Giustizia: troppi sbagli dai tribunali, ognuno di noi rischia la cella di Valerio Spigarelli (Presidente dell’Unione Camere Penali) Il Tempo, 17 settembre 2013 Gli errori giudiziari ci saranno sempre. Il giudizio, infatti, come tutte le attività intellettuali, è fallibile per definizione ma, come dimostra l’inchiesta che Il Tempo sta pubblicando in questi giorni, il grado e la diffusività degli errori e le modalità della loro riparazione testimoniano lo stato di salute di un sistema giudiziario. In Italia da tempo abbiamo accolto l’idea che la miglior ricostruzione dei fatti sia assicurata dal confronto tra le parti processuali, accusa e difesa, dinanzi ad un giudice terzo, equidistante tra i contendenti. Una condizione che ancora non si verifica, però, posto che pm e giudici fanno parte di un unico corpo giudiziario e dunque l’assetto è sicuramente sbilanciato a favore dell’accusa. Ebbene, una delle cause che alimentano la possibilità di errore giudiziario, è proprio l’appiattimento dei giudici rispetto alle richieste dei colleghi pm. Un effetto esiziale in un sistema accusatorio, sia in tema di custodia cautelare, sia nella conduzione del pubblico dibattimento. Quanto al carcere inflitto prima della condanna definitiva a chi, per precisa scelta costituzionale, si deve la qualifica di non colpevole, i numeri dimostrano questo squilibrio: oltre il 40 per cento dei detenuti italiani è in attesa di giudizio. Secondo il codice questo dovrebbe essere un avvenimento eccezionale ma è del tutto evidente che i giudici interpretano le regole in maniera assai largheggiante perché sono troppo sensibili alle richieste dei pm. Anche la riparazione dell’errore giudiziario soffre del medesimo problema: per stampellare le ragioni dello Stato la giurisprudenza è di manica stretta, tanto da imporre condizioni rigidissime, non previste dalle legge, per l’ottenimento degli indennizzi per ingiusta detenzione. Insomma, quando si finisce in cella per sbaglio, specie durante le indagini, si rischia di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano quando si chiede il conto dell’errore, e sempre per lo stesso motivo: la troppa vicinanza dei giudici agli interessi dello Stato. Una scelta sbagliata, che altera la ricostruzione dei fatti, aumenta il rischio di errore giudiziario, e frustra le aspettative di una riparazione equa. Per questo ci vuole la separazione delle carriere. Giustizia: Valerio Spigarelli (Ucpi); è il cittadino a pagare nodi irrisolti della magistratura di Chiara Rizzo Tempi, 17 settembre 2013 Intervista al presidente dell’Unione camere penali italiane, Valerio Spigarelli: “È il cittadino a pagare i nodi irrisolti della magistratura e la mancanza di terzietà dei giudici” Da ieri gli avvocati dell’Unione camere penali italiani hanno iniziato una settimana di astensione dalle udienze e ieri una giornata di mobilitazione per il referendum sulla giustizia. Lo slogan scelto, “Questa giustizia può colpire anche te!”, viene spiegato a tempi.it dal presidente dell’Unione, Valerio Spigarelli (in primo piano nella foto a sinistra). Perché una settimana di astensione? E perché date il vostro sostegno ai referendum? È la forma di protesta più incisiva a nostra disposizione. Lo facciamo adesso perché la situazione si sta facendo drammatica e la politica, come al solito, s’accapiglia intorno al solito problema: i processi di Berlusconi. Invece esistono questioni drammatiche, vedi situazione carcere, e questioni irrisolte, vedi norme costituzionali per dirimere i nodi tra il potere giudiziario (che non è la magistratura, perché la magistratura amministra la giustizia) e legislativo, un rapporto irrisolto da molto tempo. Idee di modificare il Csm, la separazione delle carriere tra giudici e pm, un temperamento del principio dell’azione penale, istituire un organo disciplinare fuori dal Csm sono ormai diventate “vecchie” a furia di non essere applicate. E come mai non si è mai arrivati ad una soluzione legislativa? Nel corso della prima repubblica ci sono state ben due commissioni su questi temi, la Bozzi e la De Mita, e nella seconda repubblica c’è stata la commissione bicamerale D’Alema, che tra l’altro pensò proprio di introdurre la separazione delle carriere. In tutte queste occasioni, il potere politico ha subìto pressioni fortissime da parte della magistratura. Marco Boato ha raccontato che durante la commissione D’Alema arrivò in Parlamento un fax firmato da sette procuratori della Repubblica che dicevano di non mettere mano alla separazione delle carriere. E così la politica ha sempre finito per cedere. Secondo la magistratura con tali riforme verrebbe meno la propria indipendenza… È una palla. È possibile arrivare ad una riforma che preveda di sganciare il rapporto diretto dal Governo. Noi penalisti, per esempio, abbiamo proposto una riforma costituzionale con due Csm divisi, per giudici e pm, che garantirebbero tanto l’autonomia che l’indipendenza. Ma è urgente. E perché sarebbe tanto urgente? C’è una norma nel codice di procedura penale che impone di non sottoporre in custodia cautelare qualcuno per farlo confessare. Una norma che sarebbe ovvia, ma che è stata introdotta perché i giudici giustificavano la permanenza in carcere di un imputato solo perché questi aveva usato la facoltà di non rispondere. Ad oggi, malgrado la norma, il 40 per cento dei detenuti è in custodia cautelare. Tutto ciò avviene perché i giudici sono vicini ai pm, perché fanno parte dello stesso corpo professionale. La costituzione nell’articolo 111 dice che il giudice dev’essere terzo e imparziale. Cosa si intende? Per imparziale che un giudice mio parente, ad esempio, non mi possa giudicare. Mentre per “terzo” si intenderebbe un’equidistanza dal pm e dall’avvocato difensore. Ecco, oggi non c’è terzietà. Basta, appunto, guardare i numeri della custodia cautelare. In che senso? Il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario di un paio di anni fa ammise pubblicamente che non si poteva negare l’abuso della custodia cautelare e aggiunse il perché: i giudici si fanno carico delle inefficienze del sistema, e applicano il carcere come condanna anticipata. Ma questo è un discorso che un giudice terzo non dovrebbe fare. Dovrebbe valutare imparzialmente accuse e difese, non mettere il cittadino in custodia cautelare, e poi se è innocente si vedrà. Oltre alla separazione delle carriere bisognerebbe pensare a temi diversi, come l’abolizione dell’ergastolo. Ecco perché sosteniamo tutti i quesiti referendari. Anche se, me lo lasci dire, la politica sta reagendo in modo strumentale. Cioè? Il responsabile giustizia del Pd, Danilo Leva, si è dichiarato favorevolmente ai quesiti referendari. E così l’associazione Magistratura democratica. Eppure sia Md che il Pd oggi dicono che il referendum non lo votano perché Berlusconi si è schierato a favore dei quesiti. È contro questo modo di ragionare che noi penalisti facciamo l’astensione. Se ci dividiamo non sul problema, ma sul tifo per questo o quello, si fa qualcosa contro l’interesse dei cittadini. Non è giusto. Si stima che, dal 1988, circa 50 mila persone siano state vittima di ingiusta detenzione e errore giudiziario, e che dal 1991 lo Stato abbia risarcito per circa 600 milioni di euro questi innocenti. Eppure, dal 1988, su 400 cause presentate per la responsabilità civile dei magistrati, solo 4 magistrati sono stati condannati. Com’è possibile e cosa ne pensa? La somma delle vittime e dei risarcimento è al ribasso. Si tenga conto che per l’ingiusta detenzione non sempre lo Stato concede il risarcimento, anche a fronte di una sentenza di assoluzione totale dell’ex detenuto. Purtroppo, anche la legge attuale sulla responsabilità civile è fatta male: c’è un filtro preliminare alle cause, di cui si occupa ovviamente la magistratura stessa. La legge oggi prevede la responsabilità solo per dolo o colpa grave, cioè solo per gravissimi casi. Restano esclusi ad esempio tutti gli errori di interpretazione delle prove o delle leggi, per cui se anche ci fosse un magistrato che compisse un errore clamoroso, come inventarsi una legge, paradossalmente non avrebbe responsabilità civile. La magistratura associata aggredisce ogni tentativo di modificare questo sistema, ed è per questo che noi vogliamo introdurre anche una nuova legge sulla responsabilità. La magistratura si difende dicendo che la responsabilità civile introdurrebbe una forte pressione sul giudice: ma questo aspetto si potrebbe risolvere prevedendo la richiesta di responsabilità civile solo dopo una sentenza definitiva. Siamo comunque favorevoli a discutere sulle modalità della responsabilità, e accettiamo che non sia diretta. Certo è che la legge attuale, con 4 condanne in 26 anni, dice una sola cosa: o abbiamo i giudici migliori del mondo - cosa che mi pare confutata da tutti gli altri dati - oppure la legge non funziona e va modificata. Giustizia: Di Federico (Csm); sistema giudiziario malato, ma la “cura” non è semplice… di Gerardo Marrone Giornale di Sicilia, 17 settembre 2013 Docente di Ordinamento giudiziario a Bologna ed ex membro “laico” del Consiglio superiore della magistratura, componente della commissione di saggi voluta dal premier Enrico Letta per mettere a punto un pacchetto di riforme costituzionali, Giuseppe Di Federico non è certo un cultore del politicamente corretto. Non è da tutti, d’altronde, dedicare un intero lavoro al “Contributo del Csm alla crisi della giustizia”. Professor Di Federico, si parla tanto di giustizia giusta. Ma cos’è? O meglio, cosa dovrebbe essere? “Volendo riassumere, il giudice deve risolvere una controversia tra due parti che si presentano da lui in posizione di parità. Ciò implica che il giudice e le parti devono avere la competenza o essere assistite da persone dotate di competenza per fare quel lavoro. E già qui, in Italia, sorgono i primi problemi”. Cioè? “Per esempio, come diceva Giovanni Falcone, una delle ragioni della crisi della giustizia sta nel fatto che i magistrati, dopo il reclutamento, non subiscono più valutazioni di professionalità. Poi, esiste un’altra questione…”. Quale? “Il processo, civile e penale, dovrebbe svolgersi in tempi ragionevoli. Altro aspetto che in Italia non esiste. Per i ritardi della nostra giustizia abbiamo ricevuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il doppio delle condanne ricevute dagli altri Paesi dell’Europa occidentale nel loro insieme”. Limitiamoci all’ambito penale. Sulla divisione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti, solo scontri e nessuna soluzione concreta. Perché? “La sola divisione delle carriere, pur importane, non serve a molto sul piano operativo. Se per ipotesi ciò dovesse avvenire, lei pensa che per questo solo fatto i giudici considereranno il pm meno collega di prima? Per raggiungere l’obiettivo, la divisione delle carriere deve produrre strumenti di responsabilizzazione che oggi non esistono”. Non starà mica dicendo che i pm sono irresponsabili? “A differenza di tutti gli altri paesi da noi il Pubblico Ministero è indipendente come il giudice. Dalla Francia agli Stati Uniti, dal Portogallo alla Germania, all’Inghilterra, il PM fa invece parte di una struttura gerarchica unificata. Ha, cioè, a livello nazionale un capo che è politicamente responsabile del modo in cui vengono condotte le indagini e l’iniziativa penale. Qui, tutto questo non c’è. Le singole procure ed i singoli pm possono agire a loro piacimento. E se alla fine esce fuori che non c’era alcuna ragione per agire, loro possono sempre dire che non potevano fare diversamente a casa della obbligatorietà dell’azione penale”. Un obbligo sancito dalla Costituzione. O no? “Sì, ma ciò non significa che i singoli pm possano giustificare qualsiasi iniziativa e qualunque investimento investigativo come fossero atti dovuti. Che non implicano, quindi, alcuna responsabilità, neppure sotto quello della valutazione della professionalità. Negli altri paesi non è così”. Materia per la Commissione di saggi di cui lei fa parte? “No, perché non possiamo occuparci di giustizia in quanto il decreto di istituzione della commissione esclude, tra l’altro, il Titolo IV della Costituzione. Le due cose su cui dobbiamo concentrarci sono forma di Governo e Parlamento”. Sempre difficile vedere arrivare al capolinea i progetti di riforma. In alternativa si può sempre ricorrere ai referendum. Il suo Partito Radicale, di cui lei è stato capolista in Emilia-Romagna alle ultime elezioni nazionali, sta chiedendo proprio adesso la firma per dodici quesiti. Può spiegarci quelli sulla giustizia? Innanzitutto, il referendum, sulla responsabilità civile dei magistrati. È, però, già stato fatto e vinto. Poi, fecero la cosiddetta Legge Vassalli che in fondo protegge i magistrati più di quanto non avvenisse prima. Altro quesito riguarda la custodia cautelare che abroga parzialmente l’articolo 274 del codice di procedura penale limitando ai reati più gravi la possibilità di mettere una persona in carcere nel timore che reiteri la sua condotta criminale”. Tantissimi i detenuti in custodia cautelare. I numeri giustificano quanti, come Marco Pannella, denunciano la sistematica violazione dei diritti umani nel nostro sistema giudiziario e carcerario? “Solo il 40 per cento degli oltre 65mila detenuti ha una condanna definitiva. La gran parte quindi è in attesa di giudizio”. Gli altri referendum? Separazione delle carriere, che è importante anche se solo dal punto di vista simbolico. Abolizione dell’ergastolo. Infine, rientro dei magistrati fuori ruolo”. Tema, quest’ultimo, a lei particolarmente caro: nei suoi studi, infatti, ha più volte puntato il dito sui magistrati distaccati in altri uffici pubblici. Quanti sono e perché tanto scandalo? “La prima documentata denuncia l’ho scritta nel 1981 e riguardava tutte le attività extragiudiziarie, anche quelle di chi va a fare il parlamentare. Dicevo già allora che questi incarichi costituiscono una minaccia per l’indipendenza e per l’efficace funzionamento della divisione dei poteri. Senza considerare i congedi per incarichi elettivi, dall’Europarlamento ai Comuni, in genere i fuori ruolo oscillano intorno ai 220”. E sono davvero una minaccia per l’efficienza della macchina giudiziaria? “Non solo per l’efficienza, anche per le disfunzioni sul piano istituzionale. Ad esempio le posizioni direttive del Ministero sono da sempre monopolio dei magistrati. Il problema è che non solo devono essere chiamati dal Ministro, come peraltro avviene in Francia e in altri paesi, ma che a differenza di quei paesi le loro promozioni e i loro futuri incarichi dipendono non dal ministro ma solo dal Csm. Insomma, il nostro ministero è sostanzialmente etero diretto”. Al ministero della Giustizia lei ha lavorato con Giovanni Falcone. Può ricordare quei mesi? “Io ero consulente del ministro Claudio Martelli, lui era direttore degli Affari penali e mi diede, tra l’altro, l’incarico di fare il monitoraggio del processo penale. Fra le riforme che Falcone si proponeva vi era quello di rendere più efficace il funzionamento dell’ufficio del pubblico ministero. Non solo riteneva altamente disfunzionale che le Procure avessero politiche criminali diverse, potendo ciascuna decidere quali reati perseguire prioritariamente, ma anche e soprattutto che ogni pm potesse fare di testa propria. Una delle prime cose che fece, fu una riunione dei procuratori generali”. Risultato? “Venne fuori che ciascun procuratore generale sapeva ben poco di quanto avveniva nel suo stesso distretto giudiziario. Giovanni Falcone allora si fece promotore del decreto istitutivo della Direzione Nazionale Antimafia, assegnandole poteri effettivi di coordinamento dell’attività investigativa in materia di criminalità organizzata. Vi fu la ribellione di tutte le procure e si dovette fare marcia indietro, togliendo pure il potere di avocazione dei casi più importanti da parte del procuratore nazionale antimafia. Quando poi lui fece domanda per ricoprire quell’incarico, venne bocciato in commissione al Csm. Qualcuno del Csm scrisse pure che Falcone non poteva andare alla Direzione Antimafia perché ormai era diventato un collaboratore di Martelli ed aveva perso la sua indipendenza!”. Giustizia: se il “giudicare” viene vissuto come potere di Valter Vecellio Notizie Radicali, 17 settembre 2013 Bella, puntuale, commovente, l’inchiesta che “Il Tempo” sta pubblicando, a puntate, da domenica scorsa; e anche chi, come chi scrive, con ‘anni di mestiere alle spalle a barcamenarsi con ogni sorta di nefandezza e barbarie consumate “in nome del popolo italiano”, non può che provare sgomento, un senso di rabbia... Molti anni fa, Enzo Tortora non era ancora stato arrestato e parlare di responsabilità civile per il magistrato era dubitare della verginità della Madonna, raccolsi un “catalogo” di vicende di “ordinaria ingiustizia”: c’era la donna finita in carcere per detenzione di armi, e solo dopo mesi si scopre che era una innocua pistola giocattolo del figlio; i “soliti” casi di omonimia (ma a controllare le date di nascita ci hanno messo mesi, trascorsi ovviamente in cella); e decine di altri casi , che inevitabilmente si concludevano con la domanda di Alberto Sordi nel bellissimo “Detenuto in attesa di giudizio”: “Ma se sono innocente, perché mi avete arrestato?”. Per quel libretto Leonardo Sciascia scrisse la prefazione, quel “catalogo” lo aveva inorridito. “Accade”, scrisse, “che un giovane esca dall’Università con in tasca una laurea in giurisprudenza; non ha, ovviamente alcuna pratica forense, e a questo si può sopperire; spesso ha anche pochissima esperienza, per dirla con Alessandro Manzoni, del “cuore umano”, e a questo c’è poco rimedio, purtroppo. Il giovane si presenta al concorso, lo supera magari brillantemente, non ci vuole poi tanto anche a svolgere temi inerenti astrattamente al diritto e rispondere a quesiti parimenti astratti. Da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro, e sostanzialmente “irresponsabile”; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica”. Da una tale situazione, ne conseguiva (e nulla da allora è cambiato) che il potere di giudicare i propri simili “non può e non deve essere vissuto come un potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe aver radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. Sappiamo, purtroppo, e l’inchiesta de “Il Tempo” lo conferma, che tanti non sono chiamati da questo sentimento e intendimento, ma da altri; e tra tutti, il più pericoloso di tutti: quello di vagheggiare (e praticare), il grande potere che la società ha conferito al giudice come potere fine a se stesso; o come potere finalizzato ad altro che non sia quello della giustizia secondo legge, secondo lo spirito e la lettera della legge. L’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è un eufemismo) deriva principalmente secondo Sciascia, “dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di ‘religionè“. È amaro trent’anni dopo dirci le stesse cose. È amaro che nulla o quasi sia cambiato. Per questo i 12 referendum sono importanti, è importante riuscire a raccogliere le firme necessarie, tenerli e vincerli, e lottare perché questa volta non siano traditi; e che la volontà popolare sia finalmente rispettata. Giustizia: Monti (Sc) firma Referendum Radicali e ammonisce “usarli in modo mirato” Tm News, 17 settembre 2013 “Noi siamo a favore della democrazia parlamentare e per un uso mirato e meditato dell’istituto del referendum. Ma insieme ai colleghi di Scelta Civica ci siamo trovati d’accordo con l’idea che ha mosso i Radicali in particolare per quanto riguarda certi referendum nel campo della giustizia”. Così l’ex premier Mario Monti spiega la scelta di firmare alcuni dei referendum promossi dai Radicali, in particolare quelli sulla separazione delle carriere, l’abolizione dell’ergastolo, la limitazione della custodia cautelare in carcere, la limitazione della prassi del distacco di magistrati di ruolo presso altre amministrazioni, e per l’abolizione del reato di clandestinità. In altri casi - ha spiegato - riteniamo che sia più adeguata un’azione definita e compiuta per via parlamentare. Ma come si è verificato qualche volta in passato nella storia referendaria riteniamo che il referendum possa essere un positivo primo atto di sblocco perché il Parlamento si mettesse a lavorare su certi temi”. Con l’ex premier hanno firmato per i referendum anche i colleghi di partito come Benedetto Della Vedova, Stefano Quintarelli, Mario Marazziti, il ministro della Difesa Mario Mauro e il sottosegretario ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni. Marazziti (Sc): sì a riforma giustizia, abolire ergastolo “Scelta Civica assegna un’importanza rilevante alla riforma della giustizia. Nel senso della semplificazione, della necessità di umanizzare le carceri, della certezza dei tempi e dei percorsi giudiziari, della ricerca di pene alternative. La firma di alcuni referendum proposti dal Partito radicale va in questa direzione, ma sull’ergastolo e la sua abolizione occorre un percorso legislativo”. Lo dichiara in una nota il deputato di Scelta Civica Mario Marazziti, primo firmatario del progetto di legge sull’abolizione dell’ergastolo (Atto Camera 1534) e del reato di clandestinità (Atto Camera 1434), che oggi alle 14.30 firmerà a Largo Argentina a Roma i referendum su giustizia e immigrazione clandestina con il presidente Mario Monti, Pietro Ichino e Andrea Mazziotti. “C’è necessità di una giustizia sempre riabilitativa - sottolinea Marazziti. Per questo spero che sulla proposta di abolizione dell’ergastolo, che presenteremo nei prossimi giorni all’opinione pubblica, si crei un ampio consenso parlamentare che tenga in giusto conto anche le preoccupazioni del sistema giudiziario, del mondo giuridico, della magistratura, dell’opinione pubblica. Lo stesso vale per il cosiddetto reato di clandestinità. Occorre evitare che possa trasformarsi in un reato legato allo status di irregolarità e non a comportamenti devianti”. Giustizia: Tamburino (Dap); per sovraffollamento carcerario Italia tra peggiori Europa Agi, 17 settembre 2013 L’Italia è “tra i peggiori” paesi d’Europa in termini di sovraffollamento carcerario, con 150 detenuti ogni 100 posti disponibili. A denunciarlo, sulla base di dati raccolti dal Consiglio d’Europa, è il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, in un’audizione al Senato. Il nostro Paese è invece “sotto la media europea” quanto al numero di detenuti rispetto alla popolazione, con 110 reclusi ogni 10mila abitanti (in Europa la media è di 135-140 detenuti ogni 10mila abitanti). Il “tasso di detenzione” ha osservato Tamburino, sulla base di un’analisi “comparativistica” rispetto a Paesi paragonabili al nostro, e alla situazione della “criminalità in Italia”, potrebbe “con una previsione a medio termine” plausibilmente “attestarsi al livello attuale, con 100-110 detenuti ogni 10mila abitanti”. Per affrontare il problema, dunque, “è inevitabile - ha sostenuto il capo del Dap - pensare a una disponibilità di edilizia penitenziaria più ampia, capace di reggere una presenza che potrebbe essere considerata fisiologica per un Paese come il nostro”. Con solo indulto nessun sistema può reggere “Nessun sistema avrebbe retto, senza affrontare adeguatamente il ritmo crescente del numero dei detenuti. Si sarebbe dovuto intervenire tempestivamente, anche prima dell’insulto, prevedendo che la situazione non poteva ritenersi stabile”. Lo ha detto il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, illustrando al Senato i dati di sovraffollamento nelle carceri partendo dall’approvazione dell’indulto nel 2006. Nel giugno 2006, quindi prima del provvedimento di clemenza, i detenuti in Italia erano 61.264; dopo 6 mesi, il 31 dicembre di quell’anno, a seguito dell’indulto, la quota di reclusi era scesa di 22mila unità, attestandosi a 39.005. Quattro anni dopo, il 30 giugno 2010, i detenuti presenti erano invece 68.258, e nel secondo semestre del 2010 si arrivò al picco di quasi 69mila. “nell’arco di 4 anni - ha rilevato Tamburino - c’è stato un aumento di 30mila detenuti. Ciò significa che la crescita era di 8mila detenuti l’anno”. Svuota carceri ha funzionato, ma numeri tornano a salire “Il dl svuota carceri ha contribuito a una riduzione consistente del numero dei detenuti nelle carceri italiane se si compara il dato risultante dall’applicazione della nuova normativa a quello del 2010: rispetto ai 69 mila detenuti del secondo semestre del 2010 dai dati di qualche giorno fa emergeva come in poche settimane, la cifra avesse raggiunto i 64 mila, scendendo al di sotto della soglia psicologica di 66 mila che per mesi non eravamo riusciti a varcare”. Lo ha detto il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino in audizione alla commissione Giustizia in Senato nell’ambito di un’indagine conoscitiva sul sistema carcerario. “Una riduzione dal ritmo di circa cento detenuti a settimana nelle prime settimane dall’entrata in vigore della nuova normativa - continua Tamburino - che però è stato interrotto: proprio questa mattina i nuovi dati riferiscono che la soglia dei 65 mila detenuti è stata superata ancora una volta”. Il capo del Dap ha poi sottolineato come in linea di massima, il provvedimento che ha allargato l’ambito di applicazione della detenzione domiciliare introdotta dal Parlamento a partire dal 2009 abbia “avuto buon esito non avendo determinato allarme sociale né casi gravi di infrazione”. “Il magistrato di sorveglianza ha potuto infatti applicarla in 14 mila casi - ha spiegato - di cui 9 mila a detenuti che sono usciti dal carcere scontando il residuo di pena ai domiciliari. La misura ha quindi funzionato nel 93% dei casi mentre solo nel 7% ne è stata determinata la revoca”. Giustizia: Sottosegretario Ferri; risolvere emergenza carceri, in rispetto parametri europei Ansa, 17 settembre 2013 “Il rispetto della dignità dell’essere umano deve condurre ad una riflessione profonda sulla condizione dei nostri istituti penitenziari. Il confronto deve essere portato a tutto campo e coinvolgere tutti gli interlocutori”. È la convinzione del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, che auspica la collaborazione tra politica, magistratura, mondo delle associazioni e del volontariato, rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, delle forze dell’ordine e avvocatura. “In questa prospettiva si pone l’ultimo provvedimento, convertito in legge, che costituisce un primo importante passo nell’avviare un percorso che deve portare alla risoluzione del problema del sovraffollamento carcerario nel rispetto dei parametri che ci ha richiesto l’Europa”, ha detto il sottosegretario, che ha fatto questa riflessione sulla questione carceri, al termine dell’orazione tenuta nella Chiesa di San Leonardo a Massa per commemorare i 146 detenuti comuni del locale carcere trucidati dai nazisti in fuga nel 1944. Giustizia: Sottosegretario Berretta; carcere non può servire per governare l’immigrazione Ansa, 17 settembre 2013 “Spesso nelle carceri si sono relegati i problemi che la società non riesce ad affrontare o preferisce rimuovere, l’immigrazione è uno di questi. Il carcere non può essere uno strumento per governare l’immigrazione”. Lo ha detto Giuseppe Berretta, sottosegretario alla Giustizia, oggi a Catania, nel corso della tavola rotonda conclusiva di Etnika, la summer school sui temi dell’accoglienza, organizzata dalla Fondazione Xenagos. “Il Governo - ha aggiunto Berretta - ha inserito fra le proprie priorità quella di affrontare significativamente il drammatico sovraffollamento carcerario. Abbiamo dato una prima risposta a questo problema con il decreto sull’esecuzione della pena, che ha già dato i primi risultati positivi e, in prospettiva, potrebbe incidere in maniera significativa”, ha proseguito il sottosegretario. “Per andare avanti, come ci viene chiesto dall’Europa, bisogna cambiare, o meglio abrogare, la Bossi-Fini sull’immigrazione e giungere ad un quadro normativo per i rifugiati e richiedenti asilo degno di un paese civile e democratico”, ha concluso il sottosegretario alla Giustizia. Giustizia: la ragionevolissima follia di Lucia Uva, Papa Francesco e il Ministro Cancellieri di Luigi Manconi Il Foglio, 17 settembre 2013 Ricordo ancora a memoria (si fa per dire) alcune righe di quella autobiografia “Sono apparso alla Madonna”, pubblicata da Carmelo Bene. nel 1983. Giustamente, l’attore nutriva un’autostima adeguata alla propria grandezza, ma il senso di quel titolo non rivelava in primo luogo un peccato di superbia, una sfrontata ribalderia, un eccesso di autoesaltazione egotica. Non solo ciò, in ogni caso: quel titolo e quell’annuncio dicevano della capacità di vivere la vita come un miracolo, e come ininterrotto e meraviglioso stupore. Dove lo stupore consiste nella capacità di stupire e di trovarsi stupiti. Si parva licet con quel che segue, io sono titolare - grazie al cielo - di un’autostima assai ma assai minore (e, se non altro, avverto forte il senso del ridicolo): eppure credo di aver provato, la settimana scorsa, una sensazione non troppo dissimile da quella che Bene intendeva significare, a mio parere. Insomma, sono apparso a Papa Francesco. Che non è la Madonna, ma su per giù. Io, il Papa, l’ho visto proprio - anche se, nel mio caso, quel visto è assai approssimativo - e lui, in qualche modo, ha visto me. Ci siamo apparsi, in altre parole. Mi trovavo sul sagrato di San Pietro, unitamente a Valentina Calderone e ad Alessandra Pisa, per accompagnare all’udienza presso il Papa Lucia Uva. Cinque giorni prima, Lucia aveva trovato su internet un recapito telefonico, corrispondente alla Questura del Vaticano, e aveva composto quello 06 seguito dagli altri numeri. Al primo tentativo, una cortese voce maschile rispondeva che, se avesse voluto incontrare il Papa, avrebbe dovuto inviare un fax. E così Lucia Uva, quel fax, l’ha davvero inviato: “Caro Papa Francesco sono la sorella di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo esser stato trattenuto per due ore e mezzo in una caserma dei carabinieri di Varese”. Quindi descriveva il corpo martoriato di suo fratello, operaio 43enne, e chiedeva di essere ricevuta insieme alle altre “sorelle nel dolore” per avere parole di conforto e portare l’attenzione sulle tante vicende di persone morte a seguito di violenze a opera di appartenenti alle forze di polizia. Dopo appena 24 ore, una telefonata fissava l’udienza per il mercoledì successivo. Sul sagrato di San Pietro si sono ritrovati con Lucia Uva, in una posizione “speciale”, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano morto a Roma il 22 ottobre 2009, Claudia Budroni, sorella di Dino morto a Roma il 30 luglio 2011, Domenica Ferrulli, figlia di Michele morto a Milano il 30 giugno 2011, Grazia Serra, nipote di Francesco Mastrogiovanni morto a Vallo della Lucania il 4 agosto 2009 legato a un letto di contenzione, e Luciano Diaz che ha subìto gravissime e permanenti lesioni durante un fermo a opera di carabinieri. Papa Francesco si è intrattenuto a colloquio con Lucia Uva, l’ha abbracciata e ha posato una mano sul suo capo, dicendole che avrebbe pregato per lei e per tutti i familiari di vittime che lei rappresenta. Ora, sono perfettamente consapevole che nulla è peggio del tirare Papa Francesco per la tiara o per la mozzetta, ma è indubitabile che qualcuno della sua segreteria, quel fax di Lucia Uva lo ha letto: e lì c’era descritto dettagliatamente lo stato in cui si trovava il corpo del fratello. Dunque, che il Papa abbia voluto incontrare un gruppo di persone segnate da quel lutto e da quella sofferenza - Lucia Uva nella sua “santa innocenza” gli ha messo nelle mani una cartella gialla contenente cinquantasette storie di morti per violenze di stato - è un fatto rilevante. Per converso, ci sono lo stato e le istituzioni, da anni sorde di fronte alla tragedia che ha colpito la vita di quelle donne coraggiose. Ci sono voluti cinque anni E tuttavia qualcosa si muove. Appena due settimane fa il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ha risposto in Aula a una mia interrogazione a proposito dell’operato del pubblico ministero titolare del fascicolo che in maniera ostinatamente negligente ha impedito finora di accertare le eventuali responsabilità dei carabinieri e dei poliziotti nella morte di Uva. Comportamento negligente al punto che, il prossimo 8 ottobre, verrà deciso se archiviare definitivamente la posizione di quei pubblici ufficiali. Il ministro ha dichiarato di aver dato disposizioni all’ufficio dell’ispettorato generale - acquisire tutti gli atti necessari a valutare la sussistenza di profili di responsabilità in capo a chi ha avuto in mano il processo senza però indirizzarlo nel verso giusto. Di conseguenza, l’udienza di ottobre potrebbe essere assai importante. Ma se c’è voluto tanto dolore e così tanto tempo - cinque anni - è probabilmente per responsabilità di chi, in tutto questo periodo, non ha voluto compiere il proprio dovere. E se si arriverà a una qualche traccia di verità, sarà dovuto a una singolare combinazione tra la ragionevolissima follia di Lucia Uva, quella imperscrutabile di Papa Francesco, e quella - se posso permettermi - del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Ci vorrebbe Carmelo Bene a spiegare un simile miracolo. Lettere: noi detenuti in cella senza speranza di Salvatore Di Vaio (Carcere di Poggioreale) Giornale di Napoli, 17 settembre 2013 Egregio Direttore, in merito all’edizione di sabato 7 settembre, a pagina 11, ho riscontrato una discrasia tra la notizia riportata e la realtà. Purtroppo amara che siamo costretti a vivere quotidianamente noi detenuti. In quell’articolo era riportata la notizia in cui a Napoli vi era “Il carrello spesa meno caro” con una riduzione dei prezzi di circa 8%. Purtroppo io da detenuto non riscontro questo dato in quanto il nostro carrello spesa è sempre più caro e inaccessibile. Giusto per rendere più chiara e oggettivamente riscontrabile ciò che le sto per dire, ho pagato due moka da caffè di marca “Bialetti”, capacità una tazza, circa 34 euro, quando in realtà il valore di mercato delle stesse è di 6,50 cadauna. Inoltre l’assistenza medica è inesistente e carente sotto tutti i punti di vista. Ci sono persone che attendono da circa 5/6 mesi per una visita odontoiatrica o per una semplice tac e il numero di persone che è in attesa aumenta oltre ad essere privati della libertà, siamo privati di tutti i diritti che oggi ci pongono a un gradino al di sotto degli animali. Le assicuro che la mia non è una frase fatta ma la pura verità. Tutti gli organi di Stato e tante associazioni in lotta per i diritti di noi detenuti in quest’ultimo periodo trattano argomenti inerenti alla nostra condizione nelle carceri è la violazione dei diritti umani, ma mi dispiace dire che i risultati fino ad ora ottenuti sono sconfortanti. Speriamo che almeno con i referendum di natura popolare pro-mossi in primis dai Radicali e supportati dal Pdl possano realmente dare una “giustizia giusta”. Lettere: contenzione zero... reloaded di Antonella Tuoni* Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2013 Mi fa molto piacere che le poche righe scritte a fine luglio, ma del resto questo era l’obiettivo, abbiano stimolato un “dibattito” su un “tema-tabù” e le considerazioni, alcune devo dire piccate che ho letto, testimoniano quanto la corda sia tesa. Schematizzerò la mia opinione che, come tale, può non essere condivisa (nessuno di noi è depositario della verità e delle ottime pratiche). Il tema contenzione, per quanto complesso, non è affatto “irrisolto” e dichiarare la propria avversità a tale pratica, o meglio, definirla illecita, non è né bieca ideologia né essere farisei. Occorre però intendersi rispetto al significato che attribuiamo al termine contenzione: pratica standardizzata o azione necessaria ed indifferibile? Credo infatti che il nodo da sciogliere risieda proprio nell’approccio giuridico e metodologico al problema, tenendo ben presenti alcuni cardini della nostra costituzione e del codice penale (doppia riserva di legge e giurisdizione in materia di libertà personale, responsabilità penale personale e scriminante dello stato di necessità) che non è scontato tutti padroneggino con competenza: tenere legata ad un letto una persona per giorni e giorni come pratica usuale richiamando l’articolo dell’ordinamento penitenziario che prevede l’impiego della forza fisica e l’uso dei mezzi di coercizione ovvero la normativa in materia di trattamento sanitario obbligatorio oltreché inumano è illecito. Diversa questione è la necessità indifferibile di ricorrere all’uso della forza fisica per salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, unica forma di contenzione legittimamente ipotizzabile poiché giustificata dallo stato di necessità, ovverosia azione necessaria e contingente diretta ad evitare che la persona faccia del male a sé o agli altri in modo grave. Nell’un caso, la contenzione come praticaci ritiene che l’uso della forza sia legittimato a monte da una legge e come tale si riconduce la contenzione nell’alveo delle pratiche standardizzabili, sostanzialmente deresponsabilizzando chi la pone in essere, nell’erronea convinzione che, proprio perché codificata in una procedura, si possa esperire senza troppi problemi: a fronte di un grave episodio, di danneggiamento o di aggressione per esempio, il medico prescrive la contenzione, la persona viene legata al letto e gli infermieri o/e i poliziotti penitenziari presenti la eseguono; nell’altro, contenzione come azione estrema, l’uso della forza è contingente e come tale da parametrare di volta in volta e per tutta la sua durata alle circostanze concrete di tempo e luogo, da relegare nell’area dell’eccezionalità e quindi responsabilizzando chi la effettua nella consapevolezza che qualsiasi danno dovesse subire la persona sarà oggetto di vaglio dell’autorità giudiziaria circa i presupposti che hanno motivato la coercizione. È evidente che catalogare la contenzione nell’uno o nell’altro ambito concettuale è tutt’altro che irrilevante in termini di operatività poiché il concetto di eccezionalità collide irreparabilmente con quello di standardizzazione, nel senso che non è ragionevole sostenere di poter dare in anticipo e una volta per tutte una forma ad una azione che deve adattarsi di volta in volta al caso concreto e, considerata l’entità della limitazione della libertà personale, impone una valutazione ininterrotta, attimo dopo attimo, della necessità di mantenerla. In soldoni è ovvio che di fronte ad una persona che, per esempio, sbatte violentemente la testa contro il muro con il rischio di spaccarsela, si dovrà intervenire con la forza sulla scorta del principio di necessità (azione contingente e necessaria) ma dovrebbe essere altrettanto noto che le eventuali azioni di contenimento successive devono continuare ad essere governate da quello stesso principio di necessità che deve essere il principio ispiratore e regolatore di qualsiasi uso della forza. Ecco chiariti i motivi per cui ritengo che la contenzione, come pratica codificata in protocolli operativi, sia illegale e per cui la contenzione a Montelupo, dal 2012, è pari allo zero. La contenzione non viene più praticata a Montelupo non perché ho condiviso gli obiettivi del servizio sanitario o perché la commissione Marino ha sequestrato la stanza delle contenzioni, quanto perché ho emanato un ordine di servizio nel quale, richiamando peraltro la normativa vigente, senza inventarmi nulla quindi, ho scritto, a chiare lettere, che l’uso della forza deve essere necessario ed indifferibile, limitato nel tempo e nello spazio e quindi contingente e finalizzato ad evitare che l’internato/detenuto faccia del male, in maniera grave, a sé od altri ed ho disposto che, nel caso si rendesse necessario l’uso di mezzi di coercizione, la persona venisse ricoverata all’esterno, con la contestuale attivazione di un Tso, convinta che quello fosse l’unico modo per neutralizzare l’applicazione distorta dell’articolo dell’ordinamento penitenziario relativo all’impiego della forza fisica e dei mezzi di coercizione. Così è stato. Infine non ho dato seguito alle proposte del servizio sanitario di “allestire almeno una stanza... per eventuale contenzione fisica” e di codificare la contenzione in una procedura in cui gli infermieri ed il personale di polizia penitenziaria venivano individuati quali responsabili dell’esecuzione. Va anche aggiunto che non ho dovuto fronteggiare solo le resistenze del personale di polizia penitenziaria ma anche quelle del servizio sanitario stesso e dell’allora responsabile del dipartimento di salute mentale di Empoli preoccupata forse del condizionamento che un possibile aumento dei ricoveri degli internati nel servizio di prevenzione diagnosi e cura avrebbe prodotto sulla gestione di tale servizio. Un conto è sequestrare uno spazio altro sradicare una prassi inveterata. I fatti più delle parole, che, come sappiamo tutti, volano, parlano per noi. Come direttore penitenziario so bene che negli istituti di pena si può fare ricorso alla forza ma tale uso, per essere legittimo, lungi dal poter essere praticato in maniera abituale e tranquilla deve essere indispensabile... ed è proprio il concetto di indispensabilità il grimaldello per scardinare pratiche che, a torto, si giudicano legittime. *Direttore reggente Ospedale Psichiatrico Giudiziario Montelupo Fiorentino Sicilia: Berretta (Sottosegretario Giustizia); Rita Bernardini sia Garante dei detenuti Ansa, 17 settembre 2013 “Il Garante per i detenuti in Sicilia deve avere un profilo di alto livello, una grande conoscenza delle strutture carcerarie della nostra Regione e una provata esperienza nel settore, per questi motivi penso sia utile che il presidente della Regione Crocetta consideri per questo incarico il nome di Rita Bernardini”. Lo afferma il sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta, dopo la decadenza del regime di prorogatio nell’incarico di Salvo Fleres. “Rita Bernardini, esponente storica dei Radicali e donna da sempre molto sensibile alle difficoltà vissute dai più deboli - sottolinea l’esponente del Pd - conosce molto bene i problemi delle carceri siciliane per averle visitate più volte e per essersi occupata a più riprese delle istanze dei detenuti nelle strutture dell’Isola. Sono noti a tutti poi il suo impegno, le sue lotte e le tante iniziative realizzate anche in Parlamento, dal 2008 in poi nella veste di deputata, per la tutela dei diritti dei detenuti e per il miglioramento del sistema carcerario italiano”. “Per questo - osserva Berretta - sono convinto che la Bernardini possa rappresentare una garanzia e assolvere con grande professionalità ad un compito così delicato come quello della tutela dei diritti dei detenuti”. E per questo il sottosegretario alla Giustizia invita il presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, a “dare al più presto una guida a questo importante organismo di garanzia, in modo da non interromperne le attività”. Emilia Romagna: Garante Desi Bruno; a Sadurano (Fc) esempio su come superare l’Opg Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2013 La Garante Desi Bruno ha visitato Casa Zacchera, sulle colline di Sadurano, frazione di Castrocaro (Forlì), residenza sanitaria psichiatrica di tipo socio-riabilitativo che accoglie pazienti, residenti nel territorio regionale, provenienti dagli ospedali psichiatrici giudiziari. La struttura è gestita dalla cooperativa sociale “Generazioni”, che si avvale di figure professionali (psichiatri, psicoterapeuti, psicologi, infermieri) che curano il progetto curativo-riabilitativo. Si tratta di un’esperienza pilota, nata nel 2007, che ha ottenuto l’accreditamento sanitario in Regione nel 2009 per 18 posti (la scelta attuale è ospitarne 16): i pazienti, persone con una pericolosità sociale medio-bassa, vengono inseriti dopo un’adeguata valutazione e su disposizione della Magistratura di sorveglianza, in regime di licenza finale di esperimento, fase propedeutica alle dimissioni dall’Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) e in regime di libertà vigilata. Casa Zacchera - vecchio podere ristrutturato con grandi spazi verdi a disposizione - è concepita come struttura di transito o comunque “a tempo” - ogni progetto individualizzato dura non più di 2 anni - e l’inserimento presuppone il collegamento e la collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale territoriale, al fine di rendere possibile una reale presa in carico da parte del territorio nel quale si auspica che il paziente possa venire riaccolto. La costruzione del progetto di transito s’incardina sull’apprendimento delle capacità e potenzialità relazionali e di socializzazione, passando per la possibilità di un lavoro, l’aria aperta e il vivere in una casa. Dei sedici ospiti, alcuni svolgono attività all’interno della casa, altri escono per andare a lavorare, il pranzo è presso il ristorante della struttura e la sera ciascuno rientra nella propria camera (doppia o singola). Nella convinzione che “si cura nel bello”, grande attenzione è prestata all’estetica, ritenendosi strategica anche in chiave terapeutica, la cura degli ambienti, con gli arredi che richiamano elementi naturali. Risulta sorprendente l’accoglienza e la straordinaria ricettività con cui il territorio limitrofo, dai cittadini alle istituzioni, sta consentendo al progetto di esplicarsi, con forme uniche di coesione sociale ed impegno civile: i pazienti che ne hanno la capacità, durante la mattina lavorano presso aziende e cooperative del luogo, in borsa-lavoro erogata dall’Ausl, accompagnati da personale della struttura sul posto di lavoro. A giudizio della Garante, la struttura di Sadurano può rappresentare un esempio a livello nazionale. Già oggi, è apparsa soddisfare molti dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi fissati dal decreto del Ministro della Salute del 1 ottobre 2012 nell’ambito del processo di superamento degli Opg. Il dl. 211/2011 convertito in Legge 9/2012 aveva previsto il superamento degli Opg entro il 31 marzo 2013; termine poi prorogato al primo aprile 2014 con dl 24/2013, convertito in Legge 57/2013. Rispetto a questa scadenza, che porterà alla chiusura dell’Opg di Reggio Emilia, la Regione Emilia-Romagna ha provveduto ad inviare nei tempi stabiliti il programma preliminare di realizzazione della struttura residenziale a cura della Azienda Usl di Reggio Emilia, con contestuale individuazione delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone a cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico e dell’assegnazione alla casa di lavoro e custodia, le cosiddette Rems (Residenze Esecuzione Misure di Sicurezza). Marche: Capece (Sappe) in visita nelle carceri “più di 1.080 detenuti, resta l’emergenza” www.viverefermo.it, 17 settembre 2013 Un tasso di affollamento costante della popolazione detenuta a fronte di un organico di Polizia Penitenziaria in calo e soluzioni al grave problema del sovraffollamento penitenziario: sono le principali criticità delle carceri marchigiane, nelle quali in questi giorni è in visita Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione sindacale di Categoria. Capece è stato in visita nelle strutture penitenziarie di Pesaro e Fossombrone e, nei prossimi giorni, visiterà quelle di Fermo, Ancona Barcaglione e Montacuto, Ascoli dove incontrerà e saluterà i poliziotti penitenziari in servizio insieme al Segretario Regionale Sappe per le Marche Nicandro Silvestri. “Nelle Marche la situazione penitenziaria è particolarmente critica, come conferma anche la grave aggressione ad un poliziotto nel carcere di Pesaro di pochi giorni fa”, commenta Capece. “Attualmente i sette penitenziari marchigiani ospitano oltre 1.080 detenuti a fronte di una capienza regolamentare delle strutture pari a poco più di 800 posti. La presenza di stranieri tra i reclusi si attesta tra il 30 ed il 50% dei presenti, con il record di Camerino dove sono il 60%: nelle Marche si registra anche una significativa percentuale di detenuti tossicodipendenti (circa il 22% dei presenti). Record negativo è anche quello dei detenuti che lavorano, che nelle Marche sono solamente il 15% dei presenti. La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e il pesante sovraffollamento determinano conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate e soprattutto di coloro che in quelle sezioni detentive svolgono un duro, difficile e delicato lavorato, come quello svolto dai poliziotti penitenziari. L’Amministrazione Penitenziaria sembra vivere in una realtà virtuale e non si rende evidentemente conto della drammaticità del momento, che costringe le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria a condizioni di lavoro sempre più difficili” aggiunge Capece. “La situazione penitenziaria è sempre più incandescente e rincorrere la ‘vigilanza dinamica ed i patti di responsabilità con i detenuti, come vorrebbe il Dap e come si sta attuando nel carcere di Pesaro, è una chimera: cosa dovrebbero fare tutto il giorno i detenuti, girare a vuoto nelle sezioni? In carcere quello che manca è il lavoro, che dovrebbe coinvolgere tutti i detenuti dando quindi anche un senso alla pena ed invece la stragrande maggioranza dei ristretti sta in cella 20 ore al giorno, nell’ozio assoluto”. Il Sappe ricorda che solo lo scorso anno, 2012, nelle carceri marchigiane si sono contati 2 suicidi, 31 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria, 123 atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette), 237 colluttazioni e 18 aggressioni. “Le carceri restano invivibili, per chi è detenuto e per chi ci lavora” conclude il leader del Sappe. “La vigilanza dinamica dei penitenziari voluta da Giovanni Tamburino, Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, e dal Vice Luigi Pagano non è la soluzione del problema carcerario. Il progetto dei circuiti penitenziari studiato dall’Amministrazione penitenziaria, che ha coinvolto anche il carcere di Pesaro con la vigilanza dinamica, non ci sembra la soluzione idonea perché al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e ad una maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il Personale di Polizia penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico. Oggi tutto questo non c’è ed il rischio è che un solo poliziotto farà domani ciò che oggi lo fanno quattro o più Agenti, a tutto discapito della sicurezza. L’aggressione di un nostro poliziotto a Pesaro lo conferma drammaticamente”. Sicilia: Le Formiche in “Storie da Prigione Tour”, un viaggio attraverso le carceri Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2013 Sono Valerio Mina, chitarrista della band rock di Palermo Le Formiche, insieme a Giuseppe La Formica, Carmelo Drago e Roberto Calabrese. Siamo giovani musicisti che da Maggio 2013 portiamo avanti un progetto chiamato “Storie da Prigione” Tour 2013, grazie all’organizzazione dell’Ass. Cult. Maia (Palermo), che ha al suo interno la nostra etichetta discografica 800A Records, guidata da Oriana Guarino e Fabio Rizzo e in collaborazione con le Ass. Centro Studi Pio La Torre (Palermo) e Ass. Territorio Solidale (Catania) e in intesa con il Garante dei Diritti dei Detenuti in Sicilia. È un tour di concerti in giro per i carceri della Sicilia. Abbiamo iniziato con gli Istituti Minorili Malaspina di Palermo e Bicocca di Catania e adesso andremo nelle carceri per adulti. Sappiamo che la musica può essere un mezzo di comunicazione che oltrepassa alcune barriere e le nostre canzoni, in particolare, raccontano di persone, di storie accadute, di scelte di vita nei nostri quartieri e spesso anche del carcere. L’incontro con i detenuti, lo scambio di esperienze di vita e la testimonianza del nostro quotidiano impegno artistico vuole essere simbolo del ruolo che l’arte ha nel determinarci come persone, noi tutti, e ne abbiamo tutti diritto. Oltre ai concerti, il progetto ha un momento importante e fondamentale: il docu-film. Ogni evento, ogni incontro sarà documentato in un film documentario. Grazie alle interviste realizzate ai detenuti, agli educatori, alla polizia penitenziaria ecc. vogliamo dare uno spaccato reale del carcere per comunicarlo all’esterno, alla cittadinanza oltre gli stereotipi e i pregiudizi; Una troupe guidata dal film-maker Ruben Monterosso si occupa delle riprese audio-visive. Il nostro prossimo appuntamento è il carcere di Gela, il 7 ottobre. Avellino: detenuto 55enne muore in tribunale, aveva subito trapianto cardiaco Adnkronos, 17 settembre 2013 L’uomo, Raffaele Pellecchia, aveva 55 anni ed era sotto processo per essere evaso dagli arresti domiciliari. Pellecchia era malato e tempo fa aveva subito un trapianto. Era stato trasferito in carcere in quanto trovato lontano dal domicilio dove stava scontando la pena. Stamattina era stato trasferito dal carcere di Bellizzi al Tribunale dagli agenti penitenziali. Il decesso è avvenuto nell’aula del Tribunale di Avellino durante uno sciopero degli avvocati penalisti. Il detenuto era stato portato in tribunale in quanto stamattina era in programma l’udienza che lo riguardava. I soccorsi sono scattati immediatamente, ma per l’uomo non c’è stato niente da fare. Sappe: detenuto muore in camere sicurezza tribunale Avellino “Un detenuto di origini irpine, definitivo con un fine pena breve, già noto ai sanitari dell’Istituto penitenziario di Avellino, è deceduto questa mattina mentre si trovava presso le camere di sicurezza di Avellino, presso il tribunale. Non sono ancora chiare le cause del decesso, si presume arresto cardiocircolatorio”. È quanto fa sapere Donato Capece, segretario generale del Sappe. “La notizia della morte del detenuto intristisce tutti - sottolinea Capece - specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento”. Massa: il Sottosegretario Ferri in vista al carcere “aprire immediatamente Padiglione B” www.gonews.it, 17 settembre 2013 “Una soluzione che serve a far fronte al sovraffollamento del penitenziario. Ho trovato anche 10 detenuti in una cella”. Il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, in visita al carcere di Massa, chiede l’immediata apertura del padiglione B all’interno del penitenziario, zona in costruzione dal 2010, oggi terminata e che potrebbe ospitare altri 80 detenuti: “Aprire quell’area - ha dichiarato Ferri dopo la visita - è necessario per far fronte al sovraffollamento del carcere di Massa, in cui oggi ho trovato anche 10 detenuti in un’unica cella”. “Intanto inauguriamo i nuovi locali- continua Ferri- poi ci impegneremo per reperire anche il personale in più, necessario per mantenere adeguato il rapporto con i detenuti”. Ferri ha concluso la sua visita al carcere di Massa con un appello agli industriali del territorio: “Organizzeremo una giornata di lavoro all’interno del carcere per far conoscere alcune realtà, come la falegnameria e il laboratorio tessile che produce gratuitamente biancheria per tutti i penitenziari d’Italia, affinché qualcuno possa investirci e potenziare quei settori indispensabili per il reinserimento dei detenuti, ma anche per l’economia di uno spicchio di paese”. Bologna: Sarno (Uil); tour “Lo scatto dentro”… la Dozza è ormai un carcere dimenticato di Marcella Piretti Dire, 17 settembre 2013 Celle piccole, pensate per uno, in cui vivono in due (e anche in tre, costretti a fare i turni per chi sta in piedi); docce comuni sporche; infiltrazioni d’acqua; crepe nei muri; stanze degli agenti della Polizia penitenziaria che sembrano celle e un muro di cinta esterno, dove le guardie devono stare attenti a dove mettere i piedi e le mani per non cadere o non rimanere fulminato. Tutto questo succede al carcere della Dozza di Bologna e per la prima volta è stato immortalato in 40 immagini, scattate ieri all’interno dell’edificio dalla Uil penitenziari, il cui tour “Lo scatto dentro” è arrivato anche sotto le Due Torri. Tappa dopo tappa, il sindacato sta visitando le diverse carceri d’Italia, proprio per scattare fotografie e diffonderle, “per far vedere ai cittadini com’è davvero il carcere, mostrare una verità taciuta, compresi gli aspetti preclusi nelle visite guidate dei parlamentari. Tutti devono vedere, perché il carcere è qualcosa che riguarda il comune cittadino, è sbagliato pensare che sia solo per i criminali incalliti. A Genova un vecchietto è finito in carcere sei mesi per aver rubato due scatolette di tonno”, spiega Eugenio Sarno, segretario generale Uil penitenziari. Il materiale, distribuito oggi alla stampa, è pubblicabile in virtù di una speciale autorizzazione ottenuta dal Dap. La situazione della Dozza, spiega Sarno, “è un po’ migliorata rispetto a quando lo visitai nel 2008, ma ci sono ancora segni di degrado evidenti”. I detenuti rinchiusi sono 912 (840 uomini e 72 donne), “il doppio” della capienza regolamentare di 458 persone. Ci sono 34 reclusi di alta sicurezza, 12 affiliati alla mafia siciliana, 31 alla camorra, 18 all’ndrangheta e uno alla Sacra corona unita. Su 912 totali, solo 481 stanno scontando una condanna definitiva (tra cui nove ergastoli). Sempre restando in tema numeri, su 912 detenuti totali, ci sono 251 tossicodipendenti dichiarati, spiega Sarno, di cui 241 uomini e 10 donne. Gli stranieri sono 512 (di cui 477 uomini e 35 donne), mentre gli italiani 301 (di cui 264 uomini e 37 donne). Quanto alle 431 persone che si trovano in custodia cautelare (la loro condanna non è ancora definitiva), 232 aspettano la sentenza di primo grado, 134 quella d’appello e 65 il verdetto della Cassazione. “Il fatto che più del 50% dei detenuti stia in carcere senza una sentenza definitiva non è solo una questione di inciviltà giuridica, ma anche di costi”, afferma il segretario generale della Uil penitenziari Sarno. Basta pensare che nei primi sei mesi del 2013, sono stati svolti 1.429 servizi di traduzioni, per un totale di 2.521 detenuti accompagnati (ai processi) e 6.226 agenti impiegati. Personale che per oltre due terzi non è in servizio a Bologna, dove lavorano 424 agenti (l’organico sarebbe di 515) e gli addetti al Nucleo traduzioni sono in tutto 58. “La Dozza è un luogo inumano per i detenuti e indegno per gli agenti che ci lavorano”, dice ancora Sarno. C’è il bagno del personale addetto all’autoparco pieno di cacche di piccioni, la cucina (“dimensionata per 458 persone e non per il doppio, a risentirne è la qualità”), un’auto a cui sono esplose le gomme (“é già successo tre volte”) e i tachimetri delle uniche due auto funzionanti: in uno c’è scritto “Avaria”, nell’altro 247.529 chilometri. “La Dozza non è diversa da altre carceri che abbiamo visto. Su 100 persone che escono da un carcere come questo, saranno recidivi 80 su 100. Da un carcere come Sant’Angelo dei Lombardi ad Avellino, invece, forse il migliore d’Italia per struttura e percorso trattamentale, la recidiva riguarda 18 persone su 100”, dice Sarno. “Questo dato viene nascosto”. Roma: un Protocollo d’Intesa tra il Dap e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere Comunicato Dap, 17 settembre 2013 Mercoledì 18 settembre 2013, alle ore 11.00 presso l’Issp-Istituto Superiore di Studi Penitenziari - Roma (Via Giuseppe Barellai, 135/140 - Roma) si terrà la cerimonia per la sottoscrizione del Protocollo d’Intesa tra Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Alla Cerimonia saranno presenti Giovanni Tamburino, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Massimo De Pascalis, Direttore generale dell’Istituto Superiore degli Studi Penitenziari, Stefano Ricca, Direttore della Casa di reclusione di Roma Rebibbia, Vito Minoia, Presidente del Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere. La sottoscrizione del Protocollo si configura come un processo di collaborazione stabile e continuativo tra il Dap e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con l’obiettivo di avviare un percorso comune per realizzare uno stabile coordinamento delle diverse esperienze teatrali presenti a livello nazionale in oltre cento Istituti Penitenziari. Con la sottoscrizione del Protocollo si avvia un percorso che prevede di mettere a sistema le esperienze teatrali, nonché studi, ricerca, formazione e diffusione delle manifestazioni teatrali in carcere. Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere attraverso i suoi 39 aderenti si impegna con proprie strutture e risorse a sostenere le attività di studio e ricerca dell’Issp, a realizzare uno stabile coordinamento volto a rafforzare, anche attraverso un’attività formativa, i processi di conoscenza dei detenuti e le attività educative a loro rivolte. Verona: gli ex detenuti psichiatrici lavoreranno per il Comune di Ronco all’Adige di Zeno Martini www.larena.it, 17 settembre 2013 Accordo del Comune di Ronco all’Adige e la “Casa don Girelli” che accoglie persone uscite da ospedali giudiziari. Gli ospiti della struttura sociale con pochi precedenti in Italia si occuperanno di sfalcio, pulizia raccolta rifiuti ed animazione. Convenzione, con pochi precedenti in Italia, tra il Comune e la Casa “Don Giuseppe Girelli” che ospita ex detenuti negli ospedali psichiatrici giudiziari. L’accordo riguarda lo svolgimento di servizi di pubblico interesse, complementari e non sostitutivi, a favore della comunità, da parte degli ospiti della struttura residenziale. Nello specifico, i lavori inclusi nella convenzione sono lo sfalcio, la pulizia, il riordino e la raccolta dei rifiuti, sia lungo gli argini che nei parchi pubblici, e la manutenzione delle aree verdi comunali. Oltre alla promozione di momenti di aggregazione e socializzazione nella struttura di via Forante. Ed ancora, il supporto nella realizzazione di eventi e manifestazioni culturali promossi dall’amministrazione comunale ed altri servizi da concordare di volta in volta con l’ente in caso di esigenze specifiche. “Questo accordo”, sottolinea Davide Visentini, vice sindaco con delega ai Servizi sociali, “è di grande importanza perché rappresenta il primo passo per portare gli ospiti della Casa Don Giuseppe Girelli a vivere in paese in modo attivo, attraverso piccoli lavori che fanno parte di un percorso di reintegrazione sociale”. “La Casa”, aggiunge, “ha avviato un progetto con la Regione, secondo in tutta Italia, volto alla riabilitazione e al reinserimento sociale di persone uscite dagli ospedali psichiatrici giudiziari. L’amministrazione ha sostenuto fin dall’inizio tale impegno, condividendone lo spirito e le finalità”. Ronco ha una cultura dell’accoglienza che viene da lontano, anche grazie all’opera del “Servo di Dio” don Giuseppe Girelli, che nel secolo scorso volle e costruì proprio qui un edificio per ospitare ex carcerati rimasti senza una rete familiare. Una struttura che oggi ha trovato la sua continuità proprio in questo nuovo servizio sociale, che va a supplire ad una carenza normativa. Infatti, gli ospedali psichiatrici giudiziari sono stati soppressi dal legislatore, ma mancano ancora in Italia le strutture in grado di seguire ed accogliere coloro che sono stati dimessi. “La convenzione stipulata con il Comune ha un valore fondamentale rispetto ai progetti riabilitativi degli ospiti di Casa Don Girelli”, ammette Giuseppe Ferro, direttore della struttura sanitaria. “Il lavoro è inteso come momento di riavvicinamento e reintegrazione nel contesto sociale di persone che, per le loro vicende umane, hanno subìto lo stigma della malattia e l’emarginazione dalla loro comunità di appartenenza”. “In definitiva”, osserva Ferro, “si tratta di mettere alla prova persone che hanno compiuto un percorso di riabilitazione psico-sociale e che, attraverso le attività previste dalla convenzione, avranno la possibilità di misurarsi con il mondo reale e con il lavoro: passaggio fondamentale in vista della loro definitiva emancipazione dalla malattia e dal percorso giudiziario”. Busto Arsizio: il cioccolato prodotto dai detenuti di Busto va ad Eurochocolate Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2013 Due linee speciali per la manifestazione di Perugia (“Io me la squaglio” e “Mani in alto questa è una pralina”) realizzate dai detenuti nel laboratorio di cioccolateria del carcere. La creatività di Costruttori di Dolcezze by Eurochocolate incontra la qualità dei prodotti dell’azienda Dolci Libertà, il laboratorio di cioccolateria e pasticceria artigianale situato nella Casa Circondariale di Busto Arsizio (Varese). Al suo interno trovano impiego i ragazzi detenuti nella struttura coordinati e formati da esperti cioccolatieri e pasticceri, nell’ambito del progetto rieducativo e di reinserimento realizzato dal carcere in collaborazione con l’Agenzia regionale per il lavoro penitenziario e promosso dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia. Il “matrimonio di dolcezza tra le due golose realtà” - riferisce una nota di Eurochocolate - ha dato vita ad alcuni dei nuovi progetti della linea 2013 firmati Costruttori di Dolcezze, che saranno protagonisti anche all’interno della ventesima edizione di Eurochocolate, “Evergreen - la sostenibile Dolcezza dell’Essere”, in programma a Perugia dal 18 al 27 ottobre prossimi. Ecco dunque nascere con un divertente gioco di parole, “Io me la Squaglio”, il cioccolato in gusti assortiti pronto da sciogliere direttamente in tazza grazie al pratico cucchiaino posto al suo interno. Un simpatico e colorato packaging dalle sembianze di una pistola caratterizza invece “Mani in alto questa è una pralina!”, una proposta che racchiude quattro praline assortite. In arrivo anche la “Choco Pizza”, il cioccolato arricchito con frutta secca, canditi ed altri ingredienti, che offre una rivisitazione della tradizionale pizza all’italiana. Pesaro: l’On. Valentina Vezzali consegna gli attestati di arbitro ai detenuti Il Resto del Carlino, 17 settembre 2013 L’onorevole: “È molto bella questa opportunità data dalla Uisp ai reclusi perché permette loro di beneficiarne sia da un punto di vista fisica che mentale”. Valentina Vezzali, campionessa di scherma e ora deputato, ha fatto visita stamane al carcere di Pesaro per consegnare 20 attestati di arbitro di calcio Uisp ad altrettanti detenuti. Una cerimonia semplice ma di grande emozione per l’onorevole Vezzali che si è complimentata con i nuovi arbitri (potranno arbitrare nel torneo di calcio a 7 interno al carcere disputato da 10 squadre). “È molto bella questa opportunità data dalla Uisp ai reclusi perché permette loro di beneficiarne sia da un punto di vista fisica che mentale. È un modo per evadere dalla condizione di restrizione ed iniziare un percorso di ritorno alla vita esterna con nuovi stimoli”. Valentina Vezzali, per la consegna degli attestati, ha voluto baciare uno ad uno i nuovi arbitri augurando un bocca al lupo per il loro futuro. Contenta la direttrice del carcere, Claudia Clementi, che si è detta felice del successo di questo corso che diploma delle persone incaricate di garantire le regole in un campo di calcio. Il corso era aperto a tutti, senza differenze per “reati”, compresi pedofili, violentatori, omicida, spacciatori e rapinatori. Il presidente del comitato provinciale Uisp Alessandro Ariemma: “L’onorevole Vezzali si è dimostrata persona di grande affabilità, umana, che ha cercato di capire anche le situazioni individuali. Ha dimostrato grande sensibilità ed è stato un onore averla come ospite per la consegna degli attestati. Di campioni, sia in pedana che nella vita, come Valentina Vezzoli ce ne vorrebbero tanti”. Immigrazione: Palazzotto (Sel): condizioni Cie di Milo peggiori di quelle di un carcere Tm News, 17 settembre 2013 “A luglio ho visitato il cie di Milo, già allora ho denunciato le gravissime condizioni del centro, peggiori di quelle riscontrate nei penitenziari: carenze igienico sanitarie, pasti insufficienti, caldo soffocante e scarsa informazione e tutela legale per quelli che ipocritamente la burocrazia continua a definire ospiti anziché detenuti”. A dirlo è stato Erasmo Palazzotto, deputato nazionale e coordinatore regionale siciliano di Sinistra Ecologia e Libertà. “Oggi saluto con favore l’iniziativa del Prefetto di Trapani - ha proseguito Palazzotto - che revoca l’affidamento del centro alla cooperativa che lo gestisce, avvenuta, pare, a seguito della visita svolta dal ministro Kyenge. Sarà fondamentale vigilare sul nuovo bando e sui servizi che effettivamente erogherà chi si dovrà occupare della gestione, perché sovente gare al massimo ribasso generano simili situazioni. Troppo spesso però le denunce fatte dagli operatori, da parlamentari, dalle associazioni e perfino dai sindacati di polizia restano lettera morta, e non è ammissibile che serva la visita di un Ministro per far attivare le autorità locali”. “Come nel caso del cara di Mineo - ha concluso il deputato di Sel, dalla cui cooperativa di gestione sono stato violentemente attaccato dopo aver denunciato le condizioni di permanenza dei migranti nel centro e su cui ancora giace, senza risposta, al Ministero degli Interni una mia interrogazione”. Droghe: detenuto da 14 mesi in attesa di giudizio, scrive al ministro… non sono famoso www.droghe.aduc.it, 17 settembre 2013 Detenuto a Viterbo da 14 mesi e sotto processo a Roma per una storia di droga che risale al 2010, si è rivolto, tramite il proprio difensore, al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri e al presidente del tribunale Mario Bresciano per far capire loro “che non esiste solo il tribunale di Milano con i suoi imputati eccellenti e che fanno clamore” ma che ci sono “anche altre realtà nelle quali gli imputati sconosciuti sopportano in silenzio fino a quando qualcuno non si decide a denunciare le storture della giustizia”. È ancora in attesa di risposta l’imputato Simone Maria Coccagna, perito assicuratore di 35 anni, ma l’avvocato Francesco Baffa, che lo scorso luglio ha inviato una lettera al Guardasigilli per esporre il caso del suo cliente, non intende mollare di un centimetro. Tutta colpa di un provvedimento con il quale i giudici della nona sezione penale del tribunale romano, ignorando il parere favorevole del pm di udienza, hanno negato a Coccagna gli arresti domiciliari ritenendo che l’imputato “abbia legami con ambienti criminali di rilevante spessore” e che non sarebbe stato possibile garantire i controlli cui avrebbe dovuto essere sottoposto. Una decisione che la difesa ha giudicato incomprensibile e “offensiva” considerato che Coccagna è in carcere da più di un anno, che il processo riguarda fatti di tre anni fa (per l’accusa sarebbe un partecipe - quale pusher - di un’organizzazione criminosa dedita allo spaccio di stupefacenti tra la zona di Tiburtina e Pietralata) e che non ci sarebbe rischio di reiterazione del reato perché l’uomo aveva già lasciato la Capitale e si era trasferito in un paese del Viterbese per vivere con l’anziana madre. Non solo, ma a tutti gli altri coimputati (condannati dal gup in sede di giudizio abbreviato, mentre Coccagna ha optato per le vie ordinarie ritenendo piuttosto fumosi gli indizi a suo carico) sono stati concessi gli arresti domiciliari. Di questa misura ha beneficiato anche colui che era considerato dagli investigatori il capo di questa associazione per delinquere e che lo scorso marzo è stato condannato dal gup a complessivi 11 anni di carcere in continuazione con una sentenza emessa dalla corte di appello nel settembre 2012. Per l’avvocato Baffa “non si può ritenere giusto che nello stesso tribunale e con riferimento allo stesso processo penale si ritenga che le esigenze cautelari possano essere salvaguardate con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari con riferimento al capo dell’associazione e, di contro, nei confronti del semplice associato, si pervenga ad una differente valutazione. Rigettare l’istanza motivando ipotetiche e mirabolanti, possibili, collegamenti con ambienti criminali a distanza di circa tre anni dai fatti è pura fantasia”. Per il penalista, dunque, se è vero che “la legge è uguale per tutti”, il Guardasigilli e il presidente del tribunale di Roma devono intervenire su questa vicenda adottando “gli opportuni provvedimenti”. Siria: testimoni raccontano orrore da carceri regime di Lorenzo Trombetta Ansa, 17 settembre 2013 Le estremità di due cavi elettrici attaccate ai genitali e l’elettroshock iniziava; le gambe e i fianchi infilati in uno pneumatico di camion e le piante dei piedi frustrate per ore; corpi appesi in gabinetti infestati da insetti: non è un film dell’orrore ma è l’orrore reale vissuto da detenuti politici nelle carceri del regime siriano. Le testimonianze sono state rese pubbliche oggi dal Centro di documentazione delle violazioni in Siria (Vdc), che da anni lavora per monitorare i crimini commessi nel Paese in guerra e dominato da circa mezzo secolo dalla famiglia presidenziale Assad e da clan alleati. Il Vdc ha fino ad oggi documentato in modo dettagliato l’uccisione di più di tremila persone nelle carceri siriane. Il rapporto di trenta pagine è basato sulle testimonianze di cinque detenuti rinchiusi a lungo nella prigione dei servizi di sicurezza dell’aeronautica di Harasta, sobborgo a nord di Damasco. I testimoni, tutti identificati con le generalità complete (Ahmad Saber Hamada, Luay Kamal Bakour, Fawaz Ibrahim Badran, Hasan Nasrallah, Muwaffaq Jandali), di età compresa tra i 23 e i 27 anni, erano stati arrestati in modo arbitrario assieme a migliaia di altri attivisti e cittadini comuni nell’ambito della repressione delle manifestazioni e della rivolta anti-regime scoppiate nella primavera del 2011. Le testimonianze confermano l’uso di strumenti di tortura già noti nelle carceri siriane (la “Ruota” e il “Tappeto volante” per citare i più tristemente famosi), punizioni collettive (detenuti appesi per ore per le mani nei gabinetti del carcere), esecuzioni sommarie e l’impiego di medici conniventi con i servizi di repressione. In particolare, il detenuto Hasan Nasrallah ha raccontato di esser stato sottoposto a visita medica dopo esser stato torturato: “Credevo che i medici mi aiutassero. Quando uno di loro mi ha chiesto chi mi avesse ridotto in quel modo, ho risposto che erano stati gli shabbiha (miliziani del regime) lì fuori. Allora ha cominciato a picchiarmi con un enorme bastone. Un altro medico mi ha asciugato il sangue dalla schiena e mi ha dato una pillola che sarebbe dovuta essere un analgesico”. Secondo il rapporto del Vdc, è inoltre a rischio la vita di circa 400 detenuti politici siriani rinchiusi nelle prigioni dei servizi di sicurezza fedeli a Bashar al Assad nella regione di Damasco, mentre giungono testimonianze di alcune esecuzioni compiute nelle stesse carceri e di uccisioni sotto tortura. Tra i casi più recenti, secondo i testimoni, ci sono quelli di Abdulmuin Shalit, Abu Qassem Naddaf, Wael Saraqbi, Muhammad Khatib e Ghassan Ballur. Si tratta di prigionieri uccisi sotto tortura durante gli interrogatori o a causa delle deterioranti condizioni di salute. Palestina: 525 ergastolani nelle carceri israeliane www.infopal.it, 17 settembre 2013 Un centro palestinese per i diritti umani che si occupa delle questioni dei detenuti ha rivelato che l’occupazione israeliana detiene nelle sue carceri centinaia di prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo. Lunedì 16 settembre, in un comunicato scritto, il Centro al-Ahrar per gli studi sui detenuti e i diritti umani ha rivelato che Israele rinchiude, nelle sue diverse prigioni, 525 palestinesi condannati all’ergastolo. Ha quindi sottolineato la necessita che “leadership e fazioni palestinesi adottino un piano nazionale atto a garantire il rilascio degli ergastolani e porre fine alla loro sofferenza psicologica”. Al-Ahrar ha definito l’ergastolo “una condanna a morte”, spiegando che per i detenuti si tratta di “passare il resto della loro vita nelle carceri israeliane, senza alcuna speranza di liberazione.” “Ciò è ancor più difficile di essere condannati a morte”, ha aggiunto il centro. Ha poi sottolineato che “quello israeliano è l’unico stato al mondo il cui ordinamento penitenziario non specifica il termine da scontare per i condannati all’ergastolo. Si tratta di una condanna illimitata, non assimilabile, alla quale le leggi israeliane si riferiscono con il numero 99, ovvero periodo indeterminato”. Il Centro per i diritti umani ha aggiunto che l’occupazione non si è limitata a questo, bensì, essa, in molti casi, ha afflitto più di un 20 ergastoli consecutivi ai detenuti palestinesi. Ha quindi citato i casi di: Abdullah Barghouti, condannato a 67 ergastoli, Hassan Salameh a 47 e Abbas al-Sayyed, condannato a 36 ergastoli consecutivi. Secondo al-Ahrar, l’obiettivo di tali condanne rimane quello di “far capire ai prigionieri che non esiste alcun modo di liberarli, spingendoli alla frustrazione”. Ha infine esortato a “non lasciare gli ergastolani palestinesi in balia dei negoziati”, e ad “adottare un piano nazionale che coinvolge tutte le fazioni alle quali appartengono i detenuti, allo scopo di garantire il loro rilascio e porre fine alla loro sofferenza”. Israele: la Corte Suprema contro il Governo “no al carcere per gli immigrati irregolari” di Aldo Baquis Ansa, 17 settembre 2013 Giornata di tripudio per le organizzazioni umanitarie in Israele dopo che nove giudici della Corte Suprema di Gerusalemme hanno bocciato all’unanimità una nuova legge che prevede tre anni di reclusione a quanti siano entrati illegalmente in Israele alla ricerca di un lavoro, provocando il forte disappunto del governo Netanyahu e della destra nazionalista. Con parole severe i giudici hanno stabilito che una legge del genere non ha diritto di esistere in Israele: non si concilia con le sue leggi fondamentali, offende il diritto basilare dell’uomo alla libertà e alla dignità, in ogni modo non ha alcuna proporzione con quanto addebitato ai migranti. Di conseguenza duemila africani - detenuti nei campi di reclusione per migranti di Saharonim e Ketziot nel Neghev - dovrebbero presto essere rimessi in libertà. “Una giornata eccellente per i diritti umani in Israele”, ha esclamato un portavoce di Amnesty International. Analoga la reazione dell’Associazione per la difesa dei diritti umani (Acri), che si era appellata alla Corte Suprema. Dai partiti della destra nazionalista i giudici vengono invece biasimati. Il ministro dell’edilizia Uri Ariel (Focolare ebraico) ritiene che abbiano di fatto “legato le mani al governo nella sua lotta contro l’immigrazione illegale”. Analogo il parere dell’ex ministro degli interni Eli Yishay (Shas) secondo cui quel drastico emendamento da lui fortemente voluto - ossia i tre anni di reclusione - aveva uno scopo di deterrente. “Adesso masse di africani si metteranno in moto verso Israele”, ha avvertito. “Vogliamo che entrino? Sarebbe la fine dello Stato ebraico. Non possiamo suicidarci nel nome della democrazia”. In serata il premier Benyamin Netanyahu ha pubblicato una nota in cui esprime rispetto verso la Corte Suprema ma, nella sostanza, preannuncia che non rinuncerà alla sua lotta contro l’immigrazione clandestina. In politica interna, essa rappresenta infatti uno dei suoi successi maggiori. Era stato Netanyahu ad ordinare la costruzione in tempi stretti di una lunga barriera lungo il confine sul Sinai: Negli ultimi anni i clandestini erano passati nel Neghev al ritmo di 2.000 al mese. “Invece questo mese non ne è entrato nemmeno uno”, ha osservato oggi Netanyahu. In Israele vivono circa 60 mila immigrati clandestini provenienti dall’Africa. Le autorità non consentono loro di lavorare. Di conseguenza si mantengono con modesti espedienti. Malgrado le ricorrenti proteste delle organizzazioni per i diritti civili, Netanyahu cerca di rimpatriarli: se non nei Paesi di origine, in altri Paesi africani che sarebbero disposti ad accoglierli in cambio di aiuti economici (e forse anche militari) di Israele. Su ordine della Corte Suprema, la parola torna adesso alla Knesset (parlamento) affinché esprima una legge più ponderata. Ma nei rioni proletari di Tel Aviv, dove più marcata è la presenza dei migranti, c’è fermento. Per stasera è stata organizzata una manifestazione contro i migranti che “non sono i benvenuti”, annunciano i dimostranti. “I sudanesi la fanno da padroni”, lamenta uno di loro. “Qui regna la violenza, abbiamo paura”. E poi ancora: “Se i giudici di Gerusalemme avessero trasferito i loro uffici qua per soli tre giorni, si sarebbero espressi diversamente”.