Affetti e carcere: l’Albania e il Kazakhstan sono più civili di noi Il Mattino di Padova, 23 settembre 2013 Nel Kazakhstan, alcune volte all’anno le mogli passano con i loro mariti detenuti tre giorni e tre notti. Nelle carceri albanesi invece marito e moglie possono passare insieme alcune ore, senza i controlli degli agenti. Succede, in due Paesi che noi riteniamo senz’altro meno civili del nostro, che le carceri abbiano qualcosa di più civile che non in Italia, i colloqui “intimi”. Quella che segue è una testimonianza dall’Albania, e poi il delicato racconto di una donna, moglie di un detenuto politico, incinta, che in Kazakhstan va a trovare il marito in una colonia penale e passa con lui tre giorni pieni di amore, di sofferenza anche, di piccole cose condivise. Viene da vergognarsi a pensare che, quando in Italia si è cercato di parlare di colloqui intimi per le persone detenute, i nostri giornali hanno intitolato “Celle a luci rosse”. Nelle carceri albanesi, colloqui prolungati svolti in ambienti riservati Mi trovo per un periodo di studio a Tirana, dove c’è un ufficio che svolge visite ispettive nelle carceri. Si tratta di un’attività di monitoraggio svolta all’interno dell’ufficio del Garante nazionale. Ho così l’occasione di conoscere da vicino la condizione carceraria albanese. Confesso che la prima cosa che colpisce è come la Costituzione albanese abbia accolto le direttive dettate da organismi internazionali che operano per insegnare a rispettare i diritti umani. Ad esempio l’articolo 17 dichiara che le limitazioni delle libertà e dei diritti non possono andare oltre ai limiti previsti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inserire nella Costituzione la Carta internazionale più importante in materia di diritti umani penso sia un grande gesto di umiltà. E penso anche a tutte le Corti italiane chiamate in causa in questi anni per decidere su problemi nati nel dare applicazione alle sentenze della Corte europea, e mi domando se un articolo simile non potrebbe essere una soluzione. L’art. 25 poi dichiara che nessuno può essere sottoposto a tortura, a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Ricordo le giornate passate sotto il sole padovano a raccogliere firme per una proposta di legge che introduce il reato di tortura, mentre qui la tortura c’è anche nel Codice penale, chiaramente definita come circostanze e come sanzioni. Ad una prima lettura, la parte riguardante i rapporti con le famiglie sembra invece essere stata copiata dall’Ordinamento penitenziario italiano. Infatti, l’articolo 57 del Regolamento penitenziario albanese prevede quattro colloqui al mese. Solo che il secondo comma enuncia una cosa singolare, “uno dei colloqui è prolungato fino a cinque ore, per i detenuti sposati e con figli”. Ancora, l’art. 41 della Carta dei diritti e del trattamento dei detenuti, del 1998, dice che le visite prolungate possono essere svolte in ambienti riservati. In poche parole, il detenuto può trascorre uno dei quattro colloqui previsti in un mese, con moglie e figli, in una stanza separata per un periodo prolungato: una frase semplice e comprensibile, eppure, in Italia nessuno ha trovato il coraggio di scrivere qualcosa del genere. Anche riguardo alle telefonate la normativa albanese supera quella italiana in quanto prevede otto telefonate al mese, ciascuna della durata di 10 minuti (una a settimana in Italia). E il Direttore può autorizzare altre telefonate supplementari. Otto telefonate significa poter chiamare a casa ogni tre giorni, un privilegio che farebbe arrossire d’invidia molti detenuti italiani. Sicuramente non sono così ingenuo da scrivere che le carceri albanesi garantiscono ai detenuti livelli di vita migliori rispetto all’Italia. Le difficoltà economiche, l’illegalità diffusa e la complessa situazione politica ingabbiano la gestione della cosa pubblica in una situazione ancora molto carente. Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, visitando le carceri albanesi, si è dapprima congratulato per l’aumento del numero delle telefonate (specialmente per i minori che possono fare sedici telefonate al mese) e del numero delle visite, poi però ha visto che nella maggior parte degli istituti visitati l’orario dei colloqui era ridotto a 15-20 minuti. Una pratica considerata intollerabile agli occhi degli esperti europei. Se in materia di colloqui e di telefonate la norma ha cercato di rispecchiare gli standard europei, la cosa strana è che durante il processo di riforma del sistema penale e giudiziario albanese, tra gli esperti chiamati a seguire il lavori vi erano diversi italiani: non è facile immaginare i loro commenti mentre i tecnici albanesi scrivevano “colloqui prolungati di 5 ore…”, oppure “otto telefonate…”. Forse si sono resi conto anche loro che a Roma c’è ancora molto da fare, e che si deve iniziare dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario, dove i colloqui intimi e la liberalizzazione delle telefonate devono essere la priorità perché l’Italia possa diventare davvero un esempio di civiltà. Elton Kalica Nelle carceri del Kazakhstan, tre giorni e tre notti da passare con i propri cari Voglio condividere con voi le sensazioni che ho provato nel mio incontro in carcere con mio marito Vladimir. 8 agosto mattina. Arrivo in aereo a Kokshetau e da lì raggiungo in più di quattro ore Petropavlovsk. Stanno riparando la strada, dappertutto interruzioni, la velocità non supera mai i 20 chilometri all’ora. A Petropavlovsk corro al mercato per comperare i generi alimentari che mi servono… Tutta la sera e metà notte l’ho passata a cucinare. La cucina comune nelle “stanze degli incontri prolungati”, anche se è grande, non è sufficiente per 18 donne insieme. Per questo avevo deciso che avrei preparato da mangiare il più possibile prima del colloquio. Il 9 mattina vado al carcere per consegnare i documenti per il colloquio. Dal momento della consegna al momento in cui noi parenti veniamo fatti entrare, passano quattro ore. Dappertutto recinzioni alte, filo spinato, cani, soldati dell’esercito. Un’altra ora passa nel controllo di tutti i famigliari, e anche dei prodotti alimentari. Alla fine ci comunicano il numero delle stanze. Tutte noi, mogli, madri, sorelle corriamo subito in cucina per riscaldare qualcosa, preparare il te, intanto che aspettiamo i nostri cari. Poi sono andata nella stanza. E li la schiena ha cominciato a farmi male, il bambino si è mosso nella pancia. Ho pensato di stendermi cinque minuti prima di tornare a vedere se arrivava mio marito. Ma non è andata così… Apro gli occhi, e lui sta davanti a me, e sorride. Avevo proprio dormito! Volodja ride di me, scherza sulla mia faccia assonnata, come faceva prima in libertà... mi chiama “panciona”, e tutti e tre i giorni del nostro colloquio mi ha chiamata così. La mia schiena di tanto in tanto mi fa male, e visto che anche lui soffre di mal di schiena, ci siamo fatti un massaggio a vicenda. Quanto poco basta agli esseri umani per la felicità! Decido poi che passerò quei tre giorni a far mangiare Volodja 24 ore su 24, non mi piace il suo aspetto, è troppo dimagrito. Subito gli annuncio che prepareremo il pollo al forno, le polpette, dolci e ciambelle, e ci mangeremo tutto. Volodja è l’unico maschio che aiuta in cucina, le altre donne invece passano quasi tutto il giorno a cucinare mentre i loro mariti stanno seduti nella “sala comune” a guardare la televisione. Il peggior nemico in questi incontri è il tempo che corre, e io sento che molto presto si porteranno via di nuovo mio marito... Dopo il pranzo torniamo nella nostra stanza per parlare, o stare seduti in silenzio, abbracciati. Ognuno di noi sta cercando di non far vedere all’altro quanto male sta… Io un paio di volte mi sono girata silenziosamente, per piangere di nascosto. Purtroppo, non sempre sono riuscita a trattenere le lacrime. Il 10 agosto abbiamo festeggiato il suo compleanno seduti a un tavolino mangiando polpette. Volodja continuava a dire: Oggi ho mangiato come a casa, tutto fatto in casa, tutto mi ricorda casa. La casa è dove sei stato bene. È stato piacevole e triste allo stesso tempo. Il nostro bambino ha deciso di darci un po’ di gioia: ha cominciato infatti a fare una attività frenetica. All’inizio scalciava sotto le mie mani, ma non appena Volodja ha messo una mano sulla pancia, subito si è bloccato. Sembrava che sentisse che erano le mani di uno sconosciuto… Così è stato per tutto il giorno, ma alla sera il bambino era già abituato a suo padre e ballava allegramente sotto le sue mani. Il tempo è volato senza che ce ne accorgessimo. Ed ecco arriva la mattina del 12 agosto. L’umore si fa sempre più nero, aspetti ogni minuto che vengano a prendere i detenuti, tutto diventa triste. Nell’aria, c’è nervosismo. Tutti si guardano, come se fosse l’ultima volta. Poi anche Volodja se ne va salutandomi a lungo con la mano. A questo punto ti rendi conto che la cosa peggiore non è il dolore fisico, è il dolore nell’anima. E qualcuno dall’alto, per una specie di capriccio, gode a infliggerti questo dolore... Mi assale un senso di solitudine, sento che mio marito mi manca, che ho già nostalgia di lui, della vita insieme. Per noi donne è più facile: abbiamo pianto, poi ci siamo un po’ calmate. Ma ho visto tanta sofferenza negli occhi di quelli che sono rimasti nella galera... Se gli uomini potessero almeno piangere... La moglie di un detenuto nelle carceri del Kazakhstan Giustizia: i nuovi schiavi delle carceri privatizzate di Carlo Formenti MicroMega, 23 settembre 2013 La privatizzazione delle carceri, pratica in cui eccellono Stati Uniti e Inghilterra, avanguardie mondiali del liberal liberismo, è una scelta ignobile che espone migliaia di detenuti alle vessazioni di guardie il cui comportamento, di fatto, è sottratto a ogni controllo politico e giuridico. Vessazioni che si manifestano sotto forma di percosse, isolamento, riduzione degli standard nutrizionali e altro e che si fanno più frequenti a mano a mano che le imprese, per ridurre i costi e aumentare i margini di profitto, tagliano gli organici, per cui i carcerieri - già poco inclini al rispetto dei diritti dei detenuti - diventano ancora più sadici per paura di essere sopraffatti. Ma questo è solo un aspetto del problema: le carceri private non sono solo un luogo in cui vengono ignorati i diritti fondamentali di alcuni cittadini, sono anche la metafora perfetta di un modello di accumulazione caratterizzato dal definitivo divorzio fra democrazia e capitalismo, come ha denunciato Slavoj Zizek. Il lavoro coatto che si svolge nelle carceri private è parente stretto sia della riduzione in schiavitù di vagabondi, debitori e altri esponenti delle “classi pericolose”, che venivano rinchiusi nelle working house nel Settecento, sia dei “campi” in cui il capitalismo del XXI secolo concentra i nuovi schiavi che operano nelle filiere decentrate delle imprese multinazionali. Ma c’è di peggio: da un articolo dell’Huffington Post apprendiamo che alcuni Stati americani hanno stipulato con le imprese private contratti che li impegnano ad affidare una quantità minima di prigionieri alle loro “cure”. In altre parole, le imprese pretendono che tutti - o almeno quasi tutti - i loro letti (per insistere sulla metafora sanitaria) siano occupati, onde sfruttare al meglio la “capacità produttiva” della struttura. Quando queste quote non vengono rispettate, le imprese fanno causa all’amministrazione pubblica e, se quest’ultima si azzarda a perseguire politiche meno repressive in tema di piccola criminalità e/o di ordine pubblico, avviano massicce azioni di lobbying per obbligarle a invertire rotta. In altre parole, siamo di fronte alla convergenza di interessi fra “padroni” delle carceri, destra politica, opinione pubblica manipolata da opportuni messaggi sull’aumento reale o presunto della criminalità, magistrati forcaioli (o corrotti) per aumentare sia il numero che la durezza delle condanne. E, visto che da noi sono riusciti a trasformare in “terroristi” i militanti dei movimenti politici e sociali radicali anche senza l’aiuto di questi interessi privati, provate a immaginare cosa potrebbe succedere se, nel già ampio programma di privatizzazioni annunciato da Letta, venissero inserite anche le carceri. Giustizia: Renzi (Pd); no a riforma fatta con i referendum, sono sconfitta del Parlamento Tm News, 23 settembre 2013 “Non sono convinto che la riforma della giustizia, penso alla separazione delle carriere ad esempio, si possa fare per referendum.” Lo ha detto Matteo Renzi, sindaco di Firenze, ad Omnibus. “Io non firmo i referendum perché credo ad un sistema nel quale appena eletto il Parlamento possa fare le leggi. Il referendum -ha continuato Renzi - è la sconfitta del Parlamento. Nasce come strumento per modificare una o due norme, poi arrivano i radicali. È diventato grazie all’opera dei radicali, positiva in molti casi, uno strumento di pressione sul Parlamento. Nell’inerzia del Parlamento che da anni chiacchiera, chiacchiera, i radicali - ha concluso Renzi - riescono a proporre dei referendum per forzare.” Giustizia: Sappe; vietare il fumo nelle carceri, altrimenti faremo migliaia di cause Adnkronos, 23 settembre 2013 L’Italia deve vietare l’uso delle sigarette nelle carceri, così come deciso in Gran Bretagna: in caso contrario il Sappe “inonderà con decine di migliaia di ricorsi tribunali e Tar, con la richiesta di risarcimento dei danni provocati dal fumo passivo”. Lo afferma Federico Pilagatti, segretario nazionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ricordando che a breve al tribunale di Roma si celebrerà la prima udienza con la richiesta di risarcimento danni per un poliziotto penitenziario di Lecce morto a 42 anni di tumore ai polmoni, che non aveva mai fumato in vita sua ma era costretto a lavorare otto ore al giorno a contatto con il fumo passivo rilasciato dalle sigarette dei detenuti fumatori. Poliziotto leccese morto di tumore ai polmoni “In Gran Bretagna hanno deciso di vietare l’uso delle sigarette nelle carceri per evitare migliaia di cause per il risarcimento dei danni provocati a lavoratori e detenuti non fumatori, mentre in Italia si registra la completa indifferenza”. Ad affermarlo, in una nota, è Federico Pilagatti, segretario nazionale Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, secondo il quale anche nella nostra nazione bisognerebbe adottare lo stesso provvedimento. Prosegue il sindacalista: “A breve, presso il tribunale di Roma, si celebrerà la prima udienza con la richiesta di risarcimento dei danni per un poliziotto penitenziario di Lecce, morto a 42 anni di tumore ai polmoni: benché non avesse mai fumato era costretto a lavorare otto ore al giorno a contatto con il fumo passivo rilasciato dalle sigarette dei detenuti fumatori. Se non sentiranno le nostre ragioni - prosegue Pilagatti - inviteremo tutti i poliziotti a chiedere di non lavorare nelle sezioni detentive fino a quando non verranno messe a norma, altrimenti inonderemo con decine di migliaia di ricorsi tribunali e Tar, con la richiesta di risarcimento dei danni provocati dal fumo passivo”. Giustizia: Uil-Pa, bisogna mediare fra diritto a salute e libertà detenuti di fumare Adnkronos, 23 settembre 2013 In carcere celle distinte per fumatori e non. Potrebbe essere questa la soluzione migliore - secondo Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa penitenziari - da adottare in Italia qualora, dopo la Gran Bretagna che ha vietato il fumo in carcere, anche il nostro Paese prendesse misure cautelative, per salvaguardare la salute di detenuti e agenti penitenziari, evitando anche cause di risarcimento danni. “L’amministrazione penitenziaria - dichiara Sarno all’Adnkronos - potrebbe valutare la possibilità di collocare, compatibilmente con gli spazi disponibili, i detenuti nelle celle, distinguendo tra fumatori e non fumatori”. “È difficile trovare una mediazione tra il diritto alla salute di chi non fuma e quello di chi vuole fumare”, ammette Sarno. “Parliamo inoltre di strutture dove i detenuti sono costretti a cucinare, dove fanno i propri bisogni, per cui è impossibile - afferma - pensare di trovare spazi, per creare aree fumatori, laddove spazi non ci sono”. “Il carcere per definizione è un luogo chiuso - conclude il segretario Uil-Pa - ma bisogna aver presente anche i diritti dei detenuti fumatori”. Giustizia: l’incontro con il Papa e l’emozione dei detenuti che sognano la redenzione La Nuova Sardegna, 23 settembre 2013 In Cattedrale 27 carcerati, tra loro due condannati a vita e due donne Il grido d’aiuto da Buoncammino: “Una pena non può essere brutalità”. Pietro l’ultima fesseria se l’è giocata in carcere: 20 anni che aspetti di ritornare fra i liberi, è quasi fatta, poi in una notte di vigilia, perdi la ragione, finisci dentro una rissa fra celle nemiche e il giorno dopo sai che hai altri 24 mesi da scontare. “In quel momento - racconta - sono morto dentro. Mi sono detto: è finita. Mi ammazzo, io sono un fesso, merito di uscire orizzontale dalla gabbia, morto”. Fino alla mattina che una mano amica, solidale, fraterna l’ha strappato alla depressione e poco dopo gli ha restituito persino la certezza “che c’è sempre un domani”. L’uomo della provvidenza è al suo fianco, nella navata della Cattedrale: Pietro e don Ettore Cannavera, sono fianco a fianco, stretti in una bancata affollata, dove salvati e salvatori ora hanno ripreso a far parte della stessa comunità. Se non fosse per il tatuaggio di Pietro, è sul collo, è un Gesù in croce, il don potrebbe essere un suo fratello di sangue, non solo ora che la fede li ha messi a confronto prima e intrecciati poi nella speranza. Hanno stessi capelli grigi, stesso nero-fumé per la giacca, stesso sorriso, stesse rughe, stessa sofferenza, stesso entusiasmo. Insieme aspettano Francesco, il Papa fratello, quello che ribalta le graduatorie sociali, con Caino che risale e torna una spanna davanti ai soliti primi della società. “Perché Bergoglio ne ha viste di tutti i colori, sa cos’è la sofferenza, e si è messo al servizio delle anime che hanno sbagliato, ma si sono redente e vogliono rinascere”, dice un volontario sotto lo sguardo attento e favorevole del direttore del carcere di Buoncammino, Gianfranco Pala. Di quella fossa sulla collina dove quasi il doppio della capienza ufficiale è stipato in celle di pochi metri: un mondo a sé, che, al passaggio del corteo papale, si è sbracciato dalle ex bocche di lupo per dire che “una pena non può essere accanimento e brutalità”. Sono emozionati, Pietro ed Ettore, nel raccontare che “in Cattedrale ci sono 27 uomini che hanno commesso reati pesanti, fatto del male eppure col pentimento e il coraggio si sono liberati dal peccato”. Sono 2 ergastolani in permesso premio, che nella chiacchierata del momento hanno coinvolto uno dei tanti agenti di custodia stavolta ingaggiati per una scorta molta discreta. Undici detenuti di Buoncammino (tra cui 2 donne), che tempo fa si sono macchiati la fedina con rapine e droga ma da un anno e più ogni mattina escono dal carcere, lavorano in casa di chi li ha condannati, caricano denunce nei computer della Procura di Cagliari, hanno riacciuffato la normalità e sottoscritto un’accorata lettera dei detenuti d’Italia al “carissimo fratello Francesco”. Una pagina e poco più a mano: finirà in busta chiusa nel cesto-dono di Gale-ghiotto, le conserve delle colonie penali di Isili, Mamone e Is Arenas. Ci sono poi i 6 reclusi di Bancali e gli 8 del carcere per i minori. Don Ettore lo dice nell’attesa: “Li abbiamo salvati con le pene alternative, perché il carcere non fa che aggiungere male al male”. Di redenzione fuori dalle sbarre, il cappellano ha scritto nella sua ultima lettera al Papa e il Papa di questo parlerà anche col ministro della giustizia, Anna Maria Cancellieri, in un breve ma intenso faccia davanti all’altare. 160 minuti di attesa volano via fra racconti del passato, terribili, e sogni, dolci, per il futuro: “Ho ritrovato il sorriso”, rivela Pietro nell’attimo in cui le campane annunciano l’arrivo del corteo nelle strade di Castello. E alle prime parole del Papa (“Nei vostri volti leggo la sofferenza di Cristo in croce ma anche la gioia della Resurrezione”), sarà proprio Pietro a inginocchiarsi subito e a sussurrare al vicino, don Ettore: “Se ci sono riuscito io, possono farcela in molti, tutti”. A rinascere. Lettere: un detenuto scrive al Papa “fine pena mai, l’ergastolo è una tortura…” La Nuova Sardegna, 23 settembre 2013 A nome dei 1.600 ergastolani italiani al “Carissimo fratello Francesco”. Comincia così la lettera che Mario, il portavoce, doveva leggere dall’altare, in piedi davanti al Papa. Poi si è messo di mezzo il protocollo, la fretta imposta dai troppi appuntamenti in dieci ore di visita pastorale, e la pagina a quadretti, scritta a mano, metà in corsivo e il resto in stampatello, è finita fra i doni presi in custodia dalla gendarmeria vaticana. Mario che era emozionato alla sola idea di parlare al microfono (c’è tanta gente, e questo non è un festival, qui ho a che fare col Santo Padre”, le sue parole), se n’è fatto una ragione. “L’importante - fa sapere - è che il nostro messaggio arrivi: l’ergastolo è una tortura. Lo ha Francesco. Speriamo che i politici lo ascoltino”. Insieme alla lettera, una poesia che solo dal titolo fa venire i brividi: “Fine pena mai”. Questo è il testo: “Ho dei tristi presagi non di morte. Ho dei presagi di vita, dei presagi di vivere la morte. La mia vita era un sogno sofferto. La mia morte la fine di un sogno. Non è brutta la morte, brutto è vivere la morte”. Giorno dopo giorno, scandita da un calendario in bianco. “Fine pena mai” non ha scadenze certe, se non quella imprevedibile della morte. L’ergastolo è una brutalità come i reati commessi da chi è stato punito col carcere a vita, ma Francesco in Cattedrale ha rivelato: “Per il Buon Pastore quello che è sperduto e disprezzato, ha bisogno più di altri del nostro aiuto”. Lettere: un poliziotto penitenziario scrive al Papa “stia vicino a noi e ai detenuti…” di Mauro Nardella Il Centro, 23 settembre 2013 Santo Padre! Chi Le scrive è un umile servo dello Stato al servizio del Carcere di Sulmona, una ridente cittadina nel cuore dell’Abruzzo alle falde del Morrone, quel luogo santificato dalla presenza nell’animo di tutti i cittadini che ci vivono di Papa Celestino V. Un carcere quello di Sulmona che ha fatto molto parlare di sé per eventi che l’hanno caratterizzato in negativo ma che si distingue per l’animo nobile, lo spirito di sacrificio e l’abnegazione di tutto il personale ivi operante. La mia professione, quella di poliziotto penitenziario, la vivo con intensità e passione seguendo, per quanto mi è possibile fare, quei dettami costituzionali che fanno dell’opera del poliziotto penitenziario un’opera vocata al recupero e al reinserimento sociale del condannato. So quando Lei è attento alle problematiche del carcere, siano esse strettamente connesse al vissuto dei detenuti che del personale posto a disposizione dello Stato. Un personale arruolato per la salvaguardia dei diritti e dei doveri di chi ha sbagliato nella vita ed ha tanta voglia di riscattarsi, che ogni giorno viene chiamato a svolgere una difficilissima professione ma che spesso viene poco considerata. Attraverso queste righe epistolari Le chiedo di benedire il nostro operato affinché le difficoltà che quotidianamente incontriamo e che spesso ci fanno cadere in un baratro fatto di sofferenza e stress vengano superate ed arricchite di nuova energia spirituale. Le chiedo umilmente di pregare per noi affinché chi ci governa ponga maggiore attenzione alle nostre esigenze e ci metta nelle condizioni di vivere serenamente la nostra professione. Il sovraffollamento nelle carceri sta divenendo sempre più una piaga. La sofferenza che ne deriva e che priva i detenuti della dignità che dovrebbe essere resa inattaccabile in uno Stato civile, inevitabilmente si ripercuote sulla nostra professione rendendola più difficile da gestire. Rispetto a qualche anno fa sono stati quasi raddoppiati gli anni che ci chiedono di passare in carcere e questo spesso in condizioni disagevoli. Tuttavia la nostra voglia di andare avanti è ancora tanta e siamo sicuri che attraverso la Sua intercessione riacquisterà nuova linfa. Le chiedo, a nome dei poliziotti penitenziari, e non solo di quelli che oggi hanno avuto l’onore di FarLe visita, di farci strada lungo il nostro tortuoso mestiere e, attraverso l’esempio di San Basilide, permetterci di ridare speranza a chi rispetto a noi ha avuto minore fortuna o che, nell’omettere di rispettare le leggi, ha omesso di dare un significato idoneo a quella che ritengo essere uno dei più grandi doni che la vita ci ha offerto: la libertà! Sarebbe bello se Sua Santità potesse vedere con i propri occhi i luoghi ove professiamo il nostro lavoro ed è per questo che La invito a farci visita a Sulmona ed offrire anche a chi non ha avuto la fortuna di essere qui con noi oggi la possibilità di poter vedere quanto sia bello pregare insieme. Sono convinto che la sua sola presenza servirà a compiere quel miracolo capace di rendere vivibile una vita spesso macchiata da un fine pena mai e a Sulmona, Le assicuro ce ne sono tanti. Santità Le chiedo di Benedire tutti quanti noi poliziotti e detenuti; Le chiedo di benedire i nostri familiari che spesso, loro malgrado, sono costretti a dover subire di riflesso le nostre sofferenze; Le chiedo di Benedire le comunità che ospitano le nostre istituzioni penitenziarie e di pregare affinché ci supportino sempre più; Le chiedo di pregare sempre più affinché i nostri governanti si prestino sempre di più a rendere più agevole il nostro percorso professionale. Le chiedo, infine, di pregare affinché tutti gli Stati del mondo abbiano sempre meno motivo di riempire le carceri. Con umiltà. Lazio: il decesso nel carcere di Civitavecchia e la riforma sanitaria non ancora applicata Prima Pagina News, 23 settembre 2013 Michel Emi Maritato, presidente di AssoTutela, afferma: “Il quattordicesimo dall’inizio dell’anno. Tossicodipendente, in attesa di giudizio, è morto in circostanze non ancora chiarite e lo stillicidio non si ferma”. “La riforma della sanità penitenziaria è un fallimento - continua - la legge 230 del 1999, recepita dalla Regione Lazio nel 2007, non ha prodotto nulla, se non organismi inutili, incarichi e carrozzoni. Sono state trasferite le competenze in materia di salute dall’amministrazione penitenziaria alle Asl ma i risultati sono devastanti. Nel 2008 un decreto presidenziale ha dato vita a tavoli e comitati di coordinamento, nel 2009 nel Lazio si è costituito un Osservatorio regionale permanente allo scopo di sanare le disfunzioni. Ma non basta: nella nostra Regione dal 2003, grazie alla legge 31, è stata istituita la figura del ‘garante dei detenuti’ che, nel caso della salute non si capisce bene cosa garantisca”. Il presidente poi si sofferma sulla composizione dell’ufficio del garante: “18 figure professionali stipendiate, 3 volontari e 2 addetti alla sicurezza, per garantire un diritto alla salute che nei penitenziari regionali è l’ultimo ad essere garantito. Risultato tangibile di tale pletora di figure professionali, la Carta dei servizi, pubblicizzata la scorsa estate con grande dispiegamento di mezzi. Quanto è costato tutto ciò? E con quali riscontri? Chiediamo al presidente Zingaretti di chiarirci anche questo mistero tutto laziale”. Nuoro: emergenza nel carcere di Badu e Carros “questo è il regno dell’illegalità” di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 23 settembre 2013 Visita nel penitenziario di Franco Corleone, Coordinatore Nazionale dei Garanti “Lo Stato deve muoversi prima che arrivi la Corte europea dei diritti umani”. La scena più triste: interno uggioso. Da un lato una bambina accampata con la mamma che le stringe la mano; dall’altra parte del bancone un uomo, mezza età, padre, marito, detenuto. È in corso uno dei colloqui settimanali di Badu ‘e Carros. “Finestre oscurate da vetri opachi... c’è ancora il bancone di separazione... no, non è possibile. È allucinante oltre che deprimente, una realtà intollerabile, qui bisogna ripristinare la legalità prima che arrivi qualche sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Franco Corleone è appena uscito da una visita al carcere nuorese. È a dir poco scioccato, eppure di galere in tutta Italia ne ha viste parecchie, il coordinatore nazionale dei garanti, presidente della Società della ragione, ex parlamentare, ex sottosegretario alla Giustizia con i ministri Giovanni Maria Flick, Oliviero Diliberto e Piero Fassino. A Nuoro per un convegno su carcere, ergastolo e riforma della giustizia, Corleone ne approfitta per fare tappa a Badu ‘e Carros, sabato mattina, in compagnia di Gianfranco Oppo, il Garante dei detenuti del Comune di Nuoro. Vanno in tutte le sezioni, entrambi, persino in quella dei detenuti comuni, “la peggiore, che non viene mai mostrata perché ogni ispezione viene dirottata all’Alta sicurezza, la “migliore”, si fa per dire”. “Non so a quando risalgono le responsabilità, ma oggi, Badu ‘e Carros, un carcere che ha un nome nella storia penitenziaria, è il trionfo dell’irrazionalità dell’amministrazione, uno dei peggiori esempi di cattiva gestione e di cattiva politica” attacca Franco Corleone. Salva soltanto, “e non è questione di poco conto” dice, “il rapporto dei detenuti con gli agenti di polizia”. “È molto buono” sottolinea. “Il clima umano è molto buono - spiega, con tutto il personale, con la direttrice, con il comandante, uno giovane, con gli educatori”. Ma per il resto è un disastro. “Le condizioni, diciamo logistiche, sono veramente deplorevoli”. Un vecchio padiglione chiuso, “e che si fa? anziché ristrutturare quello, se ne costruisce uno nuovo, a dispetto del progetto originario dell’architetto Mario Ridolfi. Così oggi siamo al paradosso: abbiamo un vecchio padiglione chiuso perché vecchio, e uno nuovo dove i lavori sono stati sospesi”. Sospesi per un contenzioso tra l’impresa appaltante e il ministero. “C’è uno spazio verde, fuori, che va utilizzato, e basterebbe poco per farlo”. “La sezione comune, poi, è completamente abbandonata. Non esistono celle singole, né servizi igienici degni di questo nome” va avanti Corleone. “Il cesso è a fianco alla cucina” ha raccontato più volte Gianfranco Oppo. “Qui a Nuoro - riprende parola il coordinatore dei garanti - ci sono ergastolani che stanno anche in cinque nella stessa cella, quando invece gli ergastolani dovrebbero stare in celle singole”. E a Badu ‘e Carros, di ergastolani ce ne sono venti. Arrivati da Carinola (Campania) e da Spoleto (Umbria). “Lontani dalle loro famiglie, su un’isola, lasciati senza scuola né attività alcuna, contro ogni più elementare diritto. In uno Stato, l’Italia, che da un lato vuole affermare la legalità, dall’altro viola impunemente norme e regolamenti vari”. Nuoro: ergastolano “deportato” in Sardegna, serve l’intervento della Corte di Strasburgo La Nuova Sardegna, 23 settembre 2013 Laureato in carcere, con 110 e lode. Un ergastolano trasferito a Nuoro da Spoleto. È uno dei tanti casi di detenuti strappati allo studio, al lavoro in carcere e alle attività in genere. Uno dei tanti detenuti puniti con l’invio in una galera più lontana e isolata. “Uno dei tanti casi dove è chiara la violazione dei diritti umani” dice Franco Corleone, coordinatore nazionale dei garanti. “Il Dap non deve aspettare un ricorso in Europa” sottolinea. Perché se da Nuoro dovesse partire un’istruttoria all’indirizzo della Corte di Strasburgo, lo Stato italiano potrebbe essere condannato per l’ennesima volta. A Nuoro, infatti, secondo Corleone, l’illegalità è evidente. Non soltanto abbandono generale (“basti pensare che un carcere così ha una direttrice a scavalco con Tempio!”), ma vera e propria illegalità. Ossia: a Badu e Carros i detenuti sono costretti a scontare pene inumane e illegittime. È per questi motivi che lo scorso 8 gennaio l’Italia è stata condannata a risarcire con 100mila euro un gruppo di detenuti che avevano fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. È il caso Torreggiani, la più recente delle figuracce della Repubblica italiana davanti all’Europa intera. Che già nel 2008 e poi ancora nel 2009 aveva condannato l’Italia per casi simili (Scoppola prima, Sulemanovic poi). Per non parlare dei richiami, ripetuti a più riprese. “Non vorrei che anche dal carcere di Nuoro partisse un procedimento analogo” insiste Franco Corleone. Che suggerisce: “Badu e Carros ha bisogno una manutenzione complessiva, bisogna intervenire immediatamente, magari recuperando il vecchio reparto abbandonato”. All’ordine del giorno della Commissione Badu e Carros sarà un tema all’ordine del giorno della prossima riunione della Commissione ministeriale sul sovraffollamento degli istituti penitenziari istituita dal ministro Guardasigilli Anna Maria Cancellieri. Presieduta da Mauro Palma, ne fanno parte quindici componenti, tra i quali anche Franco Corleone, il coordinatore nazionale dei garanti. È lui che ha subito telefonato a Palma, all’uscita dal carcere nuorese, sabato mattina, chiedendogli di mettere al centro della discussione del prossimo 30 settembre a Roma anche il caso Badu e Carros. “Un carcere che ha un nome nella storia penitenziaria” ha sottolineato. Oristano: in arrivo 80 “detenuti speciali”, saranno a Massama prima di Natale di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 23 settembre 2013 Arriveranno tutti entro Natale. Dopo mesi di polemiche e altri di silenzio, il dado dovrebbe essere tratto. Niente fiumi da oltrepassare, ma solamente decisioni da prendere. E il ministero della Giustizia la sua l’ha presa da tempo, per quanto qualche politico barricadero - dopo peraltro aver votato a favore in Parlamento - abbia per mesi gridato indignato al trasferimento di un’ottantina di detenuti pericolosi nel carcere di Massama. Il ministro Anna Maria Cancellieri non era a Cagliari solo per la visita di papa Francesco e il cambio con il ministro Kyenge non sarebbe stato poi del tutto casuale. La Cancellieri ha infatti approfittato dell’occasione per definire meglio il quadro dei trasferimenti dei tantissimi detenuti in regime di detenzione speciale che finiranno nelle carceri isolane. E, assieme agli altri direttori, avrebbe incontrato anche Pierluigi Farci, che dirige la casa circondariale oristanese. Ma non è solo il faccia a faccia con i vertici ministeriali a far capire che i trasferimenti sono imminenti. Le tessere di un mosaico che comprende anche le altre carceri isolane vanno mettendosi al loro posto ad una ad una. E così, ad esempio, proprio a Massama è stato ultimato il trasferimento di tutti i detenuti del Sassarese che sono ora reclusi nel carcere di Bancali. Il carcere di Uta, nel frattempo, è prossimo all’apertura e entro ottobre dovrebbe iniziare a funzionare e ad ospitare i detenuti cagliaritani che oggi si trovano a Massama. Sarà quello il segnale per il via libera ai trasferimenti di detenuti dalla penisola, che stanno scontando la loro pena in regime definito di “Alta Sicurezza 3”. Sono persone che hanno avuto condanne per reati di mafia e che sono stati affiliati alle cosche pur non essendo tra gli elementi di spicco della criminalità organizzata, rimangono dei detenuti particolari con alle spalle rapporti che si possono tranquillamente definire pericolosi per infiltrazioni anche nel tessuto sociale del territorio. Ragionevolmente entro Natale saranno a Massama, con il nuovo carcere che dovrà ospitare circa 250 detenuti. Non pochi, anzi, probabilmente troppi vista anche la particolarità del regime carcerario che dovranno terminare di scontare molti di loro. E il nervosismo, secondo radio Massama, in queste settimane si fa palpabile. Non ci sono state troppe prese di posizione ufficiali, ma certamente gli agenti di polizia penitenziaria non sono felicissimi. L’organico è stato rimpinguato di recente, ma per farlo sono stati scelti agenti di rientro, ovvero oristanesi che lavoravano lontano da casa. Ora tornano in città per gli ultimi anni della loro esperienza lavorativa, ma ci arrivano in condizioni particolari. A gestire una situazione così delicata ci dovranno pensare agenti non più giovanissimi che ambiscono ad un posto di lavoro meno usurante e questo potrebbe essere un alto fattore di rischio. L’organico degli educatori poi è ridotto all’osso. Sono appena tre e di certo non possono far fronte ad un carico di detenuti pari a 250. Sempre che il numero resti quello, visto che sarebbe già pronto un piano B, col quale si aumenterebbe il numero dei detenuti per cella, portandolo da due a tre. Così si potrebbe incrementare di altre cento unità il totale degli ospiti del carcere di Massama, costruito, tra le altre cose, anche per evitare situazioni di sovraffollamento, diventate insostenibili nella vecchia struttura di piazza Manno. L’Aquila: nelle carceri prosegue raccolta di firme per i Referendum promossi dai Radicali www.iltempo.it, 23 settembre 2013 Prosegue la raccolta di firme promossa dai Radicali per promuovere dodici referendum, tra cui quello per la riforma della giustizia. Nella giornata di venerdì, una delegazione di Radicali Abruzzo si è recata al carcere dell’Aquila per raccogliere le firme dei detenuti sulle proposte referendarie presentate dai radicali in materia di giustizia e diritti civili. E come accaduto nelle precedenti occasioni - vale a dire negli istituti penitenziari di Chieti e Pescara - l’adesione è stata massiccia, sfiorando il 100% degli aventi diritto. “Nonostante la particolare situazione del carcere aquilano, in cui gran parte dei detenuti è sottoposta al regime del 41 bis - ha detto Alessio Di Carlo, della segreteria di Radicali Abruzzo - le operazioni si sono svolte ordinatamente e con relativa celerità, grazie alla disponibilità e collaborazione del direttore, Oreste Bologna, del comandante, Rosanna Marino, e di tutto il personale penitenziario”. Ieri analoga iniziativa è stata ripetuta anche a Vasto, in piazza Diomete. Al banchetto per la raccolta firme erano presente anche il senatore Fabrizio Di Stefano, del Pdl, partito che aderito all’iniziativa dei Radicali, e il presidente del Consiglio provinciale di Chieti Enrico Rispoli. Massa: Coldiretti; frutti della serra del carcere ora sognano i mercati di Campagna Amica di Dino Bortone www.viniesapori.net, 23 settembre 2013 Progetto promosso da Coldiretti: recuperata la serra del carcere di Massa. I detenuti ora producono ortaggi di stagione per l’autoconsumo. Dalle 6 alle 8 ore di aria la settimana in più, e la prospettiva di un futuro diverso imparando un mestiere. L’esperienza di Paolo Caruso, 37 anni al servizio dei detenuti. Vincenzo Tongiani, Presidente Provinciale Coldiretti: “L’agricoltura è una seconda chance”. L’agricoltura va dietro le sbarre per ridare speranza e un futuro a chi ha sbagliato. Progetto pilota promosso da Coldiretti (info su www.massacarrara.coldiretti.it) in collaborazione con il Carcere di Massa che ha permesso a sette detenuti della casa circondariale cittadina di avvicinarsi ed appassionarsi all’agricoltura ed immaginare, domani, una volta che saranno “fuori”, di lavorare in un’azienda agricola o di aprirne una ex novo. Forse, presto, pomodori, zucchine, melanzane, cipolline e peperoni arriveranno nei mercati di Campagna Amica di Coldiretti per incontrare il consumatore magari con un marchio dedicato, intanto i primi a godere dei prodotti della vecchia serra “recuperata” nel cortile del Carcere di Massa sono stati gli stessi detenuti che da alcuni mesi ormai stanno consumando gli ortaggi prodotti dai sette ortolani-reclusi. “Dopo questa esperienza, bellissima, vera, inaspettata - confida Paolo Caruso, imprenditore agricolo e tutor del progetto - non avrei nessun problema a lavorare con un ex detenuto. Ho trovato tanta passione, entusiasmo e umiltà insieme a storie di vita sfortunate. È giusto dare una possibilità a chi dimostra con l’impegno di meritarsela”. Paolo, 37 anni, imprenditore agricolo massese è uno dei motori del progetto di Campagna Amica nella Provincia apuana; ha vissuto per quattro mesi fianco a fianco dei detenuti scelti per partecipare al progetto di Coldiretti. È stato lui a guidarli, ad insegnargli un mestiere, a raccontargli come la vita può essere bella e diversa raccogliendo i frutti della terra. “All’inizio ammetto che ero titubante e timoroso; - ammette Caruso - il tempo passato lavorando nella serra con loro ha stravolto quell’iniziale sentimento. Mi ero sbagliato. Ora sarebbe bello vedere questi prodotti nella nostra rete dei mercati di Campagna Amica”. Per i sette agricoltori-detenuti il lavoro nella serra (25 x 8 metri) ha significato dalle 6 alle 8 ore di “aria” la settimana in più, ma una volta scontata la pena potranno sfruttare le conoscenze acquisite per lavorare nel settore primario. “L’agricoltura ha tutte le caratteristiche per favorire il reinserimento sociale di soggetti tra i più diversi come in questo caso i detenuti, penso però anche a soggetti con disabilità o difficoltà psichiche - spiega Vincenzo Tongiani, Presidente Provinciale Coldiretti che ringrazia la struttura del Carcere per la disponibilità - lavorare aiuta a sentirsi utili e parte integrante di una collettività e allo stesso tempo a garantire una forza lavoro all’azienda. L’agricoltura è una seconda chance”. In questa direzione è andato il bando per l’agricoltura sociale, il primo a livello nazionale, attivato dalla Regione Toscana che ha messo a disposizione 1 milione di euro per favorire l’esperienza rurale di persone con disabilità. Il futuro delle aziende agricole ruota attorno al principio della multifunzionalità che sul territorio, per ragioni collegate alla personale sensibilità degli imprenditori e agli ottimi progetti attivati dalla Regione Toscana, ha trovato una grande vocazione sociale; oggi - spiega Francesco Ciarrocchi, Direttore Provinciale Coldiretti - un’azienda agricola non produce solo ortaggi e cibo, quel modello di azienda appartiene al passato; ma anche servizi come lo sono le fattorie didattiche per esempio, e come lo è l’inserimento di soggetti con disabilità e trascorsi difficili nel ciclo aziendale. Le campagne possono essere la migliore medicina per questi soggetti che finalmente tornano ad avere prospettive, a sentirsi di nuovo utili ed accettati dalla comunità”. Brescia: l’orchestra regala ai detenuti momenti di svago ed “evasione” di Magda Biglia Brescia Oggi, 23 settembre 2013 “La festa della città è anche la vostra festa”. La frase, lanciata dal sindaco Emilio Del Bono dal palco di Canton Mombello ad oltre un centinaio di detenuti prima del concerto inserito nel calendario degli appuntamenti operistici di ieri , è stata condivisa da tutti. Dalla vice Laura Castelletti, dal prefetto Narcisa Brassesco, dal presidente di “Carcere e territorio” Carlo Alberto Romano, dalla direttrice Francesca Gioieni che ha parlato di un clima diverso nel carcere, dopo un suo impegno di tre anni e dopo che, da luglio, le celle rimangono aperte, “con il pieno accordo del personale di sorveglianza per la minor tensione e per il carico di lavoro allentato”. I carcerati hanno firmato un patto comportamentale, tradotto in albanese e in arabo, e tutto fila liscio. Ieri persino il sovraffollamento era ridotto, con 460 posti occupati contro un passato da oltre 550. È stata condivisa da Mimmo Valseriati, l’avvocato che, sia lì che a Verziano, insegna musica e chitarra. Condivisa da Driton, kosovaro vicino al fine pena che con lui suona aiutandolo pure a organizzare concerti nel teatro in cui si sono esibiti i cantanti mandati dal Grande. “Occasioni come queste sono molto seguite, è un modo per dare un senso al tempo che passa lento” ha detto, assicurando che proseguirà con lo strumento una volta fuori. E invero Stefania Spaggiari, soprano, Cristiano Olivieri, tenore, Pierpaolo Gallina, basso, accompagnati al piano da Paolo Fiamingo, hanno eseguito arie di Verdi accolti da applausi molto calorosi. “Canton Mombello è parte di Brescia, luogo di recupero e socializzazione, non solo di espiazione. Avvenimenti come la tappa di questa manifestazione non devono essere eccezionali” ha dichiarato Del Bono che prenderà la carica di presidente della Fondazione del teatro Grande non appena eliminati dallo statuto i compiti di gestione “che non spettano al sindaco”. Reggio Calabria: la proposta di “Ethos Onlus”… il carcere al servizio della città Comunicato stampa, 23 settembre 2013 Riqualificazione e mantenimento delle aree verdi della città di Reggio Calabria, sulla base delle attività di reinserimento e risocializzazione dei detenuti attraverso l’applicazione dell’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario e delle Direttive Europee sulla materia. Ethos (Associazione Onlus), in riferimento ai riuscitissimi progetti dell’Istituto Penitenziario di Milano Bollate (vedi mantenimento aree verdi della città della Madonnina oppure l’ottimo esperimento trattamentale di nr. 130 detenuti con le relative famiglie sui prati dell’Idroscalo Milanese nel giorno di Ferragosto del c.a. - ed altro), pone all’attenzione delle SS.LL. la possibilità di realizzare un progetto, a Reggio Calabria, che prevede l’utilizzazione di un determinato numero di detenuti - da avviare ad attività lavorativa regolarmente remunerata - al servizio della nostra città. Orbene, i contenuti di questo progetto consentirebbero la possibilità di sfruttare questa ottima opportunità (sia per i detenuti e sia per gli Enti) per riqualificare e mantenere alcune aree verdi (e successivamente a rotazione tutte le aree verdi) della città di Reggio Calabria, ovvero nella fase iniziale le priorità risulterebbero - visto il loro stato di totale abbandono - nella Villa Comunale, in tutti i siti archeologici e nel parco giochi per bambini di Viale Calabria. Ethos, Associazione Onlus che opera da tanti anni nella città di Reggio Calabria, ritiene concretamente possibile la realizzazione di tale progetto anche perché - lo stesso - si troverebbe in piena sintonia con le Direttive Europee che disciplinano la materia in questione. La Nuova Casa Circondariale di Arghillà Reggio Calabria (Istituto per detenuti definitivi di media sicurezza a regime aperto) è stata avviata per una volontà istituzionale che non è solo di questo Governo ma, va da se, anche da forti pressioni politiche Europee a cui l’Italia ha dovuto dare delle risposte reali sia sotto il profilo della grave situazione detentiva del nostro Paese e sia sotto il profilo della rieducazione e risocializzazione di chi espia una pena definitiva. In quest’ottica Arghillà diventerebbe - per la città di Reggio Calabria - una risorsa immensa. Ethos ritiene, inoltre, che il carcere - per chi espia una pena - non deve essere la fine ma bensì l’inizio/ripartenza di una nuova vita attraverso dei percorsi che non siano solo intramurari, perché è in questa direzione che va la volontà Europea in materia di vero trattamento penitenziario. Pertanto, considerate le ottime possibilità realizzative di tale progetto, Ethos si rende disponibile (fin da subito) per la costituzione di un tavolo tecnico o gruppo di lavoro affinché si possano dare - concretamente - avvio a tutte le procedure previste per l’attivazione materiale del progetto in questione. Il Presidente di Ethos Onlus, Sebastiano Cristiano Porto Azzurro (Li): oggi trenta detenuti-attori recitano brani di Euripide Il Tirreno, 23 settembre 2013 Il carcere di Porto Azzurro apre le porte al teatro. Uno spettacolo dal titolo “Le donne dei vinti”, libero adattamento delle “Troiane” di Euripide. Gli attori? Una trentina di detenuti di diverse appartenenze religiose, linguistiche, territoriali. Molti di loro sono iscritti alle classi della sezione carceraria del Liceo Scientifico “Foresi” di Portoferraio. Lo spettacolo è frutto de “Il Carro di Tespi”, denominazione dell’esperienza didattico- teatrale nata nel 1992 all’interno della Casa di Reclusione di Porto Azzurro. È un’iniziativa che rientra nella Progettazione Regionale “Teatro e Carcere” con l’intesa del Prap Regionale. La scelta delle parti, la scaletta degli interventi e il montaggio registico sono affidati ai due insegnanti: Bruno Pistocchi e Manola Scali, entrambi soci della Associazione “Dialogo”, realtà del volontariato presente sul territorio elbano impegnata a far fronte ai bisogni della popolazione reclusa. I due animatori collaborano da molti anni, dal 1992. Provengono ogni settimana dal “continente” e fondono insieme il messaggio di un copione teatrale e il punto di vista delle grandi religioni del mondo. Da qualche anno il corso si può denominare teatrale- biblico. Quest’anno il lavoro scelto è un libero adattamento delle “Troiane” di Euripide. Il senso profondo del dolore e di un destino che non si è scelto, ma che malgrado tutto si deve accettare e rispettare. Udine: risse in carcere; anche otto agenti feriti, trasferiti due detenuti Messaggero Veneto, 23 settembre 2013 Nei diversi episodi di violenza sono rimasti leggermente ferite anche delle guardie. L’intervento è stato deciso dalla direzione. In meno di una decina di giorni due aggressioni ai danni della polizia penitenziaria al carcere di Udine con un bilancio di otto agenti feriti, anche se leggermente. L’ultimo episodio è avvenuto proprio nella fine settimana. Ed è quello che ha visto un detenuto di nazionalità tunisina scagliarsi contro cinque agenti armato di lametta da barba. Per ottenere l’arma l’uomo, secondo una prima ricostruzione, ha sciolto la plastica del rasoio nel quale era inserita e se n’è servito per minacciare gli agenti, finiti al pronto soccorso dell’ospedale di Udine. “Quanto è successo negli ultimi giorni è grave - ammette Irene Iannucci, direttrice della casa circondariale di via Spalato commentando i due fatti - ma si tratta di episodi circostanziati, provocati da persone nei confronti delle quali sono stati adottati opportuni provvedimenti, il detenuto in oggetto è stato infatti allontanato e trasferito in un’altra struttura. Devo comunque esprimere un apprezzamento - aggiunge la direttrice - per il personale, che ha mantenuto il sangue freddo e che si è comportato con professionalità e correttezza in situazioni veramente difficili”. Per uno degli agenti feriti durante la colluttazione, il personale medico ha diagnosticato la frattura a un dito, formulando una prognosi di guarigione di 10 giorni. Meno di una decina di giorni fa un altro episodio ai danni di tre agenti feriti in seguito a un dissidio scoppiato fra detenuti all’interno del carcere. Un ragazzo di nazionalità marocchina se l’è presa con uno degli agenti mentre stava cercando di sedare la rissa all’interno della cella e lo ha spinto a terra procurandogli contusioni. Accompagnato all’infermeria, ha dato nuovamente in escandescenze prendendosela con un paio di agenti che lo stavano riaccompagnando prendendoli a pugni. “Anche per questo detenuto - informa la direttrice - è stata avviata la procedura per il trasferimento in un altro istituto. Si tratta in ambedue i casi di persone problematiche cui sono legati gli episodi in oggetto, ai quali tutto il personale ha reagito tempestivamente adottando adeguate misure e confermando la situazione di sicurezza della struttura”. Ferrara: carcere a “quota 400”, i detenuti sono ormai 150 in più della capienza www.estense.com, 23 settembre 2013 La garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, insieme al garante del Comune di Ferrara, Marcello Marighelli, si è recata in visita alla Casa circondariale del capoluogo estense. I garanti hanno avuto modo di confrontarsi con la direttrice Carmela De Lorenzo, che regge temporaneamente l’istituto penitenziario, oltre ad avere in pianta stabile la titolarità del carcere di Ravenna. Tanto in Emilia-Romagna (ci sono altri casi di attribuzioni plurima di direzioni) quanto su tutto il territorio nazionale, è in atto la tendenza all’accorpamento di più istituti sotto una direzione unica: il rischio concreto è che l’assenza della titolarità della direzione, con i conseguenti disagi per chi riveste ruolo direttivo nell’organizzare la vita dell’istituto e assicurare la fondamentale presenza all’interno, possa comportare una caratterizzazione della detenzione in termini prevalentemente custodiali. Alla data del 18 settembre, erano circa 400 i detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 250. Si è dunque progressivamente esaurito l’effetto legato agli eventi sismici del maggio 2012, quando alcune sezioni erano state chiuse per inagibilità, con conseguente trasferimento dei detenuti in altre sedi. A oggi, continua a non essere agibile lo spazio della zona del laboratorio teatrale, storica esperienza di questo carcere. Risulta essere in programma, anche alla luce del recente intervento legislativo (D.L. 78/2013, convertito in Legge 94/2013), l’avvio di un confronto con il Comune di Ferrara per la stipula di una convenzione che possa prevedere la possibilità per i detenuti di lavorare all’esterno del carcere, prestando la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità. Ancora a Ferrara, la Garante regionale è intervenuta alla conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa “Libri galeotti. Carcere, pena (e dintorni) nelle pagine di recenti volumi”, organizzato dal professor Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara. L’iniziativa fa parte di un ciclo di quattro incontri, ogni venerdì, dal 20 settembre all’11 ottobre. Si partirà da un libro per approfondire alcuni temi con l’autore ed esperti del tema (giuristi, filosofi, magistrati, Garanti dei detenuti). Desi Bruno introdurrà poi il secondo incontro, che si svolgerà venerdì 27 settembre alle 17.30, che si intitola “Le prigioni degli altri: i centri d’identificazione e di espulsione”, in cui verrà trattata la tematica del Cie grazie al libro di Caterina Mazza “La prigione degli stranieri. I centri di identificazione e di espulsione” (Ediesse, 2013); a discutere con l’autrice, Andrea Pugiotto e Alberto Burgio, ordinario di Storia della filosofia dell’Università di Bologna, e Giuditta Brunelli, ordinario di Diritto costituzione dell’Università di Ferrara. Promossa dall’Università di Ferrara, in collaborazione con il Garante dei diritti dei detenuti di Ferrara, il Garante delle persone private della libertà della Regione Emilia-Romagna, il Difensore civico della Regione e la scuola forense dell’Ordine degli avvocati di Ferrara, l’iniziativa ha avuto il patrocinio di Comune e Provincia, della Fondazione forense e dello Iuss Ferrara 1391. Napoli: concerti per l’inclusione sociale nelle carceri di Secondigliano e Poggioreale Ansa, 23 settembre 2013 Martedì e mercoledì prossimi l’associazione culturale “Note di Napoli” porterà la canzone classica napoletana nelle carceri di Secondigliano e Poggioreale con i concerti dell’artista Anna Merolla. Oggi in conferenza stampa la presentazione dell’iniziativa, che rientra in un progetto più ampio volto a favorire l’inclusione e la coesione sociale e che, come lo scorso anno, quando vide la partecipazione dell’arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, culminerà in un grande evento, a dicembre prossimo, a Napoli, improntato alla valorialità e alla socialità, con la partecipazione di esponenti del mondo della cultura, delle istituzioni e della politica. Alla conferenza stampa hanno partecipato i responsabili dell’associazione Bruno Improta e Fabio Scotto di Vetta, la cantante Anna Merolla e il maestro Bruno Vitale, e l’assessore al turismo e spettacolo della Regione Campania, Pasquale Sommese, gli esponenti politici di centrodestra Salvatore Ronghi e Angelo Marino, i segretari della UgL di Napoli e della Campania, Francesco Falco e Vincenzo Femiano. Nell’esprimere apprezzamento “per un’iniziativa sociale basata sulla cultura e sulla musica classica napoletana, quale simbolo di Napoli e della Campania e dei valori di un’intera popolazione, un patrimonio morale che si intende mettere al servizio della città e a favore delle fasce deboli”, Sommese ha sottolineato che “il mio assessorato guarda con favore a quelle iniziative che, attraverso la cultura e lo spettacolo, si schierano a favore del sociale, ed è per questo che ha offerto il proprio patrocinio morale e sarò lieto di partecipare all’evento di fine anno per il sociale che l’associazione promuoverà, come lo scorso anno, con la partecipazione del cardinale Sepe”. Per Salvatore Ronghi “bisogna rilanciare la cultura della musica classica napoletana, valore identitario di Napoli e della Campania, sottraendola agli interessi affaristici di alcuni per renderla patrimonio culturale di tutti al servizio della città”; “è fondamentale portare la musica classica napoletana nei luoghi della detenzione e rafforzare la cultura e la fiducia di chi deve pagare per gli errori commessi ma ha diritto alla rieducazione e al reinserimento sociale”. “Ho creduto in questa iniziativa e le ho dato la mia voce perché credo nella canzone classica napoletana capace di “unire” e di favorire la solidarietà e la socialità”. Televisione: domani sera “Presunto colpevole” (Rai 2) racconta storie di malagiustizia Adnkronos, 23 settembre 2013 Le storie di Marco Simone, Chico Forti e Aldo Scardella sono al centro della nuova puntata di Presunto colpevole, il programma che racconta storie di “malagiustizia”, in onda domani alle 23.45 su Rai 2. Protagonista della prima storia è Marco Simone, condannato per un fatto che non aveva commesso: sedici anni per aver ucciso una signora anziana del suo paese, Mignano, vicino a Cassino. Anche durante il processo, dove c’era un solo testimone che lo accusava, Marco continuava a ripetere la sua innocenza. Intanto, dopo essere stato assolto, chi lo ha accusato è scomparso, assieme al vero colpevole. La seconda storia è quella di Chico Forti, campione di vela e protagonista di una triste vicenda giudiziaria. Nel febbraio del 1998 Dale Pike, figlio di Anthony Pike, dal quale Chico stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza, viene trovato assassinato sulla spiaggia di Sewer Beach a Miami. Chico viene accusato di essere parte in questo omicidio e viene condannato all’ergastolo senza possibilità di rilascio sulla parola. Attualmente sta scontando la pena nel Dade Correctional Institution, Florida City. Chico Forti dichiara di essere vittima di un errore giudiziario e non smette di lottare per vedere riconosciuta la propria innocenza supportato dalla sua famiglia e da molti amici in Italia e nel mondo. La puntata si conclude con la storia di Aldo Scardella, un innocente a cui un errore clamoroso ha rubato l’esistenza. La sua unica colpa era di abitare troppo vicino al luogo in cui è avvenuto un omicidio. Un delitto in cui Scardella non c’entrava niente. Quando è uscito dal carcere non respirava più. Aveva solo 24 anni e studiava all’università. Il suo desiderio era una vita felice. Ma dopo 185 giorni di carcere non ce l’ha fatta piu’ e si è tolto la vita. Iran: Khamenei concede grazia a 80 detenuti, tra loro arrestati durante proteste 2009 Aki, 23 settembre 2013 La Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha concesso la grazia ad 80 detenuti arrestati per reati relativi alla sicurezza della Repubblica Islamica, tra i quali figurano dimostranti finiti in carcere durante le proteste antigovernative del 2009. Lo ha riferito il portavoce della Magistratura iraniana, Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, citato dall’agenzia d’informazione ‘Isnà. Nel corso di una conferenza stampa a Teheran, Mohseni-Ejei ha annunciato che in futuro altri detenuti saranno scarcerati. L’annuncio della grazia concessa da Khamenei ad 80 detenuti, segue di alcuni giorni la scarcerazione di 11 noti prigionieri politici iraniani, tra i quali l’avvocato per i diritti umani, Nasrin Sotoudeh. Alcuni osservatori hanno collegato il rilascio dei detenuti al nuovo corso inaugurato a Teheran dal presidente Hassan Rohani, che ha incentrato la sua campagna elettorale promettendo moderazione in politica estera e maggiori libertà per i cittadini. Svizzera: un referendum boccia privatizzazione parziale della sorveglianza nelle carceri www.libera.ch, 23 settembre 2013 Esulta il sindacato Vpod promotore del referendum contro la modifica di legge voluta da Consiglio di Stato e Parlamento: “E ora assumete nuovi agenti”. Nella tornata di votazioni federali e cantonali c’è un altro risultato di rilievo. i ticinesi hanno infatti bocciato la modifica della legge per l’esecuzione delle pene (privatizzazione parziale del servizio di sorveglianza) voluta dal Consiglio di Stato e dal Parlamento. Il Sindacato dei servizi pubblici Vpod Ticino, che ha lanciato il referendum, in una nota, “esprime la propria piena soddisfazione. Il risultato della votazione permette di evitare pericolosi precedenti e di garantire che la sorveglianza carceraria sia interamente affidata a persone qualificate e direttamente dipendenti dallo Stato come gli agenti cantonali di custodia. Per affrontare i nuovi compiti il Cantone dovrà pertanto formare ed assumere agenti di custodia cantonali in numero sufficiente”. Cina: Bo Xilai, ex Segretario Pcc di Chongqing, condannato all’ergastolo per corruzione Agi, 23 settembre 2013 È stato condannato all’ergastolo l’ex segretario del Partito Comunista della metropoli di Chongqing, Bo Xilai. La sentenza è stata pronunciata questa mattina alle dieci (le 4 del mattino in Italia) dai giudici della Corte Intermedia del Popolo di Jinan, nella Cina orientale. Il processo nei confronti dell’ex ambizioso leader - caduto in disgrazia lo scorso anno dopo un lungo processo di epurazione - si era tenuto dal 22 al 26 agosto scorso. Bo Xilai, oggi sessantaquattrenne, era finito sotto processo per i reati di corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere. Oltre alla condanna al carcere a vita, la Corte ha ordinato il sequestro di tutti beni e ha privato Bo dei diritti politici a vita. “Bo Xilai era un servitore dello Stato - si legge nella sentenza - ha abusato del proprio potere provocando un enorme danno al Paese e al Popolo”. A partire da domani, Bo Xilai avrà dieci giorni di tempo per ricorrere in appello, ha poi specificato la Corte. Prima della rimozione da tutte le cariche, Bo Xilai era uno dei 25 membri dell’Ufficio Politico del Pcc ed era candidato a un posto di primo piano nel Comitato Permanente del Politburo, il vertice del potere in Cina. Ingenti le misure di sicurezza messe in atto dalle forze dell’ordine di Jinan, che nella mattinata di oggi avevano sbarrato le strade di accesso al tribunale, come riportano su internet diversi osservatori presenti sul posto. La Corte ha bloccato gli aggiornamenti e i post in arrivo sul suo account Weibo, il popolare sito di social network cinese fino all’uscita della sentenza. Bo Xilai è stato condannato al massimo della pena per tutti e tre reati a lui ascritti. La Corte ha rigettato tutti gli argomenti della difesa, comprese le obiezioni sulla validità della testimonianza della moglie di Bo, Gu Kailai, per stato di infermità mentale della donna. Durante il processo Bo Xilai si è sempre dichiarato non colpevole delle accuse a lui ascritte, anche se in un due occasioni ha ammesso le proprie responsabilità per alcune decisioni prese. L’ex astro nascente della politica cinese si è dovuto difendere dalle accuse della moglie, Gu Kailai, e dell’allora capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun. Altro grande accusatore di Bo, per il reato di corruzione, è stato l’imprenditore di Dalian, Xu Ming, che Bo conosceva da venti anni, dai tempi in cui era sindaco della città portuale cinese. Bo Xilai ha dovuto rispondere di tangenti per decine di milioni di yuan ricevute nel corso degli anni e di numerosi favori e regali ricevuti dalla sua famiglia da parte dell’imprenditore oggi presidente del gruppo Dailan Shide che opera in diversi campi, dal settore delle costruzioni a quello petrolchimico. Sia la moglie di Bo, che l’ex braccio destro Wang Lijun sono già stati processati per vicende relative ai reati ascritti allo stesso Bo Xilai. Gu Kailai è stata condannata alla pena di morte sospesa nell’agosto 2012 per l’omicidio di Neil Heywood, un uomo d’affari inglese che lavorava alle dipendenze della famiglia, mentre Wang Lijun è stato condannato a 15 anni di carcere con le accuse di diserzione, corruzione, abuso di potere e per avere piegato la legge a fini personali. Proprio la fuga di Wang Lijun al consolato statunitense di Chengdu, nel sud della Cina, è stato il punto di inizio della vicenda che ha portato alla rimozione di Bo Xilai da tutte le cariche da lui occupate e, infine, all’epurazione. Wang era fuggito dopo un diverbio con lo stesso Bo che lo aveva rimosso dall’incarico. L’ex capo della Pubblica Sicurezza era venuto a conoscenza del ruolo di Gu nell’omicidio Heywood e ne aveva parlato con lo stesso Bo che, adirato, lo aveva colpito al volto, secondo quanto dichiarato al processo da Wang stesso. Cina: celle spaziose e tv nel carcere per gli alti gradi del partito caduti in disgrazia Corriere della Sera, 23 settembre 2013 Forse, dopo tutto, il “principe rosso” Bo Xilai non pensava all’ergastolo. La settimana scorsa era riuscito a far filtrare una lettera alla famiglia: “Aspetterò in cella che il mio nome sia ripulito da queste accuse false, come fece mio padre”, purgato nella Rivoluzione Culturale e riabilitato con Deng. Ma ora Bo, che era abituato ad abiti di sartoria internazionale, dovrà aspettare in una cella per il resto dei suoi giorni. Se non sarà liberato tra una decina d’anni “per motivi di salute”, come a volte accade. Dove lo rinchiuderanno? Sulle alture a Nord di Pechino c’è Qincheng, penitenziario con celle speciali per gli alti gradi del partito caduti in disgrazia. Un carcere “di lusso” per gli standard cinesi. Fu costruito con i soldi dei sovietici nel 1958, quando bisognava trovare un posto per i funzionari del regime nazionalista sconfitto nella rivoluzione comunista. Lo chiamarono Progetto Numero 156. Ci finì anche Jiang Qing vedova di Mao e capo della Banda dei Quattro. E ci passò Bo Yibo, il padre di Bo Xilai, purgato nella Rivoluzione Culturale. Vige un regime di favore per le ex personalità, perché i capi che li hanno fatti condannare non vogliono che siano anche confusi e umiliati con altri detenuti comuni. Chi è stato rinchiuso a Qincheng racconta che le celle per i reclusi eccellenti sono singole, di venti metri quadrati, con bagno separato; si può vedere la tv qualche ora al giorno; sei giorni su sette di ora d’aria. E poi i leader in disgrazia vestono abiti civili. Hanno il vitto speciale, due piatti e una zuppa, una mela come frutta. Un ex detenuto di rango che ci ha passato otto anni, ricorda che “la vita non era terribile, certo la luce era accesa anche di notte per controllarci, ma potevo giocare a scacchi”. Il Progetto Numero 156 fu realizzato dal dirigente di Pechino Feng Jiping, che ci finì dentro quando fu purgato come “controrivoluzionario”. E poi disse: “Se lo avessi immaginato, lo avrei fatto costruire meglio”. Russia: componente Pussy Riot in carcere annuncia sciopero fame dopo minacce La Presse, 23 settembre 2013 Nadezhda Tolokonnikova, una delle componenti del gruppo punk russo Pussy Riot in carcere, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le dure condizioni di lavoro e le minacce di morte ricevute. In una lettera pubblicata sul blog della band la donna ha fatto sapere che i detenuti sono costretti a lavorare fino a 17 ore al giorno in una fabbrica che produce uniformi per la polizia. Inoltre, Tolokonnikova sostiene di essere stata minacciata il mese scorso dal vice direttore del carcere, il quale le avrebbe detto: “Le cose non si metteranno mai male per te, perché non c’è niente di cattivo nell’altro mondo”. Tolokonnikova sta scontando la condanna a due anni per teppismo. Lei e altre due componenti delle Pussy Riot erano state arrestate nel 2012 a seguito di una breve performance non autorizzata contro Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca.