Giustizia: in Commissione al Senato ultime battute per l’iter Ddl sulle pene non carcerarie Asca, 22 settembre 2013 La Commissione Giustizia ha sviluppato l’esame del Ddl di delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni per la sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Il testo è stato già approvato dai deputati. Il testo originario è stato connesso con il Ddl 110 di “Delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio” in modo da trattare in maniera più organica la materia della riduzione del ricorso al carcere che si persegue - ha sottolineato il relatore - tanto attraverso l’individuazione di pene detentive non carcerarie, quanto attraverso la trasformazione di un gran numero di reati attualmente previsti nell’ordinamento in illeciti amministrativi ovvero in illeciti civili. Sono stati discussi, e in gran parte respinti, numerosi emendamenti e alcuni sono stati accantonati. Il voto in merito è stato programmato per martedì prossimo. Giustizia: Magistratura Indipendente su decreto “svuota-carceri” ed esecuzione penale Comunicato stampa, 22 settembre 2013 Magistratura Indipendente prende atto delle misure contenute nel recente decreto c.d. svuota carceri e sulla esecuzione penale con cui si introducono disposizioni che pongono ulteriori eccezioni alla fase della esecuzione della pena e continuano a prevedersi poteri speciali nel c.d. piano carceri; Osserva come lungi dal prevedersi una semplificazione del sistema dei reati e delle sanzioni, che dia luogo ad una auspicabile massiccia depenalizzazione e all’introduzione di pene alternative, - il legislatore continui ad introdurre nuove fattispecie punite con il carcere, salvo poi ricorrere - al passaggio in giudicato delle sentenze - a meccanismi di esclusione della effettività della sanzione. Del resto l’investimento su misure come la liberazione anticipata, sganciata da qualsiasi percorso di rieducazione in ambito penitenziario, denota il perseguimento di finalità di politica carceraria e non obiettivi alti di reinserimento e di rieducazione; Evidenzia come gli ulteriori interventi sui meccanismi di disattivazione della effettività della pena, si risolvano in veri bizantinismi normativi che pongono complesse questioni in ambito di esecuzione penale, e che consistono in “eccezioni alla deroga” spesso rigide e formali (come la recidiva o talune fattispecie ostative - stalking, furto pluriaggravato, incidenti a volte su fatti in concreto di scarsa pericolosità), in una materia nella quale l’errore di applicazione può tradursi in errore sulla libertà, peraltro disciplinarmente rilevante; Rileva come più in generale la questione penitenziaria venga concepita come generica questione logistica e di spazi senza introdurre percorsi volti a commisurare in concreto il governo degli spazi di libertà residua al livello di pericolosità individuale, attraverso regole certe e con valutazioni giuridicamente rilevanti; e dunque in modo da recuperare gli spazi penitenziari esterni da far fruire ai detenuti meno pericolosi - già nella disponibilità dell’ampio patrimonio dell’amministrazione penitenziaria -che consentirebbero senza compromettere la sicurezza di assicurare ampiamente i gli standard di vivibilità imposti dalla Corte Europea; Denuncia il protrarsi della abitudine della classe di governo a considerare il piano carceri come un piano di appalti, da eseguirsi in modo autoreferenziale e riservato, e dunque a prescindere da un modello coerente e definito di esecuzione della pena che tenga conto delle reali necessità della logistica di reclusione e soprattutto dei territori ove sia effettiva la necessità di circondariali e/o reclusori. Ciò per garantire le esigenze di giustizia ed il diritto al mantenimento delle relazioni familiari, - da assicurarsi ove non ostino gravi ragioni prevenzionali - troppe volte messe in discussione dalla tendenza inspiegabile ad edificare carceri lontane dai luoghi da dove originano i detenuti e si celebrano processi; Ribadisce la propria contrarietà a qualsiasi ipotesi di amnistia che avrebbe ancora una volta l’effetto di vanificare gli effetti della giustizia penale. Il Gruppo di Magistratura Indipendente Giustizia: Tav; messaggio nuove Br partito da carcere Catanzaro, utilizzato intermediario Ansa, 22 settembre 2013 Il “messaggio” con il quale le nuove Brigate Rosse hanno fatto riferimento ai fatti della Valle di Susa, lanciando un appello ai No Tav, è partito dal carcere di Catanzaro. Gli autori del messaggio, Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi, che sono in carcere dal 2007 con l’accusa di essere esponenti del Partito comunista politico-militare, non possono utilizzare internet, ma non sono sottoposti a restrizioni, secondo quanto hanno riferito alcune fonti, per quanto riguarda la corrispondenza. L’ipotesi che viene fatta, dunque, è che Davanzo e Sisi abbiano scritto ad un loro familiare o ad un conoscente, utilizzandolo come intermediario ed incaricandolo di inserire un post con il loro messaggio ai No Tav sul sito “Secours Rouge International”. Si tratta adesso di accertare se i due esponenti delle nuove Br, con l’invito che hanno rivolto ai No Tav, nel loro messaggio, a fare compiere “un passo avanti” alla loro azione oppure “arretrare”, messaggio comunque che gli stessi No Tav hanno respinto, definendolo “una provocazione”, abbiano commesso un reato e siano per questo perseguibili penalmente. Appello nuove Br forse su web da intermediario Sono detenuti nel carcere di Catanzaro (località Siano) e non hanno la loro corrispondenza sottoposta a controlli i due esponenti delle Nuove Br, Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi, che con un messaggio inviato ai No Tav sono entrati “a gamba tesa” nei fatti della Val di Susa. L’invito che i due brigatisti, in carcere dal 2007 con l’accusa di essere esponenti del Partito comunista politico-militare, hanno rivolto ai No Tav a fare compiere alla loro azione “un passo avanti” oppure “arretrare”, con una sollecitazione implicita a dare una connotazione terroristica alla loro battaglia, pur se respinto dai contestatori della linea ferroviaria veloce Torino-Lione, che lo hanno definito “una provocazione”, ha ugualmente dell’inquietante. Dal carcere di Catanzaro, in un settore nel quale sono ospitati alcuni dei terroristi considerati a più alta pericolosità, non trapela alcun particolare sulle modalità con le quali Davanzo e Sisi sono riusciti a fare “uscire” il loro messaggio. In questo senso, comunque, non essendoci notizie certe, si ragiona per ipotesi. E una di queste è che i due esponenti delle Nuove Br, essendo la loro corrispondenza non sottoposta a controlli, abbiano scritto ad un loro conoscente inviandogli il messaggio per i No Tav e incaricandolo di postarlo sul sito “Secours Rouge International”, dove così ha avuto la sua visibilità. Non ci sarebbe nulla di misterioso o di rilevante, secondo fonti del carcere, in quanto è avvenuto proprio perché Davanzo e Sisi possono scrivere quel che vogliono a chi vogliono. Si tratta di capire adesso se l’iniziativa intrapresa dai due brigatisti possa avere conseguenze sul piano penale. La Procura della Repubblica di Catanzaro, non avendo ricevuto alcuna comunicazione formale circa il “messaggio” inviato dai due brigatisti, non ha avviato alcuna inchiesta e non ha affidato, almeno per il momento, alcuna delega d’indagine, alla polizia giudiziaria. Il riserbo nel caso specifico, trattandosi di materia particolarmente delicata e difficile, è massimo. Nulla esclude, comunque, che quanto pubblicato dalla stampa su questa vicenda, rappresentando a tutti gli effetti “notizie criminis”, possa fare scattare una specifica indagine. Giustizia: convegno volontariato penitenziario; in 30 anni il carcere ha fatto passi indietro Ansa, 22 settembre 2013 Il carcere - quello della riforma del 1975, della Legge Gozzini e dell’abbattimento simbolico del muro, quello della solidarietà e dell’umanità ha fatto passi indietro. Oggi la società si è richiusa e istituzioni e politica responsabili della “carcerizzazione di massa” che ci è costata, tra l’altro, un richiamo della Corte Europea hanno fatto perdere terreno ai diritti che erano stati conquistati. È quanto, in sintesi, è emerso questa mattina ad un convegno dal titolo “Lavorare con gli invisibili” organizzato a Roma nella Casa internazionale delle donne in occasione dei 100 anni dalla nascita di Laura Lombardo Radice, che negli anni 80 fu una delle prime a lavorare nel carcere di Rebibbia come volontaria. Quei principi universalistici che furono alla base di quella che è stata chiamata durante il convegno la primavera del sistema carcerario, oggi sembrano essere dimenticati ed è calato - è stato detto - “l’inverno”. Il convegno che si deve alle figlie Laura Lombardo Radice è stato un momento di riflessione sul volontariato attraverso l’esperienza di Laura come insegnante. Molte le testimonianze su di lei rese attraverso alcune delle sue lettere ricordate al pubblico dalle figlie ma anche attraverso i tanti che l’hanno conosciuta ed hanno lavorato con lei. In occasione dell’anniversario è stato anche ristampato un libro sulla persona, pubblicato la prima volta nel 2006, dal titolo “Soltanto una vita”, scritto da Chiara Ingrao, la quale oggi aprendo il convegno ha ricordato, tra l’altro, l’impegno della madre contro il Fascismo, quel trentennio che fu secondo una definizione di Laura “un invito alla boriosa presunzione dei peggiori”. “Sono parole che fanno venire i brividi - ha commentato Chiara Ingrao - un giorno in cui ci chiediamo se sia finalmente finito questo altro ventennio, certo meno cruento, ma di nuovo dominato dall’invito alla boriosa presunzione dei peggiori”. Nicolò Amato, che è stato direttore degli istituti di pena dal 1983 al 1993, ha ricordato che con la “rivoluzione compiuta in quegli anni si era rotta la separatezza del carcere con la società aprendo quest’ultima ad un nuovo interesse”. Amato ha poi ricordato che per conciliare sicurezza con rieducazione bisogna non dimenticare che nel carcere tra detenuti vi è solidarietà e responsabilità. “Facendo proprio leva su questo - ha detto - noi riuscimmo a superare la rivolta di Porto Azzurro. Per Stefano Anastasia fondatore di Antigone, con la carcerizzazione di massa “si è entrati in collisione con i principi universalistici che hanno simbolicamente aperto le porte del carcere, mentre per Elisabetta Laganà, presidente della conferenza per il volontariato in carcere il rischio è rappresentato dai Cie dove chi vi è ristretto è identificato ancora con un numero di codice, le persone lì - ha detto - sono ancora più invisibili. Si parla sempre di carceri ma la Corte Europea ci ha condannato quindi qualcosa non funziona. Bisogna pensare il modo per riattivare il patto istituzionale con i soggetti coinvolti”. Con il trasferimento di risorse “dal sociale al penale - ha detto infine Sergio Giovagnoli dell’Arci - il sistema non regge più”. Giustizia: in prigione con la mamma… a Rebibbia 20 bambini che hanno meno di 3 anni di Marida Lombardo Pijola Il Messaggero, 22 settembre 2013 Sono le venti, è l’ora della nanna: avanti, bambini, fate i bravi, dritti in cella. Scatti metallici, chiavistelli, vocine che cantilenano “chiu-su-ra, chiu-su-ra”. È una delle le prime parole che hanno imparato, i bimbi reclusi a Rebibbia assieme alle madri detenute. Mamma, pappa, pipì, chiusura. L’annuncio dell’agente che passa con le chiavi. La ninna nanna dei bimbi carcerati. Le voci che un po’ piangono e un po’ ridono, l’intonazione di una filastrocca, la bella lavanderina, ma che bel castello marcondirondirorendello, chiu-su-ra chiu-su-ra. I cuccioli d’uomo in gabbia si lamentano così, canticchiando, senza fare un capriccio, quasi mai. La porta blindata all’ingresso del reparto nido, truccata con un’epifania di fiori e farfalle, si abbatte sullo stipite con un rumore secco, strozzando lo spazio, il tempo e la mobilità di venti creature minuscole intontite, gli sguardi vuoti, spersi, afflitti. “Anche se sono piccolissimi, hanno capito che questa è una prigione”, s’immalinconisce Elisabeta (nome di fantasia, come gli altri che useremo), slava, 26anni, mamma di Vadìm, che ne ha due. Elisabeta ha un figlio chiuso dentro con la mamma e ne ha otto chiusi fuori “che soffrono anche di più”. Venti mamme detenute, venti bimbi che, fino ai tre anni, rimarranno lì. Poi via. “Lo strappo è doloroso: qui dentro hanno un rapporto viscerale “, spiega Gabriella Pedote, vicedirettrice del reparto femminile. Hanno vissuto, sono cresciuti, talvolta sono nati qui, dietro le sbarre, in simbiosi con le loro mamme. Papà non c’è, “Egor, che ha 18 mesi, non lo ha visto quasi mai”, racconta Nastja. Amin, che ha tre anni, dice “chiusura” con dizione ineccepibile: vive qui da due anni. Nicola, italiano, otto mesi, la farfuglia “lallando” come in certe nenie che i bimbi si cantano da soli per non aver paura. Ivan, Lilija e Yurij non lo dicono per niente, perché hanno rispettivamente 5 e 9 e 17 giorni, e hanno cominciato a vivere qua dentro, e che ne sanno. Prima di andare in cella, i bimbi reclusi di Rebibbia si danno i bacini, le carezze, fanno ciao. Un mormorio infantile rimbalza sul muro del corridoio contro il quale sguardi e passi e parole vanno a sbattere per tutto il tempo, avanti e indietro. Poi chiusura. Segregati. A chiave. Tra le sbarre. Qualcuno piange perché non gli va proprio, qualcuno no perché tanto lo sa, gli tocca, la mamma lo ha spiegato, ed era triste com’è quasi sempre, come ha imparato a essere anche lui, sebbene qualche volta lei stiri sorrisi forzati per rassicurarlo come Benigni ne “La vita e bella” con Giosuè, però le viene male, con quello sguardo umido, sconfitto. Così, fino alle otto di mattina, per bimbi e mamme (18 rom, una nigeriana e un’italiana, età media 25 anni, reati prevalenti furto e spaccio, recidive), il cielo sarà a scacchi, non come quello dei disegni sui quali certi piccoli lo spingono fin oltre i margini del foglio, così che dentro, se chiudi gli occhi, ci puoi pure volare. “Volare”, balbetta Niko, due anni e mezzo, come quel tipo tutto verde che ride incongruamente accanto a Mowgli e a Biancaneve sulle pareti del reparto, per non farle sembrare le mura di una galera, ciò che sono. Volare come Peter, sì, ma basterebbe pure allungare i passi un po’ più in là, oltre le quattro celle, il corridoio, la sala giochi minuscola, il piccolo giardino. E pazienza se questo è un reparto modello, e tutti sono dolcissimi, e pure gli agenti fanno coccole, e ci sono le puericultrici, il pediatra, il neuropsichiatra, per curare e prevenire le bronchiti, l’asma, la depressione, l’aggressività, la miopia, la perdita della visione tridimensionale, le malattie dei bimbi in gabbia. Pazienza, perché i bimbi in gabbia sono questi qui. Ma poi, per fortuna, arriva il sabato. “I sabati della libertà”, li chiamava Leda Colombini, scomparsa un anno fa, che nel ‘94 fondòARoma Insieme, gruppo di volontari che il fine settimana si vanno a prendere i bambini e se li portano a vedere ciò che non hanno visto mai. Quando Amin ha visto il mare per la prima volta, ha pianto di paura; quando Lyudmila ha visto la neve, se l’è messa in tasca per portarla alla sua mamma; quando Alex è al parco, diventa un po’ meno catatonico, riesce persino a correre, come gli fosse tornata addosso l’energia. E poi i compleanni. Per i 3 anni di Amin, Francesca, nonno Nanni e gli altri hanno portato i regali e la torta. Ma come piangeva Faraa, la sua mamma. “Ora lo portano via. Io devo scontare ancora due anni. Quando ho cercato di spiegarglielo, si è messo a gridare mamma, con te, con te”. Piange. “Io ho sbagliato, ma che colpe ha lui? Che cosa posso dirgli?”. Giustizia: Passarelli (A Roma Insieme); devono uscire, ma non ci sono istituti per accoglierli di Marida Lombardo Pijola Il Messaggero, 22 settembre 2013 Gioia Passarelli, cosa ha appena riferito, come Presidente dell’associazione “A Roma Insieme”, alla Commissione Diritti Umani del Senato? “Ho raccontato, tra l’altro, delle nostre uscite con i bimbi di Rebibbia, e di quanto Leda Colombini abbia fatto, anche grazie all’aiuto del personale carcerario, perché tanti di loro possano frequentare i nidi esterni, ricevere stimoli, sentirsi un po’ più simili agli altri”. Quanti e chi sono i bimbi reclusi, in Italia? “Attualmente circa cinquanta. La legge prevede gli arresti domiciliari per le madri di figli con meno di tre anni. Questo non vale se le detenute non hanno residenza o sono recidive. La maggior parte dei bimbi reclusi sono figli di nomadi: sono senza fissa dimora, e, nei campi, vengono inghiottite da un ingranaggio che le costringe a ripetere i reati”. La carcerazione dei bimbi, però, sta per finire… “Dovrebbe, in virtù di una legge del 2011, varata dall’allora Guardasigilli, Paola Severino. Per le madri è prevista la custodia attenuata negli Icam, Istituti penitenziari più vivibili, o in case famiglia protette. Entro gennaio, tutte le mamme di figli piccoli dovrebbero essere trasferite. Ma non credo accadrà”. Perché? “Esistono solo due Icam, a Milano e a Genova. Il nido di Rebibbia assomiglia a un Icam, ma è sempre all’interno di un carcere. A Roma, da anni è fermo il progetto di realizzarne uno nel parco di Aguzzano. In realtà, siamo contrari anche agli Icam. Il nostro slogan è: che nessun bambino varchi la porta di un carcere”. La soluzione qual è? “Le case famiglia. Dove, peraltro, sarebbe possibile tenere i bimbi fino a sei anni, e ricostituire anche con i fratelli la rete familiare. Però mancano strutture e personale”. E dunque i bimbi resteranno in gabbia? “Il rischio è questo. Eppure, i danni sono gravi. Malattie, irritabilità, linguaggio poverissimo. Vite segnate”. Giustizia: il parco-auto della Polizia penitenziaria è a pezzi, la metà non può circolare di Fabio Di Chio e Matteo Vincenzoni Il Tempo, 22 settembre 2013 Metà del parco auto della polizia Penitenziaria non può circolare. I mezzi sono o dal meccanico o non hanno passato la revisione. Dopo lo scandalo scorte ecco quello dei blindati che cadono a pezzi. Mentre politici e dirigenti del Dipartimento di polizia penitenziaria si trattano bene, benissimo. Dispongono di bolidi che costano dai 100 mila euro in giù. Ma di poco. Sono Bmw 750, Audi A6, Subaru 3000. La più “piccola” è tedesca serie 330. I sindacati di polizia fanno la voce grossa. I servizi pubblicati da Il Tempo hanno dato la stura alla rabbia: “È assurdo”, “Indegno”, “Facciamo i salti mortali per quattro lire”. Sono indignati perché hanno sempre denunciato lo spreco e non è mai successo niente. Sull’orlo di una crisi di nervi “per l’enorme sperpero di denaro pubblico per i molti servizi di scorta o tutela”. Il Sappe ha scritto al ministro Annamaria Cancellieri, costretto “ad evidenziare che la gestione degli automezzi non sempre è ispirata a criteri di diligenza e correttezza, con la conseguenza del verificarsi di abusi ed irregolarità dalle quali potrebbero derivare gravi responsabilità d’ordine contabile, amministrativo e penale”. Alza il tono pure il Coisp del segretario generale Franco Maccari: “L’unica cosa che non si fa mai attendere è il taglio alle nostre risorse e ai nostri mezzi”. E infatti questo è l’altro capitolo amaro. Il nostro giornale ha rivelato il numero delle auto dei Commissariati e quello delle vetture fuori uso. Un bilancio che la dice tutta sulle condizioni in cui i poliziotti sono costretti a lavorare. La voce “mezzi” è un tasto dolente anche al Dipartimento della polizia penitenziaria. Portelloni che non si chiudono, sedili a pezzi, pedaliere consumate, pneumatici lisci e minimo 800 mila chilometri di strada percorsi. Sono i carrozzoni blindati, furgoni cellulari che ogni giorno trasportano detenuti e personale di scorta che non sempre basta. Le cifre all’anno fanno paura: 180 mila traduzioni per un totale di circa 400 mila carcerati. Praticamente è una città medio-grande che si sposta su quattro ruote. Un “trasloco” che dovrebbe avvenire con la massima sicurezza. Le cose si aggravano quando si considera che con la riforma avviata qualche anno fa, la penitenziaria non dispone più di presidi e personale medico. La competenza è passata alle Aziende sanitarie locali. Quindi ogni volta che un prigioniero ha bisogno di visita dentistica, assistenza o di sottoporsi a una semplice radiografia deve essere trasportato nel più vicino presidio sanitario, una media calcolata di 80 mila tragitti ogni 12 mesi. In questo scenario non sono piccoli i numeri dei veicoli quasi da rottamazione. I sindacati hanno immortalato scene di ordinario degrado. Gli interni dei blindati sono divorati, si aprono voragini sul pianale sotto ai pedali e la ruggine divora i cardini degli sportelli posteriori, precari al primo scossone. Lo dice pure il Dap. Ha un patrimonio di quattromila veicoli. Quasi la metà sono agricoli e altri non sono destinati ad un uso operativo. Gli altri però dovrebbero marciare. Sono circa 2.500. Eppure la metà è fuori uso, in officina, senza manutenzione o non ha il certificato di affidabilità della Motorizzazione. E a Lucca il detenuto va dal giudice sulla Fiat Punto Al Tribunale di Lucca ci è andato con una Fiat Punto presa a noleggio. Doveva avvenire tutto secondo le regole: il detenuto su un furgone blindato, scortato da un numero giusto di agenti della penitenziaria, tutti sicuri e protetti. Invece ci si è arrangiati. Lo racconta l’”agente furioso” che lavora nella città toscana. “La traduzione racconta - è stata fatta al Tribunale di Lucca per una udienza. L’autovettura era una Fiat Punto. Ormai tutto il personale della Polizia penitenziaria è pronto: le prossime traduzioni le faremo in autobus!”. Lo sfogo rivela anche di peggio: “Ad oggi si contano tre furgoni in uso al nucleo di Lucca, tutte e tre i furgoni sono fuori uso, e la cosa gravissima è che il personale del nucleo è costretto ad effettuare le traduzioni dei detenuti al Tribunale di Lucca Viareggio, o all’ospedale, con la macchina civile presa a noleggio, non avendo nessun altro mezzo a disposizione. Uno di questi furgoni - continua l’agente furioso - è da diversi mesi fermo e per meno di 500 euro non viene riparato. Ci si chiede come possa l’amministrazione autorizzare il trasporto dei detenuti con macchine come quelle prese a noleggio , quale sicurezza viene garantita ai colleghi che già sotto organico effettuano le traduzioni”. Il sindacato riferisce altre catastrofi. Come in Calabria “dove qualche tempo fa si rimase senza benzina”. In Sicilia, a Palermo “dove praticamente tutti gli automezzi sono fermi in panne, dopo le richieste di intervento provenienti un po’ da tutte le parti d’Italia. Giustizia: Capece (Sappe); a che servono i Suv? portano i dirigenti del Dap al mare di Simone Di Meo Il Tempo, 22 settembre 2013 “Mentre i magistrati si fanno accompagnare al mare coi Suv blindati, i cellulari della Penitenziaria si fermano in strada, con pentiti e detenuti a bordo, perché manca la benzina. Ditemi voi se è una cosa normale”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, ha ben impressi due episodi. “Il primo mi è stato raccontato da un collega. Un magistrato del Dipartimento è stato visto salire a bordo di un fuoristrada Range Rover Discovery superaccessoriato (costo: 100mila euro) per andare in ferie, a Civitavecchia. Il secondo, invece, è un maxi-processo, in Calabria, che non si è potuto celebrare perché non c’era il carburante per trasferire i detenuti in tribunale”. Partiamo dalla vicenda dei fuoristrada: com’è che il sindacato è stato in silenzio davanti a una spesa che supera i 3 milioni di euro? “Non è vero che non abbiamo protestato. Quando abbiamo contestato la cosa al ministro Severino, ci disse che si trattava di un contratto che lei aveva ereditato e che non poteva farci niente”. Avreste potuto chiedere la rescissione del contratto. Si pagava la penale e si recuperavano i soldi... “Glielo chiedemmo, ma evidentemente non voleva entrare in rotta di collisione con chi, quel contratto, l’aveva voluto. Non nego che la spesa potesse anche darle fastidio, che non la condivideva. Ma poi, comunque, non è mica stata bloccata”. Alla fine, quindi, i trenta Suv vengono acquistati per la modica cifra di tre milioni di euro. Ora come vengono utilizzati? “Ah, questo francamente non lo so. Probabilmente, accompagnano i magistrati in giro. Non ne ho la più pallida idea”. E come, invece, dovevano essere utilizzati? “Dovevano servire per i trasferimenti di particolari detenuti”. Tipo? “Collaboratori di giustizia, soggetti al 41bis (carcere duro, ndr): personaggi con un altissimo indice di rischio, insomma, che non possono viaggiare sui mezzi ordinari”. Non potrebbero viaggiare, ma ci viaggiano se sono gli unici disponibili... “È così, purtroppo. Ogni tanto, vengo a sapere che le vetture di servizio del personale che opera nei penitenziari si sono fermate in strada, col motore che sbuffa fumo o con la lancetta del serbatoio che non si schioda dallo “zero”. In Calabria, l’anno scorso, un’udienza è stata rinviata perché non c’erano i soldi per mettere la benzina nei furgoni con cui accompagnare i detenuti. E, attenzione, erano tutti detenuti provenienti da carceri della regione. Non c’era alcun trasferimento da migliaia di chilometri da fare”. È solo un problema di carburante, o c’è dell’altro? “Abbiamo decine, centinaia di macchine abbandonate negli istituti di pena. Ferme, perché manca il collaudo o perché manca qualche pezzo di ricambio che costa un centinaio di euro. I tagli all’Amministrazione ci sono e pesano molto, ma si tratta di tagli fatti senza un criterio. I risparmi vengono realizzati fermando le auto. A Santa Maria Capua Vetere ci sono decine di vetture e pullman abbandonati a cui servirebbe soltanto qualche aggiustatina veloce per farli ripartire. Sa come funziona il giochetto? Come con Frankenstein: si raccatta un pezzo di qua, un pezzo di là e alla fine il “mostro” cammina. Ma quanti sprechi”. Un po’ come allo scasso? “Adottando questa metodologia folle, si distrugge un parco auto per far funzionare qualche centinaio di vetture. A Fossombrone, per dirne una, ci sono sei furgoni blindati: uno è fermo perché la batteria è scarica, un altro non so per che cos’altro e così i successivi. E sa qual è la cosa più grave? Che i mezzi della polizia penitenziaria escono in strada senza nemmeno il collaudo. D’altronde, a chi verrebbe in mente di fermarli per un controllo?”. Ma, giusto per capire, solo le auto del personale stanno combinate così male? “Beh, anche i mezzi agricoli che dovrebbero essere utilizzati nelle case lavoro dai detenuti sono ridotti allo stremo. Le uniche auto che funzionano a meraviglia sono quelle che, fino a qualche tempo fa, erano parcheggiate davanti al Dipartimento: Lamborghini, Maserati, Subaru. Bolidi che oggi tengono nascosti per la vergogna ma che all’epoca erano il vanto di capi e capetti dell’Amministrazione. A quelle, la benzina non manca mai”. Giustizia: “Io, torturato in carcere e costretto a mentire”, lo scoop censurato su Borsellino di Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo La Repubblica, 22 settembre 2013 Uno scoop soffocato, un’indagine contorta che si rivelerà poi un gigantesco depistaggio, un pentito che si pente di essersi pentito e una sua intervista cancellata per seppellire ogni prova. Anche così hanno deviato l’inchiesta sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. E per “legge” l’hanno incanalata su una falsa pista. I misteri sulla strage di via D’Amelio non finiscono mai. E adesso si scopre che diciotto anni fa la magistratura aveva ordinato di far sparire una registrazione televisiva - con un provvedimento di sequestro - sulla prima ritrattazione del famigerato Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia che si era autoccusato del massacro offrendo un’ingannatrice ricostruzione del massacro e indicando come suoi complici sette innocenti. Tutto su suggerimento di uomini di apparati dello Stato. Dopo le sue confessioni, Vincenzo Scarantino aveva subito fatto marcia indietro affidando alle telecamere di Studio Aperto la sua verità. La procura di Caltanissetta ha deciso nel 1995 che quella verità non poteva diventare pubblica e, subito dopo la messa in onda dell’intervista, ne ha imposto la distruzione dagli archivi e perfino dai server. Quell’intervista non doveva più esistere. E così è stato, almeno ufficialmente. Perché qualcuno, probabilmente un tecnico disubbidiente, ne ha conservato una copia - invano cercata dai pm, che oggi indagano sulle indagini e che hanno smascherato il depistaggio della vecchia inchiesta - di cui Repubblica è entrata in possesso. Basta ascoltare la voce di Scarantino per capire che lui aveva già detto tutto, tutto quello che si sarebbe scoperto quasi vent’anni dopo. Ma nulla si doveva sapere allora, c’era solo una verità da far emergere: Vincenzo Scarantino colpevole. I pm di Caltanissetta di oggi stanno ancora indagando su ciò che è accaduto - chi ha taroccato l’inchiesta fin dai primi passi, perché - ma nei loro archivi non hanno trovato neanche il fascicolo originale del sequestro di quella video- cassetta. Scomparso anche quello. Adesso vi raccontiamo nei dettagli questa vicenda, precisandovi che la video cassetta recuperata (e che potete trovare su Repubblica.it) contiene solo una parte dell’intervista concessa da Scarantino. È lunga quasi tre minuti. La versione integrale non esiste più. Ma in quei tre minuti trasmessi vent’anni fa e mai più riproposti il falso pentito dice tutto. E tutto è cominciato il 26 luglio 1995, tre anni dopo la morte di Paolo Borsellino. Il mafioso che si era autoaccusato della strage telefona alla redazione di Studio Aperto a Palermo. Per la prima volta ammette di essersi inventato ogni dettaglio sull’autobomba, di avere fatto nomi di uomini innocenti dopo le torture subite nel supercarcere di Pianosa. Passano poche ore e, negli studi della redazione di Italia Uno, arriva la polizia e sequestra tutte le cassette con l’intervista di Scarantino. Il provvedimento è firmato dalla procura di Caltanissetta. L’ordine è quello di cancellarla da tutti i computer, a Palermo e a Milano. Il falso pentito - subito dopo il servizio televisivo - viene raggiunto dai magistrati di Caltanissetta che lo convincono a ritrattare la ritrattazione. È la svolta dell’inchiesta sulla strage di via Mariano D’Amelio. La procura, il capo è Giovanni Tinebra, mette il sigillo sull’autenticità delle rivelazioni false di Scarantino. Per più di quindici anni il “caso” viene dimenticato, fino a quando appare sulla scena un nuovo pentito - Gaspare Spatuzza - che smentisce Scarantino e racconta che ad organizzare la strage era stato lui e non l’altro. Nell’autunno del 2010 la revisione del processo e la scarcerazione di sette imputati, ingiustamente condannati all’ergastolo. Poi, qualche giorno fa, anche la registrazione dell’intervista a Scarantino è ricomparsa. Ecco cosa diceva il 26 luglio del 1995 al giornalista Angelo Mangano: “Ho deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più perché ho detto tutte bugie. Io sono innocente…Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto sui giornali, e ho inventato tutte queste cose. Il giornalista gli chiede se gli uomini che lui ha accusato sono innocenti, Scarantino risponde: “Tutti, tutti, tutti...”. Poi, in una seconda parte dell’intervista - uno spezzone andato in onda il giorno dopo, il 27 luglio - il falso pentito comincia a parlare delle torture subite in carcere: “A me a Pianosa mi fanno urinare sangue. A me facevano delle punture di penicillina, mi stavano facendo morire a Pianosa… ma voglio tornare in carcere... mi fanno morire in carcere, però morirò con la coscienza a posto”. Scarantino fa anche un nome nell’intervista (che però non è andato in onda) e lo rivela oggi Angelo Mangano: “Gli chiesi: “Chi le ha fatto urinare sangue? Mi rispose: il dottore La Barbera”“. Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile di Palermo che l’attuale procura di Caltanissetta considera il principale responsabile della gigantesca montatura che è stata l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. I retroscena di quell’intervista ce li racconta Mangano: “Nacque in modo del tutto casuale. La mattina del 26 luglio 1995 si era avuta notizia da ambienti giudiziari di una ritrattazione di Scarantino, decisi dunque di andare a casa della madre, alla Guadagna. La signora mi fece sentire una registrazione in cui il figlio ritirava le accuse, una registrazione che si sentiva male. Diedi allora il mio numero alla signora, e neanche un’ora dopo fu Vincenzo Scarantino a chiamarmi”. Qualche mese prima si era già concluso il primo processo per la strage Borsellino, con la condanna del falso testimone a 18 anni e con l’ergastolo per i complici che aveva indicato. Due giorni dopo l’intervista e il sequestro della cassetta, Scarantino decise di fare il pentito in un verbale firmato davanti al sostituto procuratore di Caltanissetta Carmelo Petralia. Poi le indagini proseguirono su una falsa pista. E la procura di Caltanissetta aprì addirittura un’inchiesta “per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare”. Seguì una nota ufficiale dei pm per definire “grave il comportamento della madre di Scarantino e di quanti hanno strumentalizzato un comprensibile desiderio d’affetto per fini processuali”. Il “colpevole” era stato trovato, non ce ne dovevano essere altri. Quella era la verità sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. Ufficiale e falsa. Sardegna: l’isola come una colonia, una terra di deportazione per i detenuti mafiosi di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 22 settembre 2013 Allarme a Badu ‘e Carros: il nuovo padiglione potrebbe ospitare i 41bis Franco Corleone al convegno dei garanti dei detenuti sul tema dell’ergastolo. “Ormai la Sardegna è diventata una colonia a regime speciale”. Terra di deportazione per mafiosi e affiliati vari di ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita. E presto Badu ‘e Carros potrebbe ospitare un intero braccio riservato ai 41bis. Il pericolo si fa sempre più concreto, dopo sei, sette mesi di silenzio ministeriale. La prova che l’isola sia la Cayenna italiana è nei numeri: dei 65mila detenuti reclusi nel Bel Paese, 1200 sono sardi. Eppure “nelle carceri sarde ci sono 2500 posti letto. E il bello è che se ne vogliono costruire ancora delle altre, di carceri. C’è una vera e propria ondata di speculazione edificatoria in nome dell’emergenza, anche se la sicurezza non c’entra proprio nulla”. Franco Cor-leone parla a chiare lettere. Anche del nuovo padiglione del penitenziario nuorese, Badu ‘e Carros. “La Sardegna ha questo destino tragico” sottolinea l’ex parlamentare, ora coordinatore nazionale dei garanti nonché presidente della Società della Ragione. A Nuoro, ieri pomeriggio, nell’auditorium della Camera di commercio, in via Papandrea, per il convegno organizzato dai garanti dei detenuti dei comuni di Nuoro e Sassari, “Una questione di prepotente urgenza: carcere, ergastolo e riforma della giustizia” (in collaborazione con la Scuola forense e l’Ordine degli avvocati di Nuoro, la Coop Lariso di Nuoro e l’associazione Festina lente di Sassari). Dibattito moderato e coordinato dall’avvocato Martino Salis. “L’occasione per fare di Nuoro il nodo di una rete, un tentativo per mettere Nuoro al centro del dibattito sulle carceri” spiega il padrone di casa Gianfranco Oppo, garante del comune barbaricino. “Il primo in Sardegna” sottolinea in apertura dei lavori il vice sindaco Leonardo Moro. “Qui a Nuoro, a Badu ‘e Carros - insiste Oppo al microfono - ci sono situazioni esplosive, la sezione comuni e sull’orlo del tracollo, non ci sono attività, si sta 22 ore in cella e il cesso è a fianco alla cucina... odori e profumi si mescolano... questa situazione è la negazione totale della dignità dell’uomo”. Così come succedeva trent’anni fa, era il 1983 quando Badu ‘e Carros era il supercarcere dei terroristi, quando i padri delle Br scontavano la propria pena in condizioni di assoluta ristrettezza. Ci vollero un vescovo come monsignor Giovanni Melis e un cappellano come don Salvatore Bussu per sollevare il coperchio, farne un caso nazionale che ha poi portato alla riforma del sistema penitenziario, con la “legge Gozzini”. E di una nuova riforma c’è bisogno anche oggi. Basti pensare a un solo dato: su 180 detenuti a Badu ‘e Carros, 42 sono in attesa di giudizio. “Il 25%” calcola subito Gianfranco Oppo. Una percentuale che a livello nazione sfiora il 50%. “Il problema è che le nostre carceri sono piene di stranieri, di tossicodipendenti, gente che al momento dell’uscita non ha chance, punti di riferimento” interviene Cecilia Sechi, garante dei detenuti del comune di Sassari. “In carcere abbiamo gli “scarti della società”“ provoca, reduce dal recentissimo trasloco da San Sebastiano a Bancali. “Oggi siamo più classisti che mai: in carcere ci sono soggetti fragili, emarginati, poveri -conferma Corleone. Rispetto ai 65mila detenuti in Italia, più del 50% hanno queste caratteristiche”. “Un carcere così è ingestibile e inutile - sottolinea. E’ necessario un carcere costituzionale per chi ha compiuto un grave reato, per tutto il resto vanno seguite altre strade”. La riforma non può aspettare, insomma. Anche perché “non ci sono ancora gli strumenti per tutelare i diritti dei detenuti, tutti ne parlano ma quali sono questi diritti dei detenuti? Tutti quelli che sopravvivono al regime della detenzione... sì, ma quali sono, non c’è una elencazione. I diritti dei detenuti sono un grosso problema” sollecita Adriana Carta, magistrato di sorveglianza del tribunale di Nuoro. Del resto non è neppure chiaro, ancora, se l’ergastolo sia legittimo o meno, quello “ostativo” peggio che mai. Tema al centro della lectio magistralis di Stefano Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia dell’università di Perugia, presidente onorario di Antigone. “Ergastolo, fine pena mai, pena perpetua - dice, secondo alcuni non esiste, di fatto nel 2012 se ne contavano 1581, negli ultimi vent’anni i casi si sono moltiplicati per quattro”. Cagliari: carcere Uta; parte conto alla rovescia, per superprefetto Sinesio pronto a ottobre L’Unione Sarda, 22 settembre 2013 Manca poco per l’apertura del carcere di Uta. Poco più di un mese, secondo Angelo Sinesio, il prefetto con superpoteri nominato dal ministro Anna Maria Cancellieri. “Entro il 30 ottobre consegneremo il carcere al ministero della Giustizia”. Senesio, a capo del “piano carceri”, ha un mandato preciso: aprire il più presto possibile le celle di Santa Lucia con i tre milioni di euro messi a disposizione. Da ultimare ci sono solo le celle per i 41 bis. Più volte era stata fissata una data di consegna ma i ritardi, legati soprattutto ai guai dell’impresa che sta realizzando l’opera, hanno sempre fatto slittare l’apertura. Ora sembra la volta buona. Insomma è partito il conto alla rovescia per l’apertura del nuovo istituto di Uta che ospiterà 586 reclusi. Catania: tentato suicidio nel carcere di Bicocca, intervento della Polizia penitenziaria Comunicato Dap, 22 settembre 2013 “È solo uno dei tanti episodi da ascrivere al merito della Polizia Penitenziaria quello che stamattina si è verificato nel carcere di Catania Bicocca. Intorno alle 8.00 il detenuto C.A., 31 anni, in attesa di 1° giudizio, utilizza una maglietta per ricavarne un cappio, lo lega alle sbarre della finestra e infila la testa nel tentativo di suicidarsi. Si tratta di pochi istanti, basta un minimo ritardo, una distrazione, e la vita di un uomo finisce. Sono tanti i tentativi di suicidio nelle carceri, molti sono atti puramente dimostrativi, vale a dire che non vi è una vera intenzione di portare a termine l’atto suicida, magari è solo un modo per attirare attenzione sulla propria condizione, ma in tanti altri casi le intenzioni sono reali, e solo il tempestivo intervento degli agenti penitenziari impedisce l’esito fatale”. Queste le parole di Luigi Pagano, vice capo vicario del Dap, che raccontano dell’intervento dell’Assistente Capo Guadagno che, durante un giro d’ispezione nel reparto, ha notando i movimenti di C.A., ha aperto immediatamente la porta della cella, ha strappato dalle mani il pezzo di stoffa e ha riportando alla calma il detenuto. “È giusto raccontarli questi episodi - afferma Luigi Pagano - per ricordare a tutti che la Polizia Penitenziaria, all’interno delle carceri, lavora con professionalità e partecipazione umana per rendere meno dure le condizioni detentive”. Massa: Mauro Romanelli (Sel) visita carcere “sovraffollamento, sconforto e frustrazione” www.gonews.it, 22 settembre 2013 Il consigliere regionale preoccupato anche per i tagli alle mercedi, ovvero i fondi per far lavorare i detenuti. “Il lavoro è indispensabile per costruire un futuro e mantenere un equilibrio”. Venerdì 20 settembre il Consigliere Regionale Mauro Romanelli di Sinistra Ecologia e Libertà ha proseguito con la visita al carcere di Massa il suo giro per le carceri toscane che ormai dura da oltre un anno. “Sono stato accolto bene dalle autorità penitenziarie che mi hanno rappresentato la solita situazione di sovraffollamento (ad oggi 225 detenuti per una capienza di 150), carenza di personale, sia di polizia penitenziaria (115 per un organico di 150), sia medico infermieristico, e taglio dei fondi per le mercedi, ovvero per far lavorare i detenuti”. Ciononostante, l’80% dei circa 80 detenuti condannati in maniera definitiva lavora, certo con orari diminuiti, per consentire di far lavorare tutti. E il lavoro è indispensabile, per costruire un futuro, e per mantenere un equilibrio. I dati degli psicofarmaci e degli antidepressivi assunti da coloro che sono entrati sani in carcere, non già precedentemente tossici o psichiatrici, è qui abbastanza basso, a differenza di altre realtà dove un numero minore di detenuti è occupato. Il carcere non è tra i peggiori visitati, ci sono attrezzature sportive, è stata fatta una buona zona per gli incontri con i familiari, con un bellissimo giardino ben curato con giochi per bambini. “Con gli operatori e gli stessi detenuti il rapporto è stato molto cordiale, durante il mio breve giro. Mi pare di aver notato che intercorrono buoni rapporti tra personale e detenuti, e nel personale ho trovato motivazione ma anche rabbia e frustrazione, per l’abbandono dello Stato. Un medico mi ha detto, nell’andarmene: lo faccia sapere, Consigliere, che a massa c’è un medico a partita Iva molto incavolato”. “Per adesso, fare sapere è l’unica cosa che ci è data. Ma almeno quello facciamolo” - conclude Romanelli. Massa: il medico in carcere per utilizzo terapeutico cannabis “continuerò la mia battaglia” Il Tirreno, 22 settembre 2013 Fabrizio Cinquini, il medico di Pietrasanta che da anni si batte per l’utilizzo terapeutico della cannabis e che per questo è finito di nuovo in carcere due mesi fa, sta bene. Lo assicura il consigliere regionale di Sel Mauro Romanelli che l’altro ieri lo ha incontrato nella casa di reclusione di Massa durante la visita alla struttura penale. Romanelli, che nelle sue vesti istituzionali ha ormai girato tutti i penitenziari toscani, ha controllato la situazione nel carcere apuano, si è intrattenuto con diversi detenuti e con il personale, ed ha avuto modo anche di parlare con Cinquini. “Il medico versiliese - ha detto Romanelli - si trova in una cella nella zona infermeria per una lieve indisposizione ma sia fisicamente che moralmente l’ho trovato in buone condizioni. Mi ha detto che all’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, dove era stato trasferito per lo sciopero della fame che aveva iniziato per protestare contro le pessime condizioni del carcere di Lucca, è stato trattato molto bene, con grande professionalità. E anche a Massa ha detto che si trova bene. Ovviamente non abbiamo parlato della sua situazione giudiziaria, gli ho soltanto sentito dire che è intenzionato ad andare avanti con la sua battaglia per l’utilizzo terapeutico della cannabis”, una battaglia politica che ha portato fino alle estreme conseguenze. Romanelli, dopo avere tracciato il quadro della situazione relativa al carcere di Massa - sovraffollato, visto che ci sono 250 detenuti quando la capienza sarebbe di 150, con personale ridotto, visto che ci sono 115 dipendenti invece di 150, ma anche con un’ottima organizzazione interna e con la possibilità per i detenuti di lavorare - ha ricordato che la legge regionale sull’utilizzo medico della cannabis dovrebbe diventare operativa a breve, non appena riceverà il via libera dall’ufficio stupefacenti del ministero della giustizia. “Speriamo - ha sottolineato il consigliere di Sel che di quella legge è il promotore insieme a Monica Sgherri del Prc ed Enzo Brogi del Pd - che venga sbloccata al più presto, perché tanti malati hanno bisogno di questa sostanza per alleviare le loro sofferenze”. Massa Marittima (Gr): dall’agricoltura all’edilizia, progetto di reinserimento per detenuti www.ilgiunco.net, 22 settembre 2013 Si intitola Col.Ma.Re. Coltivare, Manutenere, Reinserirsi, il corso che ha coinvolto undici detenuti della casa circondariale di Massa Marittima e che si concluderà con un convegno che si svolgerà il 27 settembre prossimo proprio presso il carcere di Massa. “Questa attività formativa - afferma Enrico Norcini direttore Ouverture - è stata progettata, promossa e gestita dall’Agenzia Formativa “Ouverture Service” in partenariato con l’Agenzia “L’Altra città” di Grosseto e “Heimat” di Arcidosso, su finanziamento del Fondo Sociale Europeo per l’inclusione sociale”. “Il percorso formativo si è sviluppato grazie alla collaborazione con la Cooperativa Sociale “Il Nodo” e “Parvus Flos” articolandosi in due macro aree: la manutenzione del settore edile ed affini e la coltivazione agricola - prosegue Norcini. Le attività hanno preso avvio all’inizio dell’anno concludendosi a fine luglio. Al corso hanno aderito 11 detenuti della struttura che, grazie alla specificità e concretezza delle attività, hanno potuto approfittare di un’occasione formativa certamente utile e spendibile nel mondo del lavoro. Durante il convegno conclusivo verranno consegnati gli attestati di partecipazione ai corsisti e verranno presentate nello specifico le attività svolte focalizzando l’attenzione sull’importanza di percorsi di questo genere per favorire il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti”. Milano: “I frutti del carcere” mercato produzioni carcerarie… cibo, artigianato e servizi www.altreconomia.it, 22 settembre 2013 Sabato 28 settembre 2013, dalle 10.00 alle 18.00, a Milano in Via San Vittore 49, presso il giardino della sede della Cooperativa La Cordata. Una giornata a Milano per conoscere il mondo del lavoro dalle carceri, dentro e fuori, prima e dopo: vendita di prodotti, incontri, assaggi, presentazioni, informazione. Dalle 10.00 alle 18.00 presso la Cooperativa La Cordata, in via San Vittore 49. L’iniziativa è organizzata dalla cooperativa sociale La Cordata, dal Comitato X Milano Zona 1 e dai Cittadini Solari X Milano. Alle ore 11.00: Incontro “Lavoro in carcere” con Massimo Parisi, Alessandra Naldi, Mirko Mazzali, Pietro Raitano e testimonianze dirette di detenuti I frutti del carcere è il primo evento in città per conoscere il mondo del lavoro dei detenuti, per scoprire dove, come e perché acquistare prodotti e servizi provenienti dal mondo carcerario. Perché il lavoro è lo strumento più efficace di reinserimento nella società, per la formazione e per la professionalizzazione che offre, e anche una grande opportunità di scambio con la città e le persone. Mobili, gioielli, accessori, abiti, pane, focacce, fiori e piante, ma anche giardinieri, falegnami, sarti che lavorano per aziende e a domicilio. Prodotti alimentari e artigianali e servizi di alta qualità; si presentano oltre trenta fra laboratori di produzione e cooperative di servizi che ambiscono a confrontarsi - sul mercato - alla pari con i concorrenti “di fuori”. Incontri per conoscere da vicino cosa vuol dire lavorare nelle carceri, e uscire dal carcere per lavorare. Saranno presenti Lucia Castellano, consigliere e vicepresidente Commissione Regionale delle carceri, Lamberto Bertolè, consigliere e presidente della Sotto-Commissione Carceri comunale, Mirko Mazzali, consigliere e vicepresidente della Sotto-Commissione Carceri comunale, Massimo Parisi, direttore del carcere di Bollate, Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti di Milano, Pietro Raitano, direttore di Altreconomia, Marco Forlani, responsabile area lavoro di CS&L Consorzio Sociale. La Libreria Tadino di Milano e l’Associazione Cuminetti proporranno una selezione di libri di scrittori detenuti invitandone alcuni a presentarli, presentarsi e leggerne qualche passo. Il Gruppo della Trasgressione terrà una delle abituali riunioni che svolge con i detenuti nelle carceri milanesi, aperta alla partecipazione di un gruppo di scout e ai visitatori del mercato. Durante la giornata, servizio di caffetteria e buffet a cura di Food Couture. Interventi musicali con gli strumenti della liuteria del Carcere di Opera. Programma: ore 10.00 - apertura mostra-mercato ore 11.00-12.15 - incontro “Lavoro in carcere” con Massimo Parisi, Alessandra Naldi, Mirko Mazzali, Pietro Raitano e testimonianze dirette di detenuti ore 13-15.30 Gruppo della Trasgressione ore 16.00-17.15 - incontro “Lavoro dopo il carcere” con Lucia Castellano, Lamberto Bertolè, Marco Forlani e testimonianze dirette di detenuti. Avellino: i detenuti-pizzaioli di Ariano Irpino, quando il carcere è reinserimento www.ottopagine.net, 22 settembre 2013 Detenuti modello specialisti della pizza nel Carcere di Ariano Irpino. Si è conclusa con successo un’altra delle iniziative portate avanti in sinergia tra la direzione e il Rotary Club. Sul Tricolle la cerimonia di consegna degli attestati ai protagonisti di questa lodevole iniziativa che ha visto come istruttori Guglielmo ed Ezio Ventre, da anni impegnati con successo nel campo della ristorazione e del volontariato in forza alla pubblica assistenza Vita, associazione simbolo della città, presente ieri con un nutrito gruppo di volontari. Ventre non nasconde la sua emozione: “Credo sia stata questa senza dubbio una delle esperienze nel sociale, tra le più toccanti. Abbiamo innanzitutto instaurato un rapporto di fiducia con i detenuti, i quali devo dire, hanno mostrato davvero grandi potenzialità. E le pizze che stanno sfornando sono la dimostrazione. Andremo avanti nell’insegnare loro anche altre tecniche di cucina”. Emozionanti le parole dei corsisti: “Esperienza formativa per noi davvero importante, ci siamo sentiti parte integrante della società, avendo avuto la possibilità di misurarci, mettendo in campo tutta la nostra passione e la voglia di riscattare i nostri errori. Guglielmo ed Ezio sono stati oltre che due maestri della pizza, soprattutto nostri fratelli”. A rappresentare il Rotary il presidente Andrea Affuso, il quale ha ribadito l’impegno costante dell’associazione al fianco degli ultimi. Stesso concetto sottolineato dal Vescovo Giovanni D’Alise che nel premiare i detenuti modello, ha augurato loro un futuro migliore, facendo tesoro di queste iniziative rieducative. Soddisfatto il direttore Gianfranco Marcello, che incassa un nuovo successo, dopo le numerose iniziative portate avanti dal suo insediamento, tutte rivolte al reinserimento del detenuti e all’apertura del carcere sempre di più alla città. Napoli: l’Ugl richiama l’attenzione sulla situazione insostenibile del carcere di Poggioreale www.julienews.it, 22 settembre 2013 L’Ugl Polizia Penitenziaria ha organizzato lunedì 23 settembre alle ore 10.30 una visita del Segretario Generale dell’Ugl, Giovanni Centrella, e della Deputata Pdl, Renata Polverini, presso la Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli, per porre l’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni sul primato che l’istituto “vanta” ormai da diverso tempo: avere il più alto numero di detenuti ristretti, oltre 2.850 su una capienza di poco più di 1.600. Alle ore 15.00 nell’Istituto penale per minorenni di Nisida, si svolgerà inoltre un convegno dal titolo “Il ruolo della Polizia Penitenziaria nell’esecuzione penale minorile”. Partecipa al dibattito il Segretario Nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, per il quale “è necessaria una revisione del sistema penitenziario. Il piano carceri, così come presentato dal ministro Cancellieri, non basta per dare risposte concrete alle questioni che attanagliano il sistema penitenziario. L’emergenza carceri va affrontata attraverso interventi strutturali, con azioni mirate e in tempi immediati”. Ecco i punti fondamentali da cui partire, secondo Moretti, per una accurata revisione del sistema penitenziario: “rivisitazione del codice penale e del sistema reato-sanzione; potenziamento delle misure alternative all’ingresso in carcere; modifiche della legislatura sociale in materia di lavoro per ex detenuti che favorisca l’inclusione”. “Solo attraverso l’impegno che sentiamo di assumerci - conclude - si possono rendere concreti quei cambiamenti che renderebbero più efficace l’operato della polizia penitenziaria”. Cagliari: oggi l’incontro del Papa con i detenuti. Il Cappellano: un gesto che dà speranza Radio Vaticana, 22 settembre 2013 Nella Cattedrale di Cagliari il Papa incontrerà una rappresentanza dei poveri assistiti dalla Caritas diocesana e un gruppo di detenuti del locale carcere di Buoncammino. Quest’ultimi saranno accompagnati dal direttore dell’Istituto, dagli educatori e dal cappellano, padre Massimiliano Sira, con alcuni volontari suoi collaboratori. Adriana Masotti ha chiesto a padre Massimiliano chi saranno i detenuti presenti all’incontro e come stanno vivendo l’attesa di questo evento. “I detenuti sono 18, qualche straniero e qualche italiano. Sono detenuti che già usufruiscono di permessi premi o comunque di benefici e che stanno ricominciando a recuperare la loro vita”. Come hanno reagito all’idea di incontrare il Papa? L’attesa è grande! Ci siamo preparati, ne abbiamo parlato tante volte. Poi chiaramente c’è il dispiacere di non poter partecipare tutti insieme, però ho cercato di coinvolgere tutti quanti in questa esperienza. I detenuti hanno anche la possibilità di essere collegati con la tv locale, quindi avendo la tv in cella potranno usufruire di questa possibilità e potranno ascoltare il messaggio che spero possa essere esteso anche a chi non sarà presente in quel momento. A parte il fatto che solo alcuni potranno vedere personalmente il Santo Padre, comunque l’idea che abbia deciso di dedicare anche a loro la sua attenzione in questa breve visita è importante ... Sì, è importante. Loro sono rimasti molto colpiti da quella prima scelta che il Papa fece durante il Giovedì santo, quando ha deciso di fare una visita al carcere minorile. Questo gesto e questa attenzione li hanno molto colpiti e da lì è nata quest’attesa. Lei faceva riferimento alla visita a Casal del Marmo ... Sì, sono rimasti molto colpiti da quella realtà, da quella visita, da quel gesto. Speriamo che questo sia un incontro che possa aiutare questi giovani, questi uomini ad avere un po’ di speranza. Io spero che Papa Francesco possa portare loro il significato di una vita che può ricominciare, di una speranza che loro comunque sanno scorgere e scorgono in tante cose che lui dice e nella sua presenza. Poi chiaramente c’è chi accoglie e chi no, però credo che sarà veramente un bel regalo per loro, anche per guardare avanti. Qual è la vita all’interno del carcere di Cagliari? So che ci sono dei problemi, come ad esempio, il sovraffollamento ... Sì, si tratta comunque di una struttura vecchia, non è grande. Purtroppo le celle non sono grandi. Si sta accelerando molto verso il passaggio al nuovo carcere proprio per questo motivo, perché ci sono celle che contengono anche sette detenuti, quindi lo spazio non è molto vivibile. È stato pensato per 370 e ce ne sono oltre 500! Dato il grande numero di detenuti, ci sono poche possibilità di lavoro, di formazione ... Molti passano tantissime ore in cella senza poter fare più di tanto. Quindi la loro vita di recupero non è molto dignitosa. Accanto a lei c’è anche la presenza di volontari? C’è solidarietà da parte della società esterna al carcere? In questi anni ce la siamo un po’ conquistata. Ad esempio c’è la presenza molto forte di suor Angela che dà un grande aiuto; c’è un gruppo di giovani che da poco più di un anno hanno iniziato ad aiutarmi nel servizio della catechesi, dell’animazione e nell’incontro con i detenuti, sono giovani del Movimento dei Focolarini. Poi ci sono diverse associazioni di volontariato, la Caritas con alcuni centri di ascolto permanenti tra le sezioni, che cerca di venire incontro al disagio, al problema che c’è stato legato ai suicidi... Noi cerchiamo sempre di sensibilizzare la comunità. Ci sono risposte, a volte buone a volte di indifferenza, ma in generale, direi, sono state sempre abbastanza positive. Rieti: “Tutti in cammino”, anche i detenuti nell’iniziativa della Sesta Opera San Fedele www.rietinvetrina.it, 22 settembre 2013 “Siamo credenti, non credenti, credenti di altre religioni, siamo italiani e di altri Paesi, desideriamo il perdono e la riconciliazione, anche noi detenuti nella Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso desideriamo la pace nel nome di Francesco d’Assisi, anche noi con i nostri amici Assistenti Volontari della Sesta Opera San Fedele Rieti ci mettiamo in cammino nella Valle Francescana Reatina”. Queste le espressioni dei detenuti che saranno in cammino domenica sei ottobre nella giornata organizzata dagli Amici del Cammino di Francesco. La partecipazione dei detenuti della Casa Circondariale di Rieti è possibile per il Programma Culturale Naturalistico Spirituale “Tutti in cammino” della Sesta Opera San Fedele Rieti, associazione di volontariato penitenziario che collabora con la Direzione del carcere reatino per il trattamento riabilitativo e il reinserimento sociale dei detenuti ristretti a Rieti. È questa la quarta esperienza del “camminare insieme”, l’ultima, quella della primavera scorsa, è stata con la partecipazione del Prefetto di Rieti Chiara Marolla, una novità sorprendente per i detenuti partecipanti che hanno camminato e colloquiato con lei. Il percorso è parte del “Cammino di Francesco”, copre la distanza di 6 Km di andata e altrettanti di ritorno per un cammino complessivo di 4 ore. Dal monumento a San Francesco di Rieti al Santuario di Fonte Colombo (in collaborazione con il Club Alpino Italiano di Rieti). Possono partecipare tutti senza limiti di età. Per informazioni: 335.6294606 Porto Azzurro (Li): una “partita per la solidarietà”, organizzata dall’Elba Rugby Club Il Tirreno, 22 settembre 2013 Una partita per la solidarietà. Una gara all’interno del carcere di Porto Azzurro organizzata dall’Elba Rugby fra una rappresentativa di giocatori dell’Elba Rugby e dell’Etruria Piombino ed un folto gruppo di detenuti. Un incontro di rugby che peraltro ha visto prevalere i detenuti allenati da Marcello Serra e Massimo Mansani durante tutto l’anno trascorso. Una manifestazione che ha visto la partecipazione del ex capitano e simbolo della nazionale italiana di rugby Alessandro Troncon, il vice presidente della Federazione Italiana Rugby, Antonio Saccà, il docente dei corsi di formazione organizzati in Toscana Diego Saccà, il delegato Coni per la Provincia di Livorno Claudio Bianchi, dirigenti delle due società intervenute che con la loro presenza hanno testimoniato l’attenzione che il mondo dello sport ed in questo caso del rugby, con la sua filosofia, ha verso la funzione riabilitante che la filosofia del rugby può’ avere nei confronti della condizione dei detenuti. L’evento è stato possibile grazie e soprattutto alla fattiva collaborazione ed all’ entusiasmo dell’educatore Paolo Maddonni, alla disponibilità del vice sindaco di Porto Azzurro Angelo Banfi, ed all’impegno di Fabio Borsi, Marcello Serra e Massimo Mansani, per l’Elba Rugby. Al termine un rinfresco, organizzato dagli stessi detenuti con prodotti lavorati all’intero del carcere di Porto Azzurro. Giustizia: Israele detiene 210 bambini palestinesi in condizioni disumane www.infopal.it, 22 settembre 2013 Fuad al-Khafash, direttore del centro al-Ahrar per gli studi sui detenuti e i diritti umani, ha rivelato che 210 bambini palestinesi sono rinchiusi, in condizioni disumane, nelle carceri israeliane. In un suo rapporto, al-Khafash riferisce che circa 210 bambini palestinesi sono rinchiusi nelle carceri israeliane attualmente. Nel dettaglio, egli spiega che “all’inizio del 2013, a gennaio, 223 bambini palestinesi si trovavano nelle carceri israeliane. A febbraio e marzo, il loro numero è salito a 238. Mentre ad aprile era 236, 223 bambini a maggio, 193 a giugno e 195 a luglio. Per risalire ancora a 210 nel mese di agosto”. L’attivista palestinese ha anche condannato “i crimini israeliani commessi contro i bambini palestinesi nelle prigioni, sia per quanto riguarda i metodi di detenzione che per le condanne inflitte”. Al-Khafash ha esortato le agenzie dell’Onu, i centri di protezione dell’infanzia e il Consiglio di Sicurezza ad assumersi le loro responsabilità morali e legali verso i bambini palestinesi “sottoposti alle incessanti violazioni israeliane, che non accennano ad arrestarsi, anzi, si intensificano giorno dopo giorno, senza che nessuno sottoponga l’occupazione a qualsiasi tipo di processo per i crimini commessi”. L’attivista ha quindi citato l’ultima violazione commessa da Israele nei confronti dei bambini palestinesi. Si è trattato della condanna ad un anno e mezzo di carcere, inflitta a due bambini di 14 anni, Mohammad e Ayman Abbasi. Ha anche sottolineato che il crimine israeliano - la cui notizia ha fatto il giro dei media di tutto il mondo- dell’arresto di un bambino palestinese, prelevato dalla sua casa dopo la mezzanotte, nonostante supplicasse le forze israeliane di permettergli di poter dare i suoi esami scolastici, “avrebbe dovuto portare i leader israeliani direttamente nei tribunali internazionali, se ci fosse stato qualcuno che se ne occupi”. Al-Khafash ha quindi criticato l’inettitudine delle istituzioni dell’Autorità palestinese (Anp) nel registrare e documentare le violazioni contro i bambini palestinesi, e di conseguenza punire i responsabili. Ha anche deplorato la negligenza delle istituzioni dell’infanzia in Palestina e nel mondo, che “dovrebbero assolvere i propri compiti, anziché limitarsi alle condanne e le denunce”. “Se uno solo di questi crimini dell’occupazione fosse stato commesso in qualsiasi parte del mondo, ciò avrebbe suscitato un polverone. Tuttavia, quando le vittime sono palestinesi e il colpevole è Israele, il mondo diventa cieco e sordo e tace sui diritti dei palestinesi, pur sapendo che essi vengono detenuti in condizioni disumane”, ha concluso l’attivista palestinese. Svezia: tre italiani in carcere, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di Mario Gradara Il Resto del Carlino, 22 settembre 2013 “Non ci fanno neanche parlare con il mio Davide, né a me né all’altra mia figlia, e neanche agli avvocati. A noi non interessa come va a finire questa faccenda, se a mio figlio sporcano la fedina penale pazienza. L’importante è che li facciano tornare in Italia e poterlo riabbracciare”. A parlare con la voce rotta dall’emozione è la madre ultraottantenne di Davide Foschi, 44 anni. Uno dei tre autisti del pullman della ditta di autotrasporti di Bernardino Bianchini che dal 27 agosto sono in stato di fermo a Malmoe, in Svezia. Detenuti in un carcere modernissimo, con ogni comfort ma assolutamente blindato. Grave L’accusa: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di 45 siriani. I passeggeri del lussuoso pullman da 200mila euro partito da un hotel tre stelle di Rimini. Cosa vorrebbe chiedere a suo figlio Davide se potesse parlargli? “Vorrei sapere come sta, se lo trattano bene, se ha bisogno di qualcosa di particolare”, continua la madre di Foschi, unico dei tre (gli altri sono Davide Mattioli, 47 anni, e Franco Tenti, 54) ad aver nominato legali in Italia, da affiancare a quello d’ufficio nominato dal tribunale scandinavo. Ha paura? “Siamo nelle mani dei nostri avvocati - prosegue la donna. A loro abbiamo detto fin dall’inizio di fare il possibile, se non altro per farci almeno parlare”. Questo divieto non le va giù... “Non capisco per quale motivo non posso neanche sentire al telefono con mio figlio. Vorrei sapere di che cosa hanno paura”. La famiglia di Davide Foschi, mamma e sorella, abita in campagna. Persone semplici, come lo stesso Foschi, raccontano i colleghi autisti della Bianchini. Difficile pensarlo, lui come gli altri due, al centro di un intrigo internazionale. Nei prossimi giorni gli avvocati Piergiorgio Tiraferri e Massimo Borghesi, che tutelano sia la ditta Bianchini che Foschi, torneranno per la seconda volta in Svezia. “Cercheremo di incontrare in carcere gli autisti, che sono detenuti in celle separate - spiega Tiraferri. Vedremo l’avvocato difensore svedese, Anders Ellison, con 25 anni di esperienza, l’unico che ha accesso ai detenuti e parla con loro. Ci presenteremo all’udienza del 27 settembre”. Il pubblico ministero potrebbe decidere sul rinvio a giudizio o sulla richiesta di altri 14 giorni di proroga delle indagini. Colombia: dal Banco Alimentare aiuti ai detenuti nella festa della Patrona dei Carcerati Agenzia Fides, 22 settembre 2013 Circa 18 mila persone rinchiuse in diverse carceri potranno beneficiare dell’accordo tra la Commissione della Pastorale Penitenziaria Cattolica e il Banco Alimentare di Bogotà, che prevede la distribuzione di un kit completo di pulizia personale in occasione della celebrazione della Madonna della Mercede. Il coordinatore nazionale della Pastorale Penitenziaria Cattolica, Andres Fernandez, ha spiegato nella nota inviata a Fides, come da oltre 15 anni e con il sostegno della Fondazione “Caminos de Libertad”, la Pastorale cura le urgenti necessità delle persone nelle carceri. “Il Banco Alimentare impegnato con i più poveri e svantaggiate cerca di essere un ponte per unire chi vuole servire e coloro che soffrono. Questa volta abbiamo unito le forze in questa nobile causa di aiutare coloro che sono privati della libertà, vogliamo collaborare nella raccolta di articoli per l’igiene personale, sia nelle parrocchie di Bogotá, nelle imprese private e con i singoli aiuti”, ha detto il Padre Saldarriaga, Direttore Esecutivo del Banco Alimentare. Pakistan: rilasciato l’ex numero due dei talebani, per favorire processo di riconciliazione Adnkronos, 22 settembre 2013 Il Pakistan ha rimesso in libertà il mullah Abdul Ghani Baradar, l’ex numero due del mullah Omar, catturato a Karachi nel febbraio del 2010 quando era probabilmente coinvolto in colloqui di pace con il governo afghano. Lo riferisce l’agenzia di stampa Dpa. La notizia è stata confermata da un funzionario del ministero degli Interni di Islamabad. La decisione è stata presa, come già sottolineato dal ministero degli Esteri, “per facilitare ulteriormente il processo di riconciliazione in Afghanistan”. Il mullah Baradar era il più importante esponente dei Talebani in carcere in Pakistan. Kabul ne aveva chiesto più volte la liberazione.