Giustizia: ecco la proposta di legge… ma riusciremo ad abolire l’ergastolo? di Stefano Anastasia www.huffingtonpost.it, 26 settembre 2013 Detto, fatto. Lo avevano annunciato a ridosso dell’estate e sono stati di parola. Roberto Speranza e Danilo Leva, rispettivamente capogruppo alla Camera e responsabile giustizia del Partito democratico, hanno presentato la loro proposta di legge per l’abolizione dell’ergastolo. Non sono i soli e non sono i primi, ma un simile impegno, da parte di dirigenti di prima fila di uno dei principali partiti italiani, su un tema così scabroso come quello dell’ergastolo, non si vedeva da tempo e merita di essere rilevato. Se la proposta dovesse tradursi in legge, la pena dell’ergastolo sarebbe sostituita dalla pena massima temporanea, fissata dall’ordinamento in trent’anni di reclusione. In questi giorni, fosche nubi tornano ad addensarsi sul prosieguo della legislatura, ma la contemporanea raccolta di firme dei radicali per i referendum terrà all’ordine del giorno la questione, in questa come nella prossima legislatura, anche se dovessimo tornare a votare in tempi brevi. Come di ogni previsione normativa, anche dell’ergastolo ci si può chiedere se sia giusto, se sia giuridicamente legittimo, se sia effettivamente applicato. Della (in)giustizia dell’ergastolo scriveva Aldo Moro in quella ormai celeberrima lezione tenuta in uno dei suoi ultimi corsi universitari (ora in S. Anastasia - F. Corleone (a cura di), “Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona”, Ediesse 2009) giustamente richiamata da Speranza e Leva nella relazione introduttiva alla loro proposta: “un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale, che istantaneamente, puntualmente, elimina dal consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ergastolo, che, privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Della disumanità dell’ergastolo si è recentemente occupata la Corte europea dei diritti umani che, nel caso Vinter, ha condannato la Gran Bretagna per l’impossibilità di una effettiva revisione della pena dell’ergastolo in corso di esecuzione che, appunto, lo renderebbe una pena inumana. Della legittimità dell’ergastolo nel nostro ordinamento si discute sin da quando l’Assemblea costituente scrisse quel comma 3 dell’articolo 27 che impone la finalità rieducativa della pena e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Può tendere alla rieducazione una pena senza fine? o meglio: la cui fine coincida con la morte del condannato (perché questo, si ricordi, è il significato della pena dell’ergastolo)? Nel 1974 la Corte costituzionale se la cavò con un paradosso: l’ergastolo è legittimo in quanto anche all’ergastolano è data la possibilità di accesso alla liberazione condizionale, che poi vuol dire che l’ergastolo è legittimo nella misura in cui non venga effettivamente applicato, e cioè: nella misura in cui non sia tale. Insomma, l’ergastolo in quanto tale non è legittimo, ma sul presupposto che non sia applicato può essere mantenuto nell’ordinamento. Più recentemente (nel 2003) la Corte costituzionale ha salvato anche il cosiddetto “ergastolo ostativo”, l’ergastolo senza possibilità di accesso alla liberazione condizionale per coloro che non collaborino con la giustizia, sul presupposto che - se rifiuta di collaborare - sia responsabilità del condannato il mancato accesso alla liberazione condizionale, minimamente facendosi carico del fatto che la pretesa di collaborazione è tipicamente inquisitoria: il pubblico ministero persegue un’ipotesi accusatoria nei confronti di qualcuno che non ha la forza per dimostrare e sostenere in giudizio; gli serve una denuncia o, meglio, una chiamata in correità; il condannato all’ergastolo che corrisponde alle esigenze del Pm potrà avere accesso alla liberazione condizionale e sperare di terminare la sua vita in libertà; quello che si rifiuterà di collaborare sarà schiacciato a vita dal “fine pena mai”, come recitano i fascicoli penitenziari. Di tutte queste cose e dei buoni argomenti per riproporre alla Corte costituzionale la questione della legittimità dell’ergastolo ha scritto recentemente Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Ferrara, mettendo a disposizione di magistrati e avvocati una bozza di ricorso alla Consulta. Ma di tutte queste cose, della (in)giustizia dell’ergastolo e della sua (il)legittimità, nel dibattito pubblico italiano non se ne discute più (e qui è il merito dei dirigenti del Pd, e dei radicali e degli altri proponenti l’abolizione dell’ergastolo) perché la vulgata vuole che l’ergastolo in realtà non esista, che non lo sconti più nessuno. È un particolare tipo di allucinazione, questa che spinge molti autorevoli commentatori a dare per chiusa la questione etica e giuridica dell’ergastolo in nome della sua (supposta) non applicazione. È una allucinazione che colpisce tipicamente i giuristi (ma che può essere condivisa anche dai profani che si dilettano con la materia): il codice dice che l’ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventisei anni di pena, e dunque così è. I più ferrati ricordano poi che il detenuto che abbia tenuto una buona condotta può vedersi cancellati quarantacinque giorni di pena ogni semestre: fatti due conti, l’ergastolano esce a ventidue anni. E poi c’è la semilibertà, i permessi.... insomma: gli ergastolani non lo sono per niente. Dunque, è inutile disquisire di una cosa (l’ergastolo) che non esiste. Ma si tratta, appunto, di un’allucinazione. La realtà invece ci dice di un universo in continua e incessante crescita. Nell’ultimo ventennio gli ergastolani si sono moltiplicati per quattro: erano 408 nel 1992, sono diventati 990 nel 2002 e poi 1.581 il 31 dicembre del 2012. Se il complesso della popolazione detenuta avesse seguito lo stesso trend in questi vent’anni, oggi avremmo altri centomila detenuti oltre la capienza massima delle nostre carceri. Ma veniamo alla ineffettività dell’ergastolo. Nel 1997, quando il Parlamento ha esaminato per l’ultima volta una proposta abolizionista (approvandola nel solo Senato), gli ergastolani erano 875: di questi tre erano in carcere da più di trent’anni (la pena massima temporanea prevista dall’ordinamento) e sedici da più di ventisei (la soglia per richiedere l’accesso alla liberazione condizionale). Nel decennio 1986 - 1996 solo 27 detenuti avevano avuto accesso alla liberazione condizionale. Dieci anni dopo, nel 2007, quando gli ergastolani erano circa 1.350, 49 erano quelli in carcere da più di trent’anni, 94 da più di ventisei. Solo 29 di questi godevano della semilibertà, gli altri erano ordinariamente e quotidianamente chiusi in carcere. Qualche mese fa mi telefona uno di quei 29. Si chiama Calogero Diana ed è probabilmente un record-man dell’ergastolo: secondo il calcolo fatto dalla Procura generale competente ha scontato quarantuno anni di pena. Dal 1994 è in semilibertà: esce tutti i giorni dal carcere, va a lavorare in una cooperativa sociale che si occupa di tossicodipendenze, immigrazione, tratta di esseri umani e malati di Alzheimer; fa quel che deve e se ne torna in carcere; tutti i santi giorni da vent’anni in qua. Eppure non è stato giudicato meritevole di essere ammesso alla liberazione condizionale. Ci ha provato due volte, nel 2002 e nel 2004 (quando aveva già superato i trent’anni di pena scontata) e non ha più voglia di fare una nuova istanza, avendo ragione di pensare che sia “a prognosi infausta”. Si può dire che Calogero Diana e gli altri 1580 che lo seguiranno in questo calvario, magari senza neanche godere della semilibertà, non stiano effettivamente scontando l’ergastolo? No, non si può. E per questo è utile e urgente che si riapra la discussione sulla (in)giustizia e la (il)legittimità dell’ergastolo. Giustizia: le proposte di Bonsanti, Ciotti, Landini e Rodotà, i “bravi maestri” della sinistra di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 26 settembre 2013 “Una grande coalizione sociale per uscire dalla frammentazione e trasformare l’Italia”. Le parole d’ordine del 12 ottobre secondo Bonsanti, Ciotti, Landini e Rodotà. Quest’ultimo dice sì all’amnistia, “nonostante Berlusconi”, e all’abolizione dell’ergastolo. E boccia i saggi: documento modesto I numeri? È presto per darli e comunque, sostiene don Luigi Ciotti, “conta quello che ognuno dei partecipanti farà dopo il 12 ottobre, come agirà da moltiplicatore dei contenuti della manifestazione”. Le adesioni al corteo (da piazza della Repubblica a piazza del Popolo)? Tante, almeno un centinaio di organizzazioni anche se, a ieri, erano ufficialmente ancora 27: oltre alla Fiom, a Libertà e Giustizia, al Gruppo Abele e alla Fondazione Basso dei promotori Maurizio Landini, Sandra Bonsanti, don Ciotti e Stefano Rodotà, c’è di tutto, dai Comitati Dossetti per la Costituzione alla neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Da Sbilanciamoci all’Arci. Suscita qualche malumore il mancato sì dell’Anpi. “Ci sarebbero problemi se l’obiettivo fosse quello di creare un’altra sinistra, perché non rientrerebbe nei nostri compiti e nella nostra natura”, ha fatto sapere qualche giorno fa il presidente dell’Associazione nazionale partigiani Carlo Smuraglia, subordinando una risposta positiva ai “chiarimenti” richiesti. Dal tavolo della conferenza stampa convocata nella sede romana dell’Arci, dietro la stazione Tiburtina, lo rassicura Sandra Bonsanti: “Non vogliamo fare un altro partito politico”. L’obiettivo, piuttosto, è una “grande coalizione sociale per la democrazia e i diritti”, che assuma la Costituzione come punto fermo da cui ripartire e ne dia una lettura non imbalsamata ma innovativa, la consideri una “compagna di strada” (don Ciotti) attraverso la quale “trasformare questo Paese” (Landini). La premessa è che la “regressione culturale” italiana è devastante - 9 milioni di persone in stato di relativa povertà, sei milioni di analfabeti, agli ultimi posti in Europa per dispersione scolastica, per non parlare della demolizione dell’università e della ricerca, frutto dell’egemonia neoliberista del ventennio berlusconiano - e “ha investito tutti”. Di converso, esiste “un’altra politica, un’altra cultura che in questi anni sono state ingabbiate”, secondo Rodotà, che delinea la rotta da seguire per provare a invertire la tendenza: “Uscire dalla frammentazione, sociale e politica, e dare agli italiani quello che loro manca in questo momento, prospettiva e fiducia”. Più che una manifestazione “contro”, dice Landini, sarà “per”: “Per un piano di investimenti straordinari, pubblici e privati, per difendere il lavoro e riqualificare l’industria, per chiedere più servizi sociali”. E per costruire un’Europa vera, fermando la dittatura dell’economia “che mette tra parentesi i problemi del Paese” (Rodotà) e ha fatto inserire il pareggio di bilancio in Costituzione “senza discussione”, un provvedimento di cui ora si pagano duramente le conseguenze. Il “cattivo maestro” Rodotà non è spaventato dalle polemiche seguite alle sue dichiarazioni sui No Tav e le cosiddette “nuove Br”, risponde alle domande e non si risparmia su nulla. Vittorio Antonini, ergastolano in semilibertà dell’associazione di detenuti del carcere di Rebibbia Papillon, gli chiede di pronunciarsi sull’amnistia sociale - c’è una campagna in proposito che ricalca una analoga lanciata in Francia dal Front de gauche, il manifesto ha ospitato numerosi articoli in proposito - e lui attacca: “Sosterrò in pieno il referendum radicale sull’abolizione dell’ergastolo e dico sì all’amnistia. Non mi faccio spaventare dall’argomento che ne potrebbe usufruire Silvio Berlusconi, sarebbe un po’ arduo inserire la frode fiscale tra i reati da amnistiare. Ma il punto vero è la riforma della giustizia: ci sono diverse proposte di riforma del sistema penale, tra cui una di Giuliano Pisapia, perché il ministro Severino non le ritira fuori?”. Visto che si parla di Costituzione, Rodotà ne ha anche per i “saggi” nominati da Napolitano: “Il loro documento è di una straordinaria pochezza culturale, è modesto, compilativo. Lo stesso lavoro poteva essere svolto meglio, e con minori costi, dagli uffici studi della Camera e del Senato, oppure da un gruppo di bravi dottorandi di ricerca, assegnando loro qualche borsa di studio”. Impensabile, nell’Italia di oggi, dove accade che “un ragazzo debba farsi dare i soldi dal padre per pagare il biglietto della metropolitana e poter andare a discutere della sua ricerca all’università”. È la risposta che si è sentito dare il giurista, qualche giorno fa, da un suo allievo dallo sguardo triste. Giustizia: Pd; progetti di legge per abolizione ergastolo e riforma della custodia cautelare 9Colonne, 26 settembre 2013 “In questo Paese si è parlato troppo spesso di riforma della giustizia per arrivare all’impunità di una sola persona. Dobbiamo procedere con coraggio e le due proposte di legge vanno nella direzione giusta”. Lo ha detto il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza, durante una conferenza stampa a Montecitorio in cui sono stati presentati due distinti progetti di legge per l’abolizione dell’ergastolo e la riforma della custodia cautelare. Di ritorno da una visita al carcere di Rebibbia la delegazione del Pd formata dal responsabile Giustizia Danilo Leva, dal responsabile Carceri del partito Sandro Favi e dai componenti della commissione Giustizia di Montecitorio, Anna Rossomando e Walter Verini, ha presentato le proposte contro il sovraffollamento. “È un tema che uno stato di diritto deve affrontare”, ha affermato Leva ricordando che a gennaio 2012, in Italia, il 40% dei detenuti è sottoposto a custodia cautelare, in attesa di un giudizio definitivo. “È un tema - ha proseguito Leva - di civiltà di un Paese, che una forza politica come la nostra non può ignorare”. Il secondo progetto di legge mira ad abolire il ricorso a una pena perpetua perché, ha sottolineato il responsabile Giustizia del Pd, “l’ergastolo è una sorta di condanna a morte pagata a rate che cancella ogni speranza, ogni prospettiva di vita”. Entrando nel merito delle due proposte, Rossomando ha evidenziato la necessità di realizzare interventi strutturali e non emergenziali, al fine di riaffermare “in modo serio” una cultura delle garanzie di cui il Pd vuole farsi portavoce. Tra queste restringere il carcere preventivo alle fattispecie di reato più gravi. “Bisogna dare applicazione completa al concetto di carcere extrema ratio. Tra carcere e libertà piena - ha sottolineato la deputata del Pd - ci può essere un vasto ventaglio di alternative”. Secondo Verini, “il legislatore il Parlamento hanno il dovere di non essere indifferenti” ai problemi dei detenuti. “Cercheremo, compatibilmente con la situazione politica, di occuparci di queste cose non tanto per prendere voti ma per occuparci del Paese”. Secondo Favi, “la situazione è molto critica all’interno degli istituti di pena, dove si registra un aumento dei detenuti”. In questo senso, “il decreto legge approvato dal governo prima dell’estate non è stato così efficace da incidere sui numeri del sovraffollamento”. Giustizia: responsabilità civile, il conto salato dell'Europa per gli errori dei magistrati di Stefano Cappellini Il Messaggero, 26 settembre 2013 Non sempre i moniti europei portano guai o cattive notizie. Stavolta, per esempio, il richiamo di Bruxelles rappresenta un'opportunità: la Commissione europea ha infatti deciso di aprire una procedura d'infrazione contro l'Italia per i limiti sulla responsabilità civile dei giudici. Significa che il nostro Paese, nonostante una condanna della Corte di giustizia Ue nel 2011, non ha ancora provveduto a varare una legislazione che tuteli abbastanza il cittadino dagli errori commessi dalla magistratura. La contestazione riguarda l'applicazione del diritto europeo, ma riapre una questione che non può dirsi risolta nemmeno sul fronte interno del diritto. La critica che ci viene rivolta, e cioè un eccesso di protezione delle toghe rispetto alle conseguenze dei loro sbagli, arriva da lontano. Era il 1987 quando gli italiani furono chiamati a esprimersi tramite referendum sulla responsabilità civile dei giudici. La vittoria dei sì fu schiacciante, anche sull'onda di uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia repubblicana, il caso Tortora, con il suo carico di barbarie giuridica, dall'uso incontrollato dei pentiti allo stravolgimento dell'onere della prova, passando per una lunga serie di violazioni di codici e garanzie. La legge promulgata dopo quella consultazione popolare, la Vassalli, ha coperto solo in minima parte il vuoto normativo, al punto che non è esagerato definire tradito quel referendum. Al pari di quello, ben più citato negli anni seguenti, con cui gli elettori bocciarono il finanziamento pubblico alla politico. Non esiste nel nostro Paese la responsabilità diretta dei giudici, e quella dello Stato scatta solo quando sia dimostrato dolo o colpa grave, ovvero, secondo l'interpretazione della Cassazione, quando si verificano sbagli dal carattere «manifestamente aberrante». Troppo poco, secondo la Commissione Ue. Ed è qui, su questa mancanza sottolineata dal diritto europeo, che si innesta l'opportunità di cui dicevamo all'inizio. L'Italia ha ora l'occasione di estendere lo spettro dei diritti garantiti ai cittadini, e su un terreno cruciale come la giustizia. E può farlo, grazie all'ombrello dell'Unione, sottraendo questo intervento legislativo alla gabbia dei veti incrociati, delle strumentalizzazioni politiche e degli interessi di consorteria. Veti, strumentalizzazioni e interessi che ieri si sono prontamente manifestati, confermando la tendenza del nostro dibattito pubblico a fuggire il merito e blindarsi nel pregiudizio. Da una parte, sul versante politico di centrodestra, si sono subito levate voci di giubilo che hanno cercato di piegare le notizie da Bruxelles alla polemica sulla condanna di Berlusconi, come se la Commissione, aprendo la procedura d'infrazione, avesse voluto indirettamente pronunciarsi sul caso. Dall'altra, sul versante opposto, si sono contate poche e timide dichiarazioni tese a sminuire il pressing europeo e a dimostrare che non esiste alcun vincolo a migliorare una situazione descritta come il migliore dei mondi possibili. Quanto alla magistratura, o almeno a suoi consistenti settori, da anni utilizza l'alibi degli attacchi della politica per derubricare l'urgenza di riforme su questo come su altri punti che riguardano l'ordinamento giudiziario. Sottrarsi a questo ventennale scontro è un obbligo. Per quanti hanno a cuore le riforme che possono migliorare il nostro Stato di diritto. E per quanti non vogliono vedersi puniti, oltre che dal danno della paralisi politica, anche dalla beffa della sanzione finanziaria, a carico dei contribuenti, cui l'Italia andrà incontro se non saprà rispondere alla sollecitazione della Ue. Giustizia: errori giudiziari; Italia fuorilegge, riconosciuto solo l’11% dei danni ai cittadini di David Carretta e Silvia Barocci Il Messaggero, 26 settembre 2013 La Commissione europea apre una procedura di infrazione: Schifani: era ora che l’Europa si accorgesse delle irregolarità troppe le limitazioni alla responsabilità civile dei magistrati. Vietti: riguarda gli obblighi dello Stato, non dei singoli giudici. La Commissione europea oggi invierà una lettera di messa in mora all’Italia per i limiti eccessivi alla responsabilità civile dei magistrati nell’applicazione del diritto europeo. “È il primo passo di una procedura d’infrazione che potrebbe portare ad una multa, se il governo italiano non risponderà entro due mesi”, spiega una fonte dell’esecutivo comunitario. L’Italia era già stata condannata nel novembre del 2011 dalla Corte europea di Giustizia, perché la legislazione nazionale limita in modo ingiustificato la responsabilità civile dei magistrati, ostacolando le azioni di risarcimento dei singoli in caso di violazione del diritto Ue. Secondo la Corte di Lussemburgo e la Commissione, circoscrivere la responsabilità dei giudici - e in ultima istanza dello Stato - ai soli casi di “dolo” e “colpa grave”, escludendo invece gli errori di interpretazione e valutazione delle normative europee, è incompatibile con il diritto comunitario. Bruxelles spinge affinché la normativa italiana sia modificata rapidamente. Referendum Radicali Arrivata mentre i Radicali stanno chiudendo la raccolta firme sui referendum sulla giustizia e nel pieno dello scontro sulla condanna di Silvio Berlusconi, la procedura di infrazione ravviva le tensioni interne alla maggioranza e tra magistratura e politica. Secondo Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non c’è alcun “obbligo per l’Italia di introdurre la responsabilità diretta e personale del singolo giudice”. Anzi, “nei confronti del citta- dino l’unico responsabile è lo Stato”. Ma per Maurizio Gasparri del Pdl, l’Ue conferma che “le barriere di protezione attorno alla casta dei magistrati sono talmente alte da lasciarli quasi immuni dalle conseguenze dei loro errori”. “C’è un giudice a Bruxelles, in attesa che si muova quello di Strasburgo contro l’assurda retroattività che si vuole applicare al senatore Berlusconi”, ha reagito il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta. Secondo la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti del Pd, l’Ue non chiede “una modifica della nostra legislazione interna”. Ma il Pd è spaccato: per Sandro Gozi, con l’80% della legislazione nazionale che trova origine a Bruxelles, “è impensabile fare finta che non sia successo nulla o che vada solo reinterpretata la normativa italiana”. Solo 11% dei danni viene riconosciuto Chi sbaglia paga. Almeno così dovrebbe essere per gli impiegati pubblici. Ma i magistrati sono semplici impiegati, cui chiedere direttamente conto degli errori commessi, oppure la loro citazione diretta in sede civile significa incidere sull’autonomia e sull’indipendenza delle “toghe”? La querelle sulla questione della responsabilità civile dei magistrati ruota attorno a questo interrogativo. Ma le questioni di principio sottendono, di fatto, drammi personali, ingiuste carcerazioni o errori di persona. Come nel caso, eclatante, di Enzo Tortora. La domanda è sempre la stessa: se un magistrato sbaglia, paga? Quanto e in che modo? I piani talvolta si sovrappongono o, peggio ancora, si confondono. Perché un conto è parlare di responsabilità civile, e cioè del risarcimento in solido, e un altro contro di responsabilità disciplinare. A raccontarci la differenza sono le storie stesse di “malagiustizia”, dal caso Tortora al giudice Edi Pinatto che impiegò otto anni per scrivere una sentenza. Ma a fare la differenza sono anche i dati: appena 11% dei ricorsi per responsabilità civile dei magistrati è stato accolto in 25 anni; negli ultimi sette anni al Csm è aumentata del 70% la trattazione di pratiche disciplinari, e le condanne sono cresciute dal 30% al 50% del totale dei procedimenti definiti. Il caso Tortora Giugno 1983. Quell’immagine di Enzo Tortora, ammanettato e scortato dai Carabinieri come un delinquente comune, rimane un vulnus alla credibilità di una magistratura inquirente che, nel caso del presentatore, non cercò i riscontri alle dichiarazioni di collaboratori o non verificò la vera identità di un nome appuntato sull’agenda di un camorrista. La battaglia dei Radicali, oggi reiterata, nel 1987 si tradusse nel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. La traduzione in norma del principio secondo cui chi sbaglia paga toccò, nel 1988, all’allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. La responsabilità civile Quella legge ha posto molti paletti alle richieste di risarcimento avanzate dai cittadini contro i magistrati. In primo luogo, la responsabilità diretta delle “toghe” è esclusa: la causa va intentata contro lo Stato che solo successivamente potrà rivalersi sul magistrato per un massimo di un terzo del suo stipendio annuo. Inoltre, la rivalsa è consentita solo nei casi di errori commessi per dolo o per colpa grave. Le maglie dell’ammissibilità dei ricorsi sono poi così strette che si contano sulle dita di una mano le condanne di magistrati per responsabilità civile. In 25 anni sono state promosse 400 cause, ma solo 4 (pari all’1%) sono state accolte. Troppo poche, senza dubbio. E nell’anomalia tutta italiana di una giustizia che non funziona e di cittadini che inutilmente chiedono di essere risarciti, hanno recentemente trovato un varco proposte di legge targate Pdl o Lega per far sì che la chiamata in causa sia diretta. Proposte mai passate. E che il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, teme possano essere reiterate se, di fronte alla nuova procedura di infrazione avviata da Bruxelles contro l’Italia, si affretta a precisare che l’Europa non chiede la chiamata in causa diretta del magistrato ma, anzi, “conferma che nei confronti del cittadino l’unico responsabile è lo Stato”. Il Giudice Pinatto Nel caso delle sanzioni disciplinare, invece, i numeri disegnano un quadro diverso. Da quando nel 2006 l’allora Guardasigilli Roberto Castelli ha dato una stretta agli illeciti commessi dalle toghe, a Palazzo dei Marescialli hanno avuto un gran da fare. È vero che si tratta pur sempre di una giustizia “domestica”, con magistrati che giudicano altri colleghi, ma i dati parlano di un aumento considerevole del numero di procedimenti trattati: da una media di 110-120 all’anno nel 2007 si è passati ai circa 200 a fine 2012. Su 342 fascicoli disciplinari definiti tra il primo settembre 2010 e il 31 dicembre del 2012, il 50% si è concluso con una condanna (dall’ ammonimento, alla censura, fino alla rimozione). Il caso più eclatante di destituzione è quello di Edi Pinatto: otto anni per scrivere la motivazione della sentenza con cui il tribunale di Gela aveva condannato sette componenti del clan Madonia, determinando per diversi di loro la scarcerazione. Via la toga, per sempre, anche per il giudice Rosanna Pucci della Corte di Appello di Roma, perché non si possono impiegare fino a 1.800 giorni per depositare una sentenza. Per non parlare, poi, delle “toghe” implicate in procedimenti penali, come il Tribunale civile di Bari, Michele Salvatore, condannato per concussione e di recente messo fuori dalla magistratura. Giustizia: Cassazione; sì a telefonate tra detenuto e avvocato oltre il limite, se urgenti Agi, 26 settembre 2013 Il direttore di un carcere può “autorizzare i detenuti a effettuare conversazioni telefoniche con i propri difensori al di là dei limiti numerici indicati, sempre che il detenuto rappresenti, anche sommariamente, motivi di urgenza o di particolare rilevanza”. A sottolinearlo è la prima sezione penale della Cassazione, accogliendo un ricorso presentato dal ministero della Giustizia contro una decisione del magistrato di sorveglianza dell’Aquila. Il magistrato di sorveglianza aveva accolto il ricorso di un detenuto riconoscendogli il diritto di “effettuare colloqui telefonici con il proprio difensore senza le limitazioni al numero di colloqui” previste nel regolamento penitenziario. Secondo il magistrato abruzzese, “non compete all’Amministrazione alcun potere di valutazione discrezionale della richiesta di colloqui telefonici con il difensore”, che devono essere consentiti “a semplice richiesta”. Di tutt’altro parere i giudici della Suprema Corte, secondo i quali le conversazioni telefoniche tra detenuto e avvocato “impegnano inevitabilmente per il loro svolgimento scelte di gestione tecnica degli impianti, di cui l’Amministrazione penitenziaria non può non farsi carico attraverso appositi provvedimenti autorizzatori”. Dunque, si legge nella sentenza depositata oggi in Cassazione, “l’esercizio del diritto di corrispondenza telefonica con il difensore deve necessariamente trovare un contemperamento nelle esigenze di tutela della collettività esprimibile con l’esercizio di un potere di controllo da parte degli organi preposti su soggetti condannati, senza che sia prospettabile - concludono i giudici di piazza Cavour - il pericolo di nocumento alle strategie difensive del condannato, a cui è fatto carico unicamente di una concisa e sintetica indicazione delle ragioni sottese alla richiesta di colloquio, neanche oggetto di comunicazione all’autorità giudiziaria, e non anche dei dettagli delle scelte difensive da fare o valutare unicamente al difensore”. Il magistrato di sorveglianza dell’Aquila, sulla base del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, dovrà riesaminare il caso. Giustizia: femminicidio, donne salvate… “così la legge ha fermato il mio stalker” di Fabio Tonacci La Repubblica, 26 settembre 2013 Storie di sopravvissute. Di incubi interrotti. Per ora. Sono 51 le donne perseguitate che grazie al decreto dell’agosto scorso hanno visto arrestare i loro carnefici. Ma l’approvazione del testo in Parlamento è a rischio. Una corsa contro il tempo. E quegli uomini potrebbero tornare liberi. Ricominciando le violenze. Ci sono 51 donne salvate, almeno per ora, dal decreto legge sul femminicidio. E ci sono 51 potenziali carnefici, in carcere o ai domiciliari, che rischiano di uscire per finire quello che avevano iniziato. Perché quel decreto varato dal Consiglio dei ministri l’8 agosto, che prevede per i reati di stalking l’arresto obbligatorio in flagranza (prima era facoltativo), l’allontanamento d’urgenza e l’irrevocabilità della querela, potrebbe non diventare mai legge. Il testo è in discussione alla Camera nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia, zavorrato da 414 proposte di modifica, piovute da destra e da sinistra. “Punta troppo sui provvedimenti punitivi e poco sul sostegno alle vittime”, dicono i critici. “E non poter revocare la querela scoraggerà le denunce”. Arriverà in aula la settimana prossima, poi il passaggio al Senato per l’approvazione definitiva entro il 15 ottobre. Tempi strettissimi, forse troppo. E però quel decreto, sicuramente perfettibile, un risultato l’ha prodotto. Da quando è entrato in vigore, il 17 agosto scorso, sono stati arrestati in flagranza 51 uomini. Sorpresi e ammanettati mentre erano aggrappati al balcone della casa della ex, nascosti sotto il letto con un coltello da sub in mano (è successo ad agosto a Marina di Ravenna), davanti a una stazione dei carabinieri mentre cercavano di impedire alla loro vittima di sporgere denuncia. DOINA LA PRIMA - Doina non era nemmeno a casa quando il suo ex marito, 43 anni, disoccupato, albanese come lei ma di 7 anni più grande, si era di nuovo avvicinato troppo. Fino a un anno fa vivevano insieme, a Tortona. “Poi ci siamo lasciati - racconta - lui troppo possessivo. Ma non riusciva ad accettarlo. Prima ha cominciato a minacciarmi, poi le percosse, le vessazioni psicologiche, la macchina rigata e danneggiata con lo zucchero nel serbatoio. Alla fine l’ho querelato, anche perché volevo difendere i nostri due figli piccoli”. Ecco, i figli. Erano nella casa di un parente di Doina, accuditi da due amici, la sera del 19 agosto quando di nuovo lui è apparso, infischiandosene del divieto di avvicinamento. Ai suoi occhi, i due erano estranei che non avevano il diritto di stare dove stavano. La rabbia sale, comincia a urlare, aspetta il rientro di Doina. “Ma per fortuna i miei amici hanno chiamato i carabinieri, che lo hanno trovato ed arrestato”. Ora è in carcere, ad Alessandria, in attesa del processo. Uno dei pochi casi in cui la detenzione in prigione non è durata solo pochi giorni, l’arco di una speranza. Ma che succederà se il decreto non venisse convertito in legge? “Beh - ragiona Maria Carla Bocchino, primo dirigente del Servizio Centrale Operativo della Polizia - è chiaro che ogni avvocato proverà a chiedere la scarcerazione. Ma non è detto che il gip la conceda”. Marta e Tosca, coraggio e disillusione Marta amava un uomo che non esisteva. Non era un padre single, non aveva avuto una figlia con una modella straniera che lo aveva lasciato, nemmeno viveva a Bologna, come invece recitava la storiella che le aveva servito per due lunghi anni. Figuriamoci se le aveva detto di quel cellulare segreto che teneva sopra la credenza. “Ho scoperto i suoi tradimenti per caso, ritrovando il telefonino e decine di messaggi di donne sconosciute - dice Marta, 51 anni, un lavoro e una casa sulla riviera romagnola - l’ho lasciato, ma lui non l’accettava. Un anno fa sono partite le molestie, le telefonate ossessive, le minacce. Io non ci potevo credere, avevo dormito con lui per due anni e non aveva mai alzato un dito”. E invece Marta una mattina si ritrova con la faccia sull’asfalto, perché il “suo” Marco, 45 anni, l’aveva spinta dalla macchina in corsa. Epilogo dell’ennesimo vano tentativo di convincerla a rimettersi con lui. “Sono andata dai vigili urbani e nemmeno mi hanno dato ascolto - racconta - mi dicevano di aspettare a fare la denuncia, di pensare alla ditta che aveva, che lo potevo rovinare. Cose così”. Fino all’ultimo sfregio, ai primi di settembre. Un topo sgozzato lasciato sullo zerbino di casa. Un messaggio che non aveva bisogno di didascalie. “Il coraggio di denunciarlo l’ho avuto solo dopo aver letto cosa prevedeva il nuovo decreto. Mi ha fatto sentire tutelata”. Qualcuna lo è davvero. Ma non tutte. “Non voglio raccontare proprio niente”, urla al telefono Tosca, da Ventimiglia. La sua disgrazia non è ancora finita, ha solo trovato una tregua momentanea il 9 settembre, quando l’ex compagno, manovale di 60 anni, è stato trascinato via di peso dai carabinieri mentre ubriaco distruggeva a calci l’auto di lei. Arrestato in flagranza, dopo una sfilza di denunce che non avevano portato a niente. “Ma che tutelata? Quello tra un mese esce e io faccio la fine delle altre...”, dice, prima che il suono metallico della linea che cade segnala che la conversazione è finita. È vero? Punti deboli e punti di forza “Con il decreto svuota-carceri - spiega ancora Maria Carla Bocchino - la custodia in cella in effetti si traduce spesso nei domiciliari. E anche l’allontanamento d’urgenza del presunto stalker da casa sconta il fatto che nessuno poi riesce a controllare che sia rispettato”. Dunque? “Il decreto rimane uno strumento validissimo. L’irrevocabilità della querela, ad esempio, impedisce che poi la vittima, sotto minaccia, ci ripensi. Si sono anche accelerati i tempi della giustizia. Perché ora l’atto persecutorio viene trattato dai magistrati con la priorità dei reati di mafia, terrorismo e omicidio”. Carla, di San Martino Sannita, 31 anni, queste cose non le sa. Nemmeno le interessa. Troppo impegnata ad arrabattarsi con la vita, tra un lavoro precario e un ex marito che le ha torturato la mente negli ultimi tre anni, dal giorno in cui si sono separati. “Nemmeno la mia famiglia mi credeva quando raccontavo loro di cosa era capace quell’uomo”, ha detto ai poliziotti a cui alla fine, quest’estate, si è rivolta. “Mi ha picchiato pure durante una festa di paese e nessuno dei presenti fece qualcosa per fermarlo”. Lui alcolizzato, disoccupato, violento. Carla ignora che è anche grazie a quel decreto legge che il 13 settembre la polizia lo ha arrestato. Con un coltello a molletta nascosto nei calzini, si era fiondato sotto casa. L’ha bloccata in strada e l’ha minacciata di morte, con lo stesso coltello con cui le aveva rigato la macchina. Poi si era calmato, grazie all’intervento della sorella di Carla. Senza l’arresto obbligatorio previsto dal decreto, forse i poliziotti non sarebbero andati fino a casa sua per arrestarlo. È salva, per ora. All’Onu il premier Enrico Letta dice che “il rispetto dei diritti umani è fondamentale, la nostra attenzione va ai più deboli, alle donne, ai bambini”. Ma il persecutore di Carla in carcere c’è stato appena tre giorni. Ora è ai domiciliari. E nessuno vigilerà. Giustizia: serve una legge non securitaria contro il femminicidio di Luisa Betti Il Manifesto, 26 settembre 2013 Le Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali iniziano alla Camera l’esame dei 400 emendamenti. Giovani donne ieri in piazza Montecitorio si sono ritrovate per una performance chiamata “1522 Installazione”. Un progetto Miur patrocinato dalla Camera dei deputati, Comune di Roma e Cpo Stampa Romana, rappresentato come “la via crucis della violenza, declinata in tutte le sue forme”. Un migliaio di studenti romani che indossavano la maglietta con la scritta “io rispetto”, mentre le ragazze avevano la scritta, “io valgo”. Iniziativa e lo spettacolo si sono svolti nel giorno in cui è iniziata la discussione del Dl femminicidio nelle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali, con circa 400 emendamenti presentati per modificare il tanto discusso testo. Commissione che inizia i suoi lavori con gli occhi puntati addosso e dopo il fuoco di fila della società civile che in tutti i modi ha cercato di suggerire una profonda revisione, a partire dallo scorporo delle normative che riguardano la violenza contro le donne dal pacchetto sicurezza. Nel testo sono infatti contenuti punti che non c’entrano niente con il femminicidio. Molte associazioni hanno sollecitato la soppressione degli articoli 2 e 3, modifiche profonde agli articoli 3 e 4. Chiedono di inserire un chiaro impegno sui finanziamenti all’articolo 5 perché non si tratta di un “piano straordinario”, ma del “Piano antiviolenza nazionale” già in vigore (scade a novembre). Le “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”, non è andata giù a molte e la stessa viceministra Cecilia Guerra, con delega alle Pari opportunità, si è aperta a un confronto sulle modifiche di questo decreto, rendendosi conto delle incongruenze. Ne ricordiamo alcune: gli obblighi di informazione della vittima nel processo penale per il maltrattamento già introdotti dalla direttiva europea 29 del 2012 come spettanti a tutte le vittime di reato doloso per tutto il processo penale (un restringimento della stessa direttiva europea già accolta dal nostro Paese il 20 agosto); la definizione di violenza domestica come fenomeno “non episodico” con un passaggio in chiara contraddizione con la Convenzione di Istanbul che invece ne definisce i termini in maniera più ampia e realistica. Il lavoro sul testo inziale si preannuncia lungo e faticoso. La presidenza della commissione ha chiesto di spostare l’approdo del decreto in aula al 2 ottobre (discussione che era invece prevista per oggi), data la mole degli emendamenti. Un ritardo che mette a rischio la conversione in legge, stabilita entro il 15 ottobre, e che potrebbe far arrivare al Senato un testo su cui si possa imporre la fiducia, al di là del prodotto che uscirà emendato dalla commissione e quindi dalla Camera. Titti Di Salvo (deputata Sel) chiede di modificare profondamente il testo alla Camera. Diversamente non potrà essere licenziato. Il suo gruppo ha presentato “emendamenti con cui ci assumiamo responsabilità pubblica di fare una battaglia su questo decreto, chiedendo conto di una presa di coscienza e responsabilità di tutti, anche chi pensa che la parte securitaria deve essere fatta”. Nello specifico, si discute ferocemente sulla irrevocabilità della querela. Su questo anche nel Pd ci sono posizioni contrastanti. Dimostrando una certa indipendenza, Michela Marzano (deputata Pd), con altre parlamentari del suo gruppo e insieme anche a Pia Locatelli (Gruppo misto), hanno presentato emendamenti cercando una modifica profonda, compreso quello sulla revoca della querela, fondamentale per molta parte di quella società civile che sostiene l’autodeterminazione delle donne. Chi tra queste sceglie di non denunciare, o di ritirare la denuncia, non la fa perché tornano suoi loro passi. Lo fanno perché non si sentono adeguatamente tutelate e sostenute nel loro accesso alla giustizia. “L’intenzione - dice Marzano - è quella di mettere sullo stesso piano la violenza sessuale con lo stalking, e farlo con un approccio paternalistico che non tutela affatto le donne. È ormai chiaro che la violenza contro le donne si deve affrontare con un taglio ampio, finanziando i centri antiviolenza e puntando sull’educazione fin da piccoli, perché sono le relazioni umane che devono cambiare”. Un emendamento che ha riscosso un successo trasversale tra Pd, Sel e M5s. Interviene Barbara Spinelli, avvocata dei Giuristi democratici: “In una parte del Pd, Sel e M5s, c’è stato uno sforzo notevole di far entrare in aula quanto le associazioni hanno osservato durante le audizioni, introducendo numerosi emendamenti suggeriti da noi e sottoposti alla loro attenzione - ha affermato. La maggior parte di questi emendamenti tenta di rendere costituzionalmente accettabili gli articoli 2 e 3, rendendo conforme il testo legislativo alla Convenzione di Istanbul, come quelli in cui si cerca di sganciare il rilascio del permesso di soggiorno alle donne straniere che hanno subito violenza dall’esistenza di gravi e attuali pregiudizi per l’incolumità psicofisica. E se da un lato va elogiato questo dialogo tra parlamentari e donne impegnate sul campo, per trasformare un provvedimento malfatto e figlio dell’emergenza, dall’altro, allarmano molti degli emendamenti proposti da Binetti fatti come se la Convenzione di Istanbul non fosse ancora stata ratificata: tanto da voler reintrodurre anche nei casi di violenza, la mediazione familiare e le ipotesi di giustizia riparativa”. L’articolo 48 della Convenzione di Istanbul vieta i tentativi di mediazione in tutti i casi di violenza domestica. A livello internazionale è noto che questa è una pratica rivittimizzante e lesiva dei diritti delle donne: un passo che ci riporterebbe indietro nel tempo. “Qui - continua Spinelli - è evidente l’idea che le donne sono considerate soggetti deboli, che lo Stato si fa carico di scovare le vittime di violenza grazie alle segnalazioni degli operatori sanitari, sociali e delle forze dell’ordine, e che voglia tutelarle andando a prelevare i violenti, e con gli emendamenti di Binetti si conclude il passaggio proponendo la mediazione familiare, prima ancora dell’accoglienza. Questa idea è frutto di una lettura ideologica della violenza maschile sulle donne, ben lontana dai principi che ispirano la Convenzione di Istanbul, che riconoscono nella donna che ha subito violenza non una vittima-soggetto debole da tutelare, obbligandola a prendere parte a un processo penale o a essere seguita dai servizi sociali, ma un soggetto vulnerabilizzato dalla violenza subita, dalla lesione dei suoi diritti fondamentali, per primo quello all’integrità psicofisica, che lo Stato ha l’obbligo di informare sui suoi diritti, sulle strutture presenti sul territorio dove può trovare supporto e aiuto”. La strada da fare è ancora molta. Sono in molti ad auspicare che la maggior parte delle e dei parlamentari in Commissione si assuma la responsabilità di votare gli emendamenti migliorativi e conformi principi della Convenzione di Istanbul. In questa baraonda di aggiustamenti, solo il M5S ha presentato la richiesta di soppressione del Capo I del Dl, ovvero di tutto quello che riguarda la violenza contro le donne. Non bisogna accettare l’inserimento del femminicidio in un contesto securitario. Giustizia: Fedeli (Pd); stupro di guerra, nessuna amnistia per questi reati Il Velino, 26 settembre 2013 “Oggi è stata approvata in Senato la mozione unitaria di tutti i Gruppi parlamentari, di cui sono prima firmataria, affinché lo stupro nei conflitti venga riconosciuto come crimine di guerra e siano messi in atto provvedimenti necessari a prevenire e reprimere tale forma di violenza”. Lo afferma la Vice Presidente del Senato Valeria Fedeli che aggiunge: “Un impegno su cui il Senato sta dimostrando grande unità. Si tratta di un delitto tra i più feroci poiché attenta alla dignità umana, una vera e propria strategia militare - prosegue Fedeli. È il momento che il governo si impegni ad agire in modo che i suoi sforzi diano forza a quelli della Nazioni Unite, degli organismi multilaterali e della società civile nell’attuazione di un piano di contrasto già delineato dall’intesa del G8. È importante che l’Assemblea Generale dell’Onu intervenga eliminando negli accordi di pace ogni ipotesi di amnistia per questi reati”. E conclude: “Dobbiamo restituire alle donne le condizioni per esprimere la propria forza e libertà, salvaguardare la propria dignità ed integrità di persona, anche durante i conflitti garantendo loro giustizia. Perché senza giustizia non c’è pace”. Giustizia: il parlamentare Ue Gianni Vattimo e due No Tav indagati per visita a detenuto Adnkronos, 26 settembre 2013 Lo scorso 15 agosto l’euro parlamenteare aveva fatto visita a un No Tav in carcere accompagnato da due esponenti del movimento che si erano qualificati come “consulenti”. Le accuse per il filosofo e i suoi due accompagnatori sono di concorso in falso ideologico ed errore determinato dall’altrui inganno. L’europarlamentare Gianni Vattimo è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Torino per falso ideologico. Il filosofo lo scorso 15 agosto aveva fatto visita a un No Tav in carcere accompagnato da due esponenti del movimento No Tav, Nicoletta Dosio e Luca Abbà (il militante fulminato e caduto da un traliccio durante una protesta nel febbraio 2012 ndr), che si erano qualificati come consulenti. Circostanza che i pm Andrea Padalino e Antonio Rinaudo avevano voluto approfondire sentendo i tre come persone informate sui fatti qualche settimana fa. Ora le accuse per il filosofo e i suoi due accompagnatori sono di concorso in falso ideologico ed errore determinato dall’altrui inganno. Trieste: “Due ali e via, dai miei figli”… le detenute si raccontano di Giulia Basso Il Piccolo, 26 settembre 2013 Incontro conclusivo del laboratorio di “scrittura parlata” tenuto da Pino Roveredo nella sezione femminile del Coroneo: vissuto, ansie e timori allo scoperto. “Vorrei avere le ali per uscire di qui perché dentro di me il più bell’amore mi chiama: i miei figli. Potrei immaginare di volare via da quest’inferno ma mi mancano le ali per poter volare”. Racconta così la sua reclusione una delle detenute che hanno partecipato al laboratorio di scrittura parlata “I sussurri di via Nizza”, che si è tenuto a partire dallo scorso maggio nella sezione femminile del carcere di Trieste con un insegnante d’eccezione, Pino Roveredo. Curato dalla cooperativa sociale Reset e realizzato nell’ambito del progetto di contrasto all’esclusione Re.Act. (Acting for Reintegration) finanziato dal Comune con la collaborazione di Provincia e Regione, il laboratorio si è concluso ieri con la lettura di una selezione di scritti delle detenute che vi hanno partecipato, lettura curata da loro stesse accompagnate da una chitarra e dalla voce di Pino Roveredo. “I sussurri di via Nizza” (che è l’antico nome di via del Coroneo) sono le voci raccolte durante il laboratorio che, spiega Roveredo, “per la prima volta ha coinvolto la sezione femminile del carcere. È stato un corso un po’ movimentato, per la tanta passione ho avuto anche un infarto - prosegue lo scrittore - ma ci abbiamo guadagnato tutti tante emozioni. Il corso ha coinvolto molte donne: c’è chi ha lasciato poche righe, chi tante di più, chi soltanto un silenzio”. Per tutte il laboratorio è stato un modo per raccontare il proprio vissuto, per provare a immaginare un futuro tra mille timori, per svelare le proprie sensazioni, per sfogarsi. Nei brani prodotti durante il laboratorio, ora riuniti in una piccola pubblicazione, si raccontano passati difficili, storie di droga e di alcolismo; si parla degli affetti lontani che per le donne sono in primis i figli (ne “La leonessa ferita” Amalia scrive: “Qualcosa di stupendo l’ho fatto, sono mamma di due bambini bellissimi”); si descrive la vita carceraria, lo scorrere infinito delle ore dentro le celle, gli interrogativi sul futuro. “Le statistiche - così Roveredo - dicono che il 75% della popolazione carceraria tornerà a delinquere. Io sono stato un detenuto e continuo a esserlo: si continua a esserlo per sempre, lo sbaglio ti condanna al marchio. Allora fui additato come persona irrecuperabile, ma se credessimo di più nella riabilitazione e avessimo più fogli bianchi da far riempire a queste persone otterremmo senz’altro risultati migliori”. Soddisfazione per il progetto è stata espressa dagli assessori Laura Famulari e Adele Pino, presenti alla lettura, e dal nuovo direttore del carcere Ottavio Casarano, che ha ringraziato per l’impegno Roveredo e la cooperativa, la polizia penitenziaria e gli enti locali: “La grande vicinanza degli enti locali a Trieste - ha detto Casarano - ci permette di usufruire di agevolazioni per svolgere iniziative come questa. L’auspicio è di continuare così. Mi è stato anche chiesto di apportare qualche modifica per rendere più vivibile la sezione femminile e favorire i momenti di socialità: faremo il possibile”. E Roveredo ricorda quanto successo nel 1999, quando il suo atto unico “La bella vita”, cronaca di una giornata in carcere, fu rappresentato dai detenuti al politeama Rossetti, gremito di pubblico. “Riuscire anche questa volta a portare le voci fuori dal carcere per noi sarebbe una grande conquista”. Trieste: quelle lunghe giornate scandite da mille “se” perduti nell’inutilità di Pino Roveredo Il Piccolo, 26 settembre 2013 Il carcere di Trieste, o meglio la Casa circondariale di via del Coroneo, è ubicata in centro città, proprio come se fosse un palazzo da esibire, cinquanta metri per passeggiare, le pisciate dei cani da liberare, o tutt’al più una precauzione messa lì per rassicurare la paura della gente. Spesso ci si passa accanto senza neanche alzare lo sguardo, ascoltare il rumore, quasi fosse un condominio da confondere con la normalità, e le finestre sbarrate, i portoni di ferro, i lampeggianti degli accessi diventano piccoli particolari che si perdono nell’abitudine senza poi riuscire a dare forma e motivo all’importanza di un distinguo. Pesante distinguo, perché è proprio da quel palazzo che iniziano e si consumano le storie dei condannati. La prima volta che si entra in carcere si abbassa la testa per pagare il dazio con la vergogna, e si affrontano gli scalini dell’entrata come fosse la fatica di una montagna. Poi si va incontro alla prassi umiliante delle flessioni, delle ispezioni corporali, quindi le foto di profilo, il rullo d’inchiostro sulle dita, e la rassegnazione di dover consegnare la propria vita fino a espiazione della pena. Questo la prima volta. Poi ci sono quelli che si ostinano a replicare il reato (e sono tanti), e allora lì è facile che le entrate si scordino di frequentare la vergogna, affrontino gli scalini con la dolcezza della pianura, e trattino palpeggiamenti, ispezioni, foto e impronte come fosse la pratica di una normale burocrazia. Il carcere, culturalmente, è maschio, e difficilmente quel luogo di restrizione si abbina alla figura femminile, eppure anche per le donne c’è la giustizia del castigo, e la fatica della condanna... Io ho visitato alcune carceri femminili. Ricordo quello di San Vittore, quello di Venezia, dove ci sono anche i bambini figli delle detenute, che possono stare insieme alle loro madri fino all’età di tre anni, poi a tre anni e un minuto vengono separati dal genitore e poi fatti attendere in qualche “affido” o Istituto che una libertà gli riconsegni il diritto di una convivenza. Sono stato anche nel carcere di Trieste, e come per gli altri luoghi, appena entrato mi sono sorpreso gli occhi e disturbato l’umore. Non ci sono contesse, dottoresse, manager o imprenditrici nella sezione femminile del carcere di Trieste, ma solo donne che appartengono alle fasce sociali più fragili, e molte sono nate e vivono nei sottoscala della condizione. Non hanno nome, non hanno un’età, non hanno storie le detenute, e si portano dietro solo un silenzio dove far girare un’ipotesi. Chi più di cinquant’anni di età, chi quaranta, e chi con l’assurdo di un’età che deve ancora vivere. Chi un borseggio, chi la recidiva di un furto, e chi, la maggior parte, ha provato a salvarsi dai colpi mortali della delusione con l’uso, spaccio delle sostanze, o meglio di quella brutta, maledetta, infame e merda di droga! Tutte donne, persone, ragazze, che girano dentro un castigo buono di stimolare la rabbia in corpo, e assolutamente incapace di sollevare una riflessione, odi spingere una decisione nell’imbocco di una guarigione. Nelle sezioni femminili, i dialoghi iniziano con la discrezione del sussurro, e solo col tempo raggiungono la confidenza dell’urlo. Qual è il momento peggiore della giornata? La mattina, perché realizzi che è arrivata un’altra giornata da pagare. A tavola, perché tutte cerchiamo un momento familiare che non troviamo. E poi la notte, con l’insonnia e tutto un esercito di ricordi, pensieri, che vanno, colpiscono, uccidono. Insomma, il momento peggiore dura tutto il giorno. Ti ricordi la prima volta in carcere? Ero smarrita, persa, vuota, terrorizzata. Era estate e ricordo i brividi di freddo, e poi le lacrime, tante lacrime per quello che avevo lasciato fuori. Adesso è passata e quel terrore l’abbiamo passato alle esordienti. Se tornassi indietro? Senti, tu la conosci la storia dei “se”. Se fossi, se andassi, se avessi... erano soltanto che tre fessi! Perciò, lascia perdere, che non è cosa. Eccoli i sussurri da un carcere femminile, dove il castigo spesso non riabilita, e la rabbia diventa malattia. Trieste: seconda edizione del “Bibliopride”, nell’ex cella una biblioteca con 7mila volumi di Roberto Carnero Il Piccolo, 26 settembre 2013 Ha un ruolo importante Trieste quest’anno, nella seconda edizione del “Bibliopride”, l’iniziativa dell’”orgoglio bibliotecario” il cui programma verrà presentato oggi a Roma alla Biblioteca della Camera dei Deputati. Una serie di eventi di rilievo nazionale, in calendario dal 27 settembre al 5 ottobre, in cui le biblioteche d’Italia scenderanno in piazza. Eventi che culmineranno, sabato 5 ottobre, con la “Giornata nazionale delle biblioteche”, con una grande festa a Piazza Santa Croce a Firenze, e che pone l’accento anche sull’istituzione delle biblioteche nelle carceri, quelle di Trieste avanti tutte. Il Bibliopride, infatti, vuole richiamare l’attenzione sulle biblioteche quali punti di riferimento fondamentali per la crescita culturale di ogni società civile, per fare riscoprire alle persone dei luoghi che sono l’esatto contrario dei cosiddetti “non-luoghi”: ogni biblioteca ha una sua storia, è un deposito di memoria collettiva, è un crocevia di incontri, è un posto di formazione e di socializzazione. Perciò investire nelle biblioteche significa investire nello sviluppo e nello stesso tempo combattere l’illegalità, perché la cultura rappresenta un’alternativa al degrado. Non è dunque un caso che proprio nei giorni scorsi sia stato firmato all’Asinara il protocollo di promozione dei servizi bibliotecari negli istituti di pena. Un documento - sottoscritto dal Ministero di Grazia e Giustizia, da Regioni, Province e Comuni, nonché dall’Associazione Italiana Biblioteche (Aib) - volto a rendere più agevole a tutti i detenuti l’accesso ai libri e alla lettura. Nell’ambito del Bibliopride 2013, il 5 ottobre a Firenze, verrà presentato il volume, pubblicato dall’Aib “Il bibliotecario carcerario: una nuova professione?”, che raccoglie gli atti di un convegno celebratosi a Milano lo scorso 31 gennaio. Tra gli interventi presenti nel volume, compare quello della triestina Tiziana Giannotti, che lavora alla Biblioteca dei Civici Musei di storia ed arte di Trieste e che racconta la nascita della biblioteca della Casa Circondariale del Coroneo. “Le biblioteche carcerarie - spiega Tiziana Giannotti - come le biblioteche degli ospedali o delle case di riposo, offrono servizi bibliotecari a utenze speciali, a quegli utenti che, per motivi diversi, non possono raggiungere le biblioteche e che per questo, in qualche modo, devono essere raggiunti dalle biblioteche stesse”. Ma come è nata l’iniziativa triestina? “La mia esperienza con il mondo carcerario - risponde - è iniziata qualche anno fa. La Casa circondariale non aveva fondi da dedicare a questo servizio; perciò, per mettere assieme una raccolta che non fosse un ammasso di scarti di magazzini e soffitte, coinvolsi i miei colleghi bibliotecari ed inviai delle richieste alle ambasciate straniere, per venire incontro anche alle esigenze dei detenuti non italofoni. Ci fu una bella collaborazione e questo passaparola funziona ancora oggi. Nel frattempo, avuti i permessi necessari, sono andata in carcere per verificare se ci fossero spazi da poter utilizzare per una piccola biblioteca. Un’ex cella detentiva è stata svuotata dei vari materiali inutilizzabili che stanziavano in attesa di essere portati al macero, pulita, dipinta e sono stati sistemati degli scaffali. Oggi il patrimonio librario della biblioteca della Casa Circondariale di Trieste si aggira sui 7mila volumi, che ogni tanto sono rinnovati con nuove donazioni”. Cagliari: Caligaris (Sdr); dopo anni di ritardi, si lavora anche di notte per ultimare Uta Ansa, 26 settembre 2013 “Dopo anni di ritardi, contenziosi con l’impresa appaltatrice, lotte degli operai per ottenere i salari e nessun collegamento, nonostante le sollecitazioni, con gli Enti Territoriali, ora si lavora anche di notte per ultimare il “Villaggio Penitenziario” di Cagliari-Uta. La fretta però non è sempre una buona consigliera”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che “è stata predisposta l’illuminazione notturna dell’imponente complesso anche per consentire di concludere, almeno parzialmente, i lavori in modo da rispettare l’impegno assunto dal Ministero delle Infrastrutture con quello della Giustizia per la consegna dell’opera entro il 13 ottobre prossimo.Si tratta tuttavia di una scadenza che non può coincidere con l’inaugurazione”. “Alcune strutture infatti non potranno essere allestite per quella data. Basti pensare - sottolinea Caligaris - al Centro Clinico la cui operatività è strettamente connessa alla disponibilità di attrezzature diagnostiche e medicali per le quali la Asl 8 dovrà indire un bando. Ci sono inoltre da ultimare gli alloggi e la sala mensa con le annesse cucine per gli Agenti della Polizia Penitenziaria. Cosa necessaria ma trascurata finora, il coinvolgimento degli Enti Territoriali. Un indispensabile percorso per assicurare i collegamenti, i servizi di accoglienza per i familiari dei detenuti e per le decine di operatori dei diversi settori che quotidianamente frequentano le strutture penitenziarie”. “C’è infine da definire il sistema delle infrastrutturazioni primarie indispensabile per un corretto funzionamento della mega struttura che ospiterà a regime oltre un migliaio di persone. L’auspicio - conclude la presidente di SDR - è che nei Padiglioni del Villaggio Penitenziario di Uta non si verifichino i gravi disservizi che hanno caratterizzato le nuove carceri di Oristano-Massama e Sassari-Bancali”. Lucca: la Commissione Sociale visita il carcere S. Giorgio “condizioni in miglioramento” www.luccaindiretta.it, 26 settembre 2013 Le difficoltà non mancano ma le condizioni all’interno del carcere di San Giorgio sono in via di miglioramento. Questo è quanto ha affermato il direttore del carcere, Francesco Ruello, durante il sopralluogo alla struttura effettuato martedì scorso dalla commissione sociale. Un sopralluogo in cui sono state evidenziate potenzialità e criticità dell’edificio carcerario in pieno centro storico a Lucca dove al momento sono rinchiuso 160 detenuti laddove la capienza sarebbe di 113 e quella “tollerabile” di 140. La novità principale degli ultimi tempi sono le manutenzioni straordinarie effettuate che hanno permesso di riaprire una sezione prima non utilizzabile, di ristrutturare le docce, di creare una stanza per la socialità dei detenuti negli orari in cui sono fuori dalle celle e di aprire un’area per i detenuti in semilibertà laddove era la ex sezione femminile. Inoltre sono nate una sezione con vigilanza attenuata per 16 persone e un refettorio dove è possibile cucinare autonomamente da parte di alcuni detenuti. Detenuti che possono, intanto, continuare a svolgere attività e corsi di formazione: dalla cucina, al giardinaggio, al teatro, all’alfabetizzazione per stranieri. In estate è stato anche attivato un corso di formazione professionale. Le attività interne al carcere sono a cura del Gruppo Volontari Assistenza Carcere e dell’associazione Altro Diritto. Rimane critica, invece, la situazione del personale. Al carcere di San Giorgio lavorano 94 agenti sui 125 in pianta organica e mancano soprattutto i ruoli di soprintendente e ispettore. Salerno: agente del carcere di Fuorni ruba soldi e beni di valore ai detenuti, arrestato www.salernonotizie.it, 26 settembre 2013 Un agente penitenziario è stato scoperto a derubare i beni sequestrati ai detenuti appena venivano introdotti nel carcere. È successo presso la casa circondariale di Fuorni a Salerno dove, G.P., 44 anni residente a Montoro Inferiore e addetto alle registrazioni degli arrestati, frugava i beni di valore dei neo detenuti. Dopo una lunga e minuziosa indagine interna veniva constatato che l’ uomo una volta in possesso degli oggetti personali non li registrava a verbale facendoli poi sparire. Il caso eclatante si è avuto nei confronti di un detenuto condannato per l’inchiesta “Due Torri” che era entrato in carcere con mille euro in contanti. Ma l’agente ne aveva registrati soltanto cento. Gli altri novecento erano finiti nel suo portafogli. Ora l’uomo si ritrova rinchiuso nello stesso carcere dove prestava servizio. Carceri: Uil-Pa; a Marassi detenuto ferisce 5 agenti con olio bollente e poi tenta il suicidio Adnkronos, 26 settembre 2013 Un detenuto 25enne di origine marocchina nel carcere genovese di Marassi ha ferito con olio bollente 5 agenti e ha poi tentato il suicidio. Lo rende noto Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa Penitenziari. “Il detenuto ha dapprima lanciato olio bollente sul personale della polizia penitenziaria e successivamente ha aggredito alcuni agenti ferendoli a colpi di forchetta - riferisce Sarno. Ai cinque agenti della polizia penitenziaria feriti va il nostro pensiero solidale nella speranza che possano quanto prima ristabilirsi e riprendere l’attività lavorativa”. “Dopo alcuni minuti, quando apparentemente era stata riportata la calma, il detenuto ha improvvisamente tentato di suicidarsi con le lenzuola che aveva attaccato alle grate della finestra della cella del reparto isolamento - continua Sarno. Tentativo sventato grazie al tempestivo intervento degli agenti penitenziari”. “I salvataggi in extremis sono oramai all’ordine del giorno tant’è che dal 1 gennaio ad oggi sono circa 350. E ci riferiamo a tentativi di suicidi reali e non ad azioni dimostrative. Questo è un dato inspiegabilmente sottaciuto dai mass-media e poco considerato anche dalla stessa politica” denuncia Sarno, che sottolinea “la necessità di intervenire a migliorare le condizioni detentive e le condizioni di lavoro all’interno dei penitenziari italiani. Sicuramente il sovrappopolamento delle strutture alimenta le tensioni e le pulsioni e anche per questa ragione - conclude - continueremo a sostenere il progetto della sorveglianza dinamica che ha già sortito effetti positivi laddove applicato”. Torino: poliziotto penitenziario aggredito e picchiato da un detenuto del carcere minorile La Presse, 26 settembre 2013 “Alle 10, al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, nei locali siti al piano terra, dove i minori si recano per svolgere le attività, un detenuto di 17 anni originario del Burkina Faso, in carcere per rapina e resistenza, ha aggredito un agente di polizia penitenziaria afferrandolo e scaraventandolo violentemente contro un termosifone”. È quanto denuncia l’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. “Prosegue il caos del carcere minorile di Torino e prosegue l’assoluta assenza di interventi - dichiara Leo Beneduci, segretario generale Osapp - non già da parte del ministro Cancellieri di cui come polizia penitenziaria non rammentiamo neanche la figura, bensì da parte dei molteplici e strapagati capi dipartimento. La bancarotta della politica penitenziaria per gli adulti e per i minori è alle porte ma purtroppo non saranno i governanti a pagarne le spese bensì i cittadini”. Cagliari: sei detenuti del carcere di Bancali in “gita speciale” per incontrare il Papa di Vannalisa Manca La Nuova Sardegna, 26 settembre 2013 “Mi sono sentita una formica di fronte a un gigante dal viso di grande dolcezza. Non ho potuto trattenere le lacrime. L’emozione è stata immensa per tutti noi, quando ci ha detto. “Qui siamo tutti uguali”: Rosalia, Antonella, Lorenzo, Giuliano e Franco sono i detenuti del carcere di Bancali che domenica scorsa hanno avuto modo di incontrare Papa Francesco nella cattedrale di Nostra Signora di Bonaria a Cagliari. È stata una giornata diversa. Unica e indimenticabile, come raccontano gli stessi protagonisti in poche righe appuntate su un foglio. Il cappellano. A farsi promotore dell’iniziativa del viaggio per la visita del Papa è stato don Gaetano Galia, cappellano del carcere di Bancali, che ha organizzato la speciale “gita domenicale” con un pulmino dell’Associazione di volontariato Salesiano di San Giorgio-Li Punti. Nessun mezzo blindato, quindi, né agenti penitenziari. A bordo sei detenuti in permesso premio (quattro uomini e due donne), suor Giuliana e don Gaetano. Alla comitiva si è unita la direttrice del penitenziario Patrizia Incollu (un gesto che i detenuti hanno fortemente apprezzato), testimoniando ancora di più quell’uguaglianza, pur nella giusta diversità dei ruoli, che il Pontefice ha proclamato con quel “Qui siamo tutti uguali”. Permessi premio. Partenza da Sassari alle 8 e rientro alle 20.30, dopo una giornata premio che resterà negli annali del carcere: “Credo che questa esperienza non debba essere unica - sottolinea però don Gaetano -. Questo è l’esempio lampante che un carcere aperto educa più di un luogo di detenzione repressivo. La repressione incattivisce, la fiducia migliora l’animo umano. Il nuovo carcere di Bancali deve nascere con questi presupposti”. E domenica è stata una giornata “normale” “sembrava la gita di una parrocchia - dice il prete salesiano. In viaggio si è parlato dei problemi del carcere, problemi di fede, battute scherzose, la Juventus, la Torres, lo zimino”. I sei in permesso premio sono detenuti in articolo 21, cioè con l’autorizzazione a uscire per il lavoro, e persone che hanno già dato prova pratica che il percorso carcerario, per loro sta ottenendo buoni risultati. Si lavora sui percorsi alternativi studiati dall’intera area educativa, insieme con la direttrice Incollu e il magistrato di sorveglianza Devito. “Gli occhi misericordiosi del Papa, che non giudicano ma accolgono - dice il cappellano - hanno sfondato il muro di diffidenza verso chi sta più in alto di te, che caratterizza ogni detenuto”. Rosalia. “È stato un momento molto speciale - dice Rosalia, una detenuta di 24 anni - e conservo tutte le parole nel mio cuore. Nessuno aveva mai detto di fronte ai vescovi, al ministro, ai sacerdoti, ai direttori: “Qui siamo tutti uguali!” Quando il Papa mi è passato vicino e gli ho baciato la mano, non ho potuto trattenere le mie lacrime. È stata come una forza sovrumana che non mi ha fatto capire più niente. Non ricordo più cosa gli ho detto. Non potrò scordare mai quel momento e mi dà la forza, nonostante i miei errori, ad andare avanti”. Antonella. “Eravamo circondati da una folla festante, immensa. Dentro la chiesa si percepiva un senso di sacralità, ma non bastava, mancava qualcosa. Nella mia anima inquieta - dice Antonella, 56 anni, sentivo di aver bisogno di qualcosa, che poi è arrivato nel momento stesso in cui il Santo Padre ha fatto il suo ingresso. Volevo sentire le sue mani tra le mie, dovevo sentire la carezza… e così è stato! Il solo stringergliele mi ha fatto sentire una formica davanti a un gigante; il suo viso era tutto una grande dolcezza. L’emozione che ho provato è stata così potente, intensa, che ha scosso le fondamenta del mio essere, mi sono sentita inebriata di sensazioni tenere che mi hanno fatto piangere a dirotto”. E intorno a lei Antonella ha visto volti con le stesse lacrime agli occhi. “Ci siamo abbracciate, con spontanea solidarietà. Le sue parole semplici, mi hanno colpita nel profondo come saette, dandomi forza nella fede, forza nello sperare ancora di più in questa vita, nella vita di una che ha peccato come me e cerca sempre il perdono per il male fatto e cerca di essere una persona migliore. Mai avrei potuto sognare di avere questo grande privilegio, per chi, come me, non può osare tanto nello sperare che accada qualcosa di così unico”. Lorenzo. La giornata per Lorenzo - 60 anni - è stata “un susseguirsi di emozioni, dal viaggio, allegro e fraterno, sino all’incontro col Papa. Toccargli la mano, e ascoltarlo dal vivo ti fa capire sul serio che qualsiasi parola dica, la vive veramente e questo ti fa pensare che anche nella Chiesa molte cose cambieranno, nel senso che la Chiesa dovrà stare più vicino ai poveracci, invece che stare con i ricchi e con i politici!”. “Ho visto uomini abituati alla durezza del carcere - commenta don Gaetano - sciogliersi come mai avevo potuto vedere”. Giuliano. Arrossiva per la vergogna di piangere Giuliano, 45 anni, “ma lì tutti piangevano e la nostra emozione non si è nemmeno notata. Quando si aiutano i più bisognosi, ha detto il Papa, non bisogna umiliarli o approfittarsene. Poi ha chiesto una preghiera per lui. Boh, come faccio io a pregare per lui?”. Franco. “Ajò che ci facciamo una gita!”, aveva commentato Franco - 40 anni - alla proposta del viaggio a Cagliari. “Ma poi vedendo quel movimento ho capito che stavo partecipando a un qualcosa di importante. Quando l’ho incontrato, io che sono molto chiuso, deluso e pessimista sulla mia vita, ho scoperto di avere ancora dentro di me delle emozioni. È’ vero abbiamo sbagliato, però il carcere ti toglie la parte più bella di te: sentire le emozioni”. Milano: i frutti del carcere... da conoscere e acquistare Vita, 26 settembre 2013 Attraverso la vendita di prodotti, incontri, assaggi, presentazioni e informazione sabato 28 settembre a Milano è in programma un’intera giornata per conoscere il mondo del lavoro dalle carceri, dentro e fuori, prima e dopo. Dalle 10 alle 18 alla Cooperativa La Cordata, in via San Vittore 49. L’iniziativa è organizzata dalla cooperativa sociale La Cordata, dal Comitato per Milano Zona 1 e dai Cittadini Solari per Milano. I Frutti del Carcere, questo il nome dell’iniziativa, è il primo evento a Milano per conoscere il mondo del lavoro dei detenuti, per scoprire dove, come e perché acquistare prodotti e servizi provenienti dal mondo carcerario. Mobili, gioielli, accessori, abiti, pane, focacce, fiori e piante, ma anche giardinieri, falegnami, sarti che lavorano per aziende e a domicilio. Prodotti alimentari e artigianali e servizi di alta qualità; si presentano oltre trenta fra laboratori di produzione e cooperative di servizi che ambiscono a confrontarsi - sul mercato - alla pari con i concorrenti “di fuori”. Incontri per conoscere da vicino cosa vuol dire lavorare nelle carceri, e uscire dal carcere per lavorare. Saranno presenti Lucia Castellano, consigliere e vicepresidente della Commissione Regionale delle carceri, Lamberto Bertolè, consigliere e presidente della Sotto-Commissione Carceri comunale, Mirko Mazzali, consigliere e vicepresidente della Sotto-Commissione Carceri comunale, Massimo Parisi, direttore del carcere di Bollate, Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti di Milano, Pietro Raitano, direttore di Altreconomia, Marco Forlani, responsabile area lavoro di CS&L Consorzio Sociale. La Libreria Tadino di Milano e l’Associazione Cuminetti proporranno una selezione di libri di scrittori detenuti invitandone alcuni a presentarli, presentarsi e leggerne qualche passo. Il Gruppo della Trasgressione terrà una delle abituali riunioni che svolge con i detenuti nelle carceri milanesi, aperta alla partecipazione di un gruppo di scout e ai visitatori del mercato. Durante la giornata, servizio di caffetteria e buffet a cura di Food Couture. Interventi musicali con gli strumenti della liuteria del Carcere di Opera. Napoli: Progetto Laboratorio Edili al via, i risultati al Carcere di Nisida Il Denaro, 26 settembre 2013 Domani alle ore 10.30 presso il Carcere minorile di Nisida saranno presentati i risultati del progetto “Laboratorio Edili” ideato dalla Direzione Regionale Campania Inail e dall’Acen, l’Associazione Costruttori Edili di Napoli. Il progetto coinvolge circa 40 giovani detenuti e consente loro di acquisire informazioni sulla sicurezza sul lavoro e, in seconda battuta, pratica formazione di lavoro edile. Il corso della durata di 225 ore (200 ore di pratica) consente il ripristino di alcuni locali del carcere che saranno adibiti a sale espositive. Per l’occasione, negli stessi locali viene organizzata una mostra fotografica attraverso la quale sarà facile osservare la qualità del recupero dei locali. All’evento interverranno l’arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe, il presidente dell’Acen Rudy Girardi, il direttore regionale Inail Campania Emidio Silenzi e il direttore del carcere minorile di Nisida Gianluca Guida. Il progetto “Laboratorio Edili” scaturisce da un protocollo d’intesa siglato tra Inail, ministero della Giustizia, Dipartimento Giustizia minorile, Istituto Penale per minorenni di Nisida e Acen ed è articolato in tre sessioni: promozione e sensibilizzazione ai temi della sicurezza nei luoghi di lavoro, formazione degli allievi teorico-pratiche, monitoraggio e valutazione. Venezia: sui muri di Santa Maria Maggiore scritte contro carceri e Polizia penitenziaria La Nuova Venezia, 26 settembre 2013 Alcune scritte contro le carceri e la polizia penitenziaria sono state fatte sulle mura di Santa Maria Maggiore e su quelle di abitazioni della zona. Sull’episodio stanno indagando gli agenti della Digos. Il fatto è avvenuto sabato pomeriggio e non ha nulla che fare con la protesta in Canale della Giudecca contro le grandi navi. La Digos ha infatti già individuato diverse delle persone che hanno partecipato al blitz. Anche grazie al sistema di telecamere sistemate in zona. Si tratta di persone legate agli ambienti anarchici insurrezionalisti e solo alcuni sono veneziani. Il mondo anarchico insurrezionalista, dopo gli arresti compiuti a Genova seguiti all’attentato compiuto ai danni del dirigente dell’Ansaldo, hanno iniziato una campagna contro le carceri e la polizia penitenziaria in diverse città italiana. Gli autori di volantini e scritte contro la polizia penitenziaria sono già stati individuati e denunciati in altre regioni. Taranto: il Progetto “Fuori gioco”, per trasmettere ai detenuti i valori tipici dello sport www.manduriaoggi.it, 26 settembre 2013 Il progetto è nato da un’idea dell’avvocato giuslavorista ed esperto di diritto e management dello sport, Giulio Destratis. Il progetto educativo “Fuori...gioco!” si pone come obiettivo quello di trasmettere ai detenuti i valori tipici dello sport, ovvero la lealtà e il rispetto delle regole e dell’avversario. L’iniziativa, nata da un’idea del dott. Giulio Destratis, giuslavorista ed esperto di diritto e management dello sport, e della dott.ssa Loredana Mastrorilli, psicologa, prevede lezioni che si svolgeranno all’interno della casa circondariale di Taranto, allenamenti ed un triangolare finale allo stadio Jacovone tra rappresentative di detenuti, magistrati/polizia penitenziaria e avvocati che si terrà il 31 ottobre. Il calcio d’inizio sarà dato da una star del calcio italiano ancora top secret. Alla conferenza stampa di presentazione del progetto, sono intervenuti, oltre agli ideatori, la direttrice dell’istituto dott.ssa Stefania Baldassarre, la vice-direttrice dott.ssa Sonia Fiorentino, il Comandante della Polizia Penitenziaria dott. Giovanni Lamarca, il pm nonché segretario nazionale dell’Anm dott. Maurizio Carbone ed il mitico Gianni Rivera. Il Golden Boy, con l’entusiasmo di un ragazzino, ha definito lodevole l’iniziativa ed ha auspicato che si possa ripetere nel corso degli anni. “La presenza tra i relatori di autorevoli esperti del mondo del calcio, di magistrati e giornalisti rende chiara la bontà del progetto - sottolinea il dott. Destratis nel suo intervento. Desidero ringraziare il dott. Martino Rosati per il contributo di iniziativa e di idee che mi ha fornito e il dott. Carbone che ha concesso il patrocinio dell’Anm: la loro presenza deve far capire soprattutto ai detenuti, che il magistrato non è solo l’arbitro della loro libertà ma è un uomo che ha a cuore la loro situazione anche dopo aver inflitto la giusta pena. Un grazie inoltre va a tutta l’amministrazione della casa circondariale e al Comando di Polizia Penitenziaria che ha permesso l’attuazione del progetto”. Tra i docenti del corso figurano, oltre ai citati ideatori e magistrati, l’avv. Nevoli, l’avv. Vinci, i giornalisti Foschini di Repubblica e Mazza della Gdm, il dott. Petrocelli e il dott. Settembrini, il Presidente Aia della sezione di Taranto Di Leo, il dott. Carrieri, l’arbitro di serie A Cervellera, l’assistente di gara Can Pro Greco e il presidente della Figc Puglia Tisci. Alla conferenza stampa presenti, tra gli altri, il sindaco di Taranto Stefano, il presidente dell’Ordine degli Avvocati Esposito ed il presidente del Taranto Calcio Nardoni. India: italiani condannati ergastolo, la Corte Suprema esaminerà caso il primo ottobre Ansa, 26 settembre 2013 È stata fissata al primo ottobre una nuova udienza della Corte Suprema chiamata a esaminare un ricorso di terzo grado sul caso di Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni da tre anni detenuti nel carcere di Varanasi, in India, con l’accusa di aver ucciso un loro compagno di viaggio, Francesco Montis e condannati all’ergastolo. La discussione della causa era prevista ieri ma non c’è stato tempo e quindi i giudici hanno rinviato alla prossima settimana. “La nostra udienza era in elenco al 24esimo posto - ha spiegato all’Ansa Marina Maurizio, la madre di Bruno che è rimasta in India per seguire l’appello - e come si temeva non c’è stato tempo per discuterla. Speriamo che la prossima settimana ci assegnino un posizione più favorevole”. Il processo è iniziato il 3 settembre, ma la prima udienza era slittata per questioni procedurali. Lo scorso ottobre, l’Alta Corte di Allahabad aveva confermato in secondo grado la condanna all’ergastolo contro i due italiani. I genitori avevano quindi incaricato l’avvocato Mukul Rohatgi, (lo stesso legale che ha seguito il caso dei marò) di presentare un ricorso presso il massimo organo giudiziario di New Delhi. Svizzera: droga e “armi” tra i detenuti, 107 gli agenti impiegati per perquisire 46 celle www.tio.ch, 26 settembre 2013 Un controllo programmato di polizia è stato messo in atto questa mattina, attorno alle 6, all’interno del carcere La Stampa. Ingente l’impiego di forze. Grazie al dispositivo composto da 107 agenti della Polizia cantonale e da aspiranti della Scuola Cantonale di Polizia, sono infatti state perquisite 46 celle, nelle quali sono stati rinvenuti diversi utensili potenzialmente pericolosi come punte di trapano, pezzi di vetro e altri oggetti contundenti. Sono pure stati rinvenuti alcuni grammi di hascisc. Ad un detenuto 52enne svizzero è stato sequestrato materiale informatico non consentito all’interno della struttura carceraria e meglio due penne USB, una delle quali munita di carta SIM adibita alla trasmissione di dati. L’uomo è stato interrogato e l’inchiesta è coordinata dal Procuratore Pubblico Andrea Pagani. Bolivia: a un mese dalla tragedia di Palmasola la Chiesa chiede un nuovo indulto Radio Vaticana, 26 settembre 2013 “Purtroppo, il decreto presidenziale di indulto approvato senza prendere in considerazione le osservazioni e le proposte delle diverse istituzioni che si occupano del settore penitenziario non corrisponde agli intenti umanitari del presidente Evo Morales e non contribuisce neanche a mitigare la scandalosa situazione provocata dai ritardi della giustizia e la crescente violenza nei carceri”. È la posizione espressa dalla Chiesa boliviana in un comunicato nel quale giudica negativamente la portata limitata dell’indulto dello scorso 16 settembre che “vedrà fuori dal carcere appena 601 persone” in un sistema penitenziario segnato dal sovraffollamento causato in gran parte dai ritardi della giustizia. La nota afferma che a beneficiare dell’indulto per sentenze penali di meno di otto anni saranno solo 18 adulti, 34 adolescenti e giovani, 12 malati, 15 malati gravi, 2 handicappati e 3 padri o madri di famiglia, mentre gli altri sono detenuti in via cautelare per delitti la cui pena è di meno di 4 anni. “Di conseguenza, siamo convinti che ci sia stato un errore di valutazione, perché se la decisione è stata presa deliberatamente sulla base di questa previsione, rappresenta una beffa contro la popolazione carceraria”, si legge nel comunicato firmato da mons. Jesús Juárez Párraga, arcivescovo di Sucre e responsabile della Pastorale penitenziaria e dal sacerdote Leonardo da Silva Costa, Coordinatore nazionale della Pastorale penitenziaria. Tra le proposte della Chiesa spiccano un nuovo provvedimento presidenziale di clemenza che contempli l’estensione dell’amnistia e la riorganizzazione integrale del sistema penitenziario: nuove strutture carcerarie, efficienza del sistema giudiziario e programmi di riabilitazione e di reinserimento sociale. La Chiesa rinnova il suo impegno pastorale ad accompagnare spiritualmente le persone private della loro libertà e ad appoggiare le istituzioni responsabili della formazione e dell’assistenza sanitaria, giuridica, psicologica ed economica dei detenuti. Nella nota i vescovi colgono l’occasione per rinnovare la vicinanza della Chiesa alle famiglie e alle persone che hanno perso i loro cari nella tragica rivolta del 23 agosto nel carcere di Palmasola, nella quale persero la vita 30 persone tra cui un bambino. Russia: tribunale condanna 3 attivisti di Greenpeace a 2 mesi detenzione Asca, 26 settembre 2013 Il tribunale russo ha ordinato l’arresto per 2 mesi di tre dei 27 attivisti di Greenpeace, dopo che gli investigatori hanno chiesto la condanna per “pirateria”, in seguito alla manifestazione di protesta al largo della piattaforma russa Gazprom nel mare Artico. L’account Twitter di Greenpeace riferisce che “l’attivista polacco Tomasz Dziemianczuk, il neozelandese capitano dell’imbarcazione Arctic Sunrise, David John Haussmann, e il canadese Paul Douglas Ruzycki saranno detenuti per i prossimi due mesi in un carcere russo”.