Giustizia: la procedura d’infrazione dall’Ue e le diffide contro flagranza reato dello Stato di Valter Vecellio Notizie Radicali, 27 settembre 2013 Prima o poi doveva accadere; e il “colpo”, infine, è arrivato: l’Unione Europea ha deciso di aprire una procedura d’infrazione contro il nostro paese per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell’applicazione del diritto europeo. Un’iniziativa che nasce dal mancato rispetto della condanna decretata per lo stesso motivo dalla Corte di giustizia Ue nel novembre 2011. La proposta di aprire una nuova procedura d’infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso; un “avvertimento”, quello che viene da Bruxelles, che ha il sapore dell’ultimatum: si prende atto che a quasi due anni dalla prima condanna l’Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo; e si avverte che “se entro i prossimi mesi l’Italia non si adeguerà alla prima sentenza della Corte sarà deferita nuovamente ai giudici europei”. Il rischio molto concreto, questa volta, sarebbe quello di dover pagare anche pesanti sanzioni pecuniarie. Ha dunque ben poco da almanaccare il già magistrato e ora presidente della commissione Giustizia della Camera, la piddina Donatella Ferrante. Questa è la situazione, questi sono i fatti. La prima sentenza emessa dai giudici europei stabilisce che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze dei loro eventuali errori commessi nell’applicazione del diritto europeo (circa l’80 per cento delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). In particolare due le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario: a) la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione; b) la responsabilità dello Stato scatta solo quando si dimostra dolo o colpa grave. Concetto, quest’ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva circoscrivendola a sbagli o errori che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”. È un po’ ipocrita, ed è molto stupido, ora, fingere di cascare dal pero. Faranno finta ipocritamente di cascare dal pero quando arriverà un altro “colpo”. È, infatti, pieno svolgimento il countdown per un’altra vicenda il cui esito potrebbe avere conseguenze pesantissime. Entro un anno, infatti, l’Italia dovrà adeguare il proprio sistema penitenziario agli standard di civiltà europei. In caso contrario, la Cedu (Corte per i diritti umani) si darà la licenza di condannarci a raffica, per le inumani e degradanti condizioni di detenzione nelle nostre carceri. Ricordate? È “una realtà che ci umilia in Europa”, aveva detto due anni fa il presidente Giorgio Napolitano. Sia il governo di Mario Monti che il governo di Enrico Letta hanno esordito tentando di affrontare il grave sovraffollamento delle carceri; tuttavia né il decreto Severino, né quello successivo Cancellieri hanno dato, come era stato ampiamente previsto, i risultati evocati. Lo stesso ministro della Giustizia Cancellieri ne è consapevole, e non perde occasione per unire la sua voce a quella dei radicali, per chiedere un provvedimento di amnistia-indulto, unico provvedimento che possa dare respiro alle nostre carceri, e consenta finalmente di avviare quelle riforme strutturali da tutti giudicate indispensabili e improcrastinabili, e che pure non vengono poste in essere. Faranno finta, ipocritamente, di cascare dal pero, quando cominceranno a essere esecutive le 675 diffide indirizzate ai presidenti dei Tribunali italiani, ai capi delle procure, ai presidenti degli uffici GIP di tutti i tribunali italiani, ai direttori delle carceri italiane, e a tutti gli uffici di sorveglianza. Una diffida che prende le mosse dalla sentenza-pilota della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso “Torregiani ed altri”, e segnala che attualmente decine di migliaia di detenuti sono anche loro sottoposti a una pena o a una misura cautelare tecnicamente illegali. L’iniziativa è stata praticamente ignorata dai “media”, in altro affaccendati. Con la diffida, indirizzata anche al presidente della Repubblica Napolitano (nella sua veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura), al ministro della Giustizia Cancellieri e al Commissario europeo per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa Nils Muiznieks, si indica, “quale adeguata, necessaria strada per garantire il rispetto di fondamentali ed elementari diritti umani, quella di paralizzare, in presenza della certezza che il trattamento e/o la pena siano illegali, l’emissione degli ordini di esecuzione della pena, sul modello già tracciato dalla Corte Costituzionale tedesca”. “Vedremo”, dice Giuseppe Rossodivita, “come si comporterà la giurisdizione, la magistratura italiana. Vedremo se prevarrà la ragione di Stato contro lo Stato di diritto, che in Italia è, per le condizioni dell’amministrazione della Giustizia e delle carceri, totalmente assente. La giurisdizione italiana dovrà ora decidere se cominciare a rispettare essa stessa la Costituzione e le leggi, o se, per supplire alle inadempienze delle istituzioni e della politica si confermerà complice della loro permanente violazione”. Intanto, nelle carceri si continua a morire. Aveva 37 anni Assanlal Fouad, il detenuto marocchino deceduto all’interno della Casa Circondariale di Livorno. È accaduto nel cuore della notte, in una delle celle sovraffollate della “Sezione Transito”, in un angolo di una cella piccolissima che accoglie quattro persone, stivate in meno di dieci metri quadrati. I periti e le indagini della Autorità Giudiziaria stabiliranno le cause che hanno determinato la morte del detenuto. Quali che siano, si allunga la lista dei decessi in carcere, oltre duemila negli ultimi dieci anni, una strage. “Il carcere dei nostri tempi è sempre più luogo dell’assenza: assenza di diritti, assenza di umanità, assenza di prospettive, assenza di legalità”, dice Marco Solimano, garante dei diritti dei detenuti del comune di Livorno; e aggiunge: “Il carcere è sempre più il paradigma della nostra realtà civile e sociale, il luogo in cui si ritiene di poter riversare le contraddizioni più drammatiche e profonde che attraversano i territori, vera e propria discarica sociale ove nascondere e comprimere vecchie e nuove marginalità. In questa situazione di devastazione sembra illusorio il richiamo all’art. 27 della Costituzione, quasi inconcludente un ragionamento profondo e positivo sul senso della pena e soprattutto di quale pena”. C’è poi chi in carcere ci vive senza aver commesso alcun reato e avere alcuna colpa, se non quella di essere nato. Sono, per esempio, la ventina di bambini da pochi mesi a tre anni, le cui madri devono scontare qualche condanna, reclusi anche loro nel carcere romano di Rebibbia. Vivono in celle addobbate alla bell’e meglio in “reparto nido”. Diciotto sono donne Rom, una nigeriana, una italiana, età media 25 anni, reati prevalenti furto e spaccio. Chi li vede, parla di creature intontite, sguardi vuoti, persi, di chi ha perfettamente capito di vivere in una prigione. I piccoli staranno in carcere con le loro madri fino a quando raggiungeranno i tre anni, poi verranno affidati a parenti (se ci sono) o portati in istituti. “Lo strappo è doloroso: qui dentro hanno un rapporto viscerale”, racconta Gabriella Pedote, vicedirettrice del reparto femminile. Sono recluse in un reparto modello, ci sono puericultrici, il pediatra, il neuropsichiatra, per curare e prevenire le bronchiti, l’asma, la depressione, la miopia, l’aggressività, la perdita della visione tridimensionale, le malattie dei bimbi in gabbia. Ma appunto, sempre gabbie sono, spezzate solo da quelli che sono chiamati “i sabati della libertà”: quando un gruppo di volontari il fine settimana vanno a prendere i bambini e li portano a vedere ciò che non hanno visto mai. Raccontano: “Quando Amin ha visto il mare per la prima volta, ha pianto di paura; Lyudmila quando ha visto la neve, se l’è messa in tasca per portarla alla sua mamma; Alex al parco diventa un po’ meno catatonico, riesce persino a correre, come gli fosse tornata addosso l’energia...”. Una mamma, chiamiamola Faraa, racconta del figlioletto, Amin, ha appena festeggiato i tre anni: “Ora lo portano via. Io devo scontare ancora due anni. Quando ho cercato di spiegarglielo, si è messo a gridare mamma, con te, con te”. Piange. “Io ho sbagliato, ma che colpe ha lui? Che cosa posso dirgli?”. Ecco: che cosa si può dire ad Amin e ai suoi diciannove piccoli condannati senza colpa, detenuti senza aver commesso alcun reato? Giustizia: Italia sorvegliata speciale dell’Ue su sovraffollamento e cure mediche ai detenuti Ansa, 27 settembre 2013 L’Italia finisce ancora una volta nella lista dei “sorvegliati speciali” del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per quanto riguarda la situazione delle carceri. Dopo aver già deciso di mettere sotto “sorveglianza costante” la questione del sovraffollamento, oggi il comitato ha infatti deciso di aggiungere alla lista dei problemi da trattare con priorità anche quello dell’inadeguatezza delle cure mediche fornite ai carcerati. La questione è finita sul tavolo del comitato dei ministri in seguito a quattro sentenze di condanna emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia tra il 2009 e l’inizio di questo anno. In tre delle sentenze lo Stato è stato condannato per aver tenuto in prigione detenuti il cui stato di salute era incompatibile con il regime carcerario. Mentre con l’ultima sentenza la Corte ha condannato l’Italia per non aver fornito cure adeguate a un detenuto. Dal documento del comitato dei ministri emerge che le autorità italiane hanno già assicurato ai detenuti che hanno vinto il ricorso gli arresti domiciliari o le cure necessarie. Ma questo, secondo Strasburgo, non basta. Ora il governo italiano dovrà dimostrare di aver preso tutti i provvedimenti necessari a garantire che quanto accaduto a questi detenuti non possa accadere ad altri. Attualmente il comitato dei ministri sta analizzando un primo piano d’azione inviato dall’Italia in cui vengono specificate tutte le misure già prese o che verranno prese a breve. Giustizia: Della Valle; sistema in crisi, tra toghe “irresponsabili” e politica schizofrenica di Vittorio Pezzuto La Notizia, 27 settembre 2013 Come capita spesso da quando siamo usciti in edicola, La Notizia ha aperto ieri la sua prima pagina con una storia esclusiva: quella del nuovo orientamento della Corte dei Conti dove iniziano a piovere condanne sui magistrati che, prendendosi tempi biblici per concludere processi o depositare motivazioni di sentenze, vengono chiamati a risarcire il Ministero della Giustizia delle somme che lo stesso dicastero di via Arenula è costretto a elargire a quanti vengono indennizzati perché vittime della giustizia-lumaca. Nell’articolo del nostro Clemente Pistilli abbiamo così dato conto di diverse sentenze che - sia pure per importi di poco conto - appaiono un monito significativo e tangibile per tutte le toghe italiane, dal momento che lo Stato (e quindi tutti noi cittadini) spende ogni anno oltre venti milioni per i cosiddetti equi indennizzi: i risarcimenti appunto di quanti hanno atteso anni per il pronunciamento di un Tribunale. Ci sembrava insomma una notizia importante per quanti sostengono da tempo la necessità indifferibile di ricondurre i magistrati - che, ricordiamolo sempre, altro non sono che dipendenti pubblici - a quel principio di responsabilità per i loro errori che vincola tutti gli altri professionisti. D’altronde quello giudiziario non è un potere ma un ordine. E i suoi appartenenti sono chiamati (o almeno dovrebbero) all’applicazione serena, equilibrata e imparziale delle leggi decise dai poteri legislativo ed esecutivo. L’indipendenza dei magistrati è un bene essenziale. Ma perché non sconfini nel libero arbitrio devono anche loro subire il salutare contrappeso del principio di responsabilità personale in caso di errore. Non si tratta di un’aspirazione astratta: amministrare la giustizia è compito alto e delicatissimo, ne va della vita dei cittadini e delle aziende. Per questo abbiamo seguito con attenzione la campagna di raccolta delle firme in calce ai referendum radicali: ci sembra un buon metodo per uscire dallo sterile scontro fra fazioni che irretisce il Parlamento e per offrire ai cittadini il diritto a decidere al posto dei partiti. Tutto ciò premesso, aprire ieri con il titolo “Giustizia negata, finalmente i giudici pagano” sembrava una scelta controcorrente e marginale. È invece è stata implicitamente sottolineata con l’improvvisa notizia dell’apertura da parte della Commissione europea di una procedura di infrazione contro l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell’applicazione del diritto europeo. Si è così subito riaperto il dibattito. La speranza è che non sia inutile, che sul punto si legiferi presto e bene. Altrimenti ci toccherà riaprire il portafoglio e rassegnarci a una giustizia negata. Raffaele Della Valle: “Giustizia corporativa e politica schizofrenica” È soddisfatto ma anche un poco sorpreso l’avvocato Raffaele Della Valle, legale di Enzo Tortora e già vicepresidente della Camera. La decisione della Commissione europea di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell’applicazione del diritto europeo viene letta come “un colpo ben assestato all’eccessivo corporativismo dei nostri magistrati. Il messaggio è chiaro: il dolo e la colpa grave sono criteri troppo riduttivi, soprattutto se si guarda alla legislazione che disciplina la responsabilità nell’esercizio delle altre professioni. Tra colpa grave e colpa lieve esiste infatti tutta una gradazione che deve essere tenuta presente: il danno al cittadino può essere prodotto anche per effetto di una colpa che non è grave in senso giuridico ma che comunque ha una sua consistenza. Detto questo, l’affermazione di questo principio non è certo la panacea di tutti i mali”. In che senso? “Vede, il magistrato che sbaglia viene oggi colpito al massimo da sanzioni di natura amministrativa. Ma in questo modo può continuare come prima a commettere errori perché sa che a pagare è soltanto la compagnia assicurativa con la quale ha stipulato a suo tempo una polizza. Occorre invece che venga sanzionato anche sotto il profilo disciplinare”. Non è un compito del Csm? “Ma figuriamoci. Qui si tratta di prevedere l’istituzione di un organo davvero terzo e imparziale che sia composto da magistrati, avvocati, professori universitari e operatori del diritto. Il Csm in questi anni è stato soltanto il baluardo della corporazione. Non può essere certo l’attore di una profonda rivisitazione del principio di colpa e della stessa responsabilità disciplinare. Vorrei però aggiungere qualcosa che non viene mai ricordato…”. Dica pure. “Ho fatto parte della Commissione Nordio che, ereditando a sua volta gli esiti della Commissione Pagliaro, ha lavorato dal dicembre 2001 fino al 2006 per redigere completamente la legge delega e anche l’articolato del nuovo codice penale. Abbiamo consegnato il nostro lavoro all’allora ministro della Giustizia Castelli e da quel momento non ne abbiamo saputo più nulla. Immagino che il tutto sia rimasto chiuso in qualche cassetto di via Arenula. La stessa sorte è toccata anche agli atti finali della successiva commissione Pisapia. Da allora il Parlamento ha poi addirittura rinunciato a qualsiasi apporto dei tecnici, illudendosi che per varare riforme sia sufficiente il mantenimento di precari equilibri politici. Assistiamo così a interventi a macchia di leopardo sotto la pressione di un’opinione pubblica per definizione mutevole. Pensiamo alla prescrizione: viene allungata o ristretta a seconda delle singole vicende giudiziarie. Abbiamo insomma legislatori schizofrenici che rincorrono il fatto contingente, che sono privi di una visione complessiva della nuova società, che non affrontano con freddezza e raziocinio i problemi generali dettando norme che possano durare per 40-50 anni. Tutto questo non fa che aumentare la confusione. Succede così che nel decreto Mille Proroghe ti ritrovi a sorpresa una legge di diritto penale sostanziale o processuale che riguarda una determinata materia. Adesso poi vanno di moda le leggi-manifesto”. Ad esempio? “Ad esempio quella sul femminicidio è frutto dell’invenzione di un reato specifico e ha profili di incostituzionalità perché stabilisce una disparità di trattamento tra uomo e donna. L’articolo 575 del codice penale già punisce chiunque uccida un uomo. Inteso come persona, ovvio, ma forse qualcuno non l’aveva capito bene. E che dire dell’introduzione della fattispecie di omicidio per incidente stradale? Bastava applicare le leggi già esistenti. Il problema è che in Parlamento ci stanno persone che non sanno nemmeno cosa sia un tribunale…” Giustizia: Tancredi (Pdl); la censura dell’Ue impone con urgenza una riforma Il Tempo, 27 settembre 2013 “In due anni l’Italia non è stata capace di adeguare il suo ordinamento alla sentenza di condanna della Corte di giustizia Europea sulla “immunità dello Stato-giudice” e adesso, se nei prossimi mesi non faremo dei passi avanti, il nostro Paese incorrerà in nuovi guai con l’Europa”. È l’allarme lanciato dal deputato Paolo Tancredi, vicepresidente della commissione Politiche comunitarie della Camera, dopo che Il Tempo ha anticipato l’intenzione della Commissione Europea di aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per il mancato risarcimento danni nei confronti delle vittime di errori giudiziari. “La procedura aperta da Bruxelles - sostiene Tancredi - “è un altro buon motivo per firmare la proposta di referendum dei Radicali entro il prossimo 30 settembre”. Se è vero che la sentenza della Corte di giustizia europea del 2011 fa riferimento alla responsabilità dello Stato per eventuali violazioni del diritto comunitario, Tancredi ricorda che proprio la Corte affermava che “l’interpretazione delle norme di diritto rientra nell’essenza dell’attività giurisdizionale” e che “non si può escludere che la violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa nell’esercizio di una tale attività interpretativa”. In ogni caso, aggiunge Tancredi, “l’apertura della procedura di infrazione della Ue dimostra che occorre mettere mano quanto prima a quella riforma complessiva della Giustizia finita su un binario morto negli ultimi anni. È fondamentale riaprire la discussione sulla responsabilità civile dei magistrati, senza finire sulle barricate, condividendo la riforma con la magistratura e superando una visione pregiudizievole della sentenza europea”. Intanto ieri dalla Commissione Europea sono arrivate altre cattive notizie per l’Italia. La Commissione ha inviato al Belpaese un avviso motivato per l’adozione incompleta nella legislazione nazionale della normative Ue in tema di energie rinnovabili. Se l’Italia non risponderà alla richiesta entro due mesi, la Commissione potrebbe decidere di riferire il caso alla Corte di giustizia europea. Secondo la direttiva, ogni Stato membro deve raggiungere obiettivi precisi nella quota di energie rinnovabili sul consumo energetico totale. Infine la Commissione europea ha inviato una lettera di messa in mora (primo passo di una procedura d’infrazione) all’Italia invitata a ridurre l’impatto ambientale dell’acciaieria Ilva di Taranto, il più grande stabilimento siderurgico europeo. In seguito a diverse denunce provenienti da cittadini e Ong, la Commissione ha accertato che “l’Italia non garantisce che l’Ilva rispetti le prescrizioni dell’Ue relative alle emissioni industriali, con gravi conseguenze per la salute umana e l’ambiente”. Giustizia: Comitato di Bioetica; case-famiglia per detenute madri, invece del carcere Ansa, 27 settembre 2013 Ultima riunione plenaria oggi per il Comitato nazionale di bioetica (Cnb), dopo 7 anni di attività, con il via libera ad un parere sul problema della salute “dentro le mura”, ovvero in carcere. Un documento nel quale il Comitato raccomanda, tra l’altro, l’utilizzo di case famiglia per la custodia delle detenute in cella con figli fino ai sei anni. Il mandato del Cnb, spiega il vicepresidente del Comitato Lorenzo D’Avack, “scade il 30 settembre, dopo 7 anni di intensa attività con 36 pareri portati a termine. L’auspicio - ha sottolineato - è che, nonostante la difficile situazione politica attuale, la Presidenza del Consiglio possa comunque nominare al più presto il nuovo Comitato, al fine di assicurare la continuità dei lavori anche a livello internazionale”. Nell’ultima plenaria, il Cnb approverà domani un parere sulla salute in carcere: “Il Comitato raccomanda alle istituzioni - spiega D’Avack - che il diritto alla salute dei detenuti sia inteso nella sua piena accezione, al fine di raggiungere un pieno equilibrio dei livelli di salute sia dentro che fuori le mura”. Il documento sottolinea come fondamentale sia l’osservanza dei diritti del detenuto, “tra i quali - rileva D’Avack - il diritto a essere curati fuori dal carcere quando la detenzione aggravi le sofferenze legate all’infermità”. Altro punto importante del parere riguarda la salute delle detenute in carcere, con particolare riferimento alle donne in cella con figli minori di sei anni. Per le madri detenute con figli e che non abbiano recidive, precisa D’Avack, “la legge prevede la possibilità degli arresti domiciliari. Tuttavia, la maggioranza delle madri in carcere sono nomadi con recidive e, ad oggi, sono una cinquantina i bambini detenuti insieme alle proprie madri”. Sulla base della legge Severino n. 61 del 2011, le cui norme entrano in vigore entro gennaio 2014, rileva inoltre il vicepresidente del Cnb, “è prevista per le madri detenute con recidive e con figli fino a 6 anni, la possibilità della custodia attenuata in istituti ad hoc”. Si tratta degli Istituti a custodia attenuata per madri detenute (Icam): “Ad oggi in Italia sono presenti solo due Icam e dunque - afferma D’Avack - è molto difficile che la legge trovi attuazione nei tempi previsti”. Da qui la raccomandazione del Cnb per l’utilizzo delle case famiglie per garantire la custodia attenuata a queste detenute. Giustizia: due ddl su ergastolo e custodia cautelare, così il Pd ricomincia dal garantismo Europa, 27 settembre 2013 Presentate due proposte di legge per abolire il “fine pena mai” e restringere i casi in cui far ricorso al carcere, perché non si può “parlare solo dell’impunità di una persona”. Due proposte di riforma della giustizia. Il Pd - certo in un clima tutt’altro che favorevole per via dello scontro in atto tra il Pdl e il capo dello stato - cerca di non farsi condizionare e presenta, in una conferenza stampa alla camera, due idee per rendere migliore il sistema carcerario, con l’abolizione dell’ergastolo e la riforma della custodia cautelare. A parlarne, l’intero staff dem competente: oltre al capogruppo alla camera Roberto Speranza, c’erano il responsabile giustizia Danilo Leva, il responsabile carceri Sandro Favi, il capogruppo in commissione giustizia Walter Verini, la responsabile giustizia penale del partito Anna Rossomando. Un modo, ha spiegato Speranza, per “parlare di giustizia penale senza pensare all’impunità di una sola persona, come si è fatto per troppo tempo”. L’ergastolo - ha affermato Leva - “è una sorta di condanna a morte pagata a rate che cancella ogni speranza, ogni prospettiva di vita. Abolirlo è un fatto di civiltà giuridica”. Quanto alla custodia cautelare, la proposta dem è concepita non solo per contribuire a risolvere - “in modo strutturale”, come ha sottolineato Anna Rossomando - il problema del sovraffollamento degli istituti di pena. A far da sfondo alla riforma di questo aspetto del codice penale, infatti, c’è l’idea che sia giunto il momento di riappropriarsi della cultura garantista che viene da sinistra. “Dopo una stagione politica durata troppo a lungo - ha detto Rossomando - ora possiamo parlare di interventi sulle garanzie e sulle libertà, certamente coniugati con la certezza della pena”. Per questo nella proposta dem (prima firmataria la presidente della commissione giustizia Donatella Ferranti) si restringe il numero dei casi in cui il giudice può disporre la custodia cautelare in luogo di misure alternative, tenendo fede al principio del codice penale secondo il quale la detenzione costituisce extrema ratio quando proprio non sia possibile fare altrimenti. E certo questo servirebbe a emendare una peculiarità non certo invidiabile del nostro sistema detentivo, entro le cui mura viene ospitato il 40 per cento di persone ancora in attesa di una sentenza definitiva. “Tra carcere e libertà piena - ha spiegato ancora la deputata piemontese - ci può essere un vasto ventaglio di alternative”. E Walter Verini: “Abbiamo il dovere di non essere indifferenti ai problemi dei detenuti”, per cui “cercheremo, compatibilmente con la situazione politica, di occuparci di queste cose non tanto per prendere voti ma per occuparci del paese”. Secondo Favi, “la situazione è molto critica all’interno degli istituti di pena, dove si registra un aumento dei detenuti”, e il cosiddetto decreto svuota carceri, già in vigore da prima dell’estate, “non è stato così efficace da incidere sui numeri del sovraffollamento”. Giustizia: braccialetto elettronico per gli stalker, nuova stretta sugli uomini violenti di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 27 settembre 2013 Un braccialetto per tenere gli stalker lontani dalle loro vittime. E, in più, via libera alle intercettazioni telefoniche. Le commissioni Giustizia e Affari Costituzionali hanno approvato due emendamenti al decreto legge sul femminicidio che introducono una nuova stretta sulle condotte persecutorie, questo lo spirito, una maggiore tutela delle vittime. LE MODIFICHE prevedono la possibilità di usare le intercettazioni telefoniche anche per il reato di stalking ma soprattutto l’utilizzo di una serie di strumenti elettronici per tutelare le donne. I braccialetti, ma non solo. Nell’emendamento si fa riferimento anche ad altre forme di telecontrollo che possono essere applicate a chi è stato destinatario di un provvedimento cautelare di allontanamento dalla casa familiare (come previsto dall’articolo 282 bis del codice di procedura penale). Le variazioni che dichiarano guerra ai reati “sentinella”, quelli che spesso sono l’anticamera di ulteriori violenze, sono state approvate all’unanimità dalle commissioni, ma va registrato che al momento del voto in aula c’era un solo deputato del Pdl. Soddisfatta la promotrice Alessia Morani (Pd): “La norma risponde anche all’auspicio che il ministro Cancellieri aveva fatto all’inizio del suo mandato per l’uso dei braccialetti elettronici, quasi del tutto inutilizzati, anche per i reati di stalking. Ci sono esperienze già in Spagna e in Francia in questo senso che hanno dato buoni risultati. E visto che, tra l’altro, in Italia c’è una carenza di organico sia per quanto riguarda i carabinieri sia per la polizia, dare la possibilità di usare ogni modalità di controllo che fa riferimento alle nuove tecnologie sarà un aiuto per le forze dell’ordine che potranno monitorare le situazioni anche se in difficoltà di personale”. Nel testo non si fa alcun riferimento all’attuazione pratica che verrà decisa in un secondo momento, dopo la conversione. Per quanto riguarda i detenuti, per i quali (anche se scarsamente utilizzato) il braccialetto è già previsto, la norma prevede che questa forma di controllo sia l’unico modo per escludere il carcere o i domiciliari. Ma il percorso per gli stalker è tutto da definire. L’unica cosa certa è che i braccialetti sono già disponibili, almeno in una prima fase: quelli per i detenuti, appunto, non sono stati usati molto spesso. Le commissioni, dopo aver bocciato gli emendamenti soppressivi dell’articolo 2 del decreto del governo sul femminicidio, hanno approvato altre due proposte di modifica, una che prevede il gratuito patrocinio e l’obbligo di informazione della parte offesa, l’altra che esclude la possibilità di applicare l’allontanamento dalla casa familiare nei casi di lesioni lievi, tema sul quale c’è stato un acceso dibattito. Le commissioni Giustizia e Affari Costituzionali non hanno ancora concluso l’esame dell’articolo 2. Proseguiranno lunedì. L’approdo in Aula è previsto per mercoledì e si dovrà correre: entro il 15 ottobre la norma va convertita onde evitare che decada, ma deve prima passare anche al Senato. Buone notizie per la tutela delle donne che, però, arrivano nel giorno in cui un’altra donna viene uccisa dal partner. Cinzia Agnoletti, 51 anni, è stata soffocata dal compagno e padre di suo figlio, Gianpietro Giliberti, 53, nella casa in cui vivevano in via Stazione a Castelvetro Piacentino. Stavano insieme da 25 anni. Dopo aver ucciso la convivente, l’uomo ha cercato di togliersi la vita ma senza riuscirci. A far scattare il raptus forse una lite per motivi economici, pare ne avessero avute parecchie ultimamente. Quando l’uomo si è accorto di ciò che aveva fatto, ha chiamato il figlio 24enne che, a sua volta, ha avvisato i carabinieri di Piacenza. Arrivati sul posto i militari hanno trovato il corpo della donna senza vita e il marito che stava cercando di strangolarsi ma che respirava ancora. L’uomo, fermato, ha confessato ma gli inquirenti sono ancora al lavoro per ricostruire la dinamica e per capire se l’abbia strangolata o soffocata con una busta di plastica. Giustizia: l’appello della madre di Marcello Lonzi per la riapertura del caso di Ilaria Lonigro L’Espresso, 27 settembre 2013 Marcello Lonzi, 29 anni, morì in prigione nel 2003. Ufficialmente per infarto. Ma aveva la mandibola fratturata, due buchi in testa, otto costole rotte. La madre non ha mai smesso di lottare per far riesaminare il caso. E ora chiede di firmare online per farlo arrivare alla Corte dei diritti dell’uomo. Così, forse, anche da noi la giustizia si muoverà. Non convince molti la verità giudiziaria secondo cui Marcello Lonzi, 29 anni, il volto gonfio e il corpo martoriato, sarebbe morto per un infarto, l’11 luglio del 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Le foto del ragazzo nudo in una pozza di sangue hanno spinto in meno di 5 giorni 15.000 persone a firmare la petizione online con cui la madre Maria Ciuffi chiede ora alla Corte europea dei diritti dell’uomo di riesaminare il caso. La Ciuffi era già ricorsa a Strasburgo, insoddisfatta delle due archiviazioni italiane, ben sintetizzate dalle parole del Gip della Procura di Livorno Rinaldo Merani: “Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Marcello Lonzi è morto per un forte infarto”. Dopo che pure la Cassazione, il 29 marzo 2011, aveva negato la riapertura del processo, la donna si appellò alla Corte europea. Inutilmente: nel 2012 il ricorso fu dichiarato irricevibile. “Non incontrava gli articoli 34 e 35 della Convenzione europea sui diritti umani” fanno sapere all’Espresso da Strasburgo. Non si sa se il vizio fosse di procedura, merito o competenza. La decisione è comunque definitiva. Non la pensa così Erminia Donnarumma, legale di Maria Ciuffi, che vuole far riaprire il processo anche in Italia. “Con nuove prove c’è sempre la possibilità di riaprire le indagini. A marzo abbiamo denunciato il medico legale che ha fatto l’autopsia prima che la madre fosse avvertita del decesso, quindi senza che assistesse un perito nominato da lei. E abbiamo denunciato i due medici intervenuti la sera, per omissione di soccorso. Bisogna riconsiderare anche le fratture non prese in esame in sede di riesumazione. Ora dipende tutto dalla Procura di Livorno: se iscrivono il reato possono riaprire le indagini”. Alle Sughere dal 1 marzo 2003, Marcello doveva scontare 9 mesi per tentato furto. Invece l’11 luglio il suo corpo resta a terra nella cella. Fuori, strisciate e gocce di sangue. Saranno tante le dichiarazioni contrastanti e i punti oscuri. Pochi giorni dopo aver parlato con la magistratura, nel 2008, tenta il suicidio in orario di lavoro l’infermiera delle Sughere in servizio quando fu ritrovato il corpo di Marcello. Si può escludere o no che c’entri con i fatti di Lonzi? C’è poi un referto medico falso e anonimo. Poco dopo l’ingresso in carcere, Marcello accusa dolori al torace: lo hanno picchiato le guardie, lamenta. Le radiografie che gli fanno mostrano una costola fratturata. Ma nel referto del 20 marzo 2003 il medico scrive il falso: “non fratture”. E non si firma. Marcello non viene curato e i responsabili restano impuniti. Alle Sughere, 17 decessi tra il 2003 e il 2011, “la violenza è normale” secondo Mario, ex detenuto intervistato da Riccardo Arena nella rubrica Radio Carcere di Radio Radicale. Mario racconta di detenuti tornati dall’isolamento “spaccati in faccia”. Lui stesso sarebbe stato pestato da “6 o 7 guardie”. Che la morte di Lonzi abbia a che fare con i maltrattamenti lo hanno pensato anche alle Nazioni Unite. Nel 2011 l’argentino Juan Méndez, relatore speciale sulla tortura dell’Onu, segnalò all’Alto commissariato per i diritti umani il caso Lonzi. All’interno del suo “rapporto sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti”, metteva in evidenza il “volto gravemente contuso” e il “corpo coperto di sangue” del ventinovenne. Non solo: la storia di Marcello Lonzi, insieme ad altre, “ritrae un’immagine disturbante della violazione dei diritti umani da parte di pubblici ufficiali che non sono soggetti a indagini rigorose”. Così recita una relazione diretta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite scritta nel 2010 dall’ong Franciscans International, consulente ufficiale dell’Onu in tema di diritti. Che denuncia “un’apparente non volontà di investigare accuratamente e di consegnare alla giustizia i responsabili. Questo equivale a una violazione del diritto alla vita e del diritto a un rimedio efficace”. Aiutatemi ad ottenere giustizia per mio figlio Marcello Lonzi Da 10 anni ormai mi batto perché ci sia giustizia vera per la morte di mio figlio. Indispensabile fare luce su tutto e chiarire come si sia potuto archiviare il caso come morte naturale, nello specifico: “un infarto”. Marcello aveva la mandibola fratturata, due buchi in testa, il polso sinistro rotto, due denti spaccati, un’escoriazione a V, otto costole rotte. Come può essere stato un infarto a ridurre così un ragazzo in piena salute? Marcello era finito dentro con l’accusa di tentato furto, condannato a nove mesi, ne aveva scontati quasi la metà. Ho saputo della sua morte solo il giorno dopo. Non mi hanno avvisata né i carabinieri, né la polizia, ma una zia di mio figlio. Ero appena tornata da lavoro, mi stavo per cambiare, quando sento suonare alla porta e lei mi dice: Marcellino è morto. Sono corsa al carcere dove mi hanno tenuta più di un’ora fuori, al sole. Le guardie erano al cancello, mi guardavano ma non mi dicevano niente. Poi ho scoperto che mentre io aspettavo davanti al carcere, all’obitorio del cimitero di Livorno gli stavano facendo l’autopsia. La notizia era già sui giornali: “Il Tirreno” riportava “morto d’infarto”, “La Nazione” che si era suicidato. Li ho chiamati entrambi ed entrambi mi hanno detto che era stata la direzione del carcere a dir loro così. Inaccetabile che tutto resti sommerso. Dal 2002 a oggi sono stati 2.036 i decessi all’interno degli istituti penitenziari italiani. Duemila morti in dieci anni: metà suicidi, l’altra metà per malattia o cause “da accertare”. Far sì che esca la verità su Marcello farà anche in modo di cambiare le leggi e la tutela nelle carceri perché non capiti mai più una cosa simile. Ho denunciato il pm che non aveva fatto alcun interrogatorio, ho pagato per far rifare l’autopsia e visti i terribili risultati nel maggio scorso ho denunciato per falso ideologico i tre medici che avevano redatto la prima autopsia, alla Procura. Ho chiesto di riaprire le indagini. Chiedo che una commissione della Corte europea dei diritti dell’uomo riesamini il caso. Giustizia: legali di Bernardo Provenzano ricorrono a Corte europea dei diritti dell’uomo Ansa, 27 settembre 2013 I legali del boss Bernardo Provenzano, avvocati Rosalba Di Gregorio e Franco Marasà hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiedendo la condanna del governo italiano per “il trattamento carcerario inumano” subito dal capomafia e per la prosecuzione del 41 bis cui è sottoposto nonostante gravissime condizioni di salute. I legali, che motivano il ricorso tra l’altro sulla base della violazione ripetuta delle norme europee sul trattamento carcerario, chiedono anche “una equa riparazione, comprensiva dei danni patrimoniali e morali subiti”. Nel ricorso, lungo 37 pagine, gli avvocati, che in passato proprio per le gravi condizioni del boss hanno chiesto sia la revoca del carcere duro che la sospensione dell’esecuzione della pena, ripercorrono la lunga serie di patologie da cui il capomafia è affetto. “Una parkinsoniana rigido-acinetica di grado severo, - scrivono - numerose patologie interessanti l’apparato urinario, l’apparato tiroideo e l’apparato encefalico con sofferenze di tipo ischemico e manifestazioni tumorali, del tutto inconciliabili con la detenzione carceraria e con il regime speciale di cui all’art. 41bis”. Inoltre, citano l’esito della perizia disposta dal gip di Palermo che esclude che “il paziente possa relazionarsi con il mondo esterno e comunicare in modo congruo e proficuo con gli interlocutori” e la sua capacità di partecipare coscientemente al processo. Gli avvocati contestano la violazione dell’art.3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che vieta i trattamenti inumani e degradanti. “La protrazione dell’ esecuzione della pena e, per di più, in regime di cui all’art. 41 bis, in ragione dell’aggravarsi delle condizioni di salute del detenuto, contrasta - dicono - con il basilare senso dell’umanità, risulta lesiva del fondamentale diritto alla salute e impedisce il normale regime trattamentale, provocando una smaccata violazione dei diritti umani garantiti dalla Convenzione così come interpretata dalla giurisprudenza di codesta Corte”. “Il mantenimento nei confronti del sig. Provenzano del regime sospensivo delle normali regole di trattamento penitenziario - aggiungono - nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, superano quella soglia minima di gravità, individuata dalla giurisprudenza della Corte, necessaria per costituire un trattamento inumano ai sensi dell’art. 3 della Convenzione”. “Inumanità - proseguono - della situazione alla quale si aggiunge, a sua volta, l’indifferente silenzio dello Stato che, al contrario, avrebbe dovuto prestare particolare e maggiore attenzione alla situazione detentiva e alle condizioni di salute estremamente gravi di Provenzano, concedendogli la revoca del regime di carcere duro, una volta aggravatesi le sue condizioni”. “Non si comprende davvero, a riguardo - concludono - quale pericolosità possa temersi in un soggetto, sebbene con un vissuto criminale intenso, ma ormai ridotto in fin di vita, non più in grado di riconoscere neppure i suoi familiari”. Campania: la Garante Tocco; misure alternative per detenuti in gravi condizioni di salute Ansa, 27 settembre 2013 “Qui non si vuole assolutamente sostenere la non punibilità di chi è gravemente ammalato, si vuole però affermare che o lo Stato è in grado di garantire le cure adeguate e quindi occuparsi della salute delle persone che allo Stato sono affidate, o se non è in grado, individui le opportune misure alternative”. È quanto ha dichiarato la Garante dei diritti dei detenuti, Adriana Tocco, a margine della conferenza stampa sulle “Misure alternative per i detenuti in un grave stato di salute”, tenutasi al Consiglio regionale della Campania, alla presenza tra gli altri dei componenti della Commissione Giustizia Camera Deputati, Carlo Sarro e Assunta Tartaglione, del coordinatore dei cappellani di Poggioreale, Don Franco Esposito e dei familiari di alcuni detenuti. “Un provvedimento che, è tanto più urgente in quanto, l'Italia nel 2012 è stata condannata da Strasburgo nella causa intentata dal detenuto Cara Damiani per motivi inerenti la mancata tutela della salute. E per altri, sanzionata per trattamenti disumani anche con le imposizioni di prendere tutti gli adeguati provvedimenti per rientrare nei termini delle regole penitenziarie della Comunità Europea”. “Dunque considerando la difficoltà del sistema carcerario nel quale non è facile né possibile e forse nemmeno utile individuare le responsabilità individuali, occorrerebbe una sorta di automatismo per il quale chi è in condizioni gravi accertate e elencate anche asetticamente da chi ne ha titolo, possa godere rapidamente di sospensione pena o di misura alternativa”. “Le istanze del Garante regionale dei detenuti vanno recepite immediatamente dalle Istituzioni, perché l'affermazione diritto alla salute per chi vive in carcere è un tema non più rimandabile”. Ad affermarlo è la deputata del Pd Assunta Tartaglione, che aggiunge: come parlamentare, presenterò subito un'interrogazione al Ministro della Giustizia per chiedere interventi urgenti per potenziare l'assistenza negli Istituti. Al contempo mi impegnerò affinché in Commissione Giustizia si arrivi a predisporre un testo normativo che possa dare definitivamente forza al diritto alla salute dei detenuti. Sulla stessa lunghezza d'onda il vice presidente della Commissione Giustizia e deputato Pdl Carlo Sarro, per cui “Desta non poca preoccupazione quanto rappresentato dal Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania, nella sua ultima relazione, in ordine alle gravissime violazioni del diritto alla salute ai danni dei soggetti sottoposti a regime carcerario, i quali, troppo spesso, non riescono ad accedere a trattamenti diagnostici e terapeutici adeguati al loro effettivo stato fisico”. “È necessario, pertanto, che il Legislatore disciplini in maniera compiuta la materia, prevedendo la istituzione obbligatoria in ogni Regione di un autorità-garante per la medicina penitenziaria, favorendo il ricorso a misure alternative alla carcerazione per tutti i soggetti affetti da gravi patologie”. Napoli: detenuto dell’Opg “organizza” incendio in sezione e si impicca con un lenzuolo Il Mattino, 27 settembre 2013 Trentacinque anni, malato all’ultimo stadio: convince i detenuti dello stesso braccio a dar fuoco alle suppellettili: e prende un lenzuolo. Si è ucciso, impiccandosi con delle lenzuola alla grata della sua cella, nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli. E per farlo ha creato una situazione di caos nel reparto convincendo gli altri internati ad incendiare alcune suppellettili: quattro agenti di polizia penitenziaria e due infermieri sono rimasti intossicati. È accaduto la scorsa notte. Il detenuto, 35 anni, all’ultimo stadio dell’Hiv, pur di distogliere l’attenzione degli agenti e mettere a segno il suo gesto, ha organizzato l’incendio. Un episodio, quello verificatosi, denunciato dall’Osapp che chiede, in merito, maggiore attenzione da parte del ministro della Giustizia e del mondo della politica. “Vogliamo sensibilizzare il ministro Cancellieri e gli organi politici - dice Pasquale Montesano, segretario generale aggiunto Osapp - devono pensare come risolvere il problema, sia a tutela degli internati che della polizia penitenziaria”. Sappe: chiusura Opg peggiorerà situazione delle carceri “Il detenuto, proveniente dalla Casa Circondariale di Napoli Poggioreale, era ricoverato presso l’Ospedale psichiatrico giudiziario ed era in cella singola quando ha compiuto l’insano gesto - Spiega Donato Capece, segretario generale Sappe. Definitivo per reati comuni contro la persona, il patrimonio e per evasione, segna ancora una volta la disastrosa decisione di detenere soggetti infermi per patologie mentali, o semplicemente in osservazione psichiatrica in strutture detentive come quelle degli Opg”. E sottolinea i problemi operativi che determinano le persone detenute con instabilità psichica: “È evidente che con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) si acuirà a danno delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria il problema del sovraffollamento in carcere, già ora a livelli record con 150 detenuti per 100 posti, contro i 107 del resto d’Europa. Quando chiuderanno tra un anno, una parte dei loro detenuti tornerà in carcere, e se la situazione non cambierà, potrebbe diventare esplosiva. Già oggi un terzo dei detenuti è ad alto rischio di malattie mentali”. Torino: Sappe; agenti salvano detenuto da suicidio, oltre 2.000 sventati tra il 2011 e il 2012 Adnkronos, 27 settembre 2013 Un altro suicidio sventato nelle carceri italiane. “Ieri - fa sapere Donato Capece, segretario generale del Sappe - verso le 22,40 un detenuto tunisino di giovane età, alla nona sezione del blocco B del carcere Lorusso Cotugno di Torino ha tentato per l’ennesima volta di impiccarsi all’interno della sua cella mediante un cappio ricavato da un lenzuolo, appendendolo alla branda che aveva messo in verticale. È stato salvato in extremis grazie al pronto intervento di due agenti di polizia penitenziaria, che nell’intervento si sono procurati il primo lesioni ad una spalla e il secondo un taglio ad un dito della mano”. “Un gesto particolarmente importante e da mettere in evidenza - aggiunge Capece - tanto che il Sappe chiederà all’Amministrazione penitenziaria di Roma una adeguata ricompensa (lode o encomio) al personale di Polizia che è intervenuto per salvare la vita al detenuto. Un gesto eroico e da valorizzare che nelle carceri italiane accade con drammatica periodicità: si pensi che nel 2011 e 2012 la polizia penitenziaria ha sventato oltre 2.000 tentativi di suicidio di detenuti e impedito che più di diecimila atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze”. Il leader dei baschi azzurri del Sappe esprime quindi “sincero e convinto apprezzamento del primo sindacato della polizia penitenziaria, ai colleghi del carcere di Torino che hanno sventato il suicidio”. Velletri (Rm): emergenza carcere, personale ridotto all’osso Francesca Ragno www.romatoday.it, 27 settembre 2013 I sindacati hanno indetto per il prossimo 30 settimana un sit-in di protesta delle guardie penitenziarie davanti al carcere per protestare contro le carenze di personale. Emergenza carceri anche nei Castelli Romani dove a soffrire dei problemi di sovra-affollamento e personale insufficiente è la struttura penitenziaria di Velletri. I sindacati hanno lanciato l’allarme sulla difficile situazione lavorativa della Polizia Penitenziaria, costretta a turni di lavoro insostenibili e carichi di lavoro non sopportabili. L’ultima assegnazione di nuovo personale di agenti penitenziari ha visto l’esclusione del carcere di Velletri: “Constatiamo ancora una forte carenza di dotazioni organiche di personale - sostengono i sindacati di categoria - che certifica la Casa Circondariale di Velletri al primo posto con una percentuale dello 0,28, con circa 177 unità di agenti per oltre 600 detenuti”. I sindacati dicono basta “a queste estreme condizioni di lavoro che mettono sempre più a rischio la salute sia fisica che mentale degli agenti” e hanno indetto per la giornata di lunedì prossimo, 30 settembre, a partire dalle ore 9.00 un sit-in di protesta nell’area davanti al carcere, invitando le guardie penitenziarie ad astenersi dal servizio mensa. Treviso: “Fuori Gabbia”: il laboratorio dei detenuti come possibilità di riscatto di Isabella Loschi www.oggitreviso.it, 27 settembre 2013 Presentato presso la Casa Circondariale di Treviso il progetto “Fuori di Gabbia” una linea di simpatiche casette che, oltre ad arredare il giardino, posso diventare un tetto per una famiglia di pipistrelli, merli e cinciallegre. Ma dietro ognuna di queste casette c’è molto di più: una storia, una vita, una speranza che le persone possono contribuire a tener viva grazie all’acquisto di questo piccolo prodotto. Il progetto sostenuto da Caritas di Tarvisina e realizzato con Alternativa Cooperativa Sociale e Puntozero Società Cooperativa, nasce dalla volontà di dare nuova dignità e una possibilità di riscatto ai detenuti del carcere di Treviso, consapevoli che la capacità di trovare un lavoro, una volta scontata la pena e ritornati in società, diminuisce il rischio di recidiva dell’80%. Le casette sono infatti realizzate dai detenuti del carcere di Treviso, all’interno dei laboratori artigianali coordinati da Alternativa Cooperativa Sociale. Sono realizzate con materiali naturali, di diversi colori e forme, e sono progettate per essere montate facilmente da un bambino assieme a un adulto diventando così pretesto per un allegro pomeriggio in giardino e un ottimo esempio di bricolage guidato. I nidi si possono acquistare on line tramite il sito dedicato o recandosi presso la sede di Alternativa Cooperativa Sociale, a Vascon di Carbonera in via Callegari 32. “Fuori di Gabbia” è un marchio del progetto Start Up che ha lo scopo di valorizzare il lavoro intramurario attivando anche nuove linee di prodottoe rappresenta il desiderio di cura dell’ambiente, di attenzione per gli animali e di incontro tra uomo e natura, che nasce dalla falegnameria della Casa Circondariale, dal lavoro dei detenuti e dalla passione degli operatori e ha l’ambizione di spiccare il volo e andare lontano. Roma: “Arte reclusa”, un festival organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno di Nerina Spadaro La Sicilia, 27 settembre 2013 “Arte reclusa”. Si riferisce forse, quest’espressione, all’innegabile fatto che l’arte, anche quella apparentemente più libera, è sempre reclusa dentro la propria forma? Oppure, in senso più concreto, alla condizione degli autori dissidenti incarcerati da regimi autoritari? No, stiamo parlando di un festival teatrale, giunto quest’anno alla sua terza edizione. Appunto il Festival dell’Arte reclusa, dove reclusi sono gli attori. Nel caso in specie quelli appartenenti alla Compagnia del Reparto G8 del Carcere di Rebibbia, il cosiddetto reparto delle Lunghe Pene (G12 è invece quello dell’Alta Sicurezza, G9 il Precauzionale). Organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno, in collaborazione con il Teatro di Roma e con la Direzione della Casa Circondariale di Rebibbia, il festival ha appena messo in scena al Teatro Argentina una drammaturgia dal titolo “La Festa”, firmata da Valentina Esposito e diretta da Laura Andreini Salerno, che del grande attore italiano è la vedova. E che in questa occasione ha voluto affiancare, ai detenuti/attori, degli allievi/attori: quelli dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. Primo importante risultato dell’operazione: in quella schiera di cuochi e aiuto cuochi che nella cucina di un transatlantico prepara il menu per un grande ricevimento, era praticamente impossibile distinguere i carcerati dagli studenti. Circostanza significativa se ripensiamo alle parole del regista Armando Punzo, che dirige un’altra storica compagnia di reclusi, quella del carcere di Volterra, e che sempre ha voluto guardarsi dalla “esoticità del carcerato”. Perfino in un caso esoticissimo come quello di Aniello Arena, che da Volterra proviene e che Matteo Garrone ha voluto come protagonista per il suo ormai celebre “Reality”. Il napoletano Arena (condannato per due omicidi di camorra) in una delle sue interviste ha dichiarato: “Il teatro ha fatto venire fuori quello che era il mio carattere, le mie debolezze, anche attraverso le parole di un autore come Scespìr”. Lo stesso “Scespìr” che per una diversa strada ci riconduce a Rebibbia, dove ogni giorno si svolge l’opera di un altro bravissimo regista, Fabio Cavalli. Quello, per intenderci, che ebbe l’idea di invitare ad un suo spettacolo i fratelli Taviani, talmente impressionati dal contatto con l’”arte reclusa” da trasformarlo in un riconosciuto capolavoro cinematografico: “Cesare deve morire”. Cavalli, come direttore organizzativo, ha partecipato anche alla “Festa” dell’Argentina. Torniamo così al ventennale lavoro del Centro Studi di Laura Salerno. Un dato per tutti, confermato dall’Istituto Superiore di studi penitenziari: il tasso di recidiva per chi svolge attività teatrali con continuità ed impegno passa dalla media del 65% a quella del 6%. Teramo: domani torna in piazza il Comitato Amici e famigliari “Liberiamo Davide” Il Centro, 27 settembre 2013 Un’assemblea pubblica per dibattere la situazione delle carceri italiane: l’incontro, organizzato dal Comitato Amici e famigliari “Liberiamo Davide”, si terrà sabato alle 17.30 in piazza Martiri della Libertà. L’evento rientra tra le iniziative nazionali promosse dai detenuti e partite lo scorso 10 settembre con uno sciopero della fame di otto giorni, al quale hanno fatto seguito dodici giorni di mobilitazioni autodeterminate. Allo sciopero della fame aveva aderito anche il giovane Davide Rosci, prima recluso nel carcere Mammagialla di Viterbo e attualmente in custodia nella casa circondariale di Castrogno, dopo l’approvazione, da parte del ministro Anna Maria Cancellieri, della richiesta di riavvicinamento ai familiari partita dal Consiglio regionale d’Abruzzo. L’assemblea, spiegano i promotori, nasce con l’obiettivo di attirare l’attenzione sul tema delle carceri e sulle rivendicazioni dei detenuti che chiedono “un carcere più umano e il rispetto di una dignità che un Paese che si dichiara civile deve garantire a tutti, carcerati compresi”. “I detenuti”, prosegue la nota del comitato, “chiedono che sia data una risposta al sovraffollamento e ancora che l’articolo 127 della Costituzione sia perseguito e non calpestato. Soprattutto chiedono che siano abolite le forme di tortura legalizzate quali il 41bis, il 14bis e l’alta sorveglianza”. “Noi del comitato Amici e famigliari “Liberiamo Davide”“, concludono i promotori, “appoggiamo queste rivendicazioni e ci impegneremo perché escano fuori dalle mura carcerarie per arrivare a più orecchie possibili all’esterno. Davide si fa portavoce della situazione che si vive all’interno dei penitenziari, una situazione vergognosa che impariamo a conoscere anche attraverso i suoi occhi e la sua voglia di lottare”. Torino e Avellino: tentato di introdurre droga in carcere, scoperti da Polizia penitenziaria Ansa, 27 settembre 2013 Droga nel carcere torinese delle Vallette. Durante un colloquio, la polizia penitenziaria ha sorpreso la fidanzata di un detenuto mentre gli passava un ovulo contente caffè, eroina e un sostituto del metadone. Lo denuncia Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp. “La polizia penitenziaria - dichiara Beneduci - sa lavorare come non pochi quando si tratta di ristabilire le condizioni di legalità e rispetto della legge. Forse è per tali motivi che in sede politica si sta facendo di tutto per smantellare il corpo”. La donna e il detenuto sono stati colpiti da misura cautelare in carcere. Disabile porta droga al figlio detenuto, denunciato Un uomo di 56 anni, originario di Melito di Napoli è stato denunciato a piede libero dagli agenti della Polizia Penitenziaria del carcere avellinese di Bellizzi: molto probabilmente stava portando hashish al figlio detenuto. L’uomo, costretto sulla sedia a rotelle, avrebbe dovuto incontrare per il colloquio settimanale il figlio, che nella casa circondariale irpina sta scontando una condanna per rapina. All’ingresso della sala colloqui, uno dei pastori tedeschi dell’unità cinofila di cui gli agenti si avvalgono per i controlli, insistentemente ha puntato l’uomo. È scattata la perquisizione personale che ha confermato i sospetti del cane antidroga: sono stati trovati quattro grammi di hashish, verosimilmente destinati al figlio detenuto, che l’uomo aveva nascosto negli slip. Cagliari: domani presentazione libro “La cella di Gaudí. Storie di galeotti e di scrittori” L’Unione Sarda, 27 settembre 2013 La cella di Gaudí. Storie di galeotti e di scrittori. Sabato 28 settembre, alle 18.30, la Comunità La Collina guidata da Don Ettore Cannavera, a Serdiana, ospiterà un nuovo appuntamento con gli autori de “La cella di Gaudí. Storie di galeotti e di scrittori”, Arkadia Editore. Nato da un progetto realizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia e l’Associazione Il Colle Verde, il libro è un’antologia nel quale i racconti di vita di dodici detenuti della Casa circondariale di Isili incontrano le penne di altrettanti scrittori. Le esistenze di chi è costretto dietro le sbarre rivivono nelle storie narrate da Salvatore Bandinu, Michela Capone, Giampaolo Cassitta, Fabrizio Fenu, Michele Pio Ledda, Savina Dolores Massa, Paolo Maccioni, Nicolò Migheli, Anthony Muroni, Claudia Musio, Pietro Picciau e Gianni Zanata. Interverranno gli autori Anthony Muroni, Michele Pio Ledda, Pietro Picciau e Laura Cabras dell’Associazione Il Colle Verde. Turchia: catturati 17 dei 18 membri del Pkk evasi ieri dal carcere di Bingol Nova, 27 settembre 2013 Sono stati ricatturati dopo poche ore 17 dei 18 detenuti, membri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), evasi ieri dal carcere di Bingol, nella provincia sudorientale della Turchia. Lo ha riportato l’agenzia di stampa turca “Anadolu”, citando autorità della prigione di Bingol. In seguito alla vicenda, ha comunicato il ministero della Giustizia turco, sono stati rimossi dall’incarico il direttore del penitenziario, tre vice direttori e cinque ufficiali, tra cui il guardiano capo. Mentre l’operazione di ricerca continua per il latitanti, le autorità stanno indagando per capire se c’è stata negligenza da parte della direzione del carcere. Gli evasi erano riusciti a fuggire ieri tramite un tunnel. Le forze di polizia e della gendarmeria hanno subito lanciato un’operazione per catturare gli uomini evasi attraverso la galleria scavata dagli stessi detenuti. Il ministro della Giustizia turco, Sadullah Ergin, aveva detto ieri che la fuga era stata scoperta durante l’appello mattutino. “Dei 18 detenuti, quattro sono stati condannati e 14 erano in attesa di giudizio”, aveva riferito Ergin alla stampa. Il Pkk è un movimento politico clandestino armato, sostenuto dalle masse popolari, prevalentemente agricole, del sudest della Turchia, zona popolata in maggioranza dall’etnia di lingua curda. Iran: l’ex presidente Khatami chiede il rilascio di tutti i prigionieri politici Aki, 27 settembre 2013 L’ex presidente iraniano, il riformista Mohammed Khatami, ha chiesto il rilascio di tutti i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri della Repubblica islamica. In un commento pubblicato sul suo sito web, Khatami, riferendosi alla decisione della Guida Suprema, Ali Khamenei, di concedere la grazia a 80 detenuti, molti dei quali arrestati durante le proteste antigovernative del 2009, ha affermato: “Sono felice di questa notizia, ma mi chiedo perché questo numero? Tutti dovrebbero essere scarcerati, a meno che alcuni di loro non abbiano commesso realmente un crimine e siano stati giudicati colpevoli da un tribunale competente. Molti di loro non hanno fatto nulla - ha aggiunto l’ex presidente - molte delle accuse sono sbagliate”. Senza nominarli esplicitamente, Khatami ha quindi auspicato la scarcerazione di Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, i due candidati alle presidenziali del 2009 agli arresti domiciliari da oltre due anni e mezzo con l’accusa di sedizione. “Ognuno dovrebbe impegnarsi perché siano revocati gli arresti domiciliari (a Mousavi e Karroubi, ndr) - ha concluso Khatami - Si dovrebbero compiere passi in questa direzione”. Russia: due mesi di carcere per 22 dei 30 attivisti di Greenpeace Agi, 27 settembre 2013 Sono 22 gli attivisti di Greenpeace ai quali il Tribunale Distrettuale Leninksy di Murmansk ha prolungato di due mesi la custodia cautelare in relazione alla loro azione di protesta, risalente allo scorso 18 settembre, contro le trivellazioni nell’Artico. Tra di loro, anche il 32enne italiano Cristian d’Alessandro: lo riportano oggi le agenzie di stampa russe, aggiornando la situazione sul caso Arctic Sunrise, il rompighiaccio con cui un gruppo di trenta ambientalisti avevano attaccato la piattaforma petrolifera Prirazlomnaya, di proprietà di Gazprom, nell’ambito della campagna Save the Arctic. Per gli altri otto i giudici di Murmansk, dove l’imbarcazione è stata posta sotto sequestro dalle autorità russe, hanno stabilito un prolungamento del fermo per altre 72 ore. Contro l’equipaggio della Arctic Sunrise, i cui membri sono di diciannove differenti nazionalità, è stata avanzata un’ipotesi di reato per pirateria, che prevede fino a quindici anni di carcere. Il presidente Vladimir Putin ha detto nei giorni scorsi che “non si tratta di pirati”, ma ha comunque bollato la protesta come una “violazione del diritto internazionale”. La speranza che le misure restrittive siano ammorbidite è stata accesa anche dal portavoce del Comitato Investigativo russo, Vladimir Markin, il quale non ha escluso che gli ambientalisti possano essere rilasciati prima del processo. I legali di Greenpeace hanno comunque preannunciato ricorso. Tra gli attivisti che rimarranno in carcere per altri due mesi, oltre a d’Alessandro, anche il capitano del rompighiaccio, l’americano Pete Willcox, un portavoce dell’organizzazione, il russo Roman Dolgov, e il connazionale Denis Sinyakov, fotoreporter. L’arresto di quest’ultimo ha scatenato un coro di critiche sui social network e su parte della stampa on-line nazionale. I siti Gazeta.ru, Lenta.ru, quelli dell’emittente radiofonica Eco di Mosca e del giornale Russky Reporter per alcune ore oggi oscureranno le foto in segno di protesta. Il sito Colta.ru ha invece pubblicato una foto-gallery dei lavori più significativi di Sinyakov. La decisione dei magistrati è stata criticata anche dall’Unione dei Giornalisti Russi. Come hanno spiegato gli stessi colleghi, Sinyakov stava semplicemente documentando l’azione di protesta degli ecologisti per il sito di informazione Lenta.ru, che gli aveva assegnato l’incarico. La Arctic Sunrise era stata abbordata dalle forze di sicurezza russe il 19 settembre, un giorno dopo che due degli attivisti avevano tentato di scalare la piattaforma petrolifera nel mare di Pechora. La nave è ora attraccata nella baia di Kola, situata nel mare di Barents. Egitto: dirigente dei Fratelli Musulmani muore in cella dopo ordine scarcerazione Aki, 27 settembre 2013 Un dirigente dei Fratelli Musulmani, Safwat Khalil, arrestato il mese scorso insieme ad altri esponenti del gruppo con l’accusa di incitamento alla violenza e possesso illegale di armi, è morto in carcere. Lo riporta la tv satellitare al-Jazeera, spiegando che il decesso del dirigente della Fratellanza è arrivato poco un ordine di scarcerazione emesso da un giudice di Mansoura, nel Delta del Nilo, dove Khalil era detenuto. La disposizione del giudice riguardava in tutto 48 esponenti dei Fratelli Musulmani. Uno degli avvocati dell’uomo ha riferito che soffriva di un grave male e che le sue condizioni si erano aggravate di recente, in particolare dopo essere stato portato in tribunale su una camionetta della polizia invece che su un’ambulanza. La Fratellanza, che ha confermato la morte di Khalil, ha accusato la polizia di “riluttanza a rilasciarlo nonostante il verdetto della corte”. Cile: chiude il carcere di lusso dei condannati della dittatura di Pinochet Asca, 27 settembre 2013 Il presidente cileno Sebastian Pinera ha ordinato di chiudere la prigione dorata di Cordillera, in cui i detenuti hanno la possibilità di passeggiare nei giardini, di guardare la tv via cavo e di usufruire di campi da tennis e piscine. Cile, chiude il carcere di lusso dei condannati della dittatura di Pinochet. Chiude in Cile il carcere di lusso di Cordillera, prigione ove dal 2004 sono detenuti alcuni dei condannati della dittatura di Augusto Pinochet. Persone che stanno scontando le loro pene dovute a condanne per violazioni dei diritti umani nel corso della dittatura in Cile e che ora dovranno essere trasferiti in carceri “normali”, con un regime più rigoroso. Lontani, insomma, dalla lussuosa prigione dove hanno la possibilità di passeggiare nei giardini, di guardare la tv via cavo e anche di utilizzare per due ore al giorno i campi da tennis e la piscina. Ogni detenuto ha un bagno privato in questo penitenziario. Ad annunciare l’intenzione di chiedere il carcere dorato è stato il presidente del Cile Sebastian Pinera. Tra i dieci detenuti della prigione c’è anche Manuel Contreras, ex capo dello spionaggio cileno. Quest’ultimo, in occasione del 40esimo anniversario del golpe, lo scorso 11 settembre, ha dichiarato che le migliaia di desaparecidos causati dalla dittatura erano guerriglieri di sinistra uccisi in combattimento. Ed è proprio in seguito all’anniversario che il presidente ha preso la sua decisione. Pinera ha fatto sapere di aver ordinato di chiudere il carcere avendo tenuto conto di tre principi: in primo luogo, l’uguaglianza davanti alla legge, in secondo luogo, la sicurezza dei detenuti e infine un più efficiente funzionamento delle forze di polizia.