamento, economico, sociale, amministrativo e dell’architettura stessa dello Stato. Ed è questo, nello specifico, che ha dato un senso vero all’adesione al progetto del centrodestra da parte di un mondo - quello della Destra - che, unico nella storia d’Italia, è stato sempre “diverso” senza per questo essere sovversivo bensì piuttosto restauratore dei valori fondativi che tenevano insieme il nostro popolo e la nostra nazione, lo firmerò i referendum dei radicali - astenendomi su quello sull’immigrazione clandestina, perché ho troppo rispetto per gli immigrati “regolari” - e spero lo faccia chiunque voglia rimettere giustezza nella giustizia. Lo farò però col timore che poi - di nuovo - queste richieste popolari vengano disattese o taroccate dai partiti come avvenne con la legge Vassalli dopo il referendum dell’87. E chiedendomi perché e come mai la destra politica non sia stata in grado di generare in 20 anni nessun cambiamento. O piuttosto generare una rappresentanza fatta di persone che veramente volessero, a tutti costi e sopra ogni altra cosa, produrre un giusto cambiamento. Per lasciare magari oggi, ad altri italiani, un’Italia migliore di come l’avevamo trovata venti anni fa. Giustizia: il leader radicale Pannella sale al Colle, per parlare di carceri e referendum Corriere della Sera, 3 settembre 2013 Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto ieri mattina al Quirinale Marco Pannella: un incontro cordiale - i due si conoscono da oltre cinquant’anni - in cui il leader radicale ha parlato al capo dello Stato della campagna referendaria “per i nuovi diritti umani e la giustizia giusta”, dodici quesiti per i quali il partito sta raccogliendo le firme in tutta Italia (domenica li ha firmati anche l’ex premier Silvio Berlusconi). Nel faccia a faccia è stato affrontato anche il tema del sovraffollamento delle carceri, molto caro a Pannella, che da tempo si batte per un’amnistia. Intervenendo in diretta a Radio radicale il leader ha avuto poi parole di grande apprezzamento per l’appello alla pace del pontefice: “Papa Francesco - ha affermato - sta intervenendo non essendo a conoscenza di nostre idee o posizioni, ma dando voce ai sentimenti comuni diffusissimi, tra ogni forma di credenti, e non solo tra i “fedeli”. Quando lui invita il mondo, non solo quello cattolico, sabato prossimo, a una giornata di preghiera, di impegno e, per quel che lo riguarda, di digiuno per la Siria e contro la violenza, aiuta anche noi, anche me, in questo momento della realtà storica e politica del partito radicale”. “A partire da quel che annuncia il Papa - ha concluso Pannella - vorrei suggerire che dalle carceri italiane venga fuori una tre giorni, da sabato a lunedì, di digiuno, contro la guerra, la violenza, e la violenza di Stato”. Giustizia: Bizzotto (Ln); l’Unione Europea valuti la legittimità del decreto sulle carceri Asca, 3 settembre 2013 “L’Europa valuti la legittimità del decreto svuota carceri recentemente approvato dal Governo Letta, un provvedimento vergognoso che consentirà a migliaia di delinquenti di tornare in libertà con ripercussioni drammatiche per l’incolumità e la sicurezza dei cittadini”. Lo afferma l’europarlamentare leghista Mara Bizzotto, responsabile federale del dipartimento Europa della Lega Nord, che ha presentato una serie d’interrogazioni alla Commissione Ue per valutare la legittimità del decreto svuota carceri e per chiedere all’Europa delle norme comuni e condivise per rimpatriare i detenuti stranieri. “Non è rimettendo i delinquenti a piede libero che si risolve il problema del sovraffollamento nelle carceri - spiega l’eurodeputata Bizzotto. La prima cosa da fare è far scontare ai detenuti stranieri la pena nel proprio Paese d’origine, siano essi extracomunitari o comunitari. Per questi ultimi, ad esempio, è necessario rivedere quanto prima quell’assurda norma UE che prevede il trasferimento nello Stato membro d’origine solo con il consenso del condannato: quello che serve è un trasferimento automatico ed indipendente dalla volontà del detenuto”. “Per i carcerati extracomunitari, invece, l’Europa dovrebbe negoziare degli accordi bilaterali con i Paesi terzi che consentano il loro rimpatrio in maniera rapida ed efficace - prosegue la Bizzotto. Questa è l’unica valida soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri che non mette a rischio la sicurezza dei nostri cittadini e dei nostri territori”. Sono oltre 66mila i detenuti reclusi nei 206 istituti carcerari italiani - si legge nella nota, a fronte di una capienza regolamentare di circa 45mila unità. Di questi oltre un terzo sono stranieri, in gran parte provenienti da Marocco (19%), Romania (15%), Tunisia (12,6%) e Albania (11,9%). La Regione con il maggior numero di detenuti stranieri è la Lombardia, con 4mila detenuti, vale a dire il 18,7% del totale dei detenuti stranieri. In Veneto sono quasi duemila gli immigrati presenti nei 10 istituti penitenziari, che vanno a colmare quasi per intero la capienza totale delle carceri venete. Il costo medio per ogni detenuto si aggira intorno ai 200 euro al giorno. “Viviamo una situazione paradossale: oggi in Italia spendiamo circa 1 miliardo e mezzo di euro all’anno per mantenere circa 25mila stranieri arrivati nel nostro territorio con il solo scopo di delinquere - rincara la Bizzotto. Rimpatriando i detenuti stranieri nel loro Paese d’origine si risparmierebbero quindi anche importanti risorse economiche che potremmo invece utilizzare per i nostri lavoratori e per le nostre imprese in difficoltà”. “Siamo pronti a dare battaglia in ogni sede per bloccare questo provvedimento ignobile che premia spacciatori, rapinatori e perfino alcuni mafiosi a scapito dei cittadini onesti - conclude Mara Bizzotto. Vista la palese incapacità ed inadeguatezza del Governo Letta nel gestire questa situazione, ci rivolgiamo dunque all’Ue affinché pensi a delle regole comuni e condivise che consentano il trasferimento automatico dei detenuti stranieri, comunitari o meno, nei penitenziari dei rispettivi Paesi d’origine”. Giustizia: Comunicato Dap; parte il Piano di mobilità nazionale della Polizia Penitenziaria Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2013 Si è svolto ieri l’incontro tra il Dap e le Organizzazioni Sindacali del comparto sicurezza per presentare il piano di mobilità nazionale per agenti e assistenti della Polizia Penitenziaria. Il piano di mobilità, formulato a seguito dell’interpello diramato dal Dap l’anno scorso, riguarderà 801 unità di personale ed è stato reso possibile per la contestuale immissione in servizio (entro settembre) di 756 allievi, provenienti dal 166° e dal 167° Corso Agenti, di cui 619 uomini e 137 donne. La formulazione e l’attuazione del piano è il frutto di un’operazione complessa che è stata programmata tenendo conto di diversi fattori, e che avrà la completa attuazione su un programma di lavoro pensato a medio e lungo termine, tenendo presente il carico di lavoro delle singole sedi destinatarie degli incrementi degli organici dando così avvio alla riformulazione degli organici delle sedi periferiche in base alla nuove piante organiche stabilite dal D.M. del 22 marzo 2013. Tra gli obiettivi fissati, oltre la necessità di contemperare le esigenze personali degli agenti in attesa di trasferimento verso le sedi richieste, quello di adeguare gli organici degli istituti dove, tra pochi mesi, entreranno in funzione nuovi reparti in attuazione del piano carceri volto ad attenuare la situazione di sovraffollamento. Giustizia: Caso Cucchi; per Corte d’Assise di Roma causa morte è sindrome da inanizione Agi, 3 settembre 2013 Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni arrestato per droga il 16 ottobre del 2009 e deceduto all’ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo, è morto per “sindrome da inanizione”. Lo afferma, in 188 pagine di motivazione della sentenza depositate oggi in cancelleria, la terza corte d’assise di Roma secondo cui tale sindrome “è l’unica in grado di fornire una spiegazione dell’elemento più appariscente e singolare del caso in esame e cioè l’impressionante dimagrimento cui è andato incontro Cucchi nel corso del suo ricovero”. La corte ritiene così di condividere le conclusioni del collegio peritale. “Al contrario - spiega la corte che ha condannato sei medici, cinque per omicidio colposo e uno per falso, assolvendo tre infermieri e tre agenti di polizia penitenziaria, accusati di aver pestato Cucchi nelle celle del tribunale - la tesi, sostenuta dalle difese degli imputati, secondo cui il giovane sarebbe stato condotto all’exitus da morte cardiaca improvvisa, non fornisce alcuna spiegazione della grave perdita di peso corporeo subita da Stefano Cucchi ma anzi si fonda, in contrasto con le risultanze probatorie (il peso di 52 kg registrato all’ingresso in carcere), sull’errato assunto che il peso corporeo di Cucchi in realtà fosse intorno ai 40 kg”. “Ancor meno convincenti - a parere della corte - sono le conclusioni dei consulenti delle parti civili secondo cui il decesso si sarebbe verificato a causa delle lesioni vertebrali che, interessando terminazioni nervose, avrebbero dato origine ad una sintomatologia dolorosa e che, unitamente ad una vescica neurologica, avrebbero ingenerato, con riflesso vagale, l’aritmia cardiaca consistente in una brachicardia da ritmo giunzionale la quale si sarebbe a sua volta inserita causalmente nel determinismo della morte. Anche questa tesi - per la corte d’assise - presta il fianco all’insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali in questione abbiano interessato terminazioni nervose”. Patologia non compresa e sottovalutata da medici Stefano Cucchi è morto all’ospedale Sandro Pertini, vittima delle condotte dei medici “contrassegnate da imperizia, imprudenza e negligenza sia per la omissione della corretta diagnosi, non avendo i sanitari individuato le patologie da cui era affetto il paziente, in particolare tenuto conto del suo stato di magrezza estrema, sia per avere trascurato di adottare i più elementari presidi terapeutici che non comportavano difficoltà di attuazione e che sarebbero stati idonei a evitare il decesso, sia per avere sottovalutato il negativo evolversi delle condizioni del paziente che avrebbero richiesto il suo urgente trasferimento presso un reparto più idoneo”. La terza corte d’assise spiega perché ha attribuito a cinque dei sei medici imputati l’accusa di omicidio colposo e non quella, proposta dai pm, di abbandono di persona incapace. Decreto Balduzzi non applicabile al caso Il caso Cucchi “esula completamente dallo schema indicato dal cosiddetto Decreto Balduzzi (la legge del 2012 secondo cui il medico che si attiene alle linee guida non risponde penalmente per colpa lieve, ndr) non risultando in alcun modo applicate linee guida e buone pratiche alle quali le difese degli imputati hanno fatto solo un generico e vago riferimento”. Lo sottolinea la terza corte d’assise di Roma nelle motivazioni della sentenza con cui il 5 giugno scorso ha condannato sei medici, assolvendo tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria per la morte del geometra di 31 anni, arrestato per droga il 16 ottobre 2009 e deceduto sei giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini. “Ritenere che la sindrome da inanizione fosse una patologia di difficile individuazione da parte dei sanitari della Struttura Protetta - si legge ancora nelle motivazioni - è contraddetto (come riportato anche dai periti) dalla circostanza che si trattava di medici che operavano con pazienti detenuti i quali, sovente, sono del tutto disinteressati alla propria salute (come, ad esempio, la maggior parte dei tossicodipendenti) e non collaborativi, o addirittura pongono in essere condotte autolesionistiche, come lo sciopero della fame”. Malmenato da Carabinieri prima di suo arrivo in tribunale “È legittimo dubbio che Stefano Cucchi, arrestato con gli occhi lividi e che lamentava di avere dolore, fosse stato già malmenato dai carabinieri”, ancora prima di essere consegnato la mattina del 16 ottobre 2009 agli agenti di polizia penitenziaria che lo portarono nelle celle sotterranee del tribunale di Roma in attesa della convalida del suo arresto per droga. Lo afferma la terza corte d’assise nelle motivazioni della sentenza che il 5 giugno scorso si concluse con la condanna di sei medici e l’assoluzione di tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria, questi ultimi accusati del pestaggio di Cucchi “Non è certamente compito della Corte indicare chi dei numerosi carabinieri che quella notte (il 15 ottobre, quella dell’arresto, ndr) erano entrati in contatto con Cucchi avesse alzato le mani su di lui, e tuttavia sono le stesse dichiarazioni dei carabinieri che non escludono la possibilità di prospettare una ricostruzione dei fatti diversa da quella esternata da Samura Yaya”, il superteste di origine africana che riferì di aver sentito un pestaggio nelle celle del tribunale e di aver raccolto lo sfogo di Cucchi che gli mostrò una gamba sporca di sangue. “C’è da dire - spiega la Corte -, quanto agli accadimenti nella caserma, che è indubitabile che nulla di anomalo si era verificato al momento dell’arresto e fino alla perquisizione domiciliare. Se qualcosa di anomalo si era verificato, ciò può verosimilmente collocarsi nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare (verso le due di notte) e l’arrivo della pattuglia automontata (intorno alle 3,40), dovendosi ragionevolmente escludere che atti violenti fossero stati posti in essere dal carabiniere Colicchio (che chiamò il 118 perché Cucchi non stava bene) o dai carabinieri della pattuglia che si erano limitati ad effettuare il trasferimento dell’arrestato da una caserma all’altra”. Per la Corte d’assise “in via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa, mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente abitava”. Inattendibile testimonianza di Samura Yaya contro agenti Non è per nulla attendibile il teste Samura Yaya, compagno di cella di Stefano Cucchi che riferì alla procura di un presunto pestaggio eseguito dagli agenti di polizia penitenziaria. Lo evidenzia la terza Corte d’Assise di Roma ricordando, in principio, che durante un sopralluogo svoltosi alla presenza dei pm il 21 novembre 2009, circa un mese dopo la morte di Cucchi, lo stesso cittadino africano “dichiarava di non riconoscere i luoghi in cui era stato detenuto la mattina del 16 ottobre 2009 e di non essere comunque in grado di riconoscere la cella in cui era stato trattenuto, rifiutandosi di sottoscrivere il verbale”. a testimonianza di Yaya, “se pur fornita dell’innegabile riscontro dei pantaloni sporchi di sangue che Cucchi si sarebbe arrotolato fino al ginocchio per mostrargli le escoriazioni prodottegli sulle gambe dalle percosse degli agenti di polizia penitenziaria, è in aperto contrasto con talune dichiarazioni rese da alcuni carabinieri e dall’infermiere Ponzo che dimostrerebbero che il giovane aveva subito delle violenze prima di giungere nelle celle di piazzale Clodio”. Yaya “ha sentito dei calci; ha sentito un corpo caduto a terra; ha sentito il trascinamento di un corpo. In conclusione - spiega la Corte - può dirsi con certezza che lo stesso abbia percepito soltanto un parlare concitato tra Cucchi e tre agenti della penitenziaria, un tramestio e il pianto di Cucchi”. Per la Corte è importante poi sottolineare, alla luce delle dichiarazioni dei genitori di Stefano, che “nel momento della perquisizione domiciliare il giovane non presentava segni di patita violenza” e che “nel momento della convalida dell’arresto presentava evidenti segni di violenza. Più arduo è stabilire quali fossero le condizioni del giovane nella fase immediatamente precedente, cioè quando, effettuata la perquisizione domiciliare, ancora si trovava nella custodia dei carabinieri”. Da medici contributo causale a evento morte Tutti i medici condannati per omicidio colposo (un anno e quattro mesi per Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, e due anni per il dirigente Aldo Fierro) “hanno fornito il loro contributo causale alla verificazione dell’evento morte di Stefano Cucchi”. Nessun dubbio sul fatto che il giovane “fosse poco collaborativo e di non facile gestione”, ma “di fronte a una situazione così evidente, nessuno dei medici della Struttura Protetta dell’ospedale Sandro Pertini ha colto la necessità di dovervi fare fronte con una condotta attiva governando il problema”. Per la Corte d’Assise, invece, “tutti si sono fatti passivamente governare dal problema fino all’esito infausto”. “È stato osservato dai periti - si legge nelle motivazioni - che effettivamente i medici che hanno avuto in cura Cucchi hanno continuato a sottoporlo ad analisi, controlli strumentali e quant’altro, sia pure nei limiti in cui il paziente accettava di sottoporsi a controlli e visite specialistiche, ma questo hanno fatto in modo puramente meccanico, routinario, senza essere in grado di ricavare dagli esiti di quegli accertamenti una diagnosi o una qualsivoglia indicazione terapeutica, così come non sono stati in grado di gestire l’emergenza del rifiuto”. Per la corte, “Cucchi non ha mai assunto un atteggiamento di totale chiusura ma ha tenuto un comportamento per così dire altalenante, ondivago, e con riferimento all’idratazione, all’alimentazione e alle terapie, scarsamente interessato e svogliato”. Trascuratezza e sciatteria in attività medici “Tutta l’attività dei medici” che hanno avuto in cura Stefano Cucchi all’ospedale Sandro Pertini “è segnata da trascuratezza e sciatteria”. Lo rileva la terza corte d’assise che parla, senza mezzi termini, “di grave inadeguatezza e di inescusabile superficialità con cui sono state affrontate le criticità del paziente”. Al riguardo è citato ‘l’esame obiettivò eseguito su Cucchi, al momento del suo ingresso nella Struttura Protetta, dalla dottoressa Rosita Caponetti, condannata a otto mesi di reclusione per falso, “in cui, inspiegabilmente, con riferimento al paziente, si indicano “condizioni generali: buone”, stato di nutrizione: discreto, apparato muscolare: tonico-trofico, apparato urogenitale: ndr”. “Orbene - sottolinea la corte, se pure si volessero ritenere frutto di valutazioni le notazioni relative alle condizioni venerali, allo stato di nutrizione e all’apparato muscolare, certamente non ascrivibile a valutazione è la notazione “apparato urogenitale: ndr”, la quale è puramente e semplicemente contraria al vero, posto che il paziente era cateterizzato. A parere della corte, se pure questa falsa annotazione non può essere connotata dalla specifica finalità di commettere il reato di abuso d’ufficio (contestato dalla procura e dal quale è stata assolta, ndr), tuttavia non può non rilevarsi il carattere di discordanza tra realtà obiettiva e contenuto dell’atto amministrativo. Ed invero, il reato di falso ideologico è configurabile ogniqualvolta l’attestazione di sussistenza di una determinata situazione di fatto, caduta sotto la diretta percezione del pubblico ufficiale che redige l’atto, non è veridica”. Per la corte, insomma, “la presenza o meno del catetere non poteva considerarsi circostanza irrilevante”. E ancora: “La presenza del catetere e la sua corretta gestione da parte degli infermieri è inoltre venuta in rilievo nella fase terminale della degenza di Cucchi: non va infatti trascurato che comunque sia, intenzionalmente o accidentalmente, il catetere, che era all’evidenza mal funzionante, fu fatto sparire contestualmente alla costatazione del decesso”. Altro esempio di trascuratezza e di superficialità dei medici sta nella compilazione del certificato di morte di Cucchi. Spiega la corte: “La causa di morte non è occultata o modificata o comunque falsificata, in quanto le singole annotazioni riportate sono, autonomamente considerate, conformi al vero. È la loro lettura complessiva ad essere contraddittoria; in pratica nel certificato redatto dalla dottoressa Bruno vi è tutto e il contrario di tutto: la morte è una presunta morte naturale e la causa è una sospetta embolia polmonare; però vengono contemporaneamente richiamate cause violente dovute a frattura della vertebra L3 e traumatismo facciale (anche queste veritiere) e vengono inoltre indicati il grave dimagrimento e l’iperazotemia (sulla cui sussistenza non sono ammissibile dubbi)”. Negligente disinteresse del Primario dell’Ospedale Pertini Il responsabile della Struttura Protetta dell’ospedale Sandro Pertini, Aldo Fierro, è stato condannato a due anni di reclusione per omicidio colposo perché “non ha adempiuto a nessuno dei poteri-doveri che gli competevano in quanto dirigente sovraordinato. Al contrario, si è negligentemente disinteressato di Stefano Cucchi”. Lo spiega la terza corte d’assise di Roma secondo cui “non risulta nemmeno che Fierro avesse predisposto linee di intervento per i medici del reparto da seguire nei casi di rifiuto di terapie e soprattutto nei casi di rifiuto di alimentazione e idratazione da parte dei detenuti ricoverati, evenienza certamente non straordinaria in una struttura detentiva”. Fierro, secondo la corte, ha soprattutto “disatteso l’obbligo di vigilanza nei confronti dei suoi collaboratori”. Lo ha disatteso a tal punto che “neppure dopo che la dottoressa Stefania Corbi si era recata presso il suo studio a rappresentargli la situazione di Cucchi, egli aveva ritenuto di fare una visita al paziente, non solo per sincerarsi de visu delle sue condizioni fisiche e cliniche, che i valori delle analisi indicavano come molto critiche, se non terminali, ma anche per cercare di fargli cambiare idea e accettare le terapie che gli venivano di volta in volta proposte e soprattutto di tranquillizzarlo quanto al fatto che nulla gli avrebbe potuto e dovuto impedire di esercitare con la massima celerità la più elementare manifestazione del suo fondamentale diritto di difesa, e cioè di parlare con l’avvocato. La negligenza del dirigente - è sottolineato nelle motivazioni - è particolarmente riprovevole per il fatto che nella Struttura Protetta erano ricoverate soltanto persone in stato di privazione della libertà personale”. Quanto agli infermieri, Giuseppe Flauro, Elvira Martelli e Domenico Pepe, tutti assolti dall’accusa di omicidio colposo, “non era nelle loro facoltà di sindacare le iniziative dei medici alle quali risultano essersi attenuti”. Ferrero (Prc): caso mala polizia diventa storia mala sanità “La III Corte d’assise di Roma ha fatto proprie le conclusioni dei periti che vogliono trasformare un caso evidente di mala polizia in una storia di mala sanità. È un fatto scandaloso che segnala semplicemente la volontà di coprire le responsabilità di chi nelle forze dell’ordine si comporta al di fuori di ogni legalità. Nell’esprimere la vicinanza e la solidarietà alla famiglia di Stefano Cucchi, alla sorella Ilaria, ribadiamo il nostro impegno nella ricerca della verità e della giustizia”. È quanto dice Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista. Sappe: ci fu “linciaggio mediatico” della Polizia penitenziaria “Le motivazioni della sentenza con cui la Terza Corte d’Assise di Roma lo scorso 5 giugno ha condannato sei medici ed assolto i tre agenti di Polizia Penitenziaria per la morte di Stefano Cucchi ci inducono a tornare a chiedere al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, che pure ebbe a esprimere “solidarietà” alla sorella di Cucchi, di tutelare e difendere l’onorabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria e dei suoi appartenenti che furono oggetto in quei giorni, in quelle settimane, in quei mesi, di un linciaggio mediatico senza precedenti. Non è possibile continuare ad assistere, leggere e ascoltare dichiarazioni francamente inaccettabili di chi dimostra di non aver alcun rispetto per i giudici e pensa che la giustizia esista solo quando avalla un proprio personale convincimento. Le sentenze si rispettano sempre, anche quando non soddisfano. E le motivazioni della sentenza dello scorso giugno rafforza questo nostro convincimento” . Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “È sbagliato e ingiustificato strumentalizzare le tragedie umane. Lo dovrebbero sapere, e bene, coloro che non hanno atteso un attimo a mettere sulla graticola i poliziotti penitenziari, accusandoli da subito - senza prove - di essere i responsabili della morte del povero Cucchi. La Polizia Penitenziaria salva i detenuti dai suicidi o dalla morte certa per ingestione di pile e lamette, sventa le risse e le colluttazioni tra detenuti pur se spesso in imbarazzante inferiorità numerica. E sarebbe giusto, ora, che tutti coloro che hanno frettolosamente “condannato” i nostri colleghi della Polizia Penitenziaria chiedessero scusa per le loro accuse infamanti ed ingiuste!” Giustizia: Marcello Lonzi, 29 anni, morì in carcere nel 2003, ufficialmente per “infarto”… di Ilaria Lonigro L’Espresso, 3 settembre 2013 Marcello Lonzi, 29 anni, morì in prigione nel 2003, ufficialmente per “infarto”. Ma aveva la mandibola fratturata, due buchi in testa, otto costole rotte. La madre non ha mai smesso di lottare per far riesaminare il caso. E ora chiede di firmare online per farlo arrivare alla Corte dei diritti dell’uomo. Così, forse, anche da noi la giustizia si muoverà. Non convince molti la verità giudiziaria secondo cui Marcello Lonzi, 29 anni, il volto gonfio e il corpo martoriato, sarebbe morto per un infarto, l’11 luglio del 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Le foto del ragazzo nudo in una pozza di sangue hanno spinto in meno di 5 giorni 15.000 persone a firmare la petizione online con cui la madre Maria Ciuffi chiede ora alla Corte europea dei diritti dell’uomo di riesaminare il caso. La Ciuffi era già ricorsa a Strasburgo, insoddisfatta delle due archiviazioni italiane, ben sintetizzate dalle parole del Gip della Procura di Livorno Rinaldo Merani: “Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Marcello Lonzi è morto per un forte infarto”. Dopo che pure la Cassazione, il 29 marzo 2011, aveva negato la riapertura del processo, la donna si appellò alla Corte europea. Inutilmente: nel 2012 il ricorso fu dichiarato irricevibile. “Non incontrava gli articoli 34 e 35 della Convenzione europea sui diritti umani” fanno sapere all’Espresso da Strasburgo. Non si sa se il vizio fosse di procedura, merito o competenza. La decisione è comunque definitiva. Non la pensa così Erminia Donnarumma, legale di Maria Ciuffi, che vuole far riaprire il processo anche in Italia. “Con nuove prove c’è sempre la possibilità di riaprire le indagini. A marzo abbiamo denunciato il medico legale che ha fatto l’autopsia prima che la madre fosse avvertita del decesso, quindi senza che assistesse un perito nominato da lei. E abbiamo denunciato i due medici intervenuti la sera, per omissione di soccorso. Bisogna riconsiderare anche le fratture non prese in esame in sede di riesumazione. Ora dipende tutto dalla Procura di Livorno: se iscrivono il reato possono riaprire le indagini”. Alle Sughere dal 1 marzo 2003, Marcello doveva scontare 9 mesi per tentato furto. Invece l’11 luglio il suo corpo resta a terra nella cella. Fuori, strisciate e gocce di sangue. Saranno tante le dichiarazioni contrastanti e i punti oscuri. Pochi giorni dopo aver parlato con la magistratura, nel 2008, tenta il suicidio in orario di lavoro l’infermiera delle Sughere in servizio quando fu ritrovato il corpo di Marcello. Si può escludere o no che c’entri con i fatti di Lonzi? C’è poi un referto medico falso e anonimo. Poco dopo l’ingresso in carcere, Marcello accusa dolori al torace: lo hanno picchiato le guardie, lamenta. Le radiografie che gli fanno mostrano una costola fratturata. Ma nel referto del 20 marzo 2003 il medico scrive il falso: “non fratture”. E non si firma. Marcello non viene curato e i responsabili restano impuniti. Alle Sughere, 17 decessi tra il 2003 e il 2011, “la violenza è normale” secondo Mario, ex detenuto intervistato da Riccardo Arena nella rubrica Radio Carcere di Radio Radicale. Mario racconta di detenuti tornati dall’isolamento “spaccati in faccia”. Lui stesso sarebbe stato pestato da “6 o 7 guardie”. Che la morte di Lonzi abbia a che fare con i maltrattamenti lo hanno pensato anche alle Nazioni Unite. Nel 2011 l’argentino Juan Méndez, relatore speciale sulla tortura dell’Onu, segnalò all’Alto commissariato per i diritti umani il caso Lonzi. All’interno del suo “rapporto sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti”, metteva in evidenza il “volto gravemente contuso” e il “corpo coperto di sangue” del ventinovenne. Non solo: la storia di Marcello Lonzi, insieme ad altre, “ritrae un’immagine disturbante della violazione dei diritti umani da parte di pubblici ufficiali che non sono soggetti a indagini rigorose”. Così recita una relazione diretta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite scritta nel 2010 dall’Ong Franciscans International, consulente ufficiale dell’Onu in tema di diritti. Che denuncia “un’apparente non volontà di investigare accuratamente e di consegnare alla giustizia i responsabili. Questo equivale a una violazione del diritto alla vita e del diritto a un rimedio efficace”. Giustizia: “Provenzano è pericoloso, guida ancora la mafia”, negata la revoca del 41bis di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 settembre 2013 Sebbene gravemente malato, Bernardo Provenzano è un capomafia in attività “socialmente pericoloso”. Perciò deve rimanere al “41 bis”. Le sue condizioni di salute e la sua ridottissima capacità di interloquire con l’esterno, che hanno determinato la sospensione del processo a suo carico per la cosiddetta trattativa Stato-mafia, non sono incompatibili con il regime di “carcere duro”. Anche perché non è chiaro quanto ci sia di autentico e quanto di intenzionale nella sua manifestata incapacità di intendere e dì volere. Così ha stabilito il Tribunale di Sorveglianza di Bologna nell’ordinanza che respinge l’istanza con cui l’avvocato Rosalba Di Gregorio, difensore di Provenzano, aveva chiesto la revoca del “41 bis” per il proprio assistito. Raccogliendo, peraltro, il parere favorevole delle tre Procure che continuano a indagare su stragi di mafia e dintorni: Palermo, Caltanissetta e Firenze. Aveva detto di no, invece, la Direzione nazionale antimafia, proprio in considerazione del ruolo “apicale” che il detenuto ricopre ancora all’interno di Cosa nostra Valutazione fatta propria dai giudici di Bologna, con una decisione che produce il paradossale effetto di un boss considerato al vertice dell’organizzazione e però, al momento, non processabile. Nel provvedimento depositato ieri si dà conto di un persistente “concreto pericolo di commissione di delitti”, che “non può ritenersi affatto escluso per le patologie” di cui soffre il padrino corleonese. Nemmeno il “deficit cognitivo attuale” fa ritenere affievolita la “acclarata pericolosità sociale del soggetto” che - secondo il parere dei medici che l’hanno visitato nel mese di agosto - risulta “solitamente vigile, talvolta esegue ordini semplici e risponde a semplici domande con parole di senso compiuto”, nonostante “l’eloquio sia generalmente incomprensibile”. Lo psichiatra ha inoltre certificato che “l’esplorazione dei contenuti mentali, non è eseguibile in quanto il paziente non risponde alle domande poste”, e i giudici commentano: “Non si sa quanto e in che limite la mancata collaborazione del predetto sia voluta o non”. C’è un episodio del 17 agosto scorso, segnalato dall’amministrazione penitenziaria, che il tribunale di sorveglianza considera emblematico di una situazione nella quale non è consigliabile abbassare la guardia antimafia. Due giorni dopo ferragosto Provenzano, “durante la visita della moglie, sollecitato, la riconosceva, tanto che si commuoveva, e le chiedeva “A putìa come va?”, ovvero “la bottega come va?”, espressione che potrebbe facilmente essere una allusione del soggetto ad affari illeciti”. È un interpretazione di cui si può pensare ciò che si vuole, e che probabilmente sarà contestata dall’avvocato Di Gregorio nella battaglia per sottrarre il suo assistito al “carcere duro”. Ma i giudici, per adesso, la pongono a sostegno del loro verdetto: “In caso di allentamento del regime attuale, il condannato ben potrebbe veicolare e ricevere messaggi all’esterno e dall’esterno, con potenziale gravissimo pregiudizio per la collettività, considerati il ruolo apicale del soggetto nell’ambito dell’associazione mafiosa di riferimento e la ferocia già dimostrata, e tanto più considerato che egli è detenuto dall’1.4.2006 dopo una lunga latitanza, e che sono tuttora latitanti esponenti di Cosa nostra come Matteo Messina Denaro, già in strettissimi rapporti con Provenzano, e che si assume tuttora tenere le fila e gestire per suo conto gli interessi ed affari illeciti del clan”. Al di là delle conclusioni, dall’ordinanza sembra che la malattia che da giugno costringe il boss nel letto di un “apposito reparto” dell’ospedale di Parma (morbo di Parkinson con sintomi e patologie correlate), non sia progredita. Anzi, forse c’è stato qualche cenno di miglioramento. Nonostante le restrizioni dei contatti con l’esterno imposte dal “41 bis”. Particolare che consente al magistrato Roberto Piscitello, responsabile della Direzione generale Detenuti e trattamento dell’Amministrazione penitenziaria, di sottolineare come “i giudici abbiano dato atto che Provenzano stia usufruendo delle migliori cure possibili”. Legale Provenzano: udienza revoca 41bis senza notificarmi nulla “Leggo sui giornali che il Tribunale di sorveglianza di Bologna avrebbe rigettato la richiesta di revoca del 41 bis per Bernardo Provenzano. Ebbene, a me non è mai stata notificato niente, neppure la data di fissazione dell’udienza sulla revoca”. Lo ha detto Rosalba Digregorio, il legale del capomafia Provenzano, detenuto nel carcere di Parma al 41 bis. Ecco perché il legale ravvisa i termini di “nullità”. Annunciato già il ricorso alla Corte di cassazione. Nei mesi scorsi l’avvocato Di Gregorio aveva presentato la richiesta di revoca del carcere duro per il boss a causa delle sue precarie condizioni di salute. Anche il gip di Palermo, Piergiorgio Moprosini, a causa delle cattive condizioni di salute del boss, aveva stralciato la posizione di Provenzano dal processo per la trattativa tra Stato e mafia. “A questo punto chiederò al gip Morosini di reintrodurre la posizione di Provenzano nel processo per la trattativa”. Lettere: riguardo alla chiusura dell’Opg di Montelupo Fiorentino… di Cesare Bondioli (Psichiatria Democratica Toscana) Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2013 La Giunta Regionale ha (finalmente) approvato la delibera 715 del 26.8.2013 per la chiusura dell’Opg di Montelupo F.no e il piano che il Ministero della Salute aveva già ricevuto fin dal maggio scorso e che adesso ottiene la formalizzazione per l’assegnazione delle risorse (una procedura quanto meno insolita visto che il c.d. piano è stato accuratamente “segretato” dalla Regione fino ad oggi e solo qualcosa era trapelato in luglio da fonte ministeriale). Dobbiamo constatare che nella Delibera nessuna delle preoccupazioni manifestate in questi mesi dai movimenti (quelle che avremmo voluto rappresentare al Presidente Rossi cui abbiamo chiesto un incontro e da cui aspettiamo ancora una convocazione) ha trovato recepimento: la Regione ha sostanzialmente confermato la sua scelta di indirizzare il superamento di Montelupo tutto in termini neo-istituzionali confermando la realizzazione di strutture per complessivi 72 p.l.: si tratta di una previsione esorbitante a fronte di una presenza in Opg di circa 40 internati toscani. Privilegiando il posto letto in struttura, i programmi di gestione territoriale risulteranno depotenziati ed è facilmente prevedibile che anche i circa 600 milioni stanziati per finanziare progetti di dimissione per una ventina di internati finiranno per andare a finanziare alternative neo istituzionali anziché progetti individualizzati e sistemazioni extra-istituzionali come avvenuto, invece, per la maggior parte dei 22 dimessi dall’Opg nel biennio 2011-12. D’altra parte se veramente si pensa di potere realizzare queste 20 dimissioni diminuisce ulteriormente il bisogno di posti letto. La delibera conferma il progetto di realizzare una struttura a vigilanza perimetrale a S. Miniato costituita di due moduli di 14 p.l. ciascuno anche se “per il momento” ne verrà realizzato uno solo: “Ritenuto altresì che il secondo modulo della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, previsto nel sopra richiamato Allegato 1, debba essere attivato previa verifica della insussistenza di misure alternative da reperire nel sistema degli interventi territoriali”. Questa postilla ci sembra la classica foglia di fico, un contentino che certamente non risponde alle critiche puntuali dei movimenti al programma neo-istituzionale della Regione. A prescindere dalla nostra contrarietà a concentrare più moduli nella stessa struttura, è dubbio che dopo avere programmato un superamento dell’Opg tutto basato sul posto letto (fino a prevederne ben 72, con operazioni “contabili” spregiudicate, contando sia letti da attivare che letti già attivati come quelli delle strutture delle “Querce” e della Residenza “Tiziano) si riesca ad invertire l’indirizzo scelto privilegiando soluzioni territoriali tali che consentano di non creare il secondo modulo a S. Miniato. Questo obbiettivo si può realizzare solo privilegiando al massimo i programmi di dimissione degli internati già dimissibili (per es. in regime di proroga) per i quali è pure esiste un finanziamento ma questa operazione, auspicabile e possibile, richiede una chiarezza di intenti e di direzione del processo di chiusura di Montelupo che in questi anni è mancata nel rimpallo di competenze tra assessorati, presidenza, cabine di regia, tavoli tecnici, ecc. che sono state causa non secondaria dei ritardi accumulati dalla Regione. Viene, infine, confermato l’accordo con la Regione Umbria per la gestione, presente e futura, dei suoi internati in strutture del territorio toscano ed è questo un punto che non può trovarci assolutamente consenzienti contraddicendo lo spirito sia della legge sugli OPG che di quella penitenziaria sulla “territorialità”, intesa come vicinanza del luogo di espiazione della pena a quello di origine del condannato. L’unica funzione di questa scelta è di rafforzare la “necessità” di posti letto e di istituzioni essendo prevedibile che gli umbri verranno tendenzialmente ospitati in un’unica struttura (il 2° modulo di S. Miniato?). Le nostre preoccupazioni non riguardano solo la reale volontà della Regione di andare a realizzare la chiusura di Montelupo con soluzioni avanzate ma anche la possibilità di rispettare i tempi previsti dalla legge: la regione si è orientata sulla realizzazione di nuove strutture (in particolare per quella a vigilanza perimetrale) ed è da dubitare che i loro tempi di realizzazione siano compatibili con le scadenze di legge. Occorre quindi che la Regione definisca al più presto le responsabilità del processo di chiusura di Montelupo e avvii un reale confronto (anche questo mancato in questi anni) con tutte le realtà territoriali che sono state attive sul tema - dalle associazioni al volontariato - cambiando registro e puntando al massimo sui programmi di dimissione degli internati dimissibili e sugli interventi di prevenzione degli invii in Opg coinvolgendo non solo i dipartimenti di salute mentale e le magistrature competenti ma anche i territori, in senso lato, in un’ottica di trasparenza e partecipazione. Lettere: riguardo al bando di selezione per “esperti psicologi e criminologi”… di Carla Fineschi (Psicologa del carcere di Siena) Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2013 Al Ministro della Giustizia, al Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, al Provveditore della Toscana. Sono Carla Fineschi Psicologa del carcere di Siena dal 1989. Ho appreso (non con meraviglia perché sono un’italiana di 57 anni e quindi ho visto e continuo a vedere di tutto) che è stata emanata una circolare ministeriale per cui le graduatorie degli esperti avranno validità di 4 anni e il Provveditorato da lei diretto, prontamente, ha emanato un bando di selezione che mi ha fatto veramente sorridere. Devo sottolineare che il Provveditorato della Toscana, insieme a quello della Lombardia e della Liguria, sono stati gli unici a far seguito alla circolare ministeriale. Gli altri Provveditorati aspetteranno i 4 anni per rinnovare la graduatoria. Vengo ad elencare alcune inspiegabili richieste, a mio avviso, sul bando citato. 1) mi viene chiesto di fare una selezione che ho già fatto nel maggio 1989, per la stessa qualifica e stesso ruolo professionale. 2) non vengono valutati, nei titoli, gli anni di esperienza lavorativa nel settore specifico. 3) viene valutato, in termini di punteggio, il tirocinio specifico. 4) vengono valutati i titoli culturali e lavorativi successivi al 2005. Riflettendo ho capito che avrei dovuto fare la selezione insieme ai miei ex tirocinanti e ex studenti, che però avranno più titoli di me perché io ho solo lavorato per 24 anni nei penitenziari... mica ho fatto il tirocinio. La ringrazio dell’opportunità che il suo Provveditorato mi offre, dopo 24 anni di lavoro, ma declino l’offerta. La ringrazio anche come cittadina perché queste situazioni mi rendono orgogliosa di essere italiana, di vivere in un paese dove il ridicolo ed il grottesco regna sovrano. Le dirò di più, mi era anche balenata l’idea che certi criteri fossero stati scelti per sostenere bravi e valenti colleghi laureati dopo il 2005, ma poi mi sono detta: “che stai pensando, vivi in Italia mica in un paese dove vale solo il cognome che porti. L’Italia è la culla della meritocrazia” e così ho capito che stavo solo vaneggiando e che certi pensieri paranoici non avevano assolutamente motivo di esistere. Sicilia: il Garante dei diritti dei detenuti organizza la “Giornata del reinserimento” Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2013 L’art. 27 della Costituzione italiana prevede che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, tuttavia, l’attuale assetto dei rapporti e delle procedure vigenti tra il sistema giudiziario, il mondo dell’esecuzione penale, le Istituzioni e gli Organismi pubblici e privati presenti nel territorio, nonostante le recenti innovazioni normative, non sempre agevola il perseguimento di tale obiettivo. Per questa ragione e per favorire l’incontro tra i soggetti e le esigenze diverse che, comunque, orbitano intorno al cosiddetto “pianeta carcere”, il Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, On. Dott. Salvo Fleres, ha ritenuto di organizzare una manifestazione denominata “Giornata del reinserimento”, nel corso della quale favorire l’incontro tra le parti e lo scambio di opinioni circa le varie problematiche presenti in questo delicato settore, fondando le stesse sulla conoscenza diretta e su quanto, realmente, si possa fare per migliorare e rendere ottimali ed efficaci le soluzioni ipotizzate. Si tratta, quindi, di offrire un’immagine completa del mondo penitenziario e delle sue criticità attraverso i racconti dei reclusi ma anche di preparare il loro reinserimento sociale grazie un percorso di reciproco riconoscimento, così come auspicato dallo stesso Ordinamento Penitenziario, favorendo, altresì, l’avvio di relazioni armoniche e propositive tra il sistema giudiziario, l’esecuzione penale, gli Enti Locali, il mondo del volontariato, le imprese, le organizzazioni sindacali, lo sport, la cultura, la formazione, i reclusi ed i loro familiari, la Presidenza della Regione, gli Assessorati Regionali, l’Ars, etc. L’iniziativa si svolgerà a Palermo il giorno 6 settembre 2013, con inizio alle ore 9,30, presso la sede dell’Ufficio del Garante sita in Viale Regione siciliana n. 2246. Nell’ambito della manifestazione sarà allestita una mostra dei prodotti realizzati dai reclusi e si terrà un dibattito con la partecipazione di esponenti del mondo sindacale, imprenditoriale, del volontariato, dell’Amministrazione regionale, dell’Amministrazione penitenziaria, dell’Amministrazione della Giustizia. Intorno alle ore 12,00 il Garante illustrerà alla stampa i dati relativi alla situazione nelle carceri siciliane ed all’ attività svolta dall’Ufficio. Il Garante, On. Dott. Salvo Fleres Lazio: Ricci (Assessore Agricoltura); orti sociali opportunità occupazione giovani detenuti Asca, 3 settembre 2013 “L’agricoltura è il settore che più di tutti può offrire sbocchi occupazionali ai giovani e opportunità di inclusione sociale alle fasce più deboli”. Lo ha detto Sonia Ricci, assessore all’agricoltura della Regione Lazio, durante il workshop organizzato dall’Aiab (associazione italiana per l’agricoltura biologica), “Ricomincio dal Bio” che si è svolto oggi a Roma presso la Città dell’Altra Economia. Il progetto, realizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia, è finalizzato ad attivare percorsi di responsabilizzazione e reinserimento di giovani detenuti, attraverso l’avvicinamento e la pratica dell’orticoltura biologica. “I ragazzi disagiati, grazie a progetti simili - ha aggiunto Ricci - imparano ad applicare sui campi le tecniche e le pratiche agricole più diffuse, vedono i frutti concreti del loro lavoro e acquisiscono nuove prospettive e speranze per un futuro migliore. Il nostro impegno è quello di far diventare gli orti sociali, da realtà di nicchia a segmenti produttivi sempre più importanti nel Lazio. Per questo dobbiamo lavorare per offrire gli strumenti opportuni, incentivando la qualità delle produzioni e favorendo la distribuzione sui mercati, non soltanto nella vendita diretta, ma anche attraverso accordi con le associazioni dei consumatori. Il mio assessorato è sensibile a tipologie simili di progetto, che vedano coinvolte anche le aziende del settore per un’effettiva reintegrazione dei giovani nel mondo del lavoro”. Padova: indagini suicidio carcere; detenuto dichiara “ci fu violenta lite, ho pulito sangue” www.padovaoggi.it, 3 settembre 2013 Nel corso delle indagini sulla morte di un giovane marocchino, toltosi la vita il 15 agosto in cella al Due Palazzi, uno dei reclusi ha riferito agli investigatori di aver visto i segni di una violenta colluttazione. Un’indagine delicata e difficile quella aperta sul suicidio del detenuto 21enne marocchino che il 15 agosto si è impiccato in cella con dei lacci da scarpe nella casa circondariale di Padova. Come riportano i quotidiani locali, nelle mani degli investigatori c’è ora la deposizione di un detenuto addetto alle pulizie che ha riferito di aver pulito del sangue nel luogo dove proprio il giorno di ferragosto sarebbe avvenuta una lite fra il giovane nordafricano e un agente di polizia. Proprio la voce di questo litigio violento, circolata subito fra i carcerati, aveva fatto scattare la rivolta al Due Palazzi. Nonostante l’autopsia effettuata sul corpo del 21enne avesse escluso qualunque segno di percosse, i detenuti hanno continuato anche successivamente a sostenere la tesi secondo cui il suicidio del ragazzo sarebbe stata una diretta conseguenza dello scontro avuto con una guardia, che dopo la colluttazione ha riportato dei problemi a una spalla. Per il momento l’indagine non registra alcun indagato, ma la vicenda presenta ancora interrogativi da chiarire. Al vaglio del magistrato le reali motivazioni che avrebbero spinto il detenuto ad impiccarsi, per di più usando dei lacci da scarpe, che in base al regolamento non dovevano essere in suo possesso. Ed ora questo nuovo particolare del sangue che sarebbe stato pulito da uno dei detenuti sul luogo della lite, contribuisce a tingere di giallo l’accaduto. Intanto all’interno del carcere padovano la situazione è rientrata alla normalità, almeno per quanto riguarda i focolai di protesta che avevano innalzato pericolosamente la tensione in varie sezioni dell’istituto. Ma il problema del sovraffollamento continua a costituire un’emergenza cronica e un costante fattore di rischio per i detenuti come per agenti di polizia e operatori. Genova: il ministro Cancellieri domani in visita la Casa circondariale di Marassi Agi, 3 settembre 2013 Domani mattina, alle 10, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri visiterà la casa circondariale di Genova Marassi. Il programma prevede la visita di diverse sezioni dell’istituto e l’inaugurazione del Reparto di Osservazione psichiatrica. Successivamente il Guardasigilli si sposterà nelle sale adibite per il lavoro dei detenuti e incontrerà una rappresentanza degli agenti di polizia penitenziaria. Al termine è in programma un incontro del ministro Cancellieri con la stampa presso gli uffici della direzione della casa circondariale. Bari: giovedì delegazione dell’Unione Camere Penali visita il carcere Adnkronos, 3 settembre 2013 Riprende dopo la pausa estiva il viaggio dell’Unione camere penali nelle carceri italiane. Il 5 settembre una delegazione guidata dall’avvocato Manuela Deorsola, in rappresentanza della giunta e dell’Osservatorio carcere Ucpi, e dall’avvocato Gaetano Sassanelli, presidente della camera penale di Bari, visiterà nel pomeriggio il carcere barese. Sugli esiti della visita si terrà una conferenza stampa venerdì 6 settembre, alle 10,30, presso la camera penale di Bari nella sede del tribunale di via Nazariantz. L’Ucpi torna a Bari a distanza di due mesi. A luglio la delegazione di penalisti aveva visitato il Cie cittadino e gli altri istituti penitenziari pugliesi. Palermo: domani visita della Uil-Pa Penitenziari al carcere Pagliarelli Ansa, 3 settembre 2013 Domani il coordinatore regionale della Uil-Pa Penitenziari Sicilia, Gioacchino Veneziano, visiterà i carcere palermitano del Pagliarelli accompagnato dai segretari provinciali di Palermo Nunzio Cappello e Antonio Barresi. “Oramai tutti hanno capito che la situazione delle carceri italiane - dice Veneziano - è caratterizzata da un spietato regresso dell’efficienza collettiva dell’impianto di sicurezza interna ed esterna, un deterioramento ininterrotto e persistente delle strutture contro un sempre più insopportabile sovraffollamento delle celle. Questo quadro d’insieme - continua Veneziano - e tenuto conto il Governo non sta ponendo in essere nessuno azione per aumentare le risorse, anzi addirittura sembra che vi sia addirittura una contrazione nei capitoli di bilancio, che significa la ferma volontà di bloccare totalmente la macchina penitenziaria soprattutto in una regione come Sicilia ove insistono 26 carceri, con grande criticità di gestione per carenze di poliziotti penitenziari, di risorse economiche, di personale del comparto ministeri, e di oggi anche di regole sindacali”. Vietnam: per indipendenza Hanoi libera 17mila detenuti, ma nessun prigioniero politico www.asianews.it, 3 settembre 2013 Il prossimo 2 settembre, in occasione della festa dell’Indipendenza, Hanoi libererà oltre 15mila detenuti, che potranno beneficiare dell’amnistia. Tuttavia, nella lista di quanti potranno lasciare la cella non vi è nessuno detenuto per “propaganda contro lo Stato” o “tentativo di rovesciare l’ordine costituito”. Un capo di accusa mediante il quale il Partito comunista al potere reprime la dissidenza o colpisce i reati politici o di pensiero. Di contro, si apriranno le porte della prigione per quattro accusati di “crimini contro la sicurezza nazionale”, tra i quali vi sono due membri della minoranza etnica montagnards (cristiani), comunità originaria degli altipiani centrali del Vietnam e perseguitata dal governo centrale. In uno dei più corposi provvedimenti di perdono decisi dal governo comunista, nei prossimi giorni 15.446 carcerati - fra cui 1.842 donne e 16 stranieri - potranno uscire di prigione. Solo un manipolo, però, rientra nella categoria dei “prigionieri politici” mentre la grande maggioranza è stata condannata per reati comuni. Quattro le persone condannate per reati inerenti la sicurezza nazionale e che verranno liberate il 2 settembre. Essi sono: Duong Duc Phong e Hoang Hung Quyen, in cella per spionaggio; Y Kong Nie and Y Hong Niem montagnards degli Altipiani centrali, condannati per aver messo a repentaglio “l’unità nazionale”. Sono pochi gli elementi e le informazioni sulle quattro persone liberate; di contro, pare accertato che fra i beneficiari dell’amnistia non vi sono prigionieri politici eccellenti, attivisti pro diritti umani o personalità cattoliche in carcere per la libertà di religione e di pensiero. Restano quindi in prigione personalità dissidenti come Cu Huy Ha Vu e l’avvocato cattolico Le Quoc Quan, oppure il blogger e attivista Nguyen Van Hai, meglio noto come Dieu Cay, in galera dopo un processo farsa con l’accusa di propaganda contro lo Stato. Secondo gruppi pro diritti umani, nell’ultimo anno il governo comunista di Hanoi ha imprigionato circa 50 attivisti per un totale complessivo superiore ai 120. Il prossimo 2 settembre il Vietnam festeggia il 68mo anniversario dell’Indipendenza, che ricorda il celebre discorso del 1945 di Ho Chi Minh, considerato il padre della patria, soprattutto al Nord, e fondatore del Partito comunista ancora oggi al potere. In concomitanza delle ricorrenze principali, fra cui l’Indipendenza e il Tet (il capodanno lunare), Hanoi è solita accordare amnistie a migliaia di detenuti. Emirati Arabi: 18 detenuti islamisti in sciopero fame contro cattive condizioni detenzione Tm News, 3 settembre 2013 Diciotto dei 69 prigionieri islamisti negli Emirati arabi uniti, che scontano pene detentive per complotto contro lo Stato, sono in sciopero della fame per protestare contro le presunte cattive condizioni di detenzione. Lo ha annunciato oggi Amnesty International. Il gruppo di prigionieri, di cui sei hanno iniziato a rifiutare il cibo dal 31 luglio, protesta contro delle “presunte cattive condizioni di detenzione” e di “restrizioni alle visite di familiari”, ha aggiunto l’organizzazione di difesa dell’uomo chiedendo una “azione urgente” a favore di questi prigionieri. Questi ultimi lamentano anche “privazione di luce” e “assenza di aria condizionata” e “rifiutano di porre fine allo sciopero fino a quando le loro richieste non saranno soddisfatte”, scrive Amnesty. Tunisia: evasione dal carcere di Gabes; scappano 49 detenuti, venti sono già stati ripresi Ansa, 3 settembre 2013 Evasione in massa, la scorsa notte, dal carcere di Gabes, da dove 49 detenuti comuni sono scappati dopo avere aggredito alcuni agenti della polizia penitenziaria. Secondo quanto è emerso dalle prime indagini, i detenuti di una camerata che ospitava 68 reclusi hanno cominciato a gridare chiedendo aiuto al personale penitenziario e sostenendo che alcuni di loro erano rimasti feriti dalle pale di un ventilatore. Quando gli agenti sono entrati nella camerata, i detenuti li hanno aggrediti, picchiati selvaggiamente ed immobilizzati, dopo essersi impossessati delle chiavi dei corridoi e della porta principale. Nel giro di pochi minuti hanno raggiunto il portone d’ingresso e poi la strada dandosi alla fuga nell’oscurità. L’allarme è giunto nel giro di pochi minuti e le ricerche hanno portato, in un paio d’ore, a rintracciare ed arrestare una ventina di evasi. Per gli altri è ancora in corso una vasta operazione di ricerca coordinata dal Ministero dell’Interno. Arabia Saudita: pena di morte, decapitato un uomo accusato di omicidio Aki, 3 settembre 2013 È stata eseguita per decapitazione in Arabia Saudita la condanna a morte comminata a un cittadino del regno accusato di aver ucciso suo fratello. Lo riferisce l’agenzia di stampa ufficiale saudita Spa, che riporta una nota del ministero dell’Interno di Riad in cui si precisa che è stata eseguita nella provincia di Qasim la condanna nei confronti di Abdullah al-Harbi, riconosciuto colpevole di aver ucciso a colpi di arma da fuoco suo fratello Mohammed. Da gennaio in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 63 condanne a morte. Nel 2012, secondo Human Rights Watch, nel regno sono stati messi a morte almeno 69 detenuti. Omicidio, stupro, apostasia, rapina a mano armata, oltre al traffico di droga, sono i reati che nel Paese vengono puniti con la pena di morte.