Giustizia: Pannella e l’avv. Rossodivita diffidano magistratura al rispetto dell’art. 3 Cedu www.radicali.it, 24 settembre 2013 È terminato l’invio di 675 diffide indirizzate ai Presidenti dei Tribunali Italiani, ai Procuratori Capo di tutte le Procure Italiane, ai Presidenti degli Uffici Gip di tutti i Tribunali Italiani, ai Direttori delle Carceri italiane, e a tutti gli Uffici di Sorveglianza della Repubblica. La diffida, prende le mosse dal contenuto della nota sentenza pilota, sul caso Torreggiani ed altri, della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e spiega perché attualmente decine di migliaia di detenuti, sia in esecuzione pena, sia in custodia cautelare, sono sottoposti ad una pena o ad una misura, tecnicamente, illegali. Con la diffida - indirizzata anche al Presidente Napolitano quale Presidente del Csm, al Ministro Cancellieri, al Commissario Europeo per i diritti Umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks - si indica quale adeguata, necessaria strada per garantire il rispetto di fondamentali ed elementari diritti umani, quella di paralizzare, in presenza della certezza che il trattamento e/o la pena siano illegali, l’emissione degli ordini di esecuzione della pena, sul modella già tracciato dalla Corte Costituzionale Tedesca. “Vedremo come si comporterà diciamo la giurisdizione, la magistratura italiana” - dichiarano Marco Pannella e l’avv. Giuseppe Rossodivita - “Vedremo se prevarrà la ragion di Stato contro lo Stato di diritto che, con buona pace del Presidente Letta, in Italia è, per le condizioni dell’amministrazione della Giustizia e delle carceri, totalmente assente. La - diciamo - giurisdizione italiana, la “magistratura” italiana dovrà ora decidere se tornare o cominciare a rispettare essa stessa la Costituzione e le leggi o se, per “supplire” (sic!) alle inadempienze della politica e delle istituzioni, si confermerà complice della loro permanente violazione”. Giustizia: Stefano Rodotà; l’amnistia funziona solo se il sistema penale verrà riformato Adnkronos, 24 settembre 2013 Un provvedimento di amnistia “funzionerà solo se il sistema penale verrà rivisto profondamente”. Lo ha detto Stefano Rodotà, alla conferenza stampa di presentazione della manifestazione “Costituzione: la via maestra”. “Non è difficile, ci sono molte proposte di riforma del sistema penale - ha ricordato - eccellente quella di Pisapia”. E rispondendo a una domanda di Vittorio Antonini, ergastolano del carcere romano di Rebibbia, Rodotà ha aggiunto: “Sostengo in pieno il referendum sulla soppressione dell’ergastolo, bisogna rifondare la civiltà giuridica”. Giustizia: Nicola Gratteri (Pm Reggio Calabria); abolire Dia e far lavorare tutti i detenuti Ansa, 24 settembre 2013 “Gli ultimi tre ministri della Giustizia, Alfano, Nitto Palma e Severino, cos’hanno fatto? Per cambiare le cose, per dare un senso alla lotta alle mafie bisogna avere il coraggio di sporcarsi le mani. E anche quello di smantellare la Dia, che io abolirei subito, perché le stesse indagini le fa la polizia. Dobbiamo semplificare, non creare e mantenere nuovi uffici e servizi”. A dirlo, è scritto in un comunicato di Giornalisti Calabria, è stato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, dal 18 giugno 2013 nella task force incaricata dal premier Enrico Letta di elaborare strategie per contrastare le mafie. Gratteri ha partecipato a Taormina al Festival internazionale del libro, per presentare il suo ultimo libro “Dire e non dire - I dieci comandamenti della ‘ndrangheta nelle parole degli affiliati”, scritto con Antonio Nicaso ed è stato intervistato da Carlo Parisi, vicesegretario della Federazione nazionale della stampa e segretario del Sindacato giornalisti Calabria. Parlando dei possibili interventi per migliorare la lotta alle mafie, Gratteri ha sostenuto che “se i tribunali fossero delle imprese private fallirebbero subito. Il codice di procedura penale va modificato, informatizzato. Si risparmierebbero tempo, denaro ed energie. Vanno inasprite le pene. Non si può accettare che un mafioso resti in carcere solo 5 anni. Le carceri: non ne vanno costruite di nuove, ma ampliate quelle che già esistenti. E, fattore fondamentale, dovrebbe essere introdotto il lavoro come terapia riabilitativa”. Il magistrato ha poi annunciato che “a novembre dovrebbe uscire un nuovo libro, questa volta incentrato sul rapporto tra ‘ndrangheta e Chiesa. Preti e vescovi ci hanno detto più volte che le nostre sono invenzioni. Che non esiste alcun legame tra il Santuario di Polsi e gli ‘ndranghetisti. Ma purtroppo non è così: i capimafia hanno un rapporto strettissimo con la Madonna di Polsi. Un legame reale e documentato attraverso video e intercettazioni. Così come è realtà che lo ‘ndranghetista prega prima di compiere un omicidio o qualsiasi altra barbarie. Il rapporto del mafioso con la Chiesa è molto stretto. Il mafioso vuole farsi vedere vicino agli uomini di Chiesa. E vuole che lo veda la gente, perché le mafie vivono all’interno della società. Hanno bisogno, per vivere, del consenso popolare”. Giustizia: D’Ambrosio Lettieri (Pdl); valutare divieto fumo in carcere, contro danni salute Adnkronos, 24 settembre 2013 “Gli effetti devastanti del tabagismo attivo e passivo sono ormai un dato acquisito, tanto da aver messo d’accordo politica e scienza. Sulla base di un obiettivo comune, a tutela delle fasce più deboli e della salute pubblica, credo che questa battaglia di civiltà non possa non riguardare il divieto di fumo nelle carceri. Nei penitenziari italiani, purtroppo, il fenomeno non è sotto controllo”. Lo sostiene Luigi d’Ambrosio Lettieri, capogruppo Pdl in Commissione Sanità del Senato, che nei prossimi giorni presenterà una interrogazione urgente al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, “perché si intervenga anche in questa direzione”. “Ritengo, concordando con la richiesta avanzata dal sindacato autonomo di polizia penitenziaria - dice D’Ambrosio Lettieri - che vada posto anche lì un freno al consumo libero di sigarette. Una cattiva prassi che, oltre a costringere quotidianamente operatori e detenuti a subire un comportamento scorretto e a mettere a rischio la propria salute, potrebbe determinare anche un danno economico allo Stato. Apprendiamo, infatti, che a breve si celebrerà a Roma la prima udienza con la richiesta di risarcimento dei danni per fumo passivo per la morte di un poliziotto di 42 anni di Lecce, deceduto per un tumore ai polmoni, nonostante non avesse mai fumato e costretto a subire, per otto ore al giorno, durante il suo lavoro in carcere, il fumo di altri”. La Gran Bretagna, ricorda D’Ambrosio Lettieri, “ha ratificato da poco un provvedimento in tal senso, vietando severamente il fumo di sigarette nelle carceri. Il faro, in una società democratica, non può che essere rappresentato dalle regole che devono accompagnare quella che è soprattutto una rivoluzione culturale. Con questa convinzione, nei prossimi giorni, presenterò l’interrogazione urgente al ministro Lorenzin”, conclude D’Ambrosio Lettieri. Giustizia: (Gonnella) Antigone; divieto fumo come in Gran Bretagna? sì ma più ore d’aria Adnkronos, 24 settembre 2013 “Mi sembra ragionevole che, nelle ore di vita in cella, non si fumi rovinando la vita degli altri”. Lo dichiara all’Adnkronos Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, commentando così la decisione britannica di vietare l’uso delle sigarette nelle carceri, al fine di evitare migliaia di cause per il risarcimento dei danni provocati a lavoratori e detenuti non fumatori. Qualora il nostro paese decidesse, seguendo l’esempio britannico, di salvaguardare la salute dei propri lavoratori e detenuti, vietando il fumo nelle carceri: “la questione non sarebbe risolvibile in modo semplice”, ammette Gonnella. “Va bene vietare l’uso delle sigarette ma è necessario - sostiene - che non si faccia resistenza a far vivere i detenuti 12 ore fuori dalla cella”. “Organizziamo la vita dei detenuti - dichiara - in modo tale che, durante il giorno, possano vivere in carcere ma non chiusi in cella. Organizziamo - continua Gonnella - una vita interna diversa, che assomigli di più alla vita esterna”. “Bisogna responsabilizzare i detenuti e anche il divieto al fumo - conclude il presidente di Antigone - può contribuire alla loro responsabilizzazione”. Giustizia: sul reato di tortura si gioca al ribasso… la farsa si ripete di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 24 settembre 2013 Per Nico D’Ascola così come per Carolina Lussana per esservi tortura si deve torturare almeno due volte. Carolina Lussana, parlamentare leghista, qualche anno fa fece passare un emendamento secondo il quale per esservi tortura bisognava commettere più atti di violenza o di minaccia. Non bastava torturare una volta sola per essere incriminati. Eravamo nel 2004. Al Governo c’era Berlusconi. Ministro della Giustizia era Catelli. Oggi siamo nel 2013 e al governo vi sono le larghe intese. Il ministro degli Interni è Alfano. Il senatore del Pdl Nico D’Ascola, pochi giorni fa, incaricato di redigere un testo unificato che mettesse insieme tutte le proposte pendenti sulla tortura, si è ispirato, senza troppe obiezioni, alla sua ex collega leghista. Così a nove anni dalla farsa normativa targata Lussana, si è giunti a riproporre in Commissione giustizia al Senato nuovamente la figura del torturatore recidivo o seriale. Secondo il senatore avvocato D’Ascola per esservi tortura è necessario commettere non uno ma più atti di violenza. Il partito democratico non ha detto nulla; si è riservato tempo per esprimere il suo dissenso o consenso a quella proposta. Per chi non lo sapesse l’Italia è inadempiente rispetto a obblighi internazionali cogenti da oramai venticinque anni. Nel 1988 è stato ratificato il Trattato Onu contro la tortura il quale all’articolo 1 contiene una definizione del crimine che dovrebbe valere per tutti gli Stati. Eppure da noi le forze politiche si affannano in proposte creative, tendenti a ridurre la portata di un delitto che, al pari del genocidio e dei crimini di guerra, è considerato nel diritto internazionale, sia consuetudinario che pattizio, inequivocabilmente un crimine contro l’umanità. In Italia si punisce di tutto e di più. Non si puniscono invece i torturatori nonostante vi sia anche un obbligo costituzionale in tal senso. All’articolo 13 vi è un riferimento esplicito alla punizione di chi esercita in modo arbitrario il proprio potere di custodia. È questo motivo sufficiente per manifestare a favore della Costituzione e della sua piena attuazione. Nel testo proposto dal Pdl si respira aria di campagna elettorale. Le lobbies della sicurezza hanno ricominciato a lavorare per l’impunità. Ci si augura che tutte le altre forze politiche insieme tornino alla definizione delle Nazioni Unite senza compromessi al ribasso e perdenti. Ci si augura anche che il nuovo capo della polizia si distingua rispetto ai predecessori dicendo il suo sì a una legge chiara che metta fuorilegge la tortura. I diritti umani non paiono una priorità nelle nomine del governo delle larghe intese. Nei giorni scorsi l’Italia ha indicato il proprio componente da nominare nel Comitato Onu contro la tortura. Ha riproposto un funzionario - Alessio Bruni - che in questi anni non ci pare abbia espresso opinioni intorno alle vicende italiane. Una visione non proprio di grande respiro per chi a parole eccede nell’enfasi meritocratica. Giustizia: Cassazione su Aldrovandi “no benefici per agente Forlani… libero da fine luglio Ansa, 24 settembre 2013 È stato dichiarato “inammissibile”, dalla Cassazione, il ricorso con il quale Paolo Forlani, uno dei quattro agenti di polizia condannati per l’omicidio colposo dello studente ferrarese Federico Aldrovandi - “selvaggiamente picchiato anche con i manganelli”, ricorda la Suprema Corte - chiedeva di scontare ai domiciliari o in affidamento ai servizi sociali i sei mesi di condanna che gli rimanevano da passare in carcere dal momento che tre anni di pena erano coperti dall’indulto. Ad avviso degli “ermellini”, il reclamo di Forlani - uscito dalla prigione a fine luglio, al termine dei sei mesi - è fondato, scrivono i supremi giudici nelle motivazioni della sentenza 39215 relativa all’udienza svoltasi lo scorso 9 luglio, su “motivi generici e aspecifici” che non mettono in discussione la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che il 24 gennaio aveva negato i benefici richiesti. In particolare, il Tribunale aveva evidenziato il “comportamento oltremodo negativo tenuto da tutti gli imputati, compreso il Forlani”, e come “dopo il fatto ed in ambito processuale” era “emersa” tutta la sua “inaffidabilità”, “il suo difetto di autocontrollo, l’incapacità di gestire adeguatamente una situazione che, seppur delicata, non era certo eccezionale per un appartenente alla polizia di Stato, preposto alla salvaguardia ed alla tutela dei diritti dei cittadini”. I magistrati bolognesi, inoltre, avevano constatato che non c’era stata nessuna “positiva evoluzione della personalità” del Forlani che non aveva compiuto alcun “gesto simbolico di solidarietà” verso i familiari della vittima, ed “anzi dal suo sito Facebook erano emerse sue pessime esternazioni all’indirizzo della madre della vittima”. La Procura della Cassazione, rappresentata dal pg Nicola Lettieri, aveva chiesto la concessione dei domiciliari non ravvisando il rischio di reiterazione del reato. Ma questa tesi non ha prevalso. Oltre a Forlani, degli altri tre condannati, solo l’agente Luca Pollastri ha scontato tutti i sei mesi residui in cella, mentre gli agenti Enzo Pontani e Monica Segatti hanno ottenuto i domiciliari dopo un periodo di detenzione. I genitori di Aldrovandi hanno finora inutilmente chiesto la sospensione dal servizio dei quattro responsabili della morte figlio, appena diciottenne, a causa delle percosse subite il 25 settembre del 2005 in un parco di Ferrara. Giustizia: Polverini (Pdl); è necessario incrementare il personale di Polizia penitenziaria Agenparl, 24 settembre 2013 “È necessario lavorare con i Ministri D’Alia e Cancellieri per realizzare, attraverso il decreto legge del Governo che prevede la stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione, in particolare per il dipartimento della polizia penitenziaria la parte relativa ai vincitori di concorso, un effettivo incremento del personale di questo comparto”. Così la deputata Renata Polverini (PdL) intervenendo al Convegno sul ruolo della polizia penitenziaria nell’esecuzione penale minorile organizzato dall’Ugl a Nisida (Napoli). “La situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane è ormai insostenibile, per questo da tempo si sta chiedendo una riforma del sistema penale che riduca il numero delle detenzioni attraverso misure alternative e torni a dare dignità anche al lavoro della Polizia Penitenziaria. Quello che mi dispiace è che ciò che emerge all’esterno è troppo spesso solo l’aspetto negativo che si vive all’interno delle carceri. Non si riesce a far capire ai cittadini quanto impegno c’è nel gestire il sistema carcerario e a far comprendere quanto impegno c’è da parte di tutti coloro che si dedicano al recupero delle persone a cominciare dai minori e agli istituti di pena”. Livorno: detenuto di 37 anni trovato morto nel bagno della cella, avrebbe inalato gas Ansa, 24 settembre 2013 Vittima un detenuto di 37 anni, Assanlal Foad, in carcere per reati di droga: forse ha inalato gas. Lo hanno trovato i compagni, inutili i soccorsi. Era con altre tre persone in una camera da due. Morto nel bagno della cella. A trovarlo sono stati i compagni. Un detenuto marocchino di 37 anni ieri, domenica alle 23.30, è deceduto alle Sughere dove si trovava per reati riguardanti la droga. Si sospetta che avesse inalato gas dalla bombola del fornello: nel bagno infatti si sentiva un forte odore di gas. Immediati i soccorsi del personale interno al carcere. Il medico e i suoi assistenti hanno subito tentato la rianimazione e in un primo momento sembrava che il cuore del giovane avesse ripreso a battere, ma in realtà si trattava delle ultime esalazioni. Per lui non c’è stato niente da fare. Poi sul posto in carcere sono accorsi i volontari della Misericordia, inviati dal 118, i quali hanno fatto ulteriori tentativi di rianimare il 37enne, ma è stato tutto inutile. Secondo quando appreso, il detenuto aveva dei problemi con la droga. Il decesso alle Sughere riporta l’attenzione sul fenomeno delle morti in carcere e sul disagio che molti detenuti sono costretti a vivere: il 37enne era insieme ad altri 4 compagno in una cella predisposta per due. Le Sughere da due anni sono in ristrutturazione, ma i lavori hanno subito vari rallentamenti e tuttora non sono ancora stati ultimati. Bari: il carcere dalle “mura di vetro”, intervista alla direttrice Lidia De Leonardis di Gianluigi De Vito Gazzetta del Mezzogiorno, 24 settembre 2013 “Nessuno vuole nascondere le difficoltà ed i problemi ancora irrisolti ma in questi due anni la casa circondariale è diventata una fucina di progetti e sperimentazioni. Alla fine dell’anno verrà aperta una nuova sezione (la Seconda sezione, ndr) dove sperimenteremo una migliore differenziazione tra detenuti che consenta attività di gruppo e la possibilità di trascorrere più ore impegnati in attività pedagogiche ed educative. Svolgiamo attività di formazione sia all’interno che per conto dell’Università, accogliendo i tirocini di criminologia sino alla scorso anno e da quest’anno anche quello di psicologia giuridica. Abbiamo in mente di realizzare un’attività industriale per il recupero delle materie prime per dare possibilità di lavoro concreto dentro e fuori il carcere. Un obiettivo al quale lavoriamo in questi due anni col Garante dei detenuti, prof. Piero Rossi, e l’Amiu di Bari ed un’azienda del settore”: Lidia De Leonardis prende fiato raramente per spiegare l’era nuova del carcere dai muri di vetro. È un vulcano in miniatura, il direttore della la casa circondariale di Bari. Minuta, gentile, sommersa da carte da firmare, inchiodata dal cellulare che squilla di continuo. Evita volentieri la scrivania istituzionale, preferisce l’ovale del tavolo riunioni per spiegare la “glasnost” del suo staff: due vice di rettori, Valeria Pire e Margherita Meo Evoli, il responsabile dell’Area educativa, Tommaso Minervini, e soprattutto, il comandante della Polizia Penitenziaria, Francesca De Musso, la prima donna in quella posizione di vertice. Direttore, un lavoro di squadra dovrebbe essere la regola? “Dovrebbe, dice bene”. E allora che c’è di positivo? “C’è che questo staff sin dall’inizio ha compreso l’importanza di mettersi a disposizione delle istituzioni del territorio: Procura, magistrati, Camere Penali Solo una buona collaborazione delle istituzioni che presiedono alla legalità e sicurezza sociale possono essere efficaci, specie in un territorio come Bari con una radicata criminalità organizzata oltre alla multiforme devianza comune”. Una occhiata ai numeri del giorno dice che i detenuti sono 419, 395 uomini e 24 donne. Dei 419 solo 144 sono in reclusione (con una condanna definitiva). Il resto è composto da 202 “giudicabili” (in attesa di processo), 46 “appellanti” (in attesa di Appello) e 27 “ricorrenti” (in attesa della Cassazione). La presenza immigrata è alta ma non eccessiva (97), 87 i tossicodipendenti. Non siamo ai livelli degli anni scorsi, ma le celle scoppiano... “Nessuno nega il sovraffollamento, la capienza è di 282, ma siamo al di sotto di “quella tollerabile” dei 500. La sfida sarà rimanere nei numeri bassi anche con la riapertura della seconda sezione completamente ristrutturata”. La radiografia più interessante è quella che compara i casi critici: 16 nel 2009, 57 nel 2010, 65 nel 2011, 74 nel 2012 e 79 solo nel primo semestre del 2013. Si sta peggio o li si intercetta di più? “Siamo più attenti alla presa in carico del detenuto, in una dinamica che appesantisce sempre più i compiti istituzionali di una Casa circondariale”. Nei primi sei mesi sono stati già 44 i casi di autolesionismo, 10 i tentativi di suicidio, 61 le aggressioni e i ferimenti, 58 gli episodi di sciopero della fame. Ma altri disagi crescono. “Nel primo semestre di quest’annodai registro si contano 295 interventi per i 79 detenuti seguiti dallo staff multidisciplinare. Un carico che assorbe la quasi totalità delle energie degli operatori dell’area sicurezza, educativa”. Dobbiamo convincerci che quei numeri sono la prova di come intervenite più di prima? “È la prova della trasparenza e della tracciabilità di tutto quello che accade e che consente di avere sempre il quadro esatto della situazione, senza omissioni”. Il numero delle sanzioni disciplinari rimane alto: 403 nel 2012 e 186 solo nei primi sei mesi del 2013. Uno staff col pugno di ferro? “No se guarda le singoli sanzioni e cioè le ammonizioni, i richiami, le esclusioni da attività ricreative e sportive e l’isolamento. I dati fanno registrare la validità degli interventi multidisciplinari. Vede, sotto il profilo organizzativo si è ritenuto fondamentale operare cambiamenti volti a sperimentare e realizzare nel tempo quegli obiettivi istituzionali mirati a concretizzare da un lato forme di collaborazione sinergica col territorio, gli enti, il volontariato, le aziende; dall’altro il buon agire amministrativo attraverso una dimensione di trasparenza di equità di trattamento, di verifica, di premialità del buon operato e della censura di forme di irregolarità e mancato rispetto dei doveri. Gli interventi interni più significativi sono stati realizzati attraverso la sperimentazione di una nuova organizzazione del lavoro, una regolamentazione capillare con ordini e disposizioni di servizio, con numerosi incontri e confronti tra il personale, i quadri, i funzionari, i capiarea di tutti i settori che operano nell’istituto”. Di che cosa va fiera? “Per esempio di quello realizzato in materia di diritto alla salute e di prevenzione suicidaria. Nel centro diagnostico terapeutico sono stati svolti numerosi lavori di adeguamento funzionale e attualmente sono operativi tutti i servizi e le specialistiche, in relazione ai lavori di competenza di questa Casa Circondariale. Nel 2012 sono state potenziate le sinergie operative con i sanitari, con gli operatori del Centro salute mentale e del Sert. Nel 2012 si sono svolti alcuni incontri tra la medicina penitenziaria, il servizio specialistico di Malattia Infettiva, il Sert ed i detenuti in materia di prevenzione hiv ed altre malattie infettive. Quest’anno abbiamo reso periodici gli incontri in materia di prevenzione delle malattie infettive, con l’aiuto degli insegnanti scolastici e dell’area educativa. Tutto questo le sembra un proclama? Consideri che la sorveglianza sanitaria era un capitolo diciamo dimenticato. Adesso lavoriamo molto nella mappatura e nella prevenzione. Anche di quello che per molti rimane un tabù, come la tubercolosi. Non c’è nessuna emergenza, ma lavoriamo sulla prevenzione del rischio di focolai”. Un vecchio progetto che mirava a ridurre la recidiva di chi è finito in cella per reati a sfondo sessuale mi sembra si sia impantanato… “Se si riferisce al progetto “Rompere il silenzio” della Provincia di Bari rivolto ai sex offender abbiamo provveduto a rinnovare la richiesta per un eventuale rifinanziamento, con le necessarie rimodulazioni delle azioni previste”. E per il dopo pena? Il reinserimento lavorativo è un fallimento costante… “L’anno scorso è stato firmato con il direttore generale Asl un progetto formativo di grande caratura. Si chiama Progetto Piantone, intende formare operatori socio-sanitari tra detenuti che svolgono questa funzione per ausilio ai detenuti con gravi problematiche sanitarie, con relativo corso ed attestato finale spendibile professionalmente”. Cagliari: il nuovo carcere di Uta apre in primavera… ma Buoncammino non chiuderà Sardegna Oggi, 24 settembre 2013 “Nonostante la ormai prossima apertura della megastruttura di Uta, il carcere di Buoncammino non chiuderà. Lo storico edificio, nei progetti del Ministero della Giustizia, sembra destinato infatti ad ospitare gli Uffici della Esecuzione Penale Esterna e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme. Il carcere di Buoncammino non chiuderà. Lo afferma Maria Grazia Caligaris(Sdr) avendo appreso che “i lavori per ultimare il nuovo penitenziario di Uta hanno subito un’accelerazione per consentire entro l’anno al Ministero delle Infrastrutture di consegnare l’opera a quello della Giustizia nella prospettiva di una sua apertura entro la primavera dell’anno prossimo”. “Nonostante le sollecitazioni e l’impegno dei lavoratori delle ditte di appalto e subappalto e dei detenuti, che da alcune settimane stanno sistemando gli arredi delle celle, difficilmente - sostiene la presidente del Sdr -la nuova struttura sarà operativa entro il 2013. Alcuni evidenti ritardi infatti non consentiranno l’inaugurazione della nuova Casa Circondariale in tempi brevi, come vorrebbe il Ministero. Non sono ancora stati ultimati i locali che dovranno ospitare gli alloggi e la mensa degli Agenti della Polizia Penitenziaria, due dei Padiglioni indispensabili per la sua funzionalità. Con il cantiere ancora aperto il nuovo “Villaggio penitenziario”, articolato in diversi edifici e arricchito da vaste aeree a verde, in parte da utilizzare per l’orticoltura, non sarà agibile neanche per accogliere i detenuti e neppure il personale delle aree amministrativa, educativa e sanitaria. Quest’ultima conta oltre un centinaio di persone. Risulterebbe infatti impossibile garantire la sicurezza e l’efficienza del servizio”. “La prima fase del nuovo agglomerato - afferma ancora Caligaris - sarà dedicata agli allestimenti degli spazi interni e alle dotazioni. Oltre all’arredamento delle celle e degli Uffici, la parte più delicata e impegnativa è rappresentata dall’area sanitaria. Una parte considerevole delle apparecchiature del Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino necessita ormai di una totale sostituzione per il mancato aggiornamento degli ultimi anni. L’Azienda Sanitaria Locale dovrà quindi provvedere a dotare il Centro Clinico di strumenti diagnostici adeguati. Dovrà inoltre provvedere a disporre un servizio ambulanze per far fronte alle emergenze. La distanza dai principali Ospedali infine imporrà un aggravio di spese in occasione delle visite specialistiche. Non è stato neppure ancora risolto il problema dei miasmi maleodoranti provenienti dalla vicina azienda per lo smaltimento dei residui delle carcasse degli animali”. “Uno dei pochi padiglioni pronti del “Villaggio Penitenziario” è quello destinato ai detenuti in regime di massima sicurezza. È tuttavia impensabile che il Ministero possa inaugurare il nuovo carcere di Cagliari aprendo soltanto qualche struttura e consentendo agli operai di ultimare i lavori. Anche l’idea di una permuta del vecchio Buoncammino con altri edifici di proprietà del Comune di Cagliari per gli uffici del Prap non sembra perseguibile per i vincoli a cui è soggetto l’edificio ottocentesco. L’auspicio - conclude Caligaris - è che la nuova sede per i detenuti non presenti i problemi che Massama e Bancali hanno manifestato. Ma per queste verifiche occorrerà aspettare ancora un po’”. Sulmona (Aq): aperto il cantiere, si amplia il supercarcere con 200 posti in più Il Tempo, 24 settembre 2013 Il super carcere di via Lamaccio, sarà presto ampliato e potenziato. Da qualche giorno il cantiere è stato aperto e il materiale per cominciare i lavori arriva di continuo. Il nuovo padiglione, la cui realizzazione era stata annunciata qualche anno fa, sarà di complessivi quattromila metri quadrati e sorgerà dove ora ci sono i campi di calcio, nella zona nord. Il progetto, prevede che all’interno della struttura siano realizzati, dieci cortili da passeggio per i detenuti, una sala colloqui più grande di quella esistente e, infine, interventi anche sull’impianto di depurazione delle acque. Un ampliamento che costerà 11milioni di euro e sarà in grado di ospitare 200 nuovi detenuti. Lavori eseguiti mentre il tribunale di Sulmona sta per essere chiuso. Una contraddizione se si riflette attentamente. Ancora non si capisce bene quale tipologia di detenuti entrerà nella nuova ala del penitenziario. Al momento non si esclude che il Dipartimento di amministrazione penitenziaria decida di realizzare la più grande casa lavoro italiana. Una eventualità questa, fortemente contestata dai sindacati che addebitano alla presenza degli internati la causa dei maggiori problemi del penitenziario peligno. Cagliari: Sdr; a Buoncammino detenute a rischio aborto Ansa, 24 settembre 2013 “Zagorka Nikolic, 40 anni, 12 figli, al terzo mese di gravidanza, Lela Radulovic, 30 anni, 4 figli, due aborti spontanei, due nascite con malformazioni congenite, incinta di 6 mesi, Monica Jovanovic, 28 anni, cinque figli, anche lei da sei mesi in stato interessante. Tre donne, due con minacce d’aborto, si trovano rinchiuse insieme in una cella della sezione femminile del carcere di Buoncammino. Una situazione inaccettabile che rischia di degenerare con conseguenze drammatiche”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che con i volontari ha raccolto le istanze delle cittadine private della libertà. “È impensabile - afferma - che non sia stata individuata un’alternativa alla carcerazione quando le condizioni sono chiaramente incompatibili con la detenzione. Tutte e tre le donne, nomadi, hanno peraltro patteggiato la pena. Ciò che sorprende è l’inerzia delle Istituzioni. La Provincia di Cagliari da tempo ha predisposto un progetto per l’attivazione di un Centro di Accoglienza per Madri Incarcerate (Cami), che potrebbe evitare ai più piccoli il trauma della carcerazione e alle madri di vivere l’esperienza detentiva come in una casa famiglia con iniziative di recupero sociale e avviamento al lavoro. Ciò permetterebbe anche di abbattere la recidiva. In concreto tuttavia nulla è stato fatto”. “La presenza in un Istituto come Buoncammino di donne con alle spalle parti cesarei produce una condizione di costante preoccupazione per il personale penitenziario nonché per i Medici. La struttura inoltre non dispone di tutti la strumentazione necessaria per verificare in modo costante la gestazione. C’è anche un problema di alimentazione e di salubrità ambientale. È noto che lo stato di gravidanza richiede particolari condizioni igienico-sanitarie che un Istituto Penitenziario non può garantire. Non si possono neppure ignorare i piccoli rimasti con i rispettivi padri. Sono tutti minorenni. Il più piccolo di appena un anno di vita”. “Ancora una volta - conclude la presidente di Sdr - facciamo appello alla sensibilità dei Magistrati, ma la questione delle donne detenute incinte o con minori al seguito non può essere più tollerata. Lo vietano il senso di umanità e il rispetto delle norme vigenti”. Genova: detenuto a Marassi si è procurato ferite al viso e alle braccia con una lametta Ansa, 24 settembre 2013 Un detenuto italiano del carcere di Marassi si è procurato ferite al viso e alle braccia con una lametta: soccorso dai poliziotti penitenziari è stato trasportato in ospedale da un’ambulanza e poi, dopo le medicazioni, è stato riaccompagnato in carcere. Lo ha comunicato Roberto Martinelli, segretario Generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che ha sottolineato “l’esigenza di provvedimenti per il carcere di Marassi che il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva promesso di assumere nella sua visita di inizio settembre ma finora non si è visto nulla”. “Quello successo l’altra notte a Marassi - ha detto Martinelli - è un altro evento critico che poteva avere gravi conseguenze se non fosse stato per il tempestivo intervento del medico e dei poliziotti penitenziari”. Mettendo in evidenza i problemi operativi che determinano i detenuti con instabilità psichica ha affermato: “con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari si acuirà, in danno della polizia penitenziaria, il problema del sovraffollamento in carcere già oggi a livelli record con 150 detenuti per 100 posti contro i 107 del resto d’Europa. Quando tra un anno gli Opg chiuderanno una parte dei loro detenuti tornerà in carcere e la situazione potrebbe diventare esplosiva”. Vercelli: Sappe; chiediamo interventi concreti per contrastare uso cellulari in carcere Adnkronos, 24 settembre 2013 Allarme e tensione nel carcere di Vercelli. Due poliziotti sono stati aggrediti dopo aver scoperto, giovedì, un telefono cellulare dotato di sim card nascosto nei pressi del campo sportivo e dopo aver sequestrato, venerdì, hashish a tre detenuti che occupavano la stessa cella. Lo riferisce in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), commentando che “quanto avvenuto ci impone di tornare a chiedere al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria interventi concreti”. “Come, ad esempio - continua Capece - la dotazione ai reparti di polizia penitenziaria, di un’adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l’uso di telefoni cellulari da parte dei detenuti”. Capece, ricorda la nota, sollecita un’ispezione da parte dell’amministrazione penitenziaria su ‘quel che è accaduto e che sta accadendo ultimamente nel carcere di Vercelli”. “Vogliamo capire - aggiunge - come stanno le cose, perché si sono verificati così tanti eventi critici che minano la serenità di tutti i poliziotti penitenziari in servizio a Vercelli”. “È un dato oggettivo - conclude il segretario del Sappe - che la vigilanza dinamica dei penitenziari voluta dall’amministrazione penitenziaria, per alleggerire l’emergenza carceraria, è una resa dello Stato alla criminalità”. Caltanissetta: Osapp; detenuto con problemi psichici ha dato fuoco alla propria cella Italpress, 24 settembre 2013 Un detenuto ristretto nel penitenziario di Caltanissetta per reati legati agli stupefacenti e con gravi difficoltà psicologiche, senza apparenti motivi ieri sera ha dato fuoco alla propria cella, dopo aver chiuso le finestre. Lo rende noto l’Osapp, Organizzazione Autonoma Polizia Penitenziaria. “Un sovrintendente di Polizia penitenziaria con la collaborazione di tre colleghi - spiega il segretario Domenico Nicotra - per evitare che la vicenda potesse avere conseguenze gravi è entrato nella cella è ha sfondato la porta del bagno dove il detenuto si era rinchiuso. Gli agenti sono poi ricorsi alle cure mediche, per avere inalato il fumo del rogo. È evidente - conclude il sindacalista dell’Osapp - che la detenzione nelle patrie galere di detenuti necessitanti di cure psichiatriche, previste in precedenza negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la cui chiusura definitiva dovrebbe essere fissata entro il marzo del 2014, porterà inevitabilmente al reiterarsi di simili criticità”. Foggia: rissa nella sezione femminile del carcere, due agenti ferite Agi, 24 settembre 2013 Due agenti di polizia femminile in servizio al carcere di Foggia sono rimaste ferite dopo essere intervenute per sedare un litigio scoppiato tra quattro delle 15 donne ospiti dell’istituto di pena dauno. Secondo quanto denunciato dal Coosp, il coordinamento sindacale del penitenziario sabato pomeriggio nel “cortile passeggio all’aperto” si è scatenata - per cause ancora da accertare - una violenza rissa tra quattro delle 15 donne che in quel momento erano nell’area di socialità. Sul posto sono subito intervenute le due agenti di polizia penitenziaria, rimaste ferite e contuse per ristabilire l’ordine. Attualmente nella sezione femminile del carcere sono ospitate 33 donne e un minore. Settecentocinquanta i detenuti totali ospiti nel carcere di Foggia, 300 in quelli di Lucera e San Severo. Numeri emergenziali aggravati dalla mancanza di agenti di polizia penitenziaria. A Foggia mancherebbero 80 unità, a Lucera e San Severo ne servirebbero 70. Ecco perché ancora una volta il sindacato pone in evidenza lo stato di crisi e di emergenza in cui versano le carceri della provincia di Foggia. Una emergenza che scontano soprattutto gli stessi agenti di polizia penitenziaria, nonostante le tante richieste agli organi competenti. Roma: teatro-carcere “Rifiuti solidi, rifiuti urbani”, scritto e recitato da 84 detenuti Ansa, 24 settembre 2013 Uno spettacolo teatrale messo in scena e scritto da 84 detenuti della casa di reclusione di Rebibbia sarà allestito venerdì pomeriggio nel carcere romano per una platea di politici, magistrati e personale penitenziario. Lo spettacolo “Rifiuti solidi, rifiuti urbani” è promosso dalla Direzione Nazionale Aics (Associazione Italiana Cultura e Sport), sensibile ai temi sociali e ai problemi legati al reinserimento del detenuto nella società, e dalla Direzione dell’Istituto Penitenziario di Rebibbia. I testi inediti sono stati scritti dagli stessi detenuti della compagnia teatrale Stabile Assai di Rebibbia, che ha già ottenuto molti riconoscimenti: due volte il primo Premio Troisi, la Palma dell’Eccellenza e la Medaglia d’Oro del Capo dello Stato Giorgio Napolitano per il valore sociale. Lo spettacolo, diretto da Antonio Turco (Responsabile del Dipartimento delle Politiche Sociali di Aics) in collaborazione con la psicoterapeuta Sandra Vitolo e la Teatro-terapeuta Patrizia Spagnoli, si articolerà in quattro quadri scenici: il primo si svolgerà all’interno della sezione dei minorati psichici, il secondo in quella dei detenuti anziani, il terzo vedrà coinvolti i cittadini immigrati che offriranno al pubblico piatti tipici delle loro terre di origine e il quarto, dedicato all’amore, si realizzerà nel suggestivo scenario di un giardino abbandonato con una vecchia fontana ed una voliera che accompagneranno l’idea dell’amore come unica forma di evasione. “Il teatro - il Presidente Aics, Bruno Molea - è uno strumento utile per il recupero e la rieducazione dei detenuti che l’associazione utilizza nell’ambito dei 32 contesti penitenziari in cui opera. Occorre infatti dare un senso alla pena detentiva e proprio per questo motivo “Rifiuti solidi, rifiuti urbani” rappresenterà un evento straordinario che darà la possibilità al pubblico presente di avere un contatto diretto con la realtà di un carcere, troppo spesso concepito soltanto come un luogo punitivo e afflittivo”. L’accredito per i giornalisti è previsto alle ore 15,30 in Via Bartolo Longo, 72 a Roma. Cinema: “Le stanze aperte”, un viaggio non convenzionale all’interno dell’Opg di Napoli di Duccio Ricciardelli www.cinemaitaliano.info, 24 settembre 2013 Il film di Maurizio e Francesco Giordano è un viaggio all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli, condotto in modo non convenzionale. “Le stanze aperte” di Maurizio e Francesco Giordano, si presenta come un viaggio nell’esistenza carceraria dell’OPG Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli, realizzata attraverso parti documentarie e altre messe in scena a soggetto. La parte “costruita” appare più debole, benché non priva di un suo particolare e obliquo fascino, mentre gli elementi puramente documentari sembrano più sbalzati, più potenti nella loro spoglia descrizione della realtà. Un doc certamente non convenzionale, che coraggiosamente dal punto di vista filmico e del linguaggio, tenta una strada alternativa al “tradizionale” film sulle carceri italiane. Ma se la prova è solo parzialmente riuscita, occorre comunque sottolineare i meriti del lavoro, che nei momenti più alti assume un aspetto onirico, spiazzante, inaspettato, dovuto anche all’uso di musiche sinfoniche classiche, in rapporto a un contesto affatto armonico, e a un montaggio allucinato che ignora le regole canoniche. Oltre al merito per la scelta del soggetto filmato, “Le stanze aperte” ha quello di non limitarsi a un approccio convenzionale, tentando con coraggio la strada del documentario alternativo. Libri: “Iperincarcerazione, neoliberismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti” recensione di Valerio Guizzardi Il Manifesto, 24 settembre 2013 “Innanzitutto, la crescita straordinaria delle sanzioni penali contribuisce a disciplinare le frazioni recalcitranti della classe operaia, aumentando il costo delle forme di resistenza al lavoro salariato desocializzato che si manifestano attraverso strategie di “exit” verso l’economia informale. [...] In secondo luogo, l’apparato carcerario contribuisce a “fluidificare” il lavoro a basso salario e comprime artificialmente il tasso di disoccupazione, sottraendo alla forza-lavoro totale milioni di soggetti dequalificati. Si stima che il confino penale abbia tagliato di ben due punti percentuali il tasso di disoccupazione statunitense durante gli anni Novanta”. Sarà forse inusuale iniziare la recensione di un libro con una citazione dallo stesso, ma davvero ci sembra utile segnalare fin da subito il nocciolo attorno al quale Loïc Wacquant sviluppa il suo ultimo lavoro. “Iperincarcerazione. Neoliberismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti”, Ombre Corte 2013, è un “diario della crisi” dell’Impero visto da uno dei suoi lati più oscuri: il disastro sociale, eppur funzionale e messo a valore, che l’ideologia neoliberista ha provocato negli States. Lo stesso autore con Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Derive Approdi 2006 e Simbiosi mortale. Neoliberismo e politica penale, ombre corte 2002, quindi ancora prima che esplodesse la bolla finanziaria del 2008, annunciata dal fallimento della Lehman Brothers, aveva anticipato come il controllo e la gestione della marginalità, tramite l’ipertrofia penale e carceraria, avrebbero portato gli Usa a essere elencati tra i paesi con il più alto tasso di carcerizzazione del mondo esibendo senza alcuna vergogna 716 prigionieri su 100.000 abitanti al 2012 (Icps - International Centre for Prison Studies). Del resto, a margine, va detto che il neoliberismo e i suoi profeti, i Chicago boys, quando ancora lavoravano “all’ingrosso”, avevano già dimostrato un certo talento su come gestire con innegabile efficacia gli effetti collaterali della totale supremazia del mercato. Il golpe cileno dell’11 settembre 1973 sta a dimostrarlo. Effetti collaterali dunque, tornando all’oggi, non più gestiti “all’ingrosso” ma al “dettaglio”; il neoliberismo, almeno a casa sua, non ha bisogno di modificare così in profondità la struttura dello Stato. Gli basta un’artata ridislocazione di alcuni meccanismi sociali: dalla distruzione del welfare, passando per il workfare, si arriva al prisonfare. Questo passaggio, sostiene Wacquant, non riguarda tutti gli americani ma una maggioranza percepita come classe pericolosa, una galassia caleidoscopica costituita da un’infinità di soggetti e gruppi sociali caratterizzati da una loro specificità: l’irriducibilità a un mercato del lavoro sempre più desocializzato, strutturalmente precario e schiavistico, che li induce a rivolgersi all’economia informale di strada. In altre parole, all’assunzione non convenzionale di reddito. Sono i poveri, i reietti, i disoccupati, le etnie ispaniche e nere, il sottoproletariato delle grandi periferie metropolitane, i sofferenti psichiatrici, le prostitute e i tossicodipendenti (A. Dal Lago, La produzione della devianza, ombre corte 2000). Da qui la soluzione neoliberista, con un’espansione ormai illimitata dello stato penale su quello sociale, l’ipertrofia degli apparati del controllo disciplinare a scapito di chi ha accettato le condizioni spaventose del lavoro postindustriale, e di chi da questo ne è stato escluso. Di conseguenza, naturalmente, si è avuto a seguire un business penitenziario (Nils Christie, Il business penitenziario, Elèuthera 1996) in continua evoluzione: si veda il processo di privatizzazione della pena e della sua gestione con l’ingresso tra i Settanta e i Novanta delle società imprenditoriali del settore (oggi in riduzione), un’enorme produzione di servizi forniti dai soliti privati in appalto (sanità, educazione, assistenza, logistica, ecc.), il sovradimensionamento di tutto l’apparato punitivo (polizia, agenti penitenziari, Corti penali) e della professione forense. Un affare che complessivamente macina profitti per miliardi di dollari l’anno. Stesso enorme business per le industrie che portando la produzione all’interno degli stabilimenti penitenziari hanno trovato lavoro vivo a sfruttamento totale sotto ricatto e a prezzi imbattibili se paragonati a quelli di fuori. Facile quindi capire quanta ragione ha Wacquant nell’affermare che “[...] il workfare restrittivo e il prisonfare in espansione compongono un unico ingranaggio organizzativo incaricato di disciplinare e supervisionare i poveri secondo una filosofia ispirata al comportamentismo morale; e che un vasto e costoso apparato penale non è semplicemente una conseguenza del neoliberismo [...] ma una componente integrale dello stato neoliberale in sé”. Però il neoliberismo si guarda intorno e colpisce laddove trova le condizioni più idonee alla propria dittatura: in Europa gli stati delle costituzioni liberali novecentesche, tradendo le stesse, hanno accolto di buon grado il modello d’oltreoceano applicando i principi della supremazia del mercato selvaggio in piena crisi strutturale e tendenzialmente suicida. Gli effetti si vedono tutti da tempo: cessione della sovranità e dell’economia reale alle oligarchie criminali finanziariste internazionali, cioè organismi privati sovranazionali eletti da nessuno, un circuito bancario, anch’esso caratterizzato da una forte propensione criminale, che depreda ogni sostanza pubblica a mezzo dell’iperattività dei suoi uomini eletti (quelli sì) nei vari parlamenti da quello europeo a quelli nazionali, tassi di disoccupazione alle stelle, espansione in continuo aumento della povertà relativa e assoluta, proletarizzazione dei cosiddetti ceti medi, spostamento del reddito dal basso verso l’alto con un aumento esponenziale della rendita estorta e incamerata dai ricchi ogni giorno sempre più ricchi e tante altre nefandezze che qui rinunciamo a elencare. Ma tornando all’argomento che stiamo trattando, l’importazione del modello penale statunitense ha portato l’Europa a raddoppiare i tassi di carcerizzazione negli ultimi 25 anni portandoli ad assestarsi a una media odierna di 100 prigionieri ogni 100.000 abitanti con un trend dell’ipertrofia dello Stato penale e del suo indotto produttivo in continuo aumento. Nondimeno l’Italia, da brava prima della classe, che dal 1966 al 1992 aveva un tasso di carcerizzazione tra 50 e 60 prigionieri per 100.000 abitanti, dal 1992 in soli 8 anni è passata a 100 su 100.000. Al 2012 il nostro Paese vanta una percentuale temporaneamente in assestamento di 109 su 100.000 (Icps - International Centre for Prison Studies). Gli altri dati della vergogna più noti al pubblico sensibile e facilmente riscontrabili sul web sono i seguenti: dopo aver toccato una punta di 70.000 negli anni precedenti, la popolazione carceraria pare provvisoriamente assestata su 66.000 prigionieri nei 206 istituti penali esistenti. Il tasso di sovraffollamento è 140, ossia 140 prigionieri per 100 posti letto effettivamente disponibili. La composizione carceraria mostra un 37% d’imprigionati per aver violato le leggi sulle sostanze, con un drastico aumento numerico riscontrato dopo l’entrata in vigore della “Fini-Giovanardi” (Legge 309 del 28/02/2006), e un 35% di stranieri come “ottimo” risultato della “Bossi-Fini” (Legge 189 del 30/07/2002). Il rimanente è costituito da poveri diavoli perlopiù incarcerati per rati predatori di strada, nomadi, prostitute, psichiatrizzati e marginalizzati in seguito all’espulsione dal mercato del lavoro. Poco meno di 700 i murati vivi dell’incostituzionale 41 bis (violazione dell’art. 27, 3° comma, della Costituzione) tra i quali si riscontra il 4% di suicidi sul totale. L’ergastolo, messo all’indice nel 2013 da una sentenza della Corte europea dei diritti umani per palese violazione di tali diritti e incostituzionale secondo il solito art. 27, 3° comma, della Costituzione italiana, colpisce circa 1400 prigionieri. Si aggira intorno al 40% sul totale il numero degli imprigionati in custodia cautelare o con sentenze non definitive, dei quali circa la metà saranno scarcerati in seguito all’accertamento della loro innocenza dopo mesi o anni di galera a titolo gratuito. La tortura in carcere esiste da quando la perversione umana l’ha inventato (M. Foucault,Sorvegliare e punire, Einaudi 1976) e sopravvive ancora oggi, non solo per la disumana condizione cui il sovraffollamento endemico e strutturale sottopone i prigionieri, ma anche a mezzo di “squadrette” fuori controllo di agenti violenti che si aggirano indisturbate nelle galere nostrane. Non si tratta di estorcere confessioni - a questo ci pensano al momento dell’arresto gli addetti nelle celle di sicurezza dei commissariati e caserme - ma di stabilire un rigido controllo disciplinare all’interno degli istituti penali e giudiziari (S. Verde, Massima sicurezza, Odradek 2002). Di norma i pestaggi colpiscono i prigionieri riottosi o coloro che hanno reclamato i propri diritti con una certa insistenza. Queste violenze in genere avvengono nelle celle d’isolamento, lontano da eventuali testimoni, nelle quali i malcapitati sono trasferiti per subire il “trattamento” “In quei buchi fetenti non ti sente né ti vede manco Dio, se sei credente” (cit.). Un’altra vergogna italiana pluricondannata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sulla quale il Parlamento non ha nessuna intenzione di intervenire promulgando un’apposita legge, i cui numerosi disegni depositati da rari parlamentari sensibili giacciono dimenticati nei cassetti di Palazzo Montecitorio. Si è tentato di importare anche uno dei tratti più distintivi dell’iper-incarcerazione neoliberista americana (e inglese) che consiste nella privatizzazione della gestione dell’applicazione penale in carcere. Ma l’idea di aderire alla proposta governativa contenuta nel Decreto Legge 24 gennaio 2012 (V. Guizzardi, Il business penitenziario. Processi di privatizzazione e valorizzazione capitalistica, Uninomade.org) non ha per nulla entusiasmato gli imprenditori del cemento e della sofferenza; infatti per ora nessuno si è presentato, forse perché riconoscendo nello Stato un criminale più potente di loro hanno concluso che l’investimento non sarebbe stato molto redditizio, date le trappole disseminate sui percorsi burocratici e i rituali mancati pagamenti (al netto delle mazzette obbligatorie alla mafia e ai partiti). Sta di fatto che fortunatamente quel decreto scellerato è stato rimesso nel cassetto. Per ora. Infine, dal 2000 al 10 settembre 2013 nel nostro circuito penitenziario si sono avuti 2200 morti di cui 790 suicidi (sez. morire di carcere, ristretti.org). Morti per violazione statale del diritto di accesso alla sanità e alla cura, quindi per Aids, tumori, epatiti, cardiopatie gravi, psicopatologie e altre patologie quasi tutte acquisite in carcere a causa della promiscuità, di ambienti malsani, malnutrizione e stress psicofisico da detenzione. Più quelli che la sinistra burocrazia carceraria classifica come “da accertare”, ovvero quelli “caduti dalle scale”. Dati davvero spaventosi che si configurano come una vera e propria strage di Stato. Nel Paese dell’illegalità legale che vanta la classe politica più corrotta, collusa e ad alto tasso di criminalità d’Europa, l’importazione del modello neoliberista ha già prodotto, come si è visto sopra, danni sociali devastanti a scapito di vasti settori delle classi subalterne. Ma non è finita qui: negli ultimi 25 anni tutti i governi di ogni colore che si sono succeduti - con una spiccata attività securitaria del centrosinistra (rimarranno infatti scolpiti nella storia sociale del Paese i disastri umani provocati dalle “riforme” Fassino 2001, Diliberto 1999 e dalla coppia Turco-Napolitano con l’istituzione dei lager per migranti 1998) - hanno usato il Parlamento come una clava sulle “classi pericolose” (E. Quadrelli, Andare ai resti e Gabbie metropolitane, Derive Approdi 2004, 2005). Non serve un esperto per osservare che vi è stata, e vi è tuttora, una produzione spropositata di leggi e decreti che hanno provocato un allargamento dello Stato penale impensabile fino agli anni Novanta. L’evidenza sta nella continua invenzione di nuove fattispecie di reato, nell’innalzamento delle pene edittali, nella concessione alla Magistratura (che meriterebbe un intero capitolo a parte) dell’uso spropositato della custodia cautelare in carcere come anticipo (incostituzionale) della pena, dell’uso discrezionale dell’art. 41 bis su esplicita richiesta dei Ministeri di giustizia e dell’interno, nell’uso razzista e xenofobo dei Cie con violenze e torture annesse. Ancora, le continue campagne securitarie ampiamente amplificate dai media di regime per spaventare la popolazione al solo scopo di raccattare consensi sul piano del mercato elettorale. In altre parole, estorsione del consenso a mezzo di terrore. E del resto, come osserva correttamente Patrizio Gonnella in prefazione, una volta ceduta la sovranità a organi sovranazionali come Fmi, Bce, Banca mondiale, Troika - con l’efficace collaborazione di Bilderberg Group, Aspen Institute, Trilateral e altri organismi privati semiclandestini -, agli stati non rimane che il potere punitivo, al quale tengono enormemente e ritengono inaccettabile ogni intromissione sul “corretto” uso della forza cieca. Ne è testimone il fatto che gli alti tassi di carcerazione non corrispondono affatto a quelli della commissione di reati sul territorio i quali, basta vedere le apposite statistiche, sono di molto inferiori. E la situazione generale di cui stiamo trattando non fa che peggiorare. Naturalmente non tutti stanno imbelli a osservare: la crisi morde ogni giorno più forte e movimenti di gruppi sociali e settori delle classi subalterne (a rischio continuo di carcerizzazione) si muovono a macchia di leopardo nel Paese senza però trovare un progetto unitario utile ed efficace per - lo diciamo senza tanti giri di parole - “abolire lo stato di cose presenti”. Il movimento popolare No Tav da vent’anni, i No Muos, i No Ponte, il precariato sociale, i lavoratori della logistica, occupanti senza casa, migranti, da un po’ di tempo finalmente anche i detenuti che reclamano un immediato provvedimento di amnistia e indulto generalizzati contestualmente all’abolizione delle leggi carcerogene e riforme adeguate (V. Scalia, Migranti, devianti e cittadini, Angeli 2005), costituiscono indubbiamente un patrimonio di lotte considerevole numericamente e importantissimo che procura non pochi grattacapi ai professionisti della paura, della sofferenza e della punizione. I quali reagiscono nel solo modo in cui sono capaci: arrestare più soggetti possibile e incapacitarli in un circuito penale ipertrofico in cui si compirà il rito sacro della vendetta sociale, della rappresaglia e della violenza punitiva. Sta quindi a noi, incompatibili e riottosi a questa macchina infernale e disumana di nome Neoliberismo, trovare la giusta strada. Con una raccomandazione: la corretta conservazione della memoria storica di classe è essenziale per determinare la direzione giusta da prendere. E soprattutto con chi. India: il ministro Mario Mauro; su “caso marò” siamo vicini a completamento indagini Ansa, 24 settembre 2013 “Sulla vicenda dei Marò detenuti in India siamo vicini al completamento delle indagini”. Lo ha detto il ministro della Difesa, Mario Mauro, a margine della manifestazione conclusiva 2013 delle Frecce Tricolori a Rivolto (Udine). Il ministro ha sostenuto che sul caso dei due fucilieri “il Governo italiano ha fatto della trasparenza un suo elemento distintivo”, soffermandosi poi anche sul problema degli altri quattro Marò che l’India vorrebbe interrogare. “Anche le leggi indiane dicono che si possono audire in altro modo - ha concluso Mauro - e il Governo su questo è stato chiaro”. Libia: Rapporto Onu; ottomila detenuti in mano alle milizie fuori da controllo dello Stato Aki, 24 settembre 2013 Circa ottomila persone in Libia sono detenute in carceri gestite dalle milizie e dunque fuori dal controllo dello Stato a oltre due anni dalla rivoluzione che ha portato al rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi. È quanto denuncia un rapporto Onu presentato al Consiglio di Sicurezza, nel quale si definisce “inaccettabile” una condizione che vede molti detenuti vittime di torture e maltrattamenti. “Abbiamo un grande problema. Ma è un problema che stiamo cercando di affrontare”, ha detto in merito il ministro della Giustizia libico Salah Marghani, contattato dall’agenzia di stampa dell’Onu Irin. “Non abbiamo rinunciato (ad affrontare la questione, ndr). Anche se le circostanze sono difficili, stiamo ancora cercando di migliorare la situazione”, ha aggiunto. Nel rapporto Onu si stima che siano circa ottomila le persone arrestate dalle milizie, alcune detenute in strutture che solo “a livello nominale” sono sotto l’autorità dei ministeri della Giustizia o della Difesa, e la maggior parte in mano a “brigate armate non affiliate allo Stato in alcun modo”. “Sono profondamente preoccupato per i progressi lenti e insufficienti per il trasferimento allo Stato dei detenuti che sono sotto la custodia delle brigate armate”, ha detto il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. Secondo dati Onu, ci sono prove che almeno 10 dei decessi avvenuti sotto custodia quest’anno sono stati determinati da torture e nessun responsabile è stato consegnato alla giustizia. Ci sono inoltre prove che dimostrano che continuano le torture anche nelle carceri controllate dal governo di Tripoli. “Ad ora, l’unico fattore che ha fatto calare il numero di detenuti maltrattati e torturati sono state le crescenti evasioni di massa”, ha detto la ricercatrice di Amnesty International Magda Mughrabi. “Abbiamo visitato carceri dove gli abusi avvenivano in modo sistematico - ha spiegato Mughrabi - Spesso le milizie andavano e venivano a loro piacimento, anche se le carceri erano teoricamente sotto il controllo del governo. (I miliziani, ndr) erano meglio armati rispetto alla polizia penitenziaria e trattavano i prigionieri come volevano. In un centro di detenzione abbiamo anche registrato un caso di un detenuto rapito in cella da un miliziano”. Amnesty International ha anche denunciato casi di detenuti picchiati con tubi di gomma, ustionati e sottoposti a scariche elettriche. I detenuti hanno anche raccontato all’organizzazione di essere stati feriti ai genitali e che è stato loro spruzzato insetticida negli occhi. “Siamo ancora in uno stato di rivoluzione - ha detto il ministro della Giustizia Marghani - Basta vedere la quantità di armi che è ancora in circolazione. Il livello di controllo che si può avere in una simile situazione è limitato”. Marghani spiega che oltre diecimila ex ribelli che sono stati integrati nella polizia penitenziaria hanno solo un addestramento di base e questo è un aspetto che la Libia sta cercando di modificare con l’aiuto della comunità internazionale. “Abbiamo un buon programma per addestrare le guardie penitenziarie in sede, ma la nostra capacità è limitata”, aggiunge il ministro. La missione Onu di sostegno alla Libia, insieme alla Ue e alla Gran Bretagna, ha avviato un programma di addestramento della polizia penitenziaria e giudizaria, ma il livello di assistenza non è sufficiente. “Il numero di coloro che necessitano di addestramento è enorme. Senza un programma su larga scala è impossibile cambiare la cultura in queste istituzioni”, ha detto Karim Salem dell’Organizzazione mondiale contro la tortura. Tunisia: le manette all’informazione, arrestati otto giovani artisti impegnati in politica di Annamaria Rivera Il Manifesto, 24 settembre 2013 Tre giorni fa ho appreso con angoscia dell’arresto di un amico tunisino, il cineasta Nejib Abidi, e di altri 7 giovani artisti impegnati. All’alba del 21 settembre la polizia ha fatto irruzione in casa di Nejib e con lui ha arrestato Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Sita Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, nonché due amiche artiste. Ho conosciuto Nejib e i suoi compagni a Tunisi, dove mi avevano intervistata sulla vicenda, tragica e oscura, dei giovani partiti in mare alla volta di Lampedusa nel marzo del 2011 e scomparsi nel nulla. Vicenda sulla quale intendevano realizzare un documentario. L’avevo poi ritrovato a Roma: era venuto in Italia, insieme ad altri, a cercare tracce e testimonianze sui dispersi. Un comunicato di solidarietà con gli otto arrestati, del 22 settembre, redatto da un gruppo di attivisti che fa riferimento a Radio Chaabi (fondata dallo stesso Nejib), informa che il giorno prima dell’arresto qualcuno si era introdotto in casa a rubargli i due hard disk contenenti i rush del documentario e aveva cancellato irrimediabilmente i dati del secondo. Nejib - continua il comunicato - era “apparso in pubblico l’ultima volta durante le manifestazioni in sostegno di Labeur Mejri e Nassredine Shili, produttore del suo film”. Ricordo che Mejri è uno dei due giovani di Mahdia che nel 2012 furono condannati (il secondo, Ghazi Béji, in contumacia) a ben sette anni e mezzo di carcere per aver postato su Face-book testi e immagini reputati blasfemi. E Shili, attore e regista, è in prigione per il lancio di un uovo contro il ministro della Cultura, il laico Mehdi Mabrouk, un tempo sociologo delle migrazioni e oppositore del regime penalista, del quale ha sempre denunciato la politica liberticida, è oggi zelante esecutore della linea repressiva del governo dominato da Ennahda, il partito islamista. Nel contesto della grave crisi politica conseguente agli assassini premeditati di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi - leader dell’opposizione e dirigenti del Fronte popolare, si è intensificata la caccia alle streghe contro chiunque pretenda di esprimersi, comunicare, informare in modo libero, indipendente, nonconformista: femministe (a cominciare da Amina “Tyler” Sboui), rapper, graffitisti, artisti di strada, blogger, giornalisti anche ben noti come Zied el-Heni, perfino proprietari di tv non addomesticate. I più tratti in arresto in modo del tutto illegale, imputati con accuse grottesche, sottoposti a processi-farsa da una magistratura che niente sembra avere di indipendente. Nel caso di Nejib e degli altri sette, finora, si scrive nel comunicato, “non è stata fornita alcuna ragione ufficiale che giustifichi il loro arresto e la loro detenzione” e si ignora “il luogo dove sono stati condotti e il loro stato dì salute”. Anche in questo caso c’è da confidare nella risposta della società civile tunisina, perché gli otto siano presto liberati. Non è una fiducia infondata: il 17 settembre scorso, per protestare contro l’intensificarsi della repressione e i tentativi crescenti d’imbavagliare l’informazione, il sindacato nazionale dei giornalisti insieme con il sindacato della cultura e dell’informazione dell’Ugtt aveva promosso uno sciopero generale riuscito al 90%. È questa diffusa reattività sociale che ci fa ritenere sia un errore dare per sepolta la Rivoluzione del 14 gennaio. È vero: la Tunisia attraversa oggi la fase più difficile della transizione, segnata da una gravissima crisi politica, che sembra irresolubile e in più si accompagna con un altrettanto grave crisi economica e sociale. Nondimeno lo spirito della rivoluzione non sembra affatto morto, come testimoniano Nejib Abidi e i tanti giovani e meno giovani attivisti e attiviste che ogni giorno lo vivificano, quello spirito, con la parola, l’arte, la performance, la lotta.